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21.8.25

Dentro il gruppo Facebook “Mia Moglie”.la feccia d'insospettabili Medici, professori, poliziotti: chi c’era tra gli iscritti alla pagina chiusa dalla postale

confermo quanto dicevo in : << non ci basta più solo guardare . il caso ‘Mia moglie’ , grupppo ora chiuso di Facebox in cui si scambiavano foto intime di mogli e figlie e commenti osceni >> post ad accesso limitato perchè per blogger \ blogpot : << Questo post sarà preceduto da un avviso per i lettori in quanto include contenuti sensibili come riportato nelle Norme della community di Blogger >>quindi se volete leggerlo cliccate si sul blocco . Non riesco a dire altro se no che siamo in piena emergenza educativa . Infatti è dal 2019 segnalazioni e denunce (un’inferenza, per ora non ce n’è traccia) e solo nel 2025, grazie a un'attivista, una ONG, una denuncia collettiva e la copertura mediatica, si formalizza e si
riesce finalmente a chiudere la pagina. Mah! . Purtroppo per ossessione del gender e della famiglia tradizionale e della sessuofobia i certe persone che fungono da gruppi di pressione e sono dentro la stanza dei bottoni non se ne può parlare in maniera completa nelle scuole almeno che on lo si faccia seguendo l'anacronistica morale democristriana e clericale pre 68\77 e  che   ancora   come  un  fenomeno  carsico   riaffiora   ,  nostante   il nuovo  concordato  del 1985 e  la  primavera  del  1989\1992  (  la fine  della  guerra   fredda  ) ,     dal 11  settembre  2001  .



Dopo che è emerso lo scandalo del gruppo Facebook “Mia Moglie” – che in seguito alla valanga di segnalazioni alla polizia postale è stato chiuso – in cui oltre 32 mila iscritti, principalmente uomini, postavano foto intime delle proprie mogli, compagne, zie a loro insaputa, commentandole come fossero merce di scambio, ci siamo chiesti chi fossero i frequentatori del gruppo. Ebbene – come denuncia anche l’attivista Biancamaria Furci – tra quei pochi temerari (o ingenui?) che si sono iscritti alla pagina con nome e cognome e non come “partecipanti anonimi”, ci sono coloro che dovrebbero curarci, istruirci, difenderci per le strade e nei tribunali, coloro che servono il nostro stesso Paese e anche chi magari insegna a leggere e scrivere ai nostri figli. In una parola: gli “insospettabili“. Che sono anche mariti e (spesso) padri di famiglia.
Chi erano gli iscritti al gruppo
Spulciando tra i profili ancora aperti e non anonimi, abbiamo trovato poliziotti, medici, avvocati, dirigenti sanitari. E ancora: militari, direttori di banca, insegnanti, docenti universitari. Ma con grande probabilità non è tutto. Non solo perché non li abbiamo vagliati tutti e 32 mila, evidentemente, ma anche perché di gruppi di questo genere ne esistono diversi. Pubblici e privati. Su Facebook e soprattutto sul più “discreto” Telegram. Se si prova a scrivere “mia moglie” nella barra di ricerca di Facebook e si va nella sezione gruppi, ne compaiono altri come “Io e la mia ca**o di moglie”, “I fan di mia moglie”, “Vi presento mia moglie”, “Le amiche di mia moglie”.
I commenti di alcuni utenti
In molti poi, va detto, si sono iscritti alla pagina unicamente per commentare con indignazione, ricordando che quello che avveniva lì dentro costituiva un reato. E c’è anche chi ha affermato di aver contattato mogli e figli dei frequentatori di quel luogo virtuale per metterli in guardia. Dopo le segnalazioni alla polizia postale questo gruppo è stato chiuso. Ora restano da individuare gli altri.



Sempre che si si riesca e che fb collabori visto che adesso stra fececcia di gruppo è diventato privato o peggio si sarà trasferito nell'altro sfogatoio che è telegram . Succede quando, a fare le censure \  moderazioni , sono gli algoritmi e non la coscienza delle persone

20.8.25

Matteo Cecchelli, sindaco di San Giuliano Terme (Pisa) haha fatto qualcosa di straordinario e straordinariamente umano per dare degna sepoltura a Marah Abu Zuhri, la ragazza di 20 anni palestinese morta per grave malnutrizione a Pisa

 Quest’uomo grande si chiama Matteo Cecchelli, sindaco di San Giuliano Terme (Pisa), e ha fatto qualcosa di straordinario e straordinariamente umano. Negli stessi giorni in cui Israele e nel nostro paese ( salvo poche eccezioni =) sciacallava biecamente su Marah Abu Zuhri, la ragazza di 20 anni palestinese morta per grave malnutrizione a Pisa, Cecchelli si è messo in contatto con la madre di Marah, che aveva espresso la volontà di seppellire la figlia in Italia, le ha offerto di ospitarla nel suo Comune, ha organizzato un funerale di rito musulmano in un bel prato appena fuori dal Paese. l’ha spiegato così.“Io mi fido dei nostri medici pisani, senza se e senza, e trovo abbastanza pesante il fatto che un governo come quello di Israele provi a intervenire su questa vicenda. Ho trovato una madre sola in un paese straniero e mi ci siamo sentiti in dovere di offrirci per dare una degna sepoltura a questa ragazza che è vittima di un genocidio” ha detto.Infine - ed è la cosa in assoluto più commovente - ha individuato un’area del Comune rivolta verso la Mecca, come prevede la religione islamica.“Faremo una sepoltura perpetua, che quindi non sarà più riesumata e intorno potranno poi in futuro essere sepolte altre altre salme di fede musulmana” ha detto. Al funerale, tra tante bandiere palestinesi e la presenza di istituzioni locali, non c’era un solo rappresentante del governo e dellopposizione di solito cosi tanto attenta su Gaza . Nessuno si è degnato di presentarsi o anche solo di far arrivare il proprio cordoglio. Zero di zero.E forse è giusto così, perché sarebbe stato di un’ipocrisia assoluta. Che grande lezione ha dato il sindaco Cecchelli all’intero governo italiano, a Israele, ai mestatori d’odio e di fake news, a chi neanche di fronte a una storia come quella di Marah riesce a fare o a dire qualcosa di umano. Grazie Sindaco.

non ci basta più solo guardare . il caso ‘Mia moglie’ , grupppo ora chiuso di Facebox in cui si scambiavano fotointime di mogli e figlie e commenti osceni

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chi lo ha detto che bisogna passare per forza da ONLYFANS & SIMILI. silvia “Io, mistress grazie al 36 di piede Col 39 facevo ancora la cassiera”

 Questo titolo  da  me  scelto  per  il  post  d'oggi suggerisce che il contenuto delll'articolo   preso  da  il  Fq  d'oggi  vuole sfidare l’idea che per guadagnare o affermarsi online sia necessario ricorrere a piattaforme come OnlyFans, spesso associate alla monetizzazione dell’immagine personale o contenuti sensuali.
La frase potrebbe  sembrare inserirsi ( ed  è  effettivamente  lo  è  )   in un discorso più ampio sull’autonomia femminile, la trasformazione personale e la critica ai percorsi “standardizzati” di visibilità o successo. Il riferimento al numero di piede potrebbe anche essere una frecciatina al mondo della moda o dell’intrattenimento, dove certi canoni fisici aprono porte che altrimenti resterebbero chiuse.💡 In sintesi La protagonista rivendica un cambiamento: da cassiera (col 39) a mistress (col 36), suggerendo che non serve seguire le strade più battute per affermarsi.   Riportando  tale  articolo   e  coomentandolo   ho  voluto      riprendere    un’alternativa, forse ironica, forse autobiografica, alla narrazione dominante del successo online.
  Ma   ora   basta      veniamo   all'articolo  in  questione  e  co un  glossario   a  fiune  post 

Bologna
Domani viene uno di 56 anni, vuole stare in gabbia: lo chiudo lì un paio d’ore e mi paga 500 euroNon sono una escort, non mi spoglio mai mentre faccio spogliare loro quasi semprePrima prendevo 7 euro l’ora e tanti insulti, adesso ne prendo 100 e gli insulti li tiro io”. Tutto grazie a una foto pubblicata su Facebook. Una foto di piedi. Numero 36 per la precisione. Un dato fondamentale per questa storia che ha come protagonista Silvia, una procace 53enne dal forte accento bolognese. Per anni, anzi decenni è stata una presenza fissa alla cassa di uno dei supermercati più centrali e grandi di Bologna. Sempre sorridente e cortese nonostante i turni lunghi e la paga scarsa. Poi è arrivato il Covid, uno spartiacque: “La clientela si era stressata, impaurita, mi sembravano tutti più maleducati e aggressivi. Ero stanca e giù di morale, avevo appena chiuso una relazione e un pomeriggio per giocareho caricato una foto dei miei piedi su Facebook”. In poche ore viene sommersa da commenti entusiasti e piccanti. C’è anche quello di un signore, titolare di un negozio in centro che la invita in pausa pranzo: “Ti do 50 euro se me li fai baciare”. Silvia è una pratica. Di solito 50 euro li guadagna in un’intera giornata da cassiera, seduta dietro un rullo trasportatore a guardare le spese, e le vite, altrui che scorrono via veloci. “Perché non provare? Sono andata: per mezz’ora, forse 40 minuti, mi ha massaggiato e baciato i piedi. E mi ha pure pagato! Mi sono sentita come Renato Pozzetto in quel film, Da grande, quando scopre di poter guadagnare dei soldi facendo il babysitter, cioè passando il tempo a giocare. Quel giorno ho capito che il paese dei balocchi esiste anche per me”. Nel giro di alcuni mesi diventa Dea Silvia e lascia il supermercato. I clienti si dividono in due macro categorie: gli schiavi e i feticisti dei piedi. “Lo schiavo si rivolge rigorosamente a me dandomi del lei, mi ritiene un essere superiore e come tale si comporta. Il feticista invece viene solo per il fine, perché per lui il piede è una parte erotica. Neanche la gamba intera, spesso solo il piede. Io in entrambi i casi rimango sempre vestita, non mi spoglio mai mentre faccio spogliare loro quasi sempre”.

La maggior parte sono uomini di potere o che ricoprono posizioni di responsabilità, hanno compagne o mogli ma, spiega Dea Silvia “o hanno piedi brutti o sono troppo pudiche. Prima di incontrarli faccio un colloquio, voglio capire chi sono e che desideri hanno. Il più giovane ha 18 anni, il più anziano 67. C’è chi si fa 400 km ogni mese per incontrarmi. Domani viene uno schiavo di 56 anni, ha voluto comprare una gabbia: lo chiuderò dentro per un paio d’ore mentre esco con le amiche”. Costo? “Sui 500 euro”. Non tutti pagano, molti ricambiano con regali o servizi. “Magari mi mandano un buono su Amazon da 30 euro e gli faccio un video dei miei piedi. Ho anche uno schiavo di Pordenone che mi pulisce casa, un altro mi fa da autista, anche il mio dentista è uno schiavo”.

A settembre da donna concreta, Dea Silvia aprirà la partita Iva: “Il commercialista è lo schiavo di una mia collega”. In poco meno di quattro anni, Dea Silvia ha diretto circa 700 ‘sessioni’. Alcuni giorni sono particolarmente intensi, con anche cinque incontri ma non ama il digitale e non la vedremo su Onlyfans: “Mi piace bermi un caffè prima o dopo, magari con una fetta di torta, per me la dimensione amatoriale, casalinga, è importante. Quando ho cominciato non ne sapevo molto, adesso invece mi sono attrezzata: ho 200 paia di scarpe, per accontentare tutti i gusti, frustini, sculacciatori vari. Stasera ho una seduta di trampling (pratica che consiste nel farsi calpestare, ndr), è un omaccione di due metri, camminare sopra di lui avanti e indietro è un bel lavoro, a volte penso che dovrei usare il contapassi”.

Precisa che “da leone ascendente leone è una guerriera di natura” e si incazza se le danno della escort: “Ne ho conosciute in questi anni, facciamo un lavoro diverso. Io non mi spoglio mai, la mia è tutta una performance di testa, di potere. Sono io che ho il controllo per la prima volta nella mia vita e non penso di dovermi vergognare di nulla”. E il piede numero 36? “Entra tutto in bocca, se avevo un 39 stavo ancora dietro la cassa”.




IL FETICISMO dei piedi, noto anche come podofilia, è una parafilia in cui l'eccitazione sessuale è legata ai piedi o alle calzature. Si manifesta con un forte interesse, spesso esclusivo, per i piedi, che può includere il desiderio di guardarli, toccarli, annusarli, leccarli o usarli in contesti sessuali.
La dominatrice (anche padrona o, con il termine inglese, mistress )è una donna che, nelle pratiche BDSM, interpreta un ruolo dominante. Lo stereotipo la raffigura vestita con abiti in pelle o latex di colore nero, con scarpe o stivali con tacco alto e con in mano un frustino


19.8.25

IL MIO OSSERVATORIO (6520). Piccolo racconto domenicale di Mario Guerini

 

Abbiamo molto da imparare dagli anziani .  Ecco un esempio tratto  dal web 

  da  Mario Guerrini
IL MIO OSSERVATORIO (6520). Piccolo racconto domenicale. Lei compare ogni santa mattina. Qui a Bonaria, residenziale quartiere cagliaritano. Ha sempre, immancabilmente, un libro con sé. È una distinta signora novantenne. Dall'aria colta. Ora che la stagione lo consente, si siede in uno dei tavolini esterni, sul marciapiede, del "Cafè de buena aria". Per il rito mattutino della colazione. Trascorre il tempo, solitaria, leggendo il libro. E lo fa con quella che appare come una insaziabile sete di sapere e di conoscere. Che non si placa, nonostante la sua età, splendidamente e signorilmente portata. Per questo mi ha molto incuriosito. È affabile. Mi ha spiegato che il libro è da sempre il suo compagno di viaggio, nella quotidianità. A casa ha circa 3 mila 500 volumi. Una immensità. Lei si chiama Mirella Varone. È milanese di


origine. Il cognome è quello acquisito dal marito napoletano. Che non è più. Lei è ormai una figura familiare per chi frequenta quella zona di via Milano. "Vengo in questo bar perché è come quelli di un tempo", mi dice. "Ci si incontra, ci si conosce, si parla. E Michele (il titolare) e le sue ragazze offrono un servizio eccellente. Sempre sorridenti e premurosi". Un incontro pieno di garbo, quello con Mirella Varone. Ma fugace. Perché io in compagnia di Luna, la mia compagna a 4 zampe, durante la prima uscita della giornata. Sono stato attratto dalla forza intellettuale che esprime questa donna, con la applicazione alla lettura. Alla sua età matura di novantenne. Mirella Varone è una straordinaria enciclopedia vivente. In una Società in cui la tecnologia sembrerebbe inconciliabile, ma non è così, per fortuna, con le pagine di un libro. Buona domenica. Mario Guerrini.

ma la pietà esiste ancora ? Gaza, dipartimento Usa: “Stop ai visti per chi arriva dalla Striscia”. Ong: “Impatto devastante sui bambini malati”

In sintesi  \   per  chi  ha fretta      e non  vuole     continuiare  ella  lettura 
Per la popolazione della Striscia la situazione resta drammatica: 40 mila morti, 90 mila feriti e 9
palestinesi su 10 sfollati internamente, oltre ad un crescente rischio di epidemie di epatite B e poliomielite.E Il Dipartimento di Stato americano ha annunciato la sospensione di tutti i visti turistici per i cittadini di Gaza, compresi i bambini che necessitano di cure mediche urgenti.



  
da  unbranded - Newsworthy Italian  tramite  Msn.it 

 Il Segretario di Stato Marco Rubio ha annunciato questa decisione, citando “prove” che alcune organizzazioni che rilasciano visti per gli Stati Uniti “hanno forti legami con gruppi terroristici come Hamas”. L'agenzia ha deciso di condurre una “revisione completa e approfondita del processo e delle procedure utilizzate per rilasciare un numero limitato di visti temporanei per motivi medici e umanitari negli ultimi giorni”. “Sospenderemo questi visti... e sospenderemo questo programma per rivalutare le modalità di verifica dei visti e l'eventuale relazione di queste organizzazioni con il processo di acquisizione dei visti”, ha dichiarato Rubio al programma Face The Nation della CBS. L'azione è stata intrapresa solo un giorno dopo che alcuni post sui social media riguardanti i rifugiati palestinesi negli Stati Uniti hanno suscitato reazioni rabbiose da parte degli attivisti di destra. L'attivista di estrema destra Laura Loomer ha pubblicato su X, affermando che i palestinesi “che dichiarano di essere rifugiati di Gaza” sono entrati negli Stati Uniti via San Francisco e Houston questo mese. In un post successivo, ha chiesto: “In che modo consentire l'ingresso di immigrati islamici negli Stati Uniti è in linea con la politica America First?”, prima di segnalare ulteriori arrivi di palestinesi nel Missouri. Ha anche affermato che “diversi senatori e membri del Congresso statunitensi” le avevano inviato messaggi di testo, esprimendo rabbia per la situazione. Ha anche affermato che “diversi senatori e membri del Congresso degli Stati Uniti” le hanno inviato messaggi di testo esprimendo rabbia per la situazione. Il Palestine Children's Relief Fund ha affermato che questa decisione avrà un “impatto devastante e irreversibile” sulla sua capacità di “portare bambini feriti e gravemente malati” negli Stati Uniti per cure mediche salvavita.

diario di bordo n 142 anno III Dalla Barbagia all’Interpol per collegare le polizie europee ., Alghero, una biblioteca tra i gatti e i ginepri sulla spiaggia di Maria Pia., L’uomo in fiamme

 
 nuova   sardegna   1\8\8\2025

 L’avventura professionale dell’esperto di reti e sicurezza informatica, Gianstefano Monni. Dalla Corte internazionale dell’Aia a Lione
Dalla Barbagia all’Interpol per collegare le polizie europee

                                      di Valeria Gianoglio






Nuoro «Cosa faccio di lavoro? Roba di computer». Quando deve spiegare a una delle tante affettuose “tziedde” nuoresi poco avvezze alle moderne tecnologie, come guadagni da vivere, in genere, Gianstefano Monni e la sua autoironia, decidono di tagliare corto. Ma in realtà, nel mezzo di un curriculum sterminato, il suo attuale incarico e professione potrebbe, tutto sommato, essere riassunto in pochi termini: da due anni, infatti, dirige il gruppo di ingegneri dei sistemi informativi dell’Interpol, nella sede centrale di Lione. Unico nuorese tra tutti i 1272 dipendenti tra la Francia e Singapore, con solo un altro sardo a far parte del gruppone. «In sostanza – spiega – progetto soluzioni per collegare in senso logico le forze di polizia dei 195 Stati membri dell’Interpol. Il team che gestisco si occupa di creare soluzioni per le forze di polizia di tutto il mondo. Ad esempio crea un sistema di condivisione delle informazioni sulle armi rubate, o per condividere le informazioni sui crimini che colpiscono i bambini, per rendere il servizio di law enforcement può efficace, affidabile e veloce». «In poche parole – aggiunge, ridendo – faccio cose, vedo gente».
E non gli manca davvero la voglia di prendersi in giro, insomma, a Gianstefano Monni, come spesso, del resto, succede alle menti più brillanti. Ma la sua storia personale, in realtà, è fatta di esperienze di lavoro serissime, incarichi prestigiosi, e tante esperienze all’estero.
Cinquantadue anni, nuorese di nascita ma genitori dorgalesi – Giacomo e Lucia Fancello – giovinezza trascorsa tra i cortili vicino all’Agrario e le aule del liceo Scientico Fermi. E i primi “incarichi” importanti nel mondo del digitale e dei pc – come confermano i suoi amici di sempre – quando l’allora parroco del Sacro Cuore, don Giovannino Puggioni, gli aveva chiesto una mano per informatizzare l’archivio parrocchiale con tutti i sacramenti impartiti. Poi gli anni di Ingegneria informatica al Politecnico di Torino, e la laurea con una tesi sulle reti “software defined”, prima del ritorno in Sardegna. Ma il rientro nell’Isola, per Gianstefano Monni, è stata solo una parentesi, anche se ricchissima di nuove avventure professionali: dal lavoro di ricercatore al Crs4 di Cagliari all’Ailun di Nuoro.
E ancora consulenze per enti pubblici e aziende, sempre come esperto di digitalizzazione dei processi e nello sviluppo di soluzioni avanzate per la sicurezza delle reti. Una competenza sterminata che nel 2013 lo ha proiettato a un altro incarico prestigioso e a varcare di nuovo i confini dell’Isola: fino alla Corte penale internazionale dell’Aia, dove ha guidato la “migrazione” della rete e dell’intera infrastruttura nella nuova sede. E subito dopo in Irlanda, dove si è occupato sempre della sicurezza delle reti anche per la Zurich insurance. Finisce lì? Manco per niente: perché nel frattempo Gianstefano Monni deposita pure quattro brevetti internazionali legati alla sicurezza informatica, che introducono grosse innovazioni in settori chiave come la gestione intelligente delle politiche di sicurezza di rete.
E infine l’ultima grande sfida, in ordine temporale: l’avventura all’Interpol. Dal 2023 guida l’ufficio di ingegneria, coordina progetti strategici in cybersecurity e non solo: si occupa, insomma, di progettare soluzioni per collegare le forze di polizia di tutti i 195 Stati membri dell’Interpol. Tanti anni di lavoro per i quali ha lasciato l’adorata Sardegna e insieme alla moglie Maria Francesca Pau e a due bei gattoni lo ha fatto come scelta precisa e per diverse ragioni. «Nel 2014 – spiega – in Sardegna avevo raggiunto un punto in cui era impossibile crescere ulteriormente, e lavorare da autonomo nell’Isola era diventato impossibile per molte ragioni. E poi mi aveva chiamato il tribunale internazionale e il caso ha voluto che avessero bisogno proprio delle competenze che avevo acquisito nei due anni precedenti».
E ciò che davvero per lui ha fatto la differenza, nel lavoro all’estero, sta nel fatto «che se non ti piace quello fai puoi sempre cambiare. Ogni ruolo che ho assunto era quello che in Italia sarebbe stato un contratto a tempo indeterminato, ma la voglia di crescere e laroutine mi hanno sempre spinto a cercare, e accettare, ruoli diversi e ripartire in contesti completamente diversi».
«Della Sardegna? – dice – mi manca tutto o quasi, ma la Sardegna sta sempre lì. Non siamo alberi, ma le radici sono sempre quelle e ce le portiamo dietro ovunque. Sono dentro di noi e il legame lo senti ancora più forte quando sei lontano. Ma, detto questo, soprattutto in certe professioni e per certe opportunità devi comunque imparare a convivere col fatto che se vuoi avere certe occasioni devi uscire e accettare le sfide. Poi, se ci sono i voli, puoi sempre tornare. In Sardegna bisognerebbe garantire a tutti e per tutti che restare, partire o tornare, siano scelte fatte liberamente, e non imposte perché non hai alternative».


Alghero, una biblioteca tra i gatti e i ginepri sulla spiaggia di Maria Pia
di Luca Fiori


Inviato ad Alghero Il sentiero di sabbia affonda sotto i piedi, il profumo dei ginepri si mescola alla salsedine. Poi, all’improvviso, tra le ombre lunghe della pineta, appare una scritta azzurra in inglese: “Beach Library”. Due parole semplici, che raccontano una magia. Dietro, il mare di Maria Pia ad Alghero, una tavolozza di azzurri che sfuma nell’orizzonte verso Capo Caccia, e qualche gatto che sonnecchia pigramente tra le radici contorte degli alberi, dove ha trovato casa una colonia felina. È qui che il tempo sembra rallentare, per lasciare spazio a un rito antico, quasi dimenticato: sfogliare un libro o un quotidiano. Quindici anni fa, Stefano Filippi ha deciso che la spiaggia poteva diventare un salotto letterario.



Cinquantacinque anni, nato ad Alghero, socio dello stabilimento balneare “Hermeu”, racconta la sua idea davanti ai libri che ha raccolto in tutti questi anni e sistemato con criterio negli scaffali in legno. Alle sue spalle il mare che si muove lento e un bagnino - maglietta rossa e radiolina in mano - controlla con attenzione i bambini sul bagnasciuga. «Sono trent’anni che lavoro tra gli ombrelloni, ma un giorno mi sono chiesto: perché non portare i libri qui, dove la gente viene per staccare la spina?». E così, sotto il più grande ginepro della pineta, ha montato delle mensole e le ha riempite di storie. Romanzi, saggi, fiabe, thriller nordici e libri per bambini. In italiano, ma anche in francese, inglese, tedesco.
«Prendi un libro, leggilo, riportalo o scambialo con un altro. Nessuna regola, nessun pagamento, solo il piacere di leggere», dice, mentre un alito di vento fa frusciare le pagine dei quotidiani come ali leggere. La scena è da cartolina viva: gli ombrelloni arancioni punteggiano la spiaggia, il mare disegna riflessi di luce, i gatti si stiracchiano al sole e catturano lo sguardo dei turisti. E tra le risate dei bambini e il rumore delle onde, c’è il silenzio raccolto di chi legge sotto l’ombrellone. «Il bello è la sorpresa negli occhi degli
stranieri – racconta Stefano – non se l’aspettano. Per loro è una novità assoluta vedere una biblioteca sulla sabbia».
Poi ride: «Sai qual è la cosa più fotografata insieme al mare? La scritta Beach Library». E non ci sono solo libri. Sugli scaffali, accanto alle riviste colorate e i cruciverba, ci sono i quotidiani. «Il più richiesto? La Nuova Sardegna, senza dubbio», sorride Stefano. A confermarlo è Marcello Pizzi, turista romano, abbronzato e sorridente, che si autodefinisce di un’altra epoca. «Io i quotidiani li compro ancora. Sono un nostalgico di un’altra epoca – spiega – per me il giornale è carta, odore d’inchiostro, trovarlo qui in spiaggia è una vera comodità». In prima fila tra i clienti di Stefano: algheresi e sassaresi, molti dei quali sono “fidelizzati”.
«Ci sono persone che conosco da una vita – spiega – e a loro so che devo conservare ogni giorno una copia del quotidiano. «La lettura della Nuova Sardegna sul lettino in estate non può mancare – spiega Carmelo Carta – la leggo dalla prima all’ultima pagina. In spiaggia, sotto l’ombrellone – sorride il pensionato – il piacere della lettura è maggiore». Giuseppe Fiori e Giacomo Usai confermano: «Il giornale lo compriamo tutti i giorni e la comodità di trovarlo qui a due passi dal mare è impagabile». Intanto i gatti si acciambellano tra la sabbia e le radici e le pagine si aprono e chiudono sotto gli ombrelloni colorati. Tra i libri e i quotidiani, la “Beach Library” è diventata un punto di riferimento. Qui non si sfoglia solo un romanzo o La Nuova Sardegna, si riscopre il piacere di leggere anche in vacanza, davanti a un mare che toglie il fiato e Capo Caccia sullo sfondo.
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L’uomo in fiamme
Celestino Tabasso  unione  sarda  19\8\2025

Nel lessico perbenista dell'informazione scrivere in un titolo che Tizio “è morto” suona un po' forte: si preferisce la formula “Addio Tizio”, se era arcinoto, altrimenti si annuncia compuntamente che Tizio “si è spento”. Eppure sull'88enne Ronnie Rondell Jr quasi tutti hanno titolato che è morto. Non era così celebre da meritare un Addio e sarebbe stato ridicolo annunciare che si è spento: era quello avvolto dalle fiamme che stringe la mano a un altro signore, il suo collega stuntman Danny Rogers, sulla copertina di “Wish you were here” dei Pink Floyd. Rondell, spiegava domenica il Post, dovette mettersi in posa quindici volte, sempre con pochi secondi a disposizione perché la tuta ignifuga che indossava sotto i vestiti poteva reggere fino a un certo punto. Oggi per confezionare un'immagine del genere basterebbe dare qualche istruzione all'intelligenza artificiale, non servirebbero nemmeno il tempo e la cura artigiana necessari fino all'altro ieri per provarci con photoshop. Figurarsi rischiare la pelle e giocarsi un baffo e un sopracciglio come accadde a Rondell. Però quell'immagine ha una poesia stralunata che il digitale, ancora così pacchiano nel suo iperrealismo grafico, non raggiunge. E a costo di fare sciovinismo analogico e anagrafico, va detto anche che un altro disco come “Wish you were here” lo aspettiamo da cinquant'anni.

18.8.25

molto spesso la verità te lo dicono i morti anzichè i vivi . il caso di Maria Grazia Lai, ultima figlia dei Devilla d’Aritzo: «La verità dal Dna, così ho scoperto chi era mio padre»


unione sarda  15\8\2025 

Maria Grazia Lai, ultima figlia dei Devilla d’Aritzo: «La verità dal Dna, così ho scoperto chi era mio padre»L’infanzia in orfanotrofio: «Oggi a settant’anni sono serena, non provo rancore o rabbia nei confronti di chi ha taciuto»



(foto simbolo)


Alla fine la verità gliel'hanno rivelata i morti. Non la madre che l'ha partorita, non i parenti, non le suore dell'orfanotrofio di Cagliari dov'è cresciuta con le coetanee senza famiglia. Maria Grazia Lai, nata a Cagliari nel febbraio 1955, è figlia di Giuseppe Luigi Devilla, nato ad Aritzo nel 1879 e qui morto all'età di 78 anni nel 1957, due anni dopo ch'era venuta al mondo quella bambina concepita fuori dal matrimonio e mai riconosciuta.
Il vecchio patriarca
Sta tutta dentro le date della biografia di quest'uomo, l'origine della storia che arriva dalla Sardegna di metà Novecento. L'età di un vecchio patriarca con un cognome importante e un patrimonio di terre fertili e di servi. Uno di quei notabili, già medico e sindaco del paese, a cui nessuno poteva dire no, nemmeno le donne a servizio in casa, nubili o sposate non fa differenza, potevano salvarsi solo quelle con un padrone rispettoso e degno. «Ho settant'anni e ho trascorso una vita intera a chiedermi chi fosse realmente mio padre, ma la verità mi è stata sempre negata. Per questo sono stata costretta a cercarla da sola facendo ricorso al Tribunale di Cagliari».
I frammenti ossei
Poche note messe per iscritto, nessuna intervista e nessuna fotografia a corredo della sua storia. Lo scorso giugno, dopo tre anni in giudizio, Maria Grazia Lai Devilla, artigiana con casa e famiglia nell'hinterland di Cagliari, ha finalmente ottenuto il riconoscimento giudiziale di filiazione. Il collegio presieduto da Giorgio Latti ha stabilito che lei è sangue del sangue di Giuseppe Luigi Devilla. Nessun dubbio, grazie al referto della perizia genetico forense che ha stabilito, scrive il giudice nel dispositivo della sentenza, «il valore della attribuzione della paternità biologica del 99.9999%. (novantanove/999 per cento)». Un accertamento eseguito sui resti dell'uomo, pochi frammenti ossei dai quali è stato raccolto il materiale genetico poi confrontato con quello della presunta figlia.
Un mistero da risolvere
È stata dunque necessaria la riesumazione della salma. «Resti di quasi settant'anni che hanno comportato non poche difficoltà nell'esecuzione della perizia», spiegano i legali della donna, Luca Picasso e Walter Trincas. «Sono stati necessari numerosi esami su diversi frammenti, ma alla fine abbiamo potuto dimostrare il rapporto padre-figlia». Una conferma che ha risolto quello che l'avvocato Picasso ha definito «un enigma».
Le mezze verità
Maria Grazia Lai aveva avuto sentore fin da ragazzina che le sue origini dovevano essere dentro l'abitazione dei Devilla, la grande casa di Aritzo col cortile interno e i balconi in legno di castagno (oggi patrimonio del Comune) dove sua madre era a servizio. Di tanto in tanto la mamma la portava in paese, cosicché lei raccoglieva voci, ascoltava parole sussurrate, intuiva verità non dette. «Ho sofferto in silenzio, è stato un dolore di cui nessuno della mia famiglia ha voluto o saputo tener conto», scrive nella nota affidata ai legali. «Sono riuscita a costruirmi una famiglia mia e a crearmi un'attività, ma quella cappa di mistero e di silenzi ha condizionato la mia vita. Fin da bambina non c'è stato un solo giorno in cui non abbia sognato di conoscere le mie radici».
Il colpo di scena
Si è decisa nel 2004, aveva quasi cinquant'anni. Si è rivolta agli avvocati Picasso e Trincas e ha intentato una causa civile per il riconoscimento giudiziale di paternità, convinta che suo padre fosse Sebastiano Bachisio Michele Basilio Devilla, morto a Roma nel 1962. Era, costui, il penultimo dei cinque figli di Giuseppe Luigi, certamente più vicino, per età, alla madre di Maria Grazia. Riesumati i resti, ed eseguito l'esame genetico, il colpo di scena. Le corrispondenze del Dna dicevano che lei e Sebastiano condividevano lo stesso genitore biologico, dunque erano fratello e sorella. Era una Devilla, e a quel punto la verità era evidente. Tuttavia è stato necessario un secondo processo, un'altra riesumazione e nuovi esami genetici. Maria Grazia Devilla Lai ha chiesto l'annotazione del cognome del padre accanto a quello della madre. «Adesso che finalmente conosco la verità sono serena e non provo rancore o rabbia nei confronti di chi ha taciuto. Vorrei solo che la mia famiglia mi riconoscesse, accogliendomi come una dei Devilla. L'ultima, dei figli di Giuseppe Luigi, ancora in vita»

meglio essere cinici e poco rispettosi che stare zitti . il confronto su media fra la morte di Pippo baudo e il conflitto in israele

E  è vero    che     come ho già detto   nel post precedente  : <<  ci sarà  qualcuno\a  che     raccoglie   l'eredità  di Pippo Baudo  oppure    la  sua  morte   è  Una parabola comune, un mondo culturale definitivamente tramontato.? >> è  stato un pilastro   della  tv italiana . Ed  è giusto  parlarne  ,  ma  qui si esagera   Infatti   come dice   il post  istangram    riportato sotto



    Ci  sono due  pesi  e  due  misure      nell'informazione  . Io non avrei saputo   dirlo meglio

17.8.25

idiozie Sant'Agostino nero: bufera sul libro woke per bambini della Chiesa anglicana



non è questo il modo di promuovere la diversità . Si rischia l'omologazione culturale 

  da msn.it 


san  Agostino  di Botticelli 

In una società sempre più ostile alla religione cristiana, l’ultima cosa che ti aspetteresti è di vedere una chiesa promuovere la cosiddetta cultura woke. In Inghilterra, invece, è proprio la Chiesa Anglicana a essere in prima fila nel promuovere una visione del passato più in linea con l’intollerante visione del mondo così cara all’estrema sinistra. Ha causato molte polemiche il fatto che un libro per bambini che sarà pubblicato il 21 agosto da un editore specializzato in temi cristiani dipinga uno dei padri della Chiesa, Sant’Agostino, come un uomo di colore. Il libro è stato scritto da due sacerdotesse anglicane, responsabili del dipartimento della Chiesa d’Inghilterra dedicato alla “giustizia razziale”. Poco importa
che uno dei filosofi più importanti della storia della Chiesa fosse di origine berbera e, quindi, dalla pelle bianca.
La deriva woke degli anglicani
Come riportato dal quotidiano The Telegraph, il libro dedicato ai bambini dagli 8 agli 11 anni vede una delle figure più iconiche della Chiesa delle origini tra i 22 personaggi cristiani di colore che dovrebbero ispirare i bambini. Il libro, dal titolo Heroes of Hope, include esempi di “santi neri e di colore, spesso cancellati dalla storia ufficiale, che hanno contribuito alla crescita della Chiesa e della società moderna, come la conosciamo oggi”. L’inclusione di Aurelius Augustinus, nato nel 345 d.C. nella città di Thagaste, nel territorio dell’odierna Algeria, è già abbastanza controversa ma non quanto l’illustrazione scelta dagli autori del libro, nella quale il padre della Chiesa ha lineamenti che hanno poco a che vedere con il popolo berbero. Non è la prima volta che si cerca di cambiare l’iconografia che, dalla notte dei tempi, dipinge Sant’Agostino come un uomo dai tratti nordafricani: nel 2023, l’università cattolica di Villanova, negli Stati Uniti, aveva commissionato opere d’arte che ritraessero Sant’Agostino come un uomo dalla pelle nera. Secondo uno degli amministratori dell’università della Pennsylvania, la ragione era ideologica: “rappresentare Sant’Agostino come un uomo di colore combatte attivamente la cultura bianca”.
Le autrici del libro,che sarà disponibile dal 21 agosto, sono Sharon Prentis e Alysia-Lara Ayonrinde, rispettivamente vice-direttore e responsabile dell’educazione nazionale della racial justice unit della Chiesa d’Inghilterra. Lo scopo della controversa unità, creata nel 2022 sull’onda delle proteste legate al movimento Black Lives Matter, si prefigge di aiutare la società a raggiungere la “giustizia razziale”.

Oltre a dichiarare che “Dio non è un uomo bianco”, la chiesa anglicana sta spingendo per rendere più inclusive le rappresentazioni artistiche cristiane: una diocesi si è impegnata a “correggere le immagini di Gesù Cristo” per avere una “migliore rappresentazione razziale”. La chiesa, poi, sta spingendo l’idea della “giustizia razziale” nelle scuole da essa gestita, piegando il programma d’insegnamento per “promuovere l’equità e la giustizia razziale” ed assicurandosi che i presidi delle scuole siano “più rappresentativi della diversità razziale nell’Inghilterra dei nostri tempi”. Parecchi genitori hanno alzato entrambi i sopraccigli quando le scuole hanno fornito materiale “anti-razzista” per le assemblee ed istituito ogni febbraio una domenica dedicata alla giustizia razziale.
Riscrivere la storia sempre e comunque
Il libro, pubblicato dalla Society for Promoting Christian Knowledge, la più grande casa editrice indipendente del Regno Unito dedicata ad argomenti religiosi, include figure meno controverse, come San Maurizio, ex soldato romano di origine nubiana, tradizionalmente rappresentato come un uomo di colore fin dal suo martirio nel III secolo assieme ad icone più moderne, come il reverendo sudafricano Desmond Tutu. L’introduzione al libro promette ai giovani lettori che “le storie di questi straordinari 22 individui che hanno lasciato il segno sul mondo vi ispireranno. Speriamo che le loro storie vi spingeranno a fare la differenza, non importa se grande o piccola”. Il fatto che la Chiesa d’Inghilterra abbia già acquistato un discreto numero di copie da distribuire gratuitamente nelle scuole da essa gestite è un segnale che questa iniziativa gode del supporto delle alte gerarchie ecclesiastiche anglicane. La pubblicazione di questo libro non è certo il primo esempio di come la Chiesa d’Inghilterra abbia deciso di partecipare attivamente all’opera di riscrittura sistematica della cultura inglese che da qualche anno sta causando molto allarme oltremanica. Nel 2024 la chiesa aveva assunto un dipendente con il compito di deconstructing whiteness, ovvero combattere l’ingiustizia razziale e rimuovere monumenti ed opere d’arte legate, anche indirettamente, al commercio degli schiavi.
Singolare, poi, quando la chiesa ha promesso “riparazioni” alle popolazioni dei Caraibi per il coinvolgimento storico nella tratta degli schiavi africani, cosa che è oggetto di un violento dibattito tra gli storici. A far disperare molti inglesi è che proprio l’istituzione religiosa tradizionale, da sempre pietra angolare dell’identità britannica, partecipi attivamente al tentativo di riscrivere la storia del Regno Unito. Oltre a numerosi casi nei quali figure storiche bianche sono state interpretate da attori di colore, molte organizzazioni, a partire dal London Museum, stanno cercando di rendere “più inclusive” figure storiche di ogni genere. L’inclusione dell’imperatore romano Lucio Settimio Severo nel mese dedicato alla “Black History” ha causato parecchie perplessità, visto che, pur essendo nato a Leptis Magna, in Libia, era membro di una importante famiglia patrizia romana. I libri per bambini, poi, talvolta, scivolano nel ridicolo: il libro del 2023 Brilliant Black British History riporta come “i primi britanni erano neri” e che Stonehenge è stato costruito quando la Gran Bretagna era una “nazione nera”.

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