Un post indignato contro un’auto di lusso parcheggiata in uno stallo per disabili ha acceso il web. Ma la risposta del proprietario ha capovolto la storia, dando a tutti una lezione di civiltà. Una Lamborghini Huracan parcheggiata in un posto riservato ai disabili, in un parcheggio pubblico nel Regno Unito, ha scatenato una bufera di commenti indignati sui social. “Chi ha una supercar si sente autorizzato a fare ciò che vuole”, scriveva un utente su Facebook. Ma la verità, come spesso accade, era ben diversa da quanto si pensasse. E a ribaltare completamente la narrazione è stato proprio il proprietario della vettura. Il post virale e il pregiudizio immediato La foto della supercar – vistosa, nera, ribassata, con cerchi scuri e pinze freno rosse – è apparsa nel gruppo locale Spotted Torquay, accompagnata da una didascalia sarcastica: “Hai una Lamborghini? Allora puoi parcheggiare dove ti pare, anche se togli un posto a chi ne ha davvero bisogno.” La reazione è stata immediata: oltre mille commenti, la maggior parte accusatori. Qualcuno suggeriva che una multa non avrebbe comunque inciso su chi può permettersi un’auto da oltre 200.000 euro. Altri insinuavano che il parcheggio fosse stato scelto solo per evitare graffi o sportellate. Una risposta silenziosa, ma potente A rimettere ordine ci ha pensato lo stesso proprietario, che ha risposto con un’immagine che vale più di mille parole: una foto in posa accanto alla sua Lamborghini, con il contrassegno disabili ben visibile e – soprattutto – le sue due gambe prostetiche. Il commento? Ironico ma elegante:
Lamborghini-Huracan-Disabled-Parking-Space-2
“Una foto per tutti i miei fan.” La reazione del gruppo non si è fatta attendere: l’amministratore si è pubblicamente scusato per il pregiudizio, spiegando anche che, su molte supercar, i contrassegni disabili tendono a scivolare o restare nascosti sul cruscotto inclinato. Disabilità invisibili e giudizi affrettati L’episodio ha aperto un dibattito molto più ampio: tanti altri utenti, anch’essi disabili, hanno raccontato esperienze simili, in cui sono stati ingiustamente accusati di usare impropriamente posti riservati. Perché la disabilità non è sempre visibile. E proprio chi ne soffre – anche se guida una citycar o una hypercar – spesso deve affrontare lo stigma e il sospetto solo perché non corrisponde allo stereotipo del “disabile tipo”. Il rispetto parte dallo sguardo In fondo, questa vicenda insegna qualcosa che va oltre un parcheggio: non si può giudicare una persona dal veicolo che guida. Né si dovrebbe dare per scontato che chi vive con una disabilità debba rinunciare a bellezza, performance o piacere di guida. Sulla strada e nella vita, serve rispetto, prima ancora del diritto. Anche (e soprattutto) quando ciò che vediamo non corrisponde a ciò che ci aspettiamo.
Una storia di fortuna e di grande sacrificio. quella di Filippo Conca un ciclista " amatoriale " che
è riuscito a vincere una gara di professionisti . E' una storia particolare in quanto agli sponsor come si sa ci sono in ballo tanti soldi raccomandazioni che scelgono chi vogliono loro quindi si tenga la sua meritata vittoria e se ne ha voglia continui come ha fatto fino adesso se sceglie di entrare in una squadra deve fare da gregario e deve seguire certe regole che a volte fanno male .
E'sucesso a Gorizia dove a vincere tra lo stupore generale Filippo Conca, 26 anni, ex corridore professionista con Lotto e Q'36.5 e oggi in maglia bianca, senza sponsor e con una sola scritta: Swatt Club, club amatoriale nato da un blog. Conca vince il campionato italiano professionisti a Gorizia battendo nettamente nella volata a cinque Alessandro Covi (Uae Emirates), Thomas Pesenti (formazione sviluppo della Soudal-Quick Step), Giovanni Aleotti (Red Bull-Bora) e l'altro compagno di squadra Mattia Gaffuri. A 10 Baroncini e a 11 Milan, protagonista di un grande forcing nel finale. Lo Swatt Club è un team lombardo e inizialmente era un semplice blog (solowattaggio). Nasce nel 2017 come formazione amatoriale con l'idea di dare una seconda possibilità a tutti i corridori over 23 anni scartati dalle grandi squadre e rimasti a piedi. Il regolamento lo prevede: il tricolore è aperto a tutti i corridori élite, cioè oltre 23 anni, per i quali esiste una speciale corsa vinta ieri da Alessandro Borgo. Siamo quindi alle comiche: sabato parte il Tour de France, con i nostri Jonathan Milan e Filippo Ganna alla ricerca di qualche acuto in terra francese che ci manca da 106 tappe (Vincenzo Nibali, Val Thorens, 27 luglio 2019), e ieri abbiamo vissuto una delle pagine ciclistiche nostrane più imbarazzanti di sempre. Un amatore che vince la maglia tricolore dei professionisti. L'uomo senza maglia, Filippo Conca, si veste di tricolore.
La sua maglia pulita, bianca e pura come la Swatt Club, formazione composta da atleti che il ciclismo ha accantonato, la coprirà con quella tricolore, che forse non mostrerà mai in nessuna corsa, perché attualmente il suo team professionistico non è. Una squadra fatta di isolati, che ieri ha mostrato in diretta tivù la sua forza e la forza di un movimento quello italiano - che non c'è più.
Sì, ma evitiamo di raccontare frottole: ha vinto la gara battendo dei professionisti, su questo non ci piove! Definirlo semplicemente un "ciclista amatoriale", però, è estremamente riduttivo — e no, non stiamo parlando del classico amatore della domenica che intasa le statali in gruppo con la maglia della squadra del bar. Parliamo di un atleta vero, di alto livello, che semplicemente non fa parte di una squadra professionistica.
E allora dov’è la notizia? Il punto non è che non sia un professionista, ma che non corre in nessuna squadra WorldTour o Professional italiana, eppure ha indossato la maglia bianca e ha vinto la gara. Questo dimostra che il suo livello non è affatto inferiore a quello di molti professionisti.
Neffa che torna a rappare, Fabri Fibra che rifà un brano degli Uomini di
Mare, DJ Shocca che pubblica ‘60 Hz II’. L’hip hop italiano ha
ingranato la marcia indietro?
Shablo, Guè, Tormento, Joshua e Neffa Foto: Instagram
Che
il rap sia, per antonomasia, un genere che si parla addosso è qualcosa
di cui siamo apertamente al corrente. “Fare rap che parla di rap e
parlare alla gente che ascolta rap è un controsenso, come se i libri
parlassero di libri, e d’ogni foto stampassimo i negativi”, rappava
Ghemon prima di una delle sue fughe dal genere in Niente può fermarmi,
Anno Domini 2006. Nell’ultimo anno e mezzo, ovvero dalla reunion dei
Club Dogo di inizio 2024, al parlarsi addosso si è però aggiunta una
nuova (e altrettanto preoccupante) attitudine nella comunità hip hop: la
nostalgia.Gli ultimi
mesi sono stati piuttosto intensi per i nostalgici del primo rap
italiano. L’anno ha difatti inaugurato con un cortocircuito importante:
Sanremo. Sul palco dell’Ariston – che storicamente non ha buon feeling
con il mondo hip hop – si è presentato Shablo accompagnato da due figure
storiche del genere come Guè e Tormento, il primo di ritorno dopo
precedenti apparizioni nelle serate cover, il secondo alla terza
presenza dopo quella a nome Sottotono nel 2019 come ospite di Livio Cori
e Nino D’Angelo e l’esordio nel 2001 diventato celebre per il violento
alterco con Valerio Staffelli di Striscia la Notizia che portò poi inesorabilmente allo scioglimento del duo.Proprio
nella serata cover di quest’anno, però, il cortocircuito: sul palco si
ritrovano i due grandi rivali degli anni ’90, Neffa e Tormento,
l’underground e il pop, a celebrare la storia dell’hip hop made in Italy
con due pietre miliari di quegli anni, Aspettando il sole e Amor de mi vida. Quello che sembrava un semplice omaggio alla storia, però, si è presto rivelato essere una premonizione.
Proprio
Neffa, post-Sanremo, è tornato a pubblicare un disco rap dopo un’attesa
lunga 25 anni e «dieci anni di cancro alla felicità», come ci ha
raccontato nella cover story a lui dedicata. Il primo avvicendamento era
avvenuto qualche mese prima nel 2024, in Fogliemorte con Fabri Fibra, ma è proprio dopo Sanremo che il cantante è uscito allo scoperto annunciando Canerandagio Pt.1, il vero ritorno del guaglione sulla traccia dai tempi dell’EP Chicopisco del 1999. E poteva questo disco non rifarsi in qualche modo alla nostalgia? Eccoci allora servito Hype (nuoveindagini) con Fabri Fibra, che chiude un cerchio aperto nel 2002 con Turbe giovanili, il primo album solista del Fibroga. Backstory: Neffa dopo Chicopisco
decide di chiudere la sua parentesi con l’hip hop, lasciando in omaggio
a Tarducci i beat che daranno forma alla sua prima avventura solista. Turbe giovanili apre Scattano le indagini, il cui sample è riutilizzato da Neffa proprio per la produzione di Hype (nuoveindagini), come parentesi vuole sottolineare.Passano meno di due mesi e questa volta è proprio Fibra a ripescare dal proprio passato. Per il suo ultimo disco, Mentre Los Angeles brucia,
il rapper decide di affidare la chiusura – la oramai celebre traccia n.
17 – al remake di uno dei suoi più grandi successi periodo Uomini di
Mare, Verso altri lidi. Già re-inserita nella scaletta live da
qualche anno, Fibra porta sulle piattaforme di streaming una versione
riarrangiata del brano che, nella sua versione originale – costruita
attorno al sample di Is There Anybody Out There? dei Pink Floyd
– non potrà mai vedere la luce per problemi di copyright. «Mi andava di
rifarla perché alla fine il pezzo è mio e lo rifaccio come cazzo
voglio» ci raccontava qualche giorno fa nella nostra cover story
appena prima della release. È dovuto arrivare a quasi 50 anni Fibra per
decidere di ritrovarsi con questo successo dell’underground uscito nel
lontano 1999: e pensare che ai tempi di Mr. Simpatia, nel 2004,
rappava “ho avuto pure un figlio ma l’ho fatto ammazzare / perché
sperava che facessi un altro Uomini di Mare”. Dopo l’abbandono della
scena di pessimi massimi come Neffa, Fede e Fritz Da Cat di inizio
millennio, nel rap italiano del 2006 non c’è tempo di guardare al
passato: bisogna avere coraggio, e riconquistare il mercato da un punto
morto. Il rap, in quel momento storico, deve inventarsi il proprio
futuro.
Fabri Fibra - Verso Altri Lidi (Official Visual Video)
Non c’è Fabri Fibra, ma c’è Neffa, e pure Ghemon e Tormento, nel team di rapper che DJ Shocca ha voluto per 60 Hz II,
il seguito del suo storico album del 2004, un faro che ha tenuto in
vita l’hip hop italiano in un’epoca storica definita dallo stesso Fibra
«il vuoto totale dopo la golden age». Già dal titolo, 60 Hz II è un’operazione nostalgia. Sfogliando la tracklist si percepisce infatti la volontà sfaccia di RocBeats di riportare in auge un proprio passato. Il disco, infatti, è colmo di parti due,
ovvero di brani che ripartono dal beat originale dell’epoca per darne
una nuova versione contemporanea. Per i fan della doppia H sentire
titoli come 60 Hz II, Rendez vous col delirio II (coi Club Dogo), Notte blu II (nell’originale del solo Frank Siciliano, qui con Gemitaiz e Ernia), Ghettoblaster II (con Stokka e Madbuddy oggi raggiunti da Jake La Furia e Izi) e Sempre grezzo II
(del compianto Primo, rivisitata qua da Tormento e Egreen) farà
scorrere un brivido lunghissimo a metà tra il dolce ricordo giovanile e
il terrore adulto di veder disonorata la storia. L’esercizio
stilistico di Shocca è riplasmare il (suo) passato del rap italiano
creando un dialogo diretto con ciò che fu, trasformando vecchie strofe
in scratch (come nel finale di Rendez vous col delirio II e Notte blu II),
interludi in pezzi veri e propri pezzi (“Roc ti giuro ti ringrazio /
rappo su sto interludio dal 2004 / 20 anni dopo sono in studio per
firmarti un classico” come fa notare Ensi in How We Roc, facendo riferimento a Quattro, interludio strumentale nel primo episodio di 60 Hz)
e portando i rapper a boxare con l’ombra del proprio passato tra strofe
e ritornelli ripresi alla lettera dalle versioni originali (accade in
tutte le versioni II). E fa strano in apertura del disco sentire
Madbuddy lanciarsi in “Odio i rapper bloccati nel passato perché i
ricordi sono come un sentiero di vetri rotti”. Simon Reynolds ha
spiegato molto bene questa tendenza contemporanea coniando il termine
retromania, ovvero l’idea che la cultura pop – tramite remix, ristampe,
sampling e revival – sia ossessionata dal proprio passato al punto da
diventare incapace di produrre qualcosa di davvero nuovo. «Viviamo in
un’epoca pop impazzita per il rétro e ossessionata dalla commemorazione.
[…] Il pericolo è che potremmo esaurire il passato stesso», scrive nel
suo celebre saggio Retromania del 2011, in cui la nostalgia
diventa qualcosa che paralizza e la retromania è il sintomo della
difficoltà della modernità nel pensare il futuro. Se per gli Uomini di
Mare nel 1999 Il domani è oggi, per il rap italiano il passato è oggi.
DJ Shocca, Club Dogo - Rendez Vous Col Delirio II
E se anche le nuove generazioni – vedi Santana Money Gang di Sfera Ebbasta e Shiva con le continue citazioni a Club Dogo (Guè inoltre ha di recente pubblicato KG Anthem con Rasty Kilo, una riedizione di Zona Uno Anthem
del 2010) e Marracash – iniziano a ripescare dal passato perdendo il
furente approccio iconoclasta, rifacendosi direttamente ai padri (vedi
che anche la volontà di Salmo di avere una figura storica come Kaos come
unico featuring nel suo ultimo disco Ranch), forse l’idea di
futuro portata avanti dal rap si è inceppata. Non è un caso che oggi
molti della next gen – Ele A, Nerissima Serpe, Kid Yugi – abbiamo
lasciato da parte la trap per tornare proprio a rappare, come si faceva
una volta, rima su rima, barra dopo barra.Se questa nostalgia
sarà solamente una fase ciclica, una moda che ritorna a 20 anni dagli
originali, o qualcosa che si è inserito in modo metastatico nello strato
sottocutaneo del rap italiano lo scopriremo ben presto. Nel primo caso
parleremo di un omaggio ai sopravvissuti alla storia gloriosa della
golden age. Nel secondo della fine della spinta propulsoria di quella
che sempre Fibra ha definito «l’unica rivoluzione musica italiana». La
sensazione, se dovessimo scommettere i celebri due centesimi, è che
anche il suono della strada è stato inghiottito dal suo stesso passato.
Sono d’accordo con chi raccomanda di controllare il linguaggio e di cercare di fare analisi piuttosto che sfogarsi tramite invettive morali ed inconcludenti: ritenere Netanyahu o Trump degli psicopatici, o Merz uno schifoso ipocrita, non aiuta a fare chiarezza (del resto era il gioco della propaganda occidentale nei confronti di Putin).
In realtà c’è una precisa strategia economica e geopolitica – corposissimi interessi – sottesa a quel che sta accadendo. Basta guardare i flussi dei commerci e delle finanze, le “vie economiche” tra Asia e Occidente, la dislocazione di energia e materie prime, ecc.
Tutto è complicato però da interessi contrapposti nel campo occidentale (la sopravvivenza economica degli Stati Uniti indebitati, il problema energetico e la mancanza di un soggetto politico unico sul fronte europeo, ecc.). Ma anche da divergenze nei Brics: il mondo, si dice sempre più spesso, è complesso. Mi pare che la posta in gioco – un mondo realmente multipolare dopo la parentesi monopolare di quest’ultimo trentennio, che qualcuno aveva immaginato, illudendosi, come “la fine della storia” e il trionfo della globalizzazione neoliberista – sia piuttosto chiara. Ciò non toglie che quando subentra la logica bellica – o meglio, quando la guerra si rivela per ciò che è nella sua essenza, ovvero la struttura profonda e l’intelaiatura dei rapporti internazionali e tra potenze, e non il puro fenomeno delle guerre guerreggiate – si manifestano accanto alla “razionalità” degli interessi, anche elementi irrazionali e nichilisti di cui occorre tener conto. Altrimenti sarebbe impossibile spiegare quel che è successo durante le due guerre mondiali, specie nel corso della seconda. La guerra è portatrice ad un tempo di elementi materiali, di interessi, di “razionalità”, e però insieme di ideologie distruttive e nichiliste. Le due forze vanno insieme, e le si vedono interagire anche nel linguaggio, negli attori collettivi e nei soggetti individuali (basti pensare ai fanatismi nazionalisti sempre pronti a risorgere). Economia e psicopatologia all’unisono, al servizio di un crescente delirio di onnipotenza. Ragion per cui le guerre si cominciano spesso al buio, senza sapere a quali terre ignote condurranno.
E' vero . pero l'essenza della guerra è << in quell’intreccio ambiguo tra calcolo e delirio, tra logica di potenza e pulsione nichilista, sta il cuore tragico della storia umana. Se la guerra è struttura profonda — come giustamente osservi — essa resta però anche uno spettacolo abissale della psiche collettiva, che nessun grafico commerciale può spiegare del tutto.>>( da https://upsidedown.wordpress.com/ ) . Avete entrambi ragione . Infatti “La politica è l’intelligenza della guerra”Carl Von Clausewitz da (Gian Enrico Rusconi, “Clausewitz, il prussiano“, Einaudi, Torino, 1999, pag. 16).Nel suo scritto più famoso, il “Della Guerra” (“Vom Kriege”), Von Clausewitz scrive esplicitamente: “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” (ibid.). ….da Guerra e politica di https://www.ultimavoce.it/
L’Italia è ricca di sorprese, naturali e non. Questa è sicuramente una di quelle: nel nord del Paese, esiste infatti un suggestivo santuario nato in onore di un eremita, che si dice abbia trascorso gli ultimi anni della sua vita con un orso “addomesticato”. Il santuario in questione è composto da cinque chiese, costruite nell'arco di 1.000 anni a ridosso di una ripida parete rocciosa e unite tra loro da una scalinata di 130 gradini. Magari sconosciuto ai più, questo luogo è comunque visitato annualmente da circa 200 000 pellegrini, ed è custodito da due frati dell'Ordine di San Francesco d'Assisi.
Il santuario dove un eremita “addomesticò” un orso
Il luogo sacro in questione è il santuario di San Romedio, che sorge su uno sperone di roccia nella Val di Non, nei pressi di Sanzeno, a poco più di due ora da Verona. È dedicato - com'è facile intuire - a San Romedio, un nobile bavarese vissuto tra il IV e il V secolo, che dopo un pellegrinaggio a Roma rinunciò a tutti i suoi beni per ritirarsi in eremitaggio con due discepoli in una grotta della valle. La leggenda racconta che, pronto a partire per far visita al Vescovo di Trento, Romedio chiese al suo discepolo di sellargli il cavallo. Quando il giovane tornò con la notizia che l’animale era stato sbranato da un orso, l’eremita, senza esitazione, gli ordinò di sellare l’orso, che docilmente si lasciò cavalcare. Da allora, la figura del santo è inseparabile da quella dell’animale. Quest'episodio è ricordato da una statua lignea posta accanto ad un arco trionfale all'ingresso del Santuario.
Il legame con l’orso, tuttavia, non è solo leggendario. Negli anni Cinquanta, grazie a Padre Marino Donini, fu creato un recinto adiacente al santuario per accogliere esemplari che non potevano più vivere liberi. Il primo ospite fu un orso siberiano di cinque anni, ex animale da circo. Quando, nel 1958, il circo decise di abbatterlo perché divenuto cieco da un occhio, il conte Gian Giacomo Gallarati Scotti si mobilitò per salvarlo e trasferirlo al santuario. Gli fu dato il nome Charlie, in onore del ciclista Charly Gaul, vincitore del Tour de France di quell’anno. Da allora, altri orsi si sono succeduti: un secondo Charlie, poi Chicco, Chicca, Jurka, e infine Bruno, un esemplare dei Carpazi arrivato nel 2013, che ha trovato in quel luogo una nuova vita.
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sono antifascista e contro le dittature . Ma questa polemica mi pare stupida ed iunutile . Infatti
<< non so se è più il caso di sorridere per un'iniziativa politica fuori dal tempo e dalla ragione, oppure esprimere sconcerto sulla richiesta censoria, che è comunque ridicola - espressione della moda del
'cancel culture' - di rimuovere la bandiera del Terzo Reich da un museo di storia in cui si rievocano le pagine dolorose della battaglia di Orsogna del 1943">> Così lo storico Marco Patricelli, esperto dell'Europa del Novecento e della Seconda guerra mondiale, interpellato sulla richiesta contenuta in una mozione del gruppo di opposizione consiliare del piccolo Comune.
<<in tanta raffazzonata retorica - spiega sempre all'ANSA - non si comprendono né la logica né la motivazione di togliere ciò che esprime esattamente e immediatamente il concetto e la storicizzazione dei fatti. Quella bandiera esprime compiutamente la feroce dittatura hitleriana, l'oppressione e l'occupazione nazista, e tutto ciò che ha rappresentato per Orsogna, per l'Abruzzo e per il mondo. Ed è la bandiera tedesca di allora, dello Stato di allora, che non si può né si deve né censurare né omettere né edulcorare. Non deve farlo certamente un museo, che per sua missione deve rispettare la verità storica, e non può farlo la politica per una distorta percezione del passato e del presente .Sono passati ben 22 anni (correva il 2003) - sottolinea sempre lo storico - da quando Orsogna ricordò, con una solenne e toccante cerimonia alla presenza degli ambasciatori di Germania e Nuova Zelanda, i giorni amari della guerra. Poi più nulla. Per il bene di Orsogna e della storia, amministratori davvero attenti dovrebbero riflettere e interrogarsi su queste omissioni della memoria, invece di coltivare e diffondere modaiole bagatelle da 'cancel culture' . Infatti essa è storia, è un museo ! Tutti hanno diritto di sapere e conoscere, nel bene e nel male. La conoscenza non va mai negata ! qui a differenza delle celebrazioni di Accalarentia e di Sergio ramelli on si tratta di un uso ideologico di tali effigi e simboli . L'ìideologia ormai ha offuscato i cervelli. Robe da non credere. Perchè non cancellare anche sui libri scolastici quel periodo e tutti i libri che descrivono l'ascesa e la rovina di quel regime e suoi alleati ? che richieste assurde , fa parte della storia e se esposto in um museo cosa c'e' di male . Limportante e che non sia usata per esaltare e strumentalizzare tali vecchie ideologie condannate dalla storia .
Il negozio-museo compie un secolo
«Abbiamo ancora una clientela fedele, qui si vendono lampadine e si parla del Cagliari»
Ci sono i grandi megastore dell’elettronica, quelli con le smart tv sempre più grandi e mille oggetti dei desideri di cui tanti sembrano non poter fare a meno. E poi c’è questo piccolo negozio con gli scaffali in legno, che odora di antico, con le abat jour vintage esposte a fianco ai ventilatori di ultima generazione, i lampadari che pendono sopra il bancone e, qua e là nelle vetrine, vecchi contatori, misuratori di corrente di varie epoche, una vecchia cassaforte, tracce della storia dell’ultimo secolo. Un secolo di vita In effetti quello dei fratelli Roberto, in viale Regina Margherita, è un po’ negozio di elettricità e un po’ museo. E infatti Piero Roberto, 57 anni, che rappresenta orgogliosamente la terza generazione della famiglia, al museo ci sta pensando davvero ora che l’attività ha compiuto un secolo e può vantarsi di essere il più vecchio della città L’iscrizione al “registro delle ditte”, esposta in una vetrina accanto a tanti pezzi storici, porta la data del
15 giugno 1925. Ad aprire l’attività fu Giovanni Roberto, perito elettrotecnico, secondo di sette fratelli originari del Monferrato, che iniziò a vendere materiale elettrico nell’orologeria aperta in via Barcellona dal padre Domenico, che si era trasferito a Cagliari a fine ‘800 dal Monferrato e nel 1884 aveva realizzato in città una delle prime stazioni telefoniche del Genio militare.Quando dal Pirmonte arrivarono anche Marco , Antonio e Pietro si miseri in proprio e aprirono il negozio in via Napoli, dove oltre a commerciare materiale elettrico riparavano in esclusiva le radio Philips, una delle marche di cui erano depositari per tutta la Sardegna. L’attività era fiorente tanto che l’azienda arrivò ad avere oltre dieci dipendenti. Negli anni ‘40 si trasferirono in via Sant’Eulalia, dove costruivano impianti elettrici per numerose imprese edili, riparavano motori e facevano manutenzione agli impianti militari tra cui le sirene d’allarme che si attivavano durante le incursioni aeree Riferimento sicuro Erano uno dei riferimenti sicuri della città, uno di quei negozi dove si trovava tutto, ma proprio tutto ciò che serviva. Il 4 dicembre del 1942 un aereo cadde sul palazzo dove aveva sede l’attività distruggendo i due piani superiori ma non quello dove aveva sede l’attività. Ma fu solo un segno premonitore perché nel maggio del ‘43 una bomba rase al suolo l’edificio, distruggendolo. La famiglia fu costretta a lasciare tutto e sfollare a Villanovafranca. Quando rientrarono a Cagliari, agli inizi del ‘45, dell’attività non restava più nulla. «Qui non c’è da piangere né da lamentarsi», disse il padre ai figli, «ricordate che i piagnistei e le lamentele non hanno mai risolto niente» Viale Regina Margherita Così fu: il negozio fu riaperto in viale Regina Margherita 24, dove ha sede ancora oggi e dove ogni angolo racconta un pezzo di una storia lunga. Piero Roberto lavora dietro quel banco da quando aveva 19 anni e aveva appena finito l’istituto professionale, al Meucci. Assieme a lui ci sono i figli Federica, 29 anni, e Filippo, 23. Resistono, nonostante tutto, forti della loro storia e di un nome che in cento anni non si è mai sporcato. «La grande distribuzione e Amazon ci hanno portato via parte del lavoro ma a penalizzarci di più sono i parcheggi a pagamento», spiega Piero che, fedele all’insegnamento del padre e del nonno, non si lamenta. «Abbiamo una clientela fedele».In questo spazio di fronte a Sa Manifattura c’è una tradizione che si rispetta, qualsiasi cosa accada, e che prescinde da prese elettriche, batterie e applique. «Il lunedì si commenta il risultato del Cagliari. Lo facciamo prima io e Filippo (che mostra orgoglioso un tatuaggio con lo stemma dei rossoblù), poi con i clienti, molti dei quali sono anche amici». Del resto ciò che da un secolo tiene in piedi questa attività è la competenza, certo, ma anche i valori, quelli sani, che trasudano da queste pareti antiche
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La caduta dal ponteggio, 45 minuti a terra prima dei soccorsi: «Sono un miracolato»
Gianluca Deiana, 55 anni, nel febbraio 2024 è stato coinvolto in un grave incidente sul lavoro a Cagliari. Il suo racconto
Gianluca Deiana ed Elisabetta Spano
«Lavoravo come muratore, in un cantiere a Cagliari - racconta - era febbraio del 2024. Il ponteggio lo avevamo già montato da tempo e stavamo sistemando la facciata». Sennonché «in quel momento, mancava poco alle 13, ero solo e ricordo che ho saltato un piccolo gradino, dal balconcino alla pedana per prendere l’attrezzatura e andare via». Dopo è il buio, «non ricordo niente se non che verso le 13.45, dopo avere perso i sensi, ho ripreso conoscenza. Sono rimasto buttato in terra sull’asfalto per 45 minuti. In quell’arco di tempo in strada non è passato nessuno, nemmeno persone a passeggio con il cane. Forse perché era l’ora di pranzo, forse è stata una fatalità, non so». Quando si risveglia arrivano il titolare dell’impresa e un suo collega. «La mia situazione non gli era sembrata grave, non hanno chiamato l’ambulanza ma mi hanno caricato in macchina e mi hanno portato in ospedale al Policlinico. Io c’ero e non c’ero. Ricordo che avevo dolori lancinanti ovunque, avevo capito di essere fratturato».
Le emorragie cerebrali
Prima di entrare in ospedale Deiana resta in auto a lungo. «Fino a quando sono arrivata io», interviene la moglie Elisabetta Spano, «sono entrata di corsa a cercare un medico e ho detto: “Venite perché mio marito sembra Gesù tolto dalla Croce”. Era in condizioni pietose, il volto tumefatto, non riusciva a muoversi. Sono corsi ed erano allibiti che non fosse arrivato in ambulanza. L’hanno portato dentro e sono rimasti con lui otto ore di fila».Le condizioni sono critiche: due emorragie cerebrali frontali, lesioni a entrambe le rotule, frattura del perone, del malleolo e quella del polso «che non potrà recuperare». Da lì il calvario: tre operazioni, la fisioterapia. «Dovrei operare anche la mandibola ma sono in attesa». La fisioterapia l’ha fatta a pagamento: «Mi dovevo rimettere in piedi subito e c’erano liste d’attesa lunghissime». Piano piano la rinascita, «ho capito che mi dovevo rimettere in piedi e ci sono riuscito. Sono un miracolato. E pensare che quella mattina avrei dovuto accompagnare io il titolare a prendere del materiale, invece poi era andato il mio collega».
L’epilogo
E a marzo Elisabetta Spano e Luca Deiana, che fino a sabato scorso era obriere della cappella di via Porcu, si sono sposati. «Quando ero lì in ospedale, nonostante dieci anni di convivenza con Luca io in pratica non ero nessuno - dice Spano - Non mi davano notizie, non potevo decidere niente. Così abbiamo deciso che dovevamo regolarizzare tutto». E ricominciare a vivere.
È notte a Miramar, in Messico. Un’auto accosta vicino alla spiaggia. La portiera si apre. Un cane viene spinto fuori a forza. Abbaia, guaisce. I suoi lamenti si perdono nel buio, mentre l’auto riparte. Fredda, dura. Il cane le corre dietro per un tratto. Poi si ferma smarrito, si guarda intorno, annusa l’aria. Un profumo, un rumore, qualcosa lo riporta verso spiaggia. Si accuccia nella sabbia e si addormenta.
Quando il sole sorge il cane è ancora lì. Circondato però da alcune tartarughe. Le annusa, prova a giocare colpendole con le zampe. Le tartarughe battono in ritirata nel guscio. Di tanto in tanto allungano la testolina, danno una sbirciata, qualcuna si fa coraggio e avanza verso l’acqua. Il cane le segue. Non abbaia, non le disturba. Le guarda immergersi fino a scomparire.
Intanto la spiaggia inizia ad animarsi. I bambini accarezzano quel cane sbucato dal nulla, gli danno qualcosa da mangiare. Dei volontari provano a portarlo via, in un posto sicuro. Ma il cane torna sempre su quella spiaggia. Dalle tartarughe. Allontana chi dà loro fastidio. Le difende dai predatori. Resta accucciato, in disparte e in allerta, mentre le uova si schiudono e le piccole tartarughine iniziano la loro corsa verso l’oceano. Il cane le scorta lungo tutto il percorso. E guai a chi osa avvicinarsi. Si assicura che i piccoli animaletti arrivino sani e salvi tra le onde.
Di giorno in giorno, le persone che frequentano il posto assistono incredule al nascere di quell’insolita amicizia. Chiamano il cane Solovino, fanno in modo che abbia cibo, acqua, coccole. Il necessario per vivere, senza allontanarsi dalla sua nuova casa.
Oggi Solovino ha una famiglia che si prende cura di lui. Proprio come lui continua a custodire le tartarughe della spiaggia di Miramar. Per tutti gli abitanti è un simbolo di rinascita, un paladino dell’ambiente. Il cane abbandonato, protettore dei più deboli. Un’altra meraviglia della natura.
Avevamo già parlato dell’epopea dei Bissiri Caredda e del visionario Augusto, causa scatenante dell’emigrazione della sua famiglia da Seui alla lontana California. Oltre ai successi professionali nel mondo della tecnica, della pubblicità, della scienza e della letteratura i Bissiri non avevano tardato a inserirsi perfettamente nel variegato mondo della multiculturale Los Angelese parteciparono attivamente alle attività di diverse associazioni. Oggi parliamo diAmelia, la generosa, quanto sfortunata, ragazza che si spese per dare aiuto e conforto agli emigrati europei che dopo estenuanti viaggi e mille peripezie raggiungevano la Città degli angeli con il sogno di una vita migliore e di un lavoro dignitoso .
Forse non era poi tanto diverso da oggi quel 1915. In Europa divampava una sanguinosa guerra che presto avrebbe coinvolto anche il Regno d’Italia e negli Stati Uniti l’opinione pubblica era spaccata fra quanti, soprattutto dopo l’affondamento del transatlantico Lusitania ad opera di sommergibile tedesco, invocavano l’ingresso in guerra attraverso una feroce campagna interventista che passava anche dal cinema, con il film ‘The Battle Cry of Peace’, un dramma di propaganda antitedesca del regista Stuart Blackton e chi invece sosteneva ad oltranza il neutralismo e la pace.
Amelia Bissiri ( Archivio privato Jeffrey Bissiri – Los Angeles)
Sul fronte dell’emigrazione, che negli anni della guerra avrebbe avuto un significante calo, non si era ancora arrivati a un provvedimento per ridurre i flussi di disperati in arrivo dall’Europa come l’ Emergency Quota Act del 1921, ma da tempo le proteste contro l’emigrazione incontrollata tenevano banco in tutti gli States prendendo di mira gli WOP, i without passport e in particolar modo i “macaroni” e i “dagger”, i disonesti italiani del meridione dal coltello facile. Il ragionamento di chi si opponeva all’accoglienza degli emigrati era molto simile a quello dell’attuale presidente statunitense Donald Trump che poche settimane fa ha dichiarato che non permetterà “che gli Stati Uniti siano distrutti da migranti illegali e criminali del Terzo Mondo” o a quello del governatore democratico della California Gavin Newsom che ha proposto di togliere l’assistenza sanitaria gratuita agli immigrati irregolari.
Nel primo Novecento raggiungere gli Stati Uniti dalle sponde dell’Europa passando per Ellis Island era un impresa difficile, arrivare sino alla west cost e nelle città di Los Angeles e San Francisco complicava ulteriormente le cose. Fu così creato un comitato di soccorso alle colonie di immigranti provenienti da Italia, Spagna e Francia al quale avrebbe aderito a Los Angeles una giovane e intraprendente ragazza sarda, Amelia Bissiri da Seui. Amelia era l’unica femmina sopravvissuta nell’estesa famiglia Bissiri Caredda, le sorelle Amalia, Ada e Aida erano morte ancora in tenera età. Negli U.S.A aveva avuto modo di diplomarsi, seppur tardivamente, alcollege e di studiare lingue alla University of Southern California, la stessa dei fratelli Alfio e Augusto, dove si laureò nel 1920 con una dissertazione sull’estetica diRamón María del Valle-Inclánper poi andare a insegnare lingua spagnola al Pasadena City Schools e al Polytechnic High School. Agli inizi del 1915 Amelia Bissiri partecipa attivamente alle iniziative dellaWoman’s Home Missionary Society del quartiere di Westlake, dove conosce e abbraccia la causa della chiesa metodista e dove spesso, in un mondo a prevalenza maschile, viene chiamata in qualità di conferenziera ed è nell’Istituto Internazionale per il soccorso per gli immigrati, nata in seno alla stessa associazione, che riesce ad accattivarsi la stima e la simpatia dei bisognosi. La colonia di emigrati, dove prevalgono gli italiani, è abbastanza nutrita, circa novemila persone, fra le quali sono moltissime ad aver bisogno di aiuto.Amelia è in prima linea per procurare cibo e vestiario, assistere gli ammalati, badare ai neonati mentre le madri sono a lavoro ed aiutare le persone a trovare un’occupazione. Sfruttando a pieno la sua dimestichezza con le lingue, mette le sue competenze a disposizione dellaYoung Women’s Christian Association, organizzazione internazionale no profit ancora esistente che che si concentra sull’emancipazione, la leadership e i diritti delle donne, negli uffici di 1315 Pleasant Street dove assieme alle colleghe, in tre parlano otto lingue diverse, sotto la direzione di Miss Sue Barnwell, tiene i corsi di inglese per le ragazze straniere, agevolandole così nella ricerca di un impiego.
L’incontro del Circolo Filologico che celebra Amelia Bissiri raccontato da ‘L’Unione Sarda’
Il suo operato non passa inosservato e il suo nome finisce ben presto fra le colonne dei giornali che ne lodano l’impegno e le qualità e le notizie che la riguardano rimbalzano presto oltre l’Atlantico, sino a Cagliari, dove l’Università Popolare nata sulle ceneri del Circolo filologico la celebra durante un’incontro sociale ed esalta le gesta di quella giovane sarda “dagli occhi bruni”. Il percorso di Amelia, come del resto quello dei suoi fratelli, in particolare Augusto e Amerigo, prosegue fra l’esercizio della professione, l’associazionismo e il volontariato per i più bisognosi, ma la sua grande generosità e il suo disinteressato altruismo non sono ricambiati dalla corrispettiva dose di fortuna.Muore prematuramente a Los Angeles a soli 35 anni, era nata a Seui il 22 settembre del 1888 e diventata cittadina statunitense nel 1917. Riposa al Grand View Cemetery di Glendale nella Città degli Angeli che la volle come figlia adottiva. La sua storia andrebbe ulteriormente approfondita, come quella della sua famiglia e di Augusto, l’uomo che sognava il futuro, pensandolo, come la sorella, probabilmente migliore di quello del 1915,non potendo immaginare che invece, oltre un secolo dopo, la guerra ancora avrebbe scosso l’umanità e molti migranti avrebbero avuto ancora bisogno di tante altre Amelia.
Manifestazione Rete donne per la pace - Cagliari, 26 giugno 2025 - Foto di Pierpaolo Loi
L’appello alla giornata del 26 giugno, lanciato dalla “Rete Donne per la Pace”, è stato raccolto in Sardegna dai gruppi femministi e dalle organizzazioni della società civile, con l’adesione di 22 associazioni e ben tre manifestazioni territoriali: a Sassari, Oristano, Cagliari. Nata dall’idea di alcuni gruppi femministi e dalle Donne in Nero, che già svolgevano presidi localmente, l’idea di 10 – 100 – 1000 piazze è stata contagiosa.
Si dichiarano “donne per la pace e per un futuro senza violenza” e hanno deciso di unirsi “perché la pace non è un’utopia lontana, né un fatto privato o diplomatico. La pace è una pratica collettiva, un atto politico quotidiano, un bene comune da costruire, qui e ora.” Forse sta qui la necessità di autoconvocarsi delle donne, per dare un accento e un senso di genere al bisogno di pace dei popoli, per dare una sensibilità e un’autorevolezza in più alle richieste di fermare l’escalation bellica. Ma come?
Provo a chiederlo a Cagliari, a qualcuna delle partecipanti al presidio delle donne in piazza Costituzione, alcune centinaia, nella serata afosa, sotto il Bastione Saint Remy.
Ci sono state tante manifestazioni contro la guerra e il riarmo e per la pace, perché avete sentito il bisogno di autoconvocarvi e qual’ è l’apporto più forte, l’aggiunta più significativa che le donne possono dare per la pace?
Le donne hanno un rapporto speciale con la pace, – afferma Angela – innanzitutto perché possono essere madri e quindi hanno un senso di protezione per la vita e non vogliono vedere figli morti in guerra. Inoltre sono più abituate a tessere, a costruire relazioni, mentre la guerra non fa che distruggerle.
Secondo Valeria, sono le donne che danno la vita e che la tengono più a cuore. Concetto ribadito da altre partecipanti, tra cui Pinella, che puntualizza:
Nella Storia le donne sono state meno complici della guerra, rispetto agli uomini. Hanno un rapporto fisico con la vita e non accettano che diventi carne da cannone. –
Per Marta, le donne, storicamente, – non hanno mai avuto voce in capitolo sulla guerra, né sulle più importanti decisioni di potere, né nelle pratiche repressive.Perché i corpi delle donne sono i primi a diventare terra di conquista. Sarebbe una contraddizione umana per le donne, contribuire alla guerra. –
Essendo creatrici della vita, hanno più a cuore la cura della vita e una sensibilità speciale per la sofferenza. – (Bernarda)
Il femminicidio è l’espressione ultima della guerra. – (Luisa).
Anche secondo Raffaella: – le donne hanno sempre avuto una capacità di mediazione nei conflitti della vita di tutti i giorni, capacità di ascoltare, di reagire, di trovare soluzioni. –
Sembra quindi che le donne, anche in quanto generatrici, si sentano in qualche modo custodi della vita e quindi agli antipodi con la guerra, le armi e gli assassinii. Inoltre sentono di aver potenziato capacità relazionali più prossime all’empatia e allo spirito di cura per l’ambiente e per l’altra persona. I temi della sensibilità alla cura dei rapporti e dell’attitudine all’ascolto della sofferenza, depurati dagli stereotipi convenzionali, sembrano dare almeno in parte una risposta alla nostra domanda.
Cagliari, manifestazione del 26 giugno al Bastione Saint Remy – Foto di Pierpaolo Loi
Durante il sit-in di Cagliari si sono svolte delle letture di poesie o di brani e gli interventi dei rappresentanti delle associazioni aderenti alla rete, compresa una giovane rappresentante dell’associazione in solidarietà con la Palestina, che ha ricordato ancora una volta il genocidio in atto. Particolarmente interessante la partecipazione di un folto gruppo di giovanissime, appartenenti al “Collettivo Sregolate”, che hanno letto poesie e mostrato pensieri e vignette satiriche.
La ricerca della pace, quella vera, costruita sulla parità tra i generi, sulla giustizia sociale e sul riconoscimento dei diritti dei popoli, avrebbe bisogno del coinvolgimento delle donne in tutto il mondo, proprio perché le donne sono spesso il primo bersaglio della violenza, dagli stupri di guerra a quelli casalinghi, sino al femminicidio.
La guerra crea paura ed aggressività, genera violenza a trecentosessanta gradi e questo si ripercuote sulle donne, specie quelle appartenenti agli strati sociali più deboli, o ai popoli colonizzati.
Siamo con loro, non solo per spirito di solidarietà, ma nella convinzione che è dal crescente impegno delle donne che potrà estendersi una cultura della pace in tutto il mondo, che possa contrastare la guerra e i suoi sporchi interessi egemonici ed economici.
Foto di Pierpaolo Loi
Concludo con un estratto dell’intervento di Afra:
Ci dicono che l’eroe è colui che uccide. Noi diciamo che l’eroe è che si rifiuta di obbedire. Ci dicono che i maschi devono essere forti, violenti, armati. Noi diciamo che la vera forza è spogliarsi della divisa, disertare, prendersi cura.
Perché il patriarcato uccide anche gli uomini. Li obbliga a combattere. A odiare. A morire. E mentre sopra le nostre teste passano droni e bombe intelligenti, noi resistiamo con un’intelligenza più antica: quella dell’empatia, della memoria, della comunità. Perché la guerra è macchina, è gabbia, è imposizione. La pace , invece, è un processo collettivo, liberante, transfemminista. E non ci sarà pace finché una sola persona sarà oppressa in nome della patria, del genere, della razza o del denaro.-
da https://www.valigiablu.it/
Georgij* ha 28 anni, ne dimostra meno. Sorride con gentilezza, parla
un francese incerto, ma efficace. Lo incontro in un pomeriggio di aprile
insieme al suo compagno, Sergej*, 30 anni. Sono arrivati in Francia
grazie all’associazione Russie-Libertés, che insieme ad altre in Europa, come inTransit in Germania, si occupano di sostenere l’opposizione russa. Georgij è un primo tenente dell’esercito russo. È entrato
nell’esercito nel 2017: dopo la laurea all’Istituto di fisica e
tecnologia di Mosca gli viene proposto di integrare l’arma per il suo
servizio militare, continuando a fare quello per cui stava studiando, il
programmatore. La famiglia lo sostiene: poteva essere l’inizio di una carriera
militare, che significa un posto e uno stipendio sicuro. Inoltre
lavorando nei servizi informatici ci sono diversi vantaggi pratici: un
lavoro di ufficio, niente operazioni sul campo e niente armi per
esempio. L’anno successivo, alla fine del servizio di leva, l’esercito gli
propone di firmare un contratto per cinque anni, "promettendomi che
nulla sarebbe cambiato nelle mie mansioni”. Invece, poco dopo, gli
comunicano che il posto per il quale è stato assunto non esiste più, che
sarà collocato altrove, ripetendogli che in ogni caso, è impossibile
sciogliere il contratto prima della fine.Da lì sono cominciati i conflitti con i superiori, per questioni
anche banali. A questo si aggiunge il fatto che Georgij è omosessuale,
un anatema in un paese dove l’omofobia è politica di stato. In Russia
una prima legge contro la "propaganda LGBT+" è stata approvata nel 2013;
nel 2022 la legge è stata rafforzata, con gravi conseguenze per i
militanti e le associazioni omosessuali. “Già in quel momento mi sentivo
in contraddizione con la politica interna del paese, con i valori
dell’esercito, dove è obbligatorio sostenere lo stato”, racconta
Georgij.Nel 2021 scrive una prima lettera ufficiale di dimissioni. Respinte.
Il motivo: “è impossibile lasciare l'esercito” prima della fine del
contratto. Seguono altre lettere, documenti, rapporti. “Tutte le mie
domande venivano ignorate”, spiega. Georgij ha tentato l’assenteismo, ha
poi dimostrato – con un certificato di uno psichiatra che gli
diagnosticava una depressione – che non poteva restare. La verità,
spiega, è che non c’è soluzione. A un certo punto viene convocato. Esiste una possibilità per lasciare
l’esercito: una procedura giudiziaria, un processo quindi. Un dossier a
suo nome, che lo accusa di furto e corruzione, è già pronto. L’uscita
dall’esercito è quindi possibile, ma per andare in carcere. Non c’è
soluzione. Una prima svolta avviene il giorno dell’invasione su larga scala
dell’Ucraina, il 24 febbraio 2022. “Mi ricordero’ sempre di quel
mattino: ero in metro e ho visto i bombardamenti in Ucraina dal mio
smartphone”. Fino quel momento non aveva nemmeno realizzato cosa stesse
succedendo: la sua depressione si faceva sempre più profonda. “Il giorno
successivo c’era una manifestazione contro la guerra a Mosca” e,
nonostante il suo status di militare glielo proibisse, è andato, “per
mostrare che chi è contro non è da solo”. Georgij non ha troppi ricordi
della primavera che è seguita: “Ho cominciato a bere davvero tanto; sono
diventato alcolizzato”. Nel giugno dello stesso anno viene assegnato a una missione che
consiste nel lavorare sui dossier dei combattenti volontari per la
guerra in Ucraina: aveva quindi accesso ai dati di coloro che si
arruolavano spontaneamente. Lo scarto tra i numeri che aveva sotto gli
occhi e il discorso politico era stridente: “Mi sono reso conto che non
solo i miei amici e i miei conoscenti sono contrari alla guerra e non
sostengono la politica del paese, ma vedevo anche tutti quei numeri, che
erano davvero gonfiati dai dati ufficiali”.Le forze armate russe hanno quattro principali fonti di reclutamento:
la prima sono i coscritti, gli uomini che devono prestare servizio
nell'esercito per un anno. Il secondo gruppo è composto da “soldati a
contratto” che hanno accettato di partecipare firmando un contratto con
il ministero della difesa. Ci sono poi le persone mobilitate dal decreto
di Vladimir Putin del 21 settembre 2022 per combattere in Ucraina e,
infine, i “volontari”, ovvero persone che hanno deciso volontariamente
di partecipare ai combattimenti, tramite organizzazioni di volontariato
affiliate al ministero della difesa, tra cui società militari private,
spiega un’analisi di Yuri Fedorov,
specialista di questioni militari e politiche russe per l’Istituto
francese di relazioni internazionali (Ifri) e giornalista in Repubblica
Ceca. E proprio del decreto di Putin mi parla Georgij: questo stabiliva
anche che coloro che già hanno un contratto con l’esercito se lo
vedranno prorogare “fino alla fine della guerra”. A questo punto,
spiega, “ho capito che avevo poche opzioni: sapevo che sarebbe arrivato
il mio momento, o la guerra o il carcere”. Anna Colin Lebedev
è docente e ricercatrice in scienze politiche: il suo lavoro si
concentra sul rapporto tra cittadini e stato nelle società
post-sovietiche. Dopo l'invasione su larga scala dell'Ucraina, ha
pubblicato Jamais frères ? (“Mai fratelli?”, Seuil editore, 2022), un'analisi delle somiglianze e delle differenze tra la società russa e quella ucraina.Colin Lebedev mi spiega la questione delicata e dolorosa dei
coscritti, ovvero dei giovani che effettuano per la prima volta il
servizio militare obbligatorio. Se formalmente rimane un tabù per il
Cremlino, alla luce delle campagne che le madri dei soldati hanno fatto
in Russia soprattutto durante la prima guerra in Cecenia, la legge autorizza l’invio di questi giovani uomini sul fronte (un decreto di Eltsin che lo vietava è poi stato abolito). Per essere inviati in guerra, non devono formalmente essere
"coscritti" ma “soldati”. Cosa significa? “Hai 18 anni e ricevi una
convocazione per il tuo servizio militare di un anno. Prima ci volevano
almeno quattro mesi affinché ti proponessero di firmare un contratto.
Oggi avviene fin dal primo giorno”, spiega Colin Lebedev. “Si tratta di
giovani che non hanno mai tenuto un’arma in mano”. Se firmano un
contratto si ritrovano a essere dei dipendenti del ministero della
difesa con un contratto a tempo indeterminato, ovvero fino alla fine
della guerra. E questo trasforma lo status di questi giovani, da
coscritti a “militari sotto contratto”. La magia è fatta: non ci sono
coscritti sul fronte.Oppure, prosegue Colin Lebedev, sono inviati, “nelle zone frontaliere
o in quelle di Cherson o Zaporizhzhya”. Visto che il governo “le
considera Russia”, questi giovani ufficialmente non hanno mai lasciato
il territorio nazionale. Ma di fatto sono sul fronte e combattono. E
muoiono. Si tratta, insiste Colin Lebedev, di un pubblico particolarmente
vulnerabile: prima c’è la pressione della società e della famiglia, per
cui un uomo deve servire l’esercito; in più a 18 anni, si tratta di
persone non hanno mai lavorato per un vero stipendio, e gli vengono
offerte somme che paiono esorbitanti. Inoltre, “non hanno alcuna
possibilità di comunicare con gli avvocati, con i loro cari. E gli
ufficiali esercitano una forte pressione. Questo significa che non si
tratta di persone che vogliono prestare servizio, ma che sono messi in
una situazione in cui non possono non farlo”, dice. L’esercito recluta soprattutto nelle classi sociali più in
difficoltà, aggiunge Colin Lebedev: “Innanzitutto perché quando si è
studenti all’università, si è esonerati per la durata degli studi. Chi
finisce nell’esercito a 18 anni sono persone che non proseguono gli
studi. Poi, l’esercito recluta soprattutto nelle piccole città, dove è
più complicato nascondersi; inoltre, più si è poveri, meno possibilità
si hanno di corrompere i militari o di comprare un certificato medico. E
nelle famiglie più povere l’esercito è ancora visto come un modo per
uscire dalla miseria”.
O la guerra, o il carcere. O l’esilio
Tutto succede velocemente per Georgij: “Pochi giorni dopo
[l’invasione su larga scala] ho ricevuto l’ordine di lasciare il mio
posto nell'amministrazione e di presentarmi al punto di raccolta con le
mie cose per essere spedito non si sa dove – perché non te lo comunicano
– né per quanto tempo”. Che fare? O la guerra,
o la prigione, oppure “trovavo un modo per lasciare l'esercito, perché
era fuori discussione che partecipassi a tutto questo”. Alla fine sceglie l’esilio. “Sono andato da Sergej, per avvertirlo
che sarei partito. Ero convinto che non lo avrei mai più rivisto”,
racconta Georgij rivolto al suo compagno, seduto accanto a lui. Georgij
ha preso un treno fino in Siberia, poi un tassista, con cui lo avevano
messo in contatto, l’ha aiutato ad attraversare la frontiera con il
Kazakistan, dove è arrivato tre giorni dopo. Ha avvertito Sergej, che in
seguito ha lasciato il suo posto di professore di storia e la sua vita
in Russia per raggiungerlo. Il Kazakistan, insieme ad Armenia, Kirghizistan e Bielorussia, sono
paesi politicamente vicini al Cremlino, dove i russi possono recarsi con
il solo passaporto interno (l’equivalente della nostra carta
d’identità). I militari spesso non hanno il passaporto internazionale,
che viene loro confiscato quando entrano nell’esercito: per uscire dal
paese devono ottenere l'autorizzazione dei loro superiori e/o dei
servizi segreti. Il Kazakistan quindi non è un posto sicuro per un soldato russo che
ha disertato. E Georgij non aveva contatti. Il giorno del suo arrivo non
c’erano posti per dormire negli alberghi e negli ostelli e ha chiesto
informazioni alla ragazza che teneva il chiosco dove ha comprato una
sim card. La ragazza si è offerta di ospitarlo, forse perché ha capito
la sua situazione. “È stato meraviglioso; sorprendente e commovente”,
dice con un sorriso.All'inizio Georgij non diceva di essere un disertore – per il quale
c’è un mandato di arresto federale – ma raccontava di essere scappato
alla mobilitazione, e ha trovato un lavoro in una fabbrica. Nel gennaio
successivo la polizia è venuta al nostro appartamento, racconta Georgij.
“Abbiamo guardato come scappare dal balcone del terzo piano”, aggiunge
ridendo Sergej. Nel frattempo andavano trovate soluzioni: Sergej passava
le giornate a contattare associazioni e ong per capire come poter
essere al sicuro e cosa fare.
Addio alle armi: come disertare
Nel maggio del 2023 vengono convocati dal Kazakhstan International Bureau for Human Rights and the Rule of Law (KIBHR)
dove incontrano Aleksander, che nel frattempo ci ha raggiunto al nostro
appuntamento e si siede a fianco di Sergey. Aleksandr ha 26 anni ed è –
era – un tenente dell’esercito russo.“A 18 anni sono entrato all'accademia militare e la politica ha
iniziato a toccarmi, personalmente". Aleksandr elenca diversi esempi:
“Lavoravamo in cucina e la data di scadenza della carne che mangiavamo
era del 1990. Perché mangiamo prodotti così scaduti?”. Oppure, prosegue,
quando “ho saputo lo stipendio dei nostri professori, che guadagnavano
tra i 15 e i 17mila rubli, ovvero 150-170 euro. Come può la nostra
istruzione essere buona con gente pagata così poco?. Per cui ti chiedi
dove finiscono i soldi – tanti – che vengono inviati alla nostra
Accademia. E li ti fai delle domande. E YouTube mi ha dato una risposta:
ho guardato, in particolare, i canali dell'opposizione russa. E ho
pensato che fosse possibile.” Insieme ad altre persone incontrate al KIBHR, Sergej, Georgij e
Aleksandr, hanno iniziato a discutere di cosa poter fare, politicamente.
Aleksandr e Sergej hanno avuto l’idea di creare un progetto mediatico
per rivolgersi in particolare ai militari, per raccontare la loro storia
e mostrare che è possibile lasciare l’esercito. Una sorta di
“contro-propaganda per disertare”, mi spiegano. Il progetto si chiama Farewell to arms/Прощай, оружие – “Addio alle armi”. “Non potevamo tacere, bisognava fare qualcosa. Per noi è essenziale
dare la parola alle persone che lasciano l’esercito e spingere chi ha un
dubbio ad andarsene”, dice Aleksandr. “In fondo è semplice. Noi siamo
ciò che consumiamo, che mangiamo, ma anche quello che ascoltiamo e che
vediamo. E questa è la forza della propaganda, in fin dei conti”.
Secondo Sergej “è più semplice per un militare parlare ai militari, è
più facile che lo ascoltino invece di un difensore dei diritti o di un
cittadino qualunque”.Farewell to arms ha un canale Telegram e uno YouTube.
Raccontano le storie di chi diserta, spiegano come disertare, scrivono
lettere ai prigionieri politici perché se le prigioni le ricevono è un
segno per il potere che qualcuno si ricorda delle persone, ed è meno
facile farle sparire. “All’inizio della guerra nell’esercito russo non
c’erano così tante persone che erano davvero ideologicamente pronte per
questo conflitto. Erano pochissimi quelli che la pensavano come la
versione ufficiale, secondo cui in Ucraina c'erano i nazisti e che
dovevamo liberarli. C'erano persone che seguivano degli ordini, ma in
realtà non erano d'accordo con questa ideologia”. Ed è a loro che
Farewell to arms si rivolge. “Si, andiamo contro la legge, ci prendiamo
la responsabilità delle nostre azioni: è importante che in Russia si
sappia che i disertori esistono, che c’è un’altra strada possibile”,
spiega Aleksandr. Aleksandr dice che ogni persona che li contatta viene verificata per
ovvie ragioni di sicurezza. “Lungo la linea del fronte russo/ucraino ci
sono dei campi dove vengono rinchiusi i militari che cercano di
scappare”, aggiunge.Trovo una conferma nell'analisi di Yuri Fedorov,
che riporta la testimonianza di un soldato russo: “La punizione più
comune consiste nel rinchiuderli in una grande fossa a cielo aperto,
dove vengono mandati per vari reati: consumo di alcol, conflitti con i
superiori, abbandono del posto senza permesso. A volte un soldato viene
gettato in uno scantinato, di solito in edifici abbandonati, come una
scuola o un ospedale, per essersi rifiutato di combattere, e lì viene
torturato. Dopo un mese in questo tipo di ‘cella’ e in condizioni di
detenzione così disumane, andrete dove vi diranno di andare”.Secondo i mezzi d’informazione russi dal dicembre 2024 il personale
delle forze armate russe è aumentato fino a raggiungere quasi 2,4
milioni di unità, di cui 1,5 milioni sono militari. Il 31 maggio 2024,
il ministero della difesa britannico ha rivelato che il numero totale dei soldati russi uccisi e feriti dall'inizio della guerra era di 500mila persone.Si tratta di dati e stime che diversi siti e media indipendenti
cercano di verificare. Secondo Fedorov questo numero potrebbe aggirarsi
tra 330 e 525mila uomini. Il numero dei disertori, sempre incrociando
dati difficili da verificare, era secondo lui, tra i 30 e i 40mila solo
nel 2023. Come spiega
Regard sur l’Est, rivista che riunisce diversi esperti del settore, nel
2023: “Le autorità russe avrebbero lanciato la versione beta di una
banca dati che raccoglie le persone soggette al servizio militare e/o
mobilitabili” per consentire al governo di aumentare i controlli e
“impedire a coloro che desiderano sottrarsi agli obblighi militari di
attraversare le frontiere (dall'inizio della guerra sarebbero tra
500mila e un milione)”. Colin Lebedev, per precisione, aggiunge che in realtà mettere numeri è
davvero complicato sulla Russia di oggi: “Il problema che abbiamo con
l'esercito russo è che diffonde dati ufficiali che non hanno molto a che
vedere con la realtà. Vale a dire che quel numero [l’esercito di un 1,5
milioni di unità] è l'obiettivo. È così che l'esercito russo vede se
stesso”.Chiedo cosa rappresenta economicamente fare quello che hanno fatto
Aleksandr, Sergej e Georgij. Aleksandr è sorpreso dalla mia domanda,
dice la sua espressione: “Non ci siamo mai posti la questione dei soldi,
avevamo solo due scelte: lasciare la Russia e restare vivi, oppure
andare in prigione, e comunque, oggi, anche in carcere reclutano,
quindi, qualunque cosa succeda, dalla prigione finisci comunque in
guerra”.