9.10.11

La pastora, i silenzi e la politica tra lacrimogeni e scontri di piazza

Unione  sarda  del 9\10\2011di GIORGIO PISANO


Cosa fosse un lacrimogeno l'ha capito una mattina dell'anno scorso in via Roma, a Cagliari. La polizia era schierata in assetto antisommossa. E lei - madre di famiglia - guardava con curiosità, quasi fosse in televisione, una scena che non la riguardava. Distante, lontana. Confusa tra i manifestanti, tutti con la stessa maglietta azzurra del Movimento pastori, si sentiva intoccabile, irraggiungibile, sicura. D'un tratto un sibilo ha spezzato il silenzio «e io mi sono ritrovata questo coso tra i piedi, dentro una nuvola di fumo acre». Respirava a fatica ma ha provato a reagire, calpestarlo, allontanarlo con un calcio. Poi ha capito cosa prescrive la tattica del popolo blu in questi casi: ritirata. Ritirata velocissima tra le stradine che circondano il Consiglio regionale e i poliziotti, zavorrati nello scafandro d'ordinanza, dietro. Urla, respiro corto, il frastuono dei passi assordante come quello di una mandria.Graziella Ninu, 44 anni, di Silanus, ha scoperto all'improvviso una faccia sconosciuta della vita. Dieci anni prima aveva dovuto imparare a mungere, diventare giorno dopo giorno, e in fretta, pastora. Pensare che aveva alle spalle studi al liceo scientifico e il sogno (mai abbandonato) d'una laurea in Lettere classiche. Il destino le ha cambiato copione in un lampo. Oggi ha due figlie, un marito (Pietro) che lavora in una coop, presente e futuro di guerra: nel senso che il gregge è diventato la sua vita. Assieme alle battaglie di piazza. Ha 150 pecore («il massimo possibile per una sola persona») in un tancato enorme sulle colline di Silanus, avamposto sospeso fra il cielo e la sterminata piana di Dualchi. Spettacolo straordinario della natura. Qui, a Pedra Niedda, si lavora tutti i giorni, nessuno escluso. A dare una mano c'è Carlotta, primogenita, quart'anno di Giurisprudenza a Sassari: lei e la mamma fanno tutto quello che nei pascoli vicini è lavoro da uomini. Si comincia alle sei del mattino. Cioè al buio o quasi, estate e inverno. La giornata finisce quando la porcilaia è a posto, la sala mungitura pulita, il fienile riordinato, i gatti liberi di andare a caccia di topi. Conferiscono tra i sedici e i diciassettemila litri di latte l'anno. «Puntiamo sull'igiene e sulla qualità piuttosto che sulla quantità». Mantenere una pecora costa un euro e diciannove centesimi al giorno. Il latte viene venduto a 0,65 (molto meno della metà di un litro di benzina) mentre nel resto d'Italia spunta un euro. Tre-industriali-tre sono in grado di imporre il prezzo a una categoria che coinvolge circa centomila addetti in oltre ventimila aziende. Fatturato complessivo: mezzo miliardo di euro. E fame, miseria e crisi come mai.Graziella è molto determinata, non si piange addosso. Le mani, lunghe e ben curate, le servono per disegnare in aria gli scenari dell'infinita vertenza della sua categoria, le speranze e i precipizi, le missioni in strade di città mai viste prima. Adopera un italiano preciso, tagliente. A tratti sembra un amministratore delegato che riferisce ai soci. Intorno però ha solo balle di fieno, allineate in piccole torri fino a sembrare una fortezza.
La prima volta in campagna?«Avevo trentaquattro anni. Mi occupavo di famiglia e non l'avevo messo in conto. Ma un lutto ha scompaginato tutto. Ho fatto in fretta a imparare. Solo che ogni giorno mi tormentava sempre la stessa domanda: ce la farò?»
Beh, ha imparato anche a mungere.«Non è difficile se qualcuno te lo spiega. Qualche problema, semmai, me lo dava doverlo fare all'aperto, senza un tetto. I tempi sono quelli, non ci puoi fare nulla. Pronta e operativa alle quattro del mattino se passa il camion del latte, alle sei in altri periodi. Unica donna in un ambiente totalmente maschile».
Imbarazzo?«Mai. Anche perché speravo di trarne un reddito. Non si lavora per la gloria. Per me le pecore sono lavoro, non ho il senso poetico della fatica».
E allora?«Finita la prima stagione di mungitura, mi sono detta che dovevo assolutamente rendere tutto meno duro. Ho comprato una mungitrice elettrica e un refrigeratore, ho ricostruito il fienile e il ricovero per le pecore. Mi sono lanciata nell'imprenditoria».
E in famiglia?«In famiglia nessun problema: sono sempre riuscita a conciliare casa, marito e figlie».
Paura?«In campagna? No. Mi capita di provarne pensando a Carlotta, che sgobba quanto me; a Francesca, la più piccola, che ha una grande sensibilità per gli animali. Succede che restiamo nel tancato fino a sera inoltrata: mai avuto paura, però»
Basta seguire una regola: non vedere, non sentire.«Diciamo pure che la campagna non è un mercato, questo è sicuro. Quando arrivo a Pedra Niedda di solito è buio pesto: non vedo e non incontro nessuno».
Dicono che i pastori conoscano le loro pecore una per una.«Non esageriamo, non sono la loro mamma. Ho imparato a governarle, questo sì. Segnalo la mia presenza, appena aperto il cancello, con un colpetto di clacson».
Solitudine?«A tempo pieno, non compresa nel prezzo del latte. Ma non ne ho risentito. Anzi, ogni tanto lo cerco proprio, il silenzio: e allora mi piazzo qui, in alto, a guardare la piana come se fossi a teatro. Questo è il posto dove ricarico le batterie, dove vengo a cercare conforto e forza per andare avanti. Sono un po' strana».In che senso?«Più che parlare mi piace scrivere. Tengo un diario da quando stavo alle elementari. Ho bisogno di annotare pensieri, riflessioni, piccoli episodi. Ogni tanto sfoglio qualche pagina e mi faccio prendere dai ricordi».
La offende essere chiamata pastora?«E perché mai? Ho amiche laureate che mi invidiano per la semplicissima ragione che ho un lavoro. Un lavoro che non rende quanto dovrebbe, che non pareggia il bilancio tra impegno e fatica, ma ce l'ho».
Giornata-tipo.«Raccontiamone una normale. Sveglia alle 6. Operazione numero uno: accendere la tivù, La7, Rainews, per sapere che succede nel mondo. Intanto io e Carlotta ci prepariamo. Il tancato dista una decina di minuti da casa. Le pecore ci sentono arrivare, sanno che stiamo per aprire la sala-mensa».
Poi?«Le chiudiamo nel recinto a gruppi di 28, che non è un numero a caso ma quello delle gabbie utilizzate per la mungitrice. Terminiamo nel giro di un'ora e un quarto. A quel punto le porto al pascolo mentre Carlotta si occupa delle pulizie nei locali della mungitura».
Carlotta ha 24 anni (  con la madre  a  destra  )   
Sposata, un figlio. Dice che all'università, quando le domandano cosa fa, risponde: lavoro in campagna. Seccante parlare di gregge, di pecore? «Questo discorso poteva valere anni fa. I tempi sono cambiati. Il mondo agropastorale è affollato di giovani che studiano. Ho colleghe che sono figlie di pastori e non si vergognano affatto». Nessun complesso d'inferiorità, dunque: semmai apprensione per il futuro, per la sorte di un comparto che sta scivolando lentamente verso il fallimento. A dispetto degli oltre tre milioni di capi ovini a cui si aggiungono trecentomila capre. Adesso c'è molta attesa per le decisioni che prenderà la Commissione per le Politiche agricole di Bruxelles. Il leader del Movimento dei pastori sardi, Felice Floris, ha denunciato gli industriali caseari all'Antitrust per ben due volte. Nel frattempo? Graziella non vede alternative alla piazza.
La protesta è una politica vincente?«Non so se sia vincente ma non ci sono altre strade. Anche se qualche volta va male, com'è successo a Civitavecchia, quando la polizia, appena siamo sbarcati, ci ha chiusi in angolo, assediato».E voi?«Beh, diciamo che per superare il blocco non abbiamo bussato ma è stata davvero pesante. Ora puntiamo su Bruxelles: se non ti vedono e non ti sentono, non si ricordano che esisti. Io l'ho scoperto col mio sindacato».
Cioè?«Lasciamo stare le sigle, non voglio fare polemica. Avevo un sindacato di riferimento che preferiva vie sotterranee di trattativa. Un giorno, per curiosità, sono andata a Tramatza a sentire che dicevano i pastori e mi si è aperto un mondo».
Per una donna fare questo lavoro è peggio?«A livello di testa, noi donne siamo più concrete di voi. L'handicap è la forza fisica: ce ne vuole tanta. Fortuna che abbiamo ottimi rapporti coi vicini di pascolo: ci aiutano, ci danno consigli. Studio anche su un manuale ma non ha la stessa saggezza di un vecchio pastore».
La solidarietà esiste sul serio o è un luogo comune?«Tutt'e due. La solidarietà la tocchi con mano quando ti aiutano a scaricare i bidoni del latte. Per il resto, la categoria è unita e disunita»
Sarebbe voluta nascere altrove?«No. Silanus è un paese che, nei momenti difficili, riesce ad esserti vicino»
.Questo è il bello. Il peggio?«Non lo dico. Scelgo la via dell'omertà».
Ferie, vacanze.«Non esistono. Manco Natale. Il massimo che ho fatto è una puntata al mare, partenza e rientro in giornata. Un viaggio, un viaggio vero che non so neppure dove perché mi vengono in testa cento posti meravigliosi, prima o poi lo farò. Me lo sono giurata».
Quanto guadagna mediamente in un mese?«Tra i 1.200 e i 1.900 euro. Che, ovviamente, non bastano. Ma io sono contenta così: vivo per le mie figlie. Che altro deve fare una madre?»
Come si sopravvive vendendo il latte a 0,65?«Non rinnoviamo le macchine, non facciamo lavori di ristrutturazione, non investiamo un euro in nulla. Aspettiamo. Grazie ai premi comunitari tiriamo avanti e speriamo che piova. Io sono pure fortunata perché in casa arriva lo stipendio di Pietro. Quando penso alle famiglie monoreddito mi vengono i brividi».
Com'è possibile che tre-industriali-tre pieghino ventimila pastori?«Secondo le regole del mercato, a definire un prezzo congruo dovremmo essere noi e gli acquirenti. Invece a decidere, a cantarsela e a suonarsela, sono solo loro».
Vuol dire che siete tanti ma non avete peso contrattuale?«Non siamo uniti, è questo il vero problema. Sa cosa farei io? Bloccherei totalmente la produzione, non conferirei neanche una goccia agli industriali: vediamo quanto reggono. Il guaio è che a quel punto comprano il latte dalla Romania e lo rivendono come sardo. E noi? Noi sempre peggio».
Dove finisce il latte del suo gregge?«Prima facevo capo anch'io ad un'industria. Ho smesso quando ho scoperto che pagava 80 centesimi ai pastori che avevano mille capi e 0,60 a piccoli allevatori come me. Capito? Ci dividono per governarci meglio».
Quale sarebbe il prezzo giusto?«Un euro. Anche perché intanto i mangimi sono aumentati del 40 per cento, un quintale di granturco è passato da 20 a 32 euro. Mica si può durare, così».
I rapporti con la politica: ci crede?«Ho smesso da un pezzo. E sa perché? Perché mi vergogno di un Consiglio regionale che, a voto segreto, boccia la legge per ridurre il numero degli onorevoli. Mi vergogno di un Consiglio regionale pieno di indagati. Mi vergogno di gente che pensa soltanto a riempirsi la pancia».
E la crisi?«La crisi sono loro. Questa è la verità».

                                                  pisano@unionesarda.it

21.9.11

La dura vita del necroforo

il  dellamorte sardo

unione sarda
Provincia Medio Campidano

Villacidro. 

«Il sindaco vuole confrontarsi con i dipendenti e mi fa piacere»

La dura vita del necroforo

Gianni Onidi: neppure grazie da certi funzionari

Lunedì 19 settembre 2011
«Non voglio essere seppellito in un cimitero. Voglio essere cremato e le ceneri sparse al largo di Capo Boi dove nella mia vita ho pescato dei ricci buonissimi».
 dal nostro inviato Paolo Paolini VILLACIDRO «Certe volte basterebbe un grazie per ripagarmi del lavoro enorme che faccio quotidianamente».
Gianni Onidi,
sessant'anni, regna su quattro ettari disseminati di lapidi e cipressi. Un passato da cuoco in alcuni hotel di Villasimius e Saint Moritz, ha gestito anche due ristoranti, a Cagliari e Milano, prima di diventare un dipendente comunale: «Sono stato assunto come cuoco per la scuola materna. Poi magazziniere, autista e, dieci anni fa, con un ordine di servizio sono stato trasferito in cimitero».
LA STORIA «Due sindaci a fine mandato si sono complimentati, il dottor Fanni ha fatto lo stesso durante i tre anni del suo mandato. Rispetto a quando ho iniziato a lavorare nel camposanto ci sono quasi duemila posti letto in più. Li chiamo così, dopotutto cosa sono i loculi? È dura, nonostante l'impegno del collega e mio. C'è sempre da fare, in ogni momento. Due anni fa hanno tirato per le lunghe un funerale, era buio e mi è caduto il tappo di un loculo sulla schiena, ho rischiato di lasciarci le penne. Nonostante le difficoltà quest'area è ordinata e pulita come un giardino. Cosa desidero? Un grazie da parte di qualche funzionario che finge di non vedere».
I FUNERALI «Nel 2009 sono stati 139, nel 2010 130: il 31 dicembre è stato celebrato quello del sindaco. Lavoro dalle 7 alle 13 con due rientri settimanali. Non c'è la moda di rubare i fiori, anche perché stiamo attenti. Certo, se sono in un punto non posso essere da un'altra parte. Il sindaco attuale quando si è insediato ha chiesto il dialogo con i dipendenti e questo mi ha reso felice. Ho intenzione di chiedere un incontro».
LA PAURA «I primi tempi restare con un morto nell'obitorio oppure di notte nei viali non mi metteva addosso una grande allegria. Mi sono abituato. Siamo fatti di materia ed energia che si consumano più o meno in fretta. Quando finiscono significa che è arrivato il tuo turno tra i cipressi. Non farò questa fine: voglio essere cremato e le ceneri sparse al largo di Capo Boi dove ho pescato ricci buonissimi».
I DETTAGLI In cimitero sfila tutto il paese, si capiscono tante cose. Per esempio: la tomba di Giuseppe Dessì ha sempre un fiore fresco, la curiamo quotidianamente. Ci sono paesani che tutti i giorni salutano i loro cari e lasciano le tombe lucide come specchi. Per il funerale i villacidresi mostrano una vera nobiltà d'animo, nessuno fa la corsa alla bara più bella. Do una mano a tutti, quando posso. Qualcuno mi ringrazia con una confezione di caffè. In futuro vorrei aprire un'agenzia funebre, lavoro ce n'è tanto, almeno guadagnerei qualcosa in più di 1200 euro al mese. Chissà, magari ci riuscirò».


Non può prendere la patente ma può pilotare un aereo. Irja Vaittinen, cagliaritana, origini finlandesi, frequenta il corso per pilota privato.

Cronaca di Cagliari unione sarda del 19\9\2011 

La storia. Irja Vaittinen 

è la più giovane allieva dell'Aero club

Pilota aerei a sedici anni

L'auto non può ancora guidarla, i velivoli sì


Non può prendere la patente ma può pilotare un aereo. Irja Vaittinen, cagliaritana, origini finlandesi, frequenta il corso per pilota privato.
N on può prendere la patente ma può pilotare un aereo. Irja Elina Vaittinen, sedicenne cagliaritana con origini finlandesi, ha iniziato da qualche settimana il corso per ottenere il brevetto di pilota privato all'Aeroclub di Cagliari. Al termine delle quarantacinque ore di lezione pratica e duecento di lezioni teoriche, potrà guidare veivoli da due o più posti. Tra qualche mese così potrà andare in giro per i cieli con le sue amiche in attesa, quando diventerà maggiorenne, di poter guidare l'auto.
La passione per il volo le è stata trasmessa dal padre, che fin da quando era bambina portava Irja all'Aeroclub ad ammirare i decolli e gli atterraggi dei piloti dell'aria.
«Appena ho compiuto sedici anni», racconta la ragazza, «mio padre mi ha proposto di fare il corso di volo. Mi piaceva l'idea e ho accettato di provare». A quell'età basta avere il consenso firmato dei genitori per pilotare un aereo. La prima volta è stata un'emozione che non si dimentica.
LA PRIMA VOLTA «Era l'otto agosto», ricorda Irja, «ed ero tutta sola su un Cessna 152 a due posti. Non avevo paura, ero tranquilla: forse solo un po' tesa all'atterraggio perché si era alzato il vento. Alla fine il più preoccupato era mio padre che la notte prima non era riuscito a chiudere occhio».
Da quel giorno i voli sono diventati routine e adesso la ragazza si prepara a pilotare i velivoli a quattro posti.
«Irja, che a livello nazionale è una delle allieve più piccole, è un pilota bravissimo e attento in volo», sostiene il suo istruttore Pierpaolo Manca. «Il giorno del primo decollo ero più emozionato di lei. Il primo volo è un momento importantissimo che non si scorda mai».
«NON VOGLIO SMETTERE» E adesso Irja è pronta a proseguire. «Ottenuto il brevetto», racconta entusiasta, «non voglio smettere. Ho iniziato per gioco ma adesso mia piace troppo pilotare, non voglio rinunciarvi». Tra l'altro, aggiunge, «Non soffro nemmeno di vertigini, quindi là sopra mi sento davvero a mio agio».
L'AEROCLUB CAGLIARI All'aeroclub di Cagliari attualmente ci sono una decina di allievi. Quattro di questi sono giovanissimi tra i diciassette e i diciotto anni. Il gentil sesso oltre che da Irja è rappresentato anche da una ragazza trentasettenne. Tra gli allevi inoltre c'è un generale dell'Esercito. Il brevetto ottenuto alla fine del corso ha valore in tutta Europa. Fino ad oggi la scuola ha formato un migliaio di allievi. Un centinaio di questi, ha spiegato il presidente dell'Aeroclub Vincenzo Anelli, «guida oggi gli aerei delle più grandi compagnie».
Giorgia Daga

9.9.11

Rifiutano di affittargli l’appartamento quando lo vedono in sedia a rotell

dalla  nuova  sardegna del 08 settembre 2011  a  voi   ogni commento


 OLBIA. Roberto è un eroe. Un superuomo inchiodato in una carrozzina da otto mesi. E per sempre. Un giorno la sua aorta è esplosa, scoppiata come un palloncino. Il suo corpo si è spento e solo per caso è sopravvissuto alla morte. La sua fortuna gli ha regalato una vita a rotelle. Paralizzato dal torace in giù. Lui che a 45 anni mangiava la vita, con una moglie e tre figli piccoli. Un lavoro. Ora riesce a sorridere anche in questo tratto in salita dell’esistenza. Roberto Murgia non ha tempo per disperarsi. Deve affrontare un altro paradosso della sua nuova condizione. Deve trovare casa in affitto. Nella città con 3mila appartamenti sfitti, nessuno è disposto a dare un letto e un tetto a lui e alla sua famiglia. «Da sei mesi vado alla ricerca di una casa, ma succede sempre la stessa cosa - racconta Roberto -. Al telefono sono disponibili, ma appena mi vedono scatta uno strano meccanismo. Sono gentilissimi e cortesi. Ma quando richiamo per chiudere l’accordo l’appartamento è già stato affittato. In sei mesi ho visto 15 case, ed è sempre accaduta la stessa cosa. Le prime volte non ci ho badato. Ho creduto alla buona fede, poi la coincidenza mi è sembrata sospetta. Continuavo a vedere nelle riviste specializzate gli stessi annunci. Così ho fatto chiamare qualche mio conoscente. E come per miracolo la casa che per me era affittata, per chi arrivava sulle proprie gambe all’appuntamento era disponibilissima. Nei mesi mi sono quasi abituato a questa pratica selvaggia. Qualcuno è arrivato anche a tirare dritto al luogo dell’appuntamento, senza fermarsi. I soldi non sono un problema. Sono in condizione di pagare un prezzo di mercato. Ma non trovo nessuno disposto a darmi una casa in affitto. Non credo che non ce ne siano». Poi ruvido aggiunge. «Tutti pensano che se fai entrare un handicappato in casa, non lo butti più fuori. Anche se nessuno ha il coraggio di dirlo in modo schietto».
 Per un atroce destino Roberto fino a novembre assisteva le persone bloccate in casa da patologie gravi. «Lavoravo in una ditta che faceva ossigeno-terapia a domicilio per conto della Asl - spiega -. Un’azienda di Cagliari. Vivevo là e per un lungo periodo ho viaggiato ogni giorno verso Olbia. Lavoravo come un disperato. 17 ore al giorno. Poi ho deciso di trasferirmi, ho preso una casa a Cugnana, sulla campagna che si affaccia sul golfo. Ma per arrivare nella villetta in cui ancora oggi sto bisogna fare tre chilometri di strada bianca. Una via accidentata in cui anche chi mi fa assistenza fa fatica a domare. Per questo sono alla ricerca di una nuova casa». Roberto ricorda il giorno che ha cambiato la sua esistenza. La rottura dell’aorta ha creato un’emorragia devastante che ha causato una lesione spinale irreversibile. «Ero qua, alle 7 del mattino mi sono sentito male - racconta -. Sono arrivato alla strada principale, là c’era l’ambulanza. Poi mi hanno salvato la vita a Sassari. Ma sono rimasto paralizzato». La sua voce è limpida, con l’entusiasmo di chi ritorna alla vita. Neanche un’ombra di paura di chi deve affrontare una esistenza inchiodata. «Sono fortunato - spiega -, ho una famiglia stupenda. Accanto a me ho una persone fantastica, e o tre figli. Il più grande ha 9 anni, i gemelli ne hanno 7. Mi secca solo non riuscire a rispondere alle loro domande. Mi chiedono perché nessuno voglia darci in affitto una casa. Se devo essere sincero non so cosa dire. Non voglio pensare che questa magnifica città sia capace di tanto cinismo. Io non mi arrendo. Sono combattivo per carattere».
 Il volto scavato trasmette serenità, come se non ci fosse spazio nella sua mente per la sfiducia, l’abbattimento. Come chi vive in modo ordinario una condizione straordinaria. «Spero che qualcuno mi possa venire incontro. Non ho grandi pretese - conclude Roberto -. Certo mi serve una casa al piano terra con un piccolo giardino che possa essere raggiunta in modo semplice. Una casa in cui ci possa stare la mia famiglia. E possa ritrovare la serenità per andare avanti. Ma non mi sembra qualcosa di troppo complicato». Viene avanti e saluta tutti con un sorriso, con la forza di un superuomo più forte di qualsiasi diversità.

8.9.11

Un vescovo-madre

Dopo nove anni di episcopato, il card. Tettamanzi lascia la Cattedra ambrosiana





A Bresso, dietro il Parco Rivolta, al confine con la strada, si trova uno spazio vuoto, in marmo bianco, circondato da un cancelletto. Un rettangolo dalle linee severe eppur addolcite dalle dimensioni domestiche, dal colore stesso, candido, certo, ma tenue, e leggermente venato di rosa. È un limite sospeso, che presto sarà occupato da un monumento. Ai caduti? alle donne del Risorgimento? Ancora lo ignoriamo.






Tettamanzi festeggiato dai fedeli della Valbiandino. Sotto: con Madre Maria Vittoria Longhitano, parroca della Chiesa veterocattolica ambrosiana; in basso: in mezzo ai Rom del Triboniano.






Mentre, ieri, costeggiavo quell’opera in divenire, ricordavo l’ingresso a Milano del cardinale Tettamanzi, la difficile eredità che si accingeva a raccogliere. Ricordo quella partenza a piedi da Renate, la sua città natale, immersa nella Brianza lussureggiante e devota: terra di parroci, di oratori, di processioni. All’epoca, il prelato aveva già sessantotto anni e mi venne spontaneo compiangerlo un po’: “Poveretto, che fatica”. Ma non alludevo solo al disagio fisico. Era il peso morale che, in realtà, mi spaventava. Tettamanzi arrivava a dirigere la diocesi più grande d’Europa, retta fino ad allora dal “monumento” Carlo Maria Martini. So che quest’ultimo non amerebbe esser definito così; l’aura sepolcrale e fredda che comunemente associamo a tale vocabolo non rende giustizia a un principe della Chiesa dimostratosi pastore attento e solerte, vivo, “prossimo”. Eppure, pensando a Martini, viene quasi spontaneo. Nel senso migliore. Lo era per il tratto solenne, asciutto, grave e lieve della persona e dell’apostolato. Per il misticismo lombardo ed essenziale, lui nato ad Alessandria. Ripenso a Martini e vedo una marcia trionfale. Guardo Tettamanzi e lo associo al trotterellare un po’ ansioso del curato di campagna, che chiede permesso quando varca la soglia di casa. Una presenza familiare, anche troppo. Al punto, quasi, di non badarvi. Ma senza la quale ci si sente persi. Perché quella presenza lavora, è indispensabile. Se, come hanno scritto nel loro saluto i preti bressesi, il vescovo è anche madre, Tettamanzi è stato sicuramente una madre: operosa, ma discreta. Una che c’è sempre stata, e che al momento giusto appare come un’epifania. Tettamanzi e la fatica. Un’altra caratteristica che lo associa alle madri. Non solo gli toccava subentrare a Martini. Ma entrava in una Milano livida, frastornata, rancorosa e impaurita. A ridosso dell’11 settembre. Il senso dell’accoglienza nei confronti dello straniero, tipicamente meneghino, si era eclissato. L’altro, il diverso era ormai solo un nemico, di un’altra razza, addirittura d’una diversa umanità o – ciò ch’è peggio – di nessuna. La politica alimentava questo ritorno alla barbarie, anzi, lo ergeva a valore; altri brianzoli, di corta veduta e di fragile fede, brandivano crocifissi di legno per bastonare i crocifissi della società. E qualche vescovo, nemmeno tanto copertamente, li benediceva.


Erano i tempi dello scontro di civiltà, di Oriana Fallaci che dalla terza pagina del “Corriere” scagliava truculente invettive contro il nemico islamico. E qualcuna ne toccò proprio a lui, al nuovo arcivescovo, appena questi individui, che non mancavano di professarsi ad ogni occasione atei devoti (un assurdo logico prima che linguistico), realizzarono che non stava dalla loro parte.

Il parroco di campagna, erede d’una lunga tradizione di solido cattolicesimo, iniziò subito con la ricerca del dialogo con i musulmani e gli immigrati in genere. Innanzi tutto, con Dio. Tettamanzi era ed è uomo di preghiera, un mistico anch’egli, non di folgoranti lumi, ma della quotidianità, come la protagonista della dramma perduta. Ma non per questo meno profondo e, oseremmo dire, voraginoso. La preghiera è azione e Tettamanzi l’aveva compreso bene. La preghiera gli permise di vedere non in un’astratta entità, ma nella vita di ognuno, il volto di Dio. Fermo nella fede, non temeva quella degli altri, che anzi sentiva parte integrante della propria. Fu solo, disperatamente solo. Lo amavano le associazioni, non solo cattoliche; lo stimavano e vi erano affezionati i credenti di altre fedi e confessioni: penso non solo ai protestanti, ma pure alla piccola e nuova (per Milano) realtà veterocattolica, la cui presbitera è stata ricevuta in diverse occasioni dall’arcivescovo e ha concelebrato con altri ministri nel corso della settimana per l’unità dei cristiani. Ma la politica trionfante e aggressiva, e i potenti fondamentalisti lombardi, nutrivano per lui un odio inestinguibile. Cristianisti ringhiosi e sguaiati giunsero ad appioppargli l’epiteto, per loro sommamente ingiurioso, di “imam” quando auspicò la costruzione d’una moschea e d’un centro culturale islamico. La giunta comunale del tempo, dietro i sorrisi di circostanza, si guardò bene dall’ascoltarlo. In anni di sgomberi di campi rom, egli era lì, in mezzo a loro, a celebrare la Messa di Natale. Poi venne il caso Englaro. E nuove solitudini e amarezze per il nostro cardinale. Egli non approvava la decisione del papà di Eluana. Ma non gli uscì una parola di condanna nell’omelia ch’egli dedicò, pastoralmente, al senso dell’esistenza umana, e al termine della quale esortò, ancora una volta, alla preghiera. O meglio, alla contemplazione. Al tabernacolo. Ai cristianisti, analfabeti dei più elementari dettami del Vangelo, parve una posizione rinunciataria; e ignoravano che solo la dimensione contemplativa della vita (come, non casualmente, s’intitolava la prima lettera pastorale del predecessore Martini) può permettere ai nostri atti un respiro vasto, un segno che si configge e resta cristallino: roccia, guida.

Tettamanzi era un moralista, curava la pastorale familiare. Come un altro grande lombardo, Angelo Roncalli divenuto poi Giovanni XXIII, aveva in mente le riunioni umane delle sue valli, i padri, le madri, i nonni e la numerosa prole. L’amava; e, per questo, vedeva la famiglia includente. Lui, che considerava il divorzio una grande ferita per la società ancor prima che per la persona, fu il primo a pubblicare una toccante lettera indirizzata a chi aveva perduto quella felicità. E a chi, come pastore, avrebbe dovuto accoglierlo. I divorziati risposati – amava ripetere – non devono sentirsi fuori della Chiesa. In fatto di dottrina era intransigente, ma se le parrocchie hanno cominciato una pastorale per le famiglie disunite, lo si deve soprattutto a lui.

La felice intuizione della Chiesa “famiglia cellula della società” per Tettamanzi non rimase lettera morta o, peggio, occasione per inefficaci e perbenistici strali contro gli “irregolari”. Capì che la famiglia non poteva esser difesa solo a parole. Che molte si disfacevano, o non si componevano proprio, per una crisi sociale che si allungava nel nostro “ricco” mondo. Mentre qualche governante allegrone assicurava per l’Italia fiumi di latte e montagne di marzapane, Tettamanzi nel 2008 scriveva: “In questo Natale già segnato dalle prime ondate di una grave crisi economica, un interrogativo mi tormenta: io, come Arcivescovo di Milano, cosa posso fare? Noi, come Chiesa ambrosiana, cosa possiamo fare?”. Io-Noi. Se Martini si trovò ad operare in tempi di edonismo nascente, a Tettamanzi toccò un’altra fatica, quella di fronteggiare l’egotismo deflagrato, ormai in agonia, e perciò ancor più feroce e invasivo. L’Io, anzi l’Ego tanto celebrato, non poteva esistere senza il Noi, privo cioè di relazione. “Non è bene che l’uomo sia solo”: non per sé, ma nemmeno per il mondo ch’egli ha costruito a sua immagine. E l’uomo diuturno fu colto, questa volta, dall’illuminazione rovente, quel Fondo Famiglia-Lavoro che, destinato a famiglie e singoli colpiti dalla crisi economica, ha finora messo a disposizione quasi tredici milioni di euro e che continuerà a operare fino al 31 dicembre prossimo.

Due giorni fa, l’ultimo affondo: sulla questione morale. “In politica – ha denunciato – dai tempi di Tangentopoli non è cambiato nulla”. Troppo, decisamente, per certe orecchie foderate. “Non vedono l’ora che arrivi ‘quel’ giorno, i grandi elettori meneghini del centrodestra – ha scritto qualche mese fa una rivista on line. – aspettano con ansia il pensionamento, per raggiunti limiti d’età, di un vescovo mai vissuto come la propria guida spirituale. Mugugnarono quando Dionigi Tettamanzi aprì il Duomo, durante una messa dell’Epifania, alle comunità straniere in nome della multiculturalità, si irrigidirono quando prese le difese delle associazioni laiche e cristiane a sostegno dei diritti civili delle popolazioni romanì contro gli sgomberi e non nascondono tutta la loro irritazione ogni volta che il porporato alza la voce contro il degrado della politica”. Ora “quel” giorno è arrivato, Tettamanzi verrà sostituito dal vescovo ciellino Scola. Ma non ci s’illuda: la lezione di Tettamanzi non andrà perduta, perché s’innerva nella grande tradizione ambrosiana, di Ambrogio, di Carlo Borromeo, il quale, come si sa, fece un po’ di tutto: dalle scuole per ragazze povere ed ex-prostitute, alle case per l’infanzia, agli ospizi per i poveri. E bastonò i potenti.


Io, comunque, preferisco associarlo a un vescovo ancor più remoto, che già nel nome, con lui, condivideva la sollecitudine e la fatica: Materno, oggi ricordato da una chiesa e una piazza in Lambrate, periferia della città, angolo della storia. Respiro di Dio.



6.9.11

Il fabbro siciliano: «Così ho costruito e visto crollare le Torri» di G. R.

di Giuseppe Rizzo | tutti gli articoli dell'autore
nino schifano 11 settembre
Due immagini si sono saldate alla retina degli occhi di Nino Schifano nel corso della sua vita: la seconda è la nevicata del 1962 a Palermo. «Avevo diciannove anni e lavoravo ai cantieri navali – racconta – eravamo nelle stive di una nave, avevamo lavorato tutta la notte e la mattina, una volta sul ponte, non credevamo ai nostri occhi: tutto era bianco, ricoperto di neve». Chiunque sia nato a Palermo, ovvero vi abbia passato un po' di anni della propria vita, ha in qualche modo la sua nevicata da raccontare – e non sono molte, e pochi i fortunati. Le palme che si colorano di bianco, Montepellegrino che magia, il Teatro politeama una nuvola di zucchero nel traffico impazzito. Nino, la nevicata del 1962: «Un'immagine indimenticabile», dice. La seconda per il carico di stupore e sbalordimento che i suoi occhi riescano a ricordare.

FOTOGALLERY: LE IMMAGINI SCATTATE
DA NINO AL WTC DOPO GLI ATTACCHI


La prima sono le Twin Towers che crollano. Tra le due immagini si srotola la sua intera esistenza. Quella di un ragazzo che a ventidue anni sale su un aereo per New York per raggiungere la ragazza che ama, che trova lavoro come fabbro nella Grande Mela, che partecipa alla costruzione delle Twin Towers e che anni dopo le vedrà crollare per poi essere richiamato a sgombrarne le macerie. A dieci anni da quella mattina feroce la sua memoria corre ai primi giorni trascorsi nella Grande Mela.

IN AMERICA
«Furono momenti durissimi, pensavo di tornarmene in Sicilia: troppo grande la città, troppo dura la vita», dice. A salvarlo sono due cose: l'amore per la moglie, Maddalena, che in America lo ha trascinato nelle speranze di un destino meno storto di quello che spettava loro in Sicilia, e l'abilità con cui sa lavorare il ferro. Inizia a lavorare, paghe da fame, sfruttamento continuo, ma le cose pian piano si aggiustano.

IL LAVORO NEL 1969
La prima volta che mette piede al World Trade Center è il 1969, e subito la vertigine progettata dall'architetto Minoru Yamasaki lo incanta e paralizza. L'edificazione sulla roccia, le fondamenta oltre i 20 metri sotto il suolo, il cuore di acciaio e alluminio della struttura: per un fabbro catapultato dalle case popolari di Palermo al centro di una delle più grandi metropoli dell'Occidente è un continuo capogiro. Nino e la sua squadra sono chiamati a sistemare gli ambienti che avrebbero ospitato uffici di multinazionali, hotel, ristoranti, centri della finanza globale e studi di avvocati.

«Era anche un lavoro delicato – spiega Schifano – perché oltre alla sistemazione basilare dei locali, dovevamo metterli in sicurezza: erano gli anni degli attentati dei Weathermen», i bombaroli dell'estrema sinistra americana da qualche tempo terrorizzavano gli Stati Uniti. Billy Ayers, uno degli elementi di spicco del movimento, a misura del fatto che raramente si sopravvive alle proprie idee scellerate, parlò di quei giorni un'intervista rilasciata al New York Times. Il titolo suonava così: «Nessun pentimento per la passione degli esplosivi». La data di pubblicazione, per un capriccio del destino, era l'11 settembre del 2001.

IL CROLLO DELLE TORRI

Un giorno di cui Nino ricorda ogni particolare: «Ero nella Diciannovesima Strada, Settima Avenue, nel West Side. Le Twin Towers lì vicino, il solito straordinario spettacolo». Per anni Schifano ci è passato davanti, incollando il naso alla punta delle Torri ogni volta che ha potuto. «Mi ricordo che all'inizio ci fu un gran silenzio – dice – scesi in strada e dall'angolo dove mi trovavo alzai gli occhi al cielo, verso il World Trade Center, e non mi resi subito conto di quello che stava succedendo». Nel 1974 era stato nominato vicepresidente del sindacato Iron Workers Local 40. Restò in carica per quattordici anni, e le prime persone che sentì la mattina degli attacchi furono proprio i suoi capi. L'ordine fu di dirigersi verso le Torri e controllare cosa fosse successo.

«Quando arrivai a Canal Street, però, trovai un muro di Blue – racconta, riferendosi alle decine di poliziotti che intanto avevano recintato l'area – fu impossibile superarli». La scena intanto si riempiva di tutti quei particolari da apocalisse urbana che negli anni la retorica delle immagini ripetute ossessivamente avrebbe trasformato nei grani di un rosario di cui tutti conosciamo i passaggi: le Torri in fiamme, i vetri esplosi, il volo disperato di decine di persone dalle finestre dei grattacieli, il crollo, i superstiti che si aggirano come fantasmi, la nube bianca che si alza sulla testa di tutti.

L'ODISSEA DEL RITORNO A CASA
Nino osserva la scena dal Manhattan Bridge assieme ad altre decine di migliaia di persone. Sta provando a tornare a casa, non sente la moglie e i figli da un po', e non li sentirà per tutta la durata della sua piccola odissea – sei ore per lasciare Manhattan e arrivare a Brooklyn.

«Decisi di andare a East – racconta – sopra il ponte la gente andava a East, ma guardava verso il West. La nube biancastra veniva spinta verso East, come noi sul ponte. Brooklyn era dall’altra sponda. Pensai ai terroristi nascosti sotto il Manhattan Bridge con l’esplosivo pronto. Continuai verso Est, verso l’altra sponda». Dal ponte Nino realizza per la prima volta cosa è successo. Si gira verso Manhattan: le Torri non ci sono più. A casa abbraccerà la moglie, sentirà i figli e si attaccherà alla televisione. I giorni e i mesi successivi saranno i giorni e i mesi della rabbia.

AL WTC, TRA LE MACERIE
«Tempo dopo mi chiamò il sindacato, mi chiedevano di ritornare al Wtc per partecipare allo sgombero delle macerie: in fondo, quella era roba nostra», dice. Ferro e acciaio e quel che restava di ferro e acciaio: roba loro. «La prima cosa che mi colpì una volta lì fu l'odore. Era impressionante. Un odore di morte, di cadaveri. Un giorno fui costretto a tornarmene a casa perché non ce la facevo più a sentirmelo addosso », dice. «Ma la cosa più dolorosa per me, che sono un fabbro, fu vedere quel ferro, che fino a poco prima ti sembrava un materiale invincibile, accartocciato come fosse uno spaghetto. Pensavamo che quelle Torri non sarebbero potute crollare mai, e invece sono andate giù come fuscelli».

Ne tagliarono i pezzi in piccole parti perché fosse più semplice portarle fuori. Giornate intere con il rumore delle seghe negli orecchi e l'odore di morte nel naso. A interrompere il lavoro, il suono della campana che suonava ogni volta che venivano ritrovati dei corpi – o pezzi di.

LA CROCE PER LE VITTIME
«Venivano i parenti delle vittime, e noi, se erano credenti, gli regalavamo delle piccole croci che avevamo ricavato dai resti delle Twin Towers». Una di quelle croci Nino se la porta ancora dietro, anche ad Alimena, piccolo paese arroccato sulle Madonie, in Sicilia, dove ogni estate ritorna per qualche mese. Quest'anno, per la festa della Maddalena, quando la banda del paese è passata sotto casa sua e lui come da tradizione gli ha offerto acqua e arancine e panini l'hanno vista tutti. I musicisti hanno suonato l'inno di Mameli e quello americano. Senza retorica. Nino ne è stato contento.
5 settembre 2011

2.9.11

ORA E' UFFICIALE. Scienziati Usa confermano esplosivi per demolire le Twin Towers






Ora è ufficiale.Tracce di esplosivi di nano-termite sono stati raccolti dai detriti del WTC poco dopo il loro crollo dell'11/9/2001. Alla Brigham Young University, il professore di fisica, il dottor Steven Jones, ha fatto la scoperta dell'esplosivo insieme ad un team internazionale di nove scienziati.Grazie quindi alle prove di laboratorio più estese, gli scienziati hanno concluso che i campioni analizzati, hanno mostrato che si tratta di esplosivi nano-termite, generalmente usati per scopi militari.
Gli scienziati trovano Nano-termite (stimata in oltre 10 tonnellate)
presso il World Trade Center
Dopo un rigoroso processo di peer-review, il loro documento è stato pubblicato nella Bentham Chemical Physics Journal, una delle riviste più accreditate negli USA e che ha approvato alcuni Premi Nobel, essendo rispettata all'interno della comunità scientifica. Primo autore dello studio è Dr. Niels Harrit di 37 anni, professore di chimica all'Università di Copenaghen in Danimarca e un esperto di nano-chimica, che dice: "Il conto ufficiale messo avanti dal NIST viola le leggi fondamentali della fisica."
Il Governo ora sa delle prove che confermano la presenza di Esplosivo Nano-Termite, utilizzati per far cadere tutte le tre Torri del WTC l'11 / 9
Adesso come la mettiamo? Questo è stato pubblicato ufficialmente da un’autorevole giornale di Chimica e Fisica i cui membri hanno assegnato anche parecchi Nobel, recensito dagli stessi esperti accademici:“Active Thermitic Material Discovered in Dust from the 9/11 World Trade Center Catastrophe” a cura di Niels H. Harrit, Jeffrey Farrer, Steven E. Jones, Kevin R. Ryan, Frank M. Legge, Daniel Farnsworth, Gregg Roberts, James R. Gourley and Bradley R. Larsen.
Il documento termina con la seguente affermazione: “Sulla base delle precedenti osservazioni, concludiamo che lo strato rosso dei frammenti rosso-grigi rinvenuti tra le ceneri del WTC è materiale termitico attivo, inesploso, assemblato secondo tecniche di nanotecnologia, e rappresenta materiale ad alto potenziale pirotecnico e/o esplosivo”.
In breve, il documento cancella la versione ufficiale secondo cui “non esistono prove” per dimostrare la presenza di materiale esplosivo/pirotecnico negli edifici delle Torri Gemelle.

Cosa ci fa una notevole quantità di materiale esplosivo/pirotecnico di alta tecnologia tra i resti del WTC? Chi ha prodotto tonnellate di quella roba, e perché? Per quale motivo gli investigatori si sono rifiutati di cercare residui di esplosivo subito dopo il crollo al WTC?
Si tratta degli interrogativi essenziali sollevati da questo studio scientifico.
Il dibattito tra gli specialisti è logorante, ci sono pagine di commenti. Le impegnative domande sollevate dagli esperti hanno condotto a mesi di ulteriori esperimenti, col risultato di aggiungere approfondimenti al documento, incluse l’osservazione e gli scatti di sfere arricchite di ferro e alluminio prodotte quando il materiale viene infiammato all’interno di un Calorimetro a Scanning Differenziale.
I nove autori hanno intrapreso un esame dettagliato degli insoliti frammenti rosso-grigi trovato nella polvere generata dalla distruzione del WTC l’11 settembre del 2001. L’articolo dichiara: “L’ossido di ferro e l’alluminio sono strettamente mescolati nel materiale rosso. Quando vengono bruciati in un DSC (Calorimetro a Scanning Differenziale) i frammenti mostrano composti esotermici ampi ma ravvicinati che si formano ad una temperatura di circa 430°, decisamente al di sotto della normale temperatura di combustione relativa alla termìte normale. Si osservano chiaramente numerose sfere arricchite di ferro nei residui della combustione di tali particolari frammenti rosso-grigi. La porzione rossa dei frammenti citati si scopre essere materiale termitico non reagente ed altamente energetico”. Le immagini e le analisi statistiche meritano grande attenzione.

Alcune osservazioni sulla stesura del documento:

1) Il primo autore è il Professor Niels Harrit dell’Università di Copenhagen in Danimarca, professore associato di Chimica. E’ un esperto di nano-chimica. Le ricerche in corso che sta conducendo, insieme alla sua foto, possono essere trovate qui: http://cmm.nbi.ku.dk/

Strutture molecolari su scale cronologiche corte ed ultracorte

Un Centro della Fondazione per la Ricerca Nazionale Danese

Il Centro sui Movimenti Molecolari è stato inaugurato il 29 novembre del 2005, all’Istituto Niels Bohr, presso l’Università di Copenhagen. La nascita del Centro è stata resa possibile da un sussidio di 5 anni della Fondazione per la Ricerca Nazionale Danese (vedi ad esempio www.dg.dk ). Miriamo ad ottenere immagini in tempo reale di come si muovono gli atomi mentre sono in corso i processi molecolari e nei materiali solidi, utilizzando impulsi accelerati di raggi laser e raggi X. Lo scopo è comprendere e al momento opportuno influenzare, a livello atomico, le trasformazioni strutturali associate a tali processi.
Il Centro combina le conoscenze e le capacità acquisite dal Riso National Laboratori, dall’Università di Copenhagen e l’Università della Tecnica della Danimarca, nella ricerca strutturale relativa alle tecniche di accelerazione atomica a raggi X (raggiunta con il sincrotrone), la spettroscopia a radiazioni ultraveloci (al ritmo di un milionesimo di nanosecondo), lo studio teoretico dei processi a radiazioni ultra-veloci, e l’abilità di plasmare materiali, progettando sistemi a campione per condizioni sperimentali ottimali.
Il nome del decano del College da cui proviene il professor Herrit, Niels O Andersen, è il primo a comparire nell’elenco di quelli del Consiglio di Consulenza Editoriale del Bentham Science journal dove il lo studio è stato pubblicato.
2) Il secondo autore è il Dr. Jeffrey Farrer della Brigham Young University (BYU).
http://www.physics.byu.edu/images/people/farrer.jpg
3) Il Dottor Farrer è descritto in un articolo a pagina 11 della rivista Frontiers della BYU, in un numero della primavera del 2005: “Dr Jeffrey Farrer, direttore del laboratorio TEM (TEM sta per Microscopia di trasmissione a elettroni ). L’articolo annota: “I microscopi a elettroni presso il laboratorio TEM contribuiscono a fornire alla BYU competenze virtualmente uniche…che non hanno confronto con quanto costruito nel resto del mondo”. L’articolo è intitolato: “Rari e potenti microscopi svelano nano- segreti”, il che è sicuramente vero per quello che riguarda le scoperte del documento di cui si discute.
4) Onore e gloria alla BYU per aver permesso ai Dottori Farrer e Jones e allo studente di fisica Daniel Farnsworth di intraprendere la ricerca descritta nel documento e aver condotto una recensione interna dello stesso. Il Dr Farrer era in principio il primo autore del documento. Ma a seguito della recensione, gli amministratori della BYU gli hanno evidentemente proibito di porre il suo nome per primo su QUALSIASI documento relativo alle ricerche sull’Undici Settembre (questa almeno sembra la loro priorità, ma forse lo spiegheranno). Nonostante tutto, la pubblicazione del documento è stata approvata col nome del DR Farrer e la citazione nella lista, e noi ci congratuliamo con la sua Università per questo. Siamo dalla parte del DR Farrer e ci complimentiamo per la sua carriera scientifica di ricercatore che questo documento testimonia.
5) Forse ora verrà finalmente il momento di un esame critico sui DATI SCIENTIFICI indagati dai professori Harrit e Jones, dai dottori Farrer e Legge e dai loro colleghi, come ripetutamente da loro richiesto. Noi sfidiamo QUALUNQUE università o gruppo di laboratorio a produrre un tale esame. Questo documento sarà un ottimo punto di partenza, insieme ad altri documenti, sempre recensiti da esperti, pubblicati da giornali autorevoli e che coinvolgono molti degli autori succitati:

Quattordici Punti di Accordo col Governo Ufficiale
Resoconti sulla Distruzione del World Trade Center

Autori: Steven E. Jones, Frank M. Legge, Kevin R. Ryan, Anthony F. Szamboti, James R. Gourley
The Open Civil Engineering Journal, pp.35-40, Vol 2
http://www.bentham-open.org/pages/content.php?TOCIEJ/2008/


Anomalie Ambientali al World Trade Center: Prove di Materiale Energetico

Authors: Kevin R. Ryan, James R. Gourley, and Steven E. Jones
The Environmentalist, August, 2008
http://dx.doi.org/10.1007/s10669-008-9182-4

6) James Hoffman ha scritto tre saggi che spiegano ulteriormente le implicazioni ed i risultati del documento. Grazie, Jim, per il tuo lavoro! http://911research.wtc7.net/essays/thermite/index.html

7) Importanti aspetti dello studio sono stati confermati, in piena indipendenza, da Mark Basile nel New Hampshire e dal fisico Frederic Henry-Couannier in Francia, a partire dai primi resoconti scientifici su queste scoperte (per esempio, quelli del prof. Jones ad un seminario al Dipartimento di Fisica dell’Università della Utah Valley, tenuto lo scorso anno). Pensiamo che ulteriori dettagli verranno ad aggiungersi da parte di questi ricercatori indipendenti.


Ora non vi resta che leggere il documento, e fare passaparola sui risultati di queste scoperte! http://www.bentham.org/open/tocpj/openaccess2.htm, poi cliccate su “Active Thermitic Materials Discovered…” Questo è il link diretto: http://www.bentham-open.org/pages/content.php?TOCPJ/2009

Fonte : 911Blogger
Traduzione per EFFEDIEFFE.com a cura di Milena Spigaglia

31.8.11

i cani eroi del 11\09\2001


dall'inserto domenica  di repubblica  del 29\08\2011 per  i  particolari cliccate  sopra  le  foto  non sono riuscito  ad  ingrandire  di più mi  scompaginavo il  blog

16.8.11

Aspettando le monetine di un secondo Hotel Raphael: dopo Craxi, Berlusconi


dovranno passare altri 45 anni prima di ripetere quel gesto ?
Aspettando le monetine di un secondo Hotel Raphael: dopo Craxi, Berlusconi

stori di donnne altrnativa a quelle di arcore e dello show buiness

  con sottofondo  portando i  giornali alla raccolta  differenziata  della  carta  mi sono imbattuto  in questo m articolo   della settimana  prima di ferragosto  interessanti  il primo  della  nuova sardegna  o l'unione sarda   (  ?  )

Campionato di morra, il robot battuto e umiliato Così Maria Pala di Lula ha battuto e umiliato il robot super Gavin 1.0


di Angelo Fontanesi

Campionato di morra, il robot battuto e umiliato
ONIFAI. Il protagonista annunciato della sedicesima edizione del «Campionau sardu de sa murra» e della nona edizione dell’«Atòbiu internazionale de sos murradores de su Mediterraneu» svoltisi nello scorso fine settimana a Baunei, doveva essere Gavin 1.0, robot murradore, costruito da un team di allievi dell’Istituto tecnico industriale Giua di Cagliari. Un assemblato di circuiti elettronici progettato e nato per vincere tutto e contro tutti.

E così aveva fatto sino a quando sul palco di gara allestito dall’a ssociazione «Po su giocu de sa murra» ha incrociato le sue dita bioniche contro quelle corte e tozze di Maria Pala da Lula, 35 anni, da tempo residente in Baronia, prima a Orosei e ora Onifai, al fianco del fratello don Franco, parroco del piccolo centro della valle del Cedrino.
Fisico possente e occhi di ghiaccio Maria Pala, operatrice di macello di professione ma di fatto perpetua al seguito del fratello, sin da bambina la sua «quota rosa» se l’è presa senza aspettare norme o sentenze del Tar. Le piaceva la morra, imparata dal padre, e i lavori che facevano gli uomini. Donna di campagna, senza se e senza ma e anche campionessa indiscussa di murra. Davanti a quel murradore androide nessun tentennamento e nessun imbarazzo.
Le sfide per lei non sono mai state un problema, figuriamoci quella contro un robot, anche se con la berritta in testa. Le prime buttate lente, per far capire ai circuiti elettronici di Gavin la tecnica dell’avversario, un passo che non si addice a veri murradores, ma Maria ha atteso con pazienza, sino a che il ritmo è aumentato e lei è entrata finalmente nel suo terreno preferito. Quello della murra incalzante e serrata e dono solo dei grandi campioni, assolutamente imprevedibile e mai scontata. E allora via, a ghettare sa manu, dudduru, battoro, ottoottanta, treminè, chimbe, seila, murra bella..un incalzare spasmodico di numeri e dita che si incrociano.
Sino all’imprevisto: Gavin incomincia a perdere colpi tentenna, si surriscalda e infine..zoot, un filo di fumo esce laconicamente dai suoi circuiti fusi e per il robot murradore è K.O. tecnico. Le braccia metalliche gli cadono senza vita lungo fianchi, la testa gli si reclina, e sul ring sconsolati salgono i secondi, i suoi giovani progettisti, per controllare i danni della loro creatura e cercare di rimettere a posto i circuiti andati in tilt.
Lei, Maria Pala da Lula, rimane invece impassibile, guarda la scena con i suoi freddi occhi azzurri senza fare una piega. Per lei è una vittoria come tante altre e come sempre anche stavolta gli applausi sono tutti per lei. L’unica donna in Sardegna capace di giocare e vincere in un gioco tutto al maschile, robot compresi.
Al di la del piazzamento finale nella vera tenzone, dove in coppia con il dualchese Francesco Piras si è dovuta arrendere alle porte della semifinale del campionato sardo ai sedilesi Antonello Putzulu e Gian Pietro Manca poi vincitori assoluti, è stata lei la protagonista del torneo.
Maria Pala non ama parlare, ma non per boria o presunzione. È fatta così e basta. A raccontare di lei e della sua vita spesa tra il mondo agropastorale, i palchi della murra e le sagrestie delle chiese è Rosa Masala, fotografa galtellinese, da 7 anni amica, confidente e un po’ pr della «regina della murra sarda». «Maria è così - dice la donna- ma sotto quella scorza di durezza che mostra sia nel fisico sia nell’abbigliamento è sensibile, dolce e timida.
Le luci dei riflettori non le piacciono. Eppure tutti la vorrebbero, mi chiamano da tutte le parti, non solo dalla Sardegna. L’anno scorso volevano Maria a Cagliari come donna sarda di successo alla serata finale di Miss Sardegna, mentre l’estate scorsa, dopo un torneo di murra disputato in un paese della Costa Smeralda, siamo state contattate da uno sceicco arabo che voleva portare la morra e ovviamente Maria nel suo emirato. Ci chiese solo quanto volevamo per una tournée, disse che non c’erano limiti di soldi, ma Maria mi liquidò alla sua maniera: «vae vae, tue e s’e miru..ajò chi non che torramus a bidda».
E così è stato anche a Baunei, dove la stella di Maria ha brillato giusto sul palco, davanti alla coppia avversaria. Poi a bidda, lasciando la gloria mediatica ai campioni venuti da tutta l’isola ma anche da mezza Italia e anche dalla Provenza e dalla Catalogna.


il   secondo  sul web per  il  blog
 da  rpubblica  online del 13  agosto

Anita, la laurea della vita "Rivincita dopo il terremoto"

L'Aquila, è una dei quattro sopravvissuti della casa dello studente crollata il 6 aprile 2009. E' la prima ad aver terminato il corso di studi. "Questo risultato è anche per chi non c'è più"

di GIUSEPPE CAPORALE
L'AQUILA - La seconda vita di Ana Paola Fulcheri (  foto  a destra  ), Anita per gli amici, è iniziata più di venti giorni fa: il 21 luglio.
 Il giorno della sua laurea. Tra sorrisi, abbracci e fotografie. Ed è iniziata lì proprio dove è finita la prima: all'Aquila. Lei, 24 anni, è una dei quattro sopravvissuti al crollo della Casa dello Studente, il 6 aprile del 2009. Ancora oggi, nonostante abbia voltato pagina (e nonostante la felicità per una laurea con il massimo dei voti e la consapevolezza di essere la prima laureata dei superstiti del crollo della Casa dello studente), appena prova a ricordare quel maledetto giorno, si commuove. Piange. Riesce solo a raccontare di essere rimasta tre ore sospesa nel vuoto. Ana Paola era sveglia e spaventata, mentre una parte di quel palazzo crollava a terra (portandosi via otto suoi amici). Aggrappata a ciò che rimaneva della sua stanza. Appena oltre la porta non c'era più nulla. Nulla. "Non c'era più il corridoio...". Ricorda anche che non furono i vigili del fuoco o la Protezione Civile a salvarla.
Riuscì viva da quelle macerie grazie a quattro suoi amici, anche loro superstiti, e quasi tutti presenti il giorno dell'inizio della sua nuova vita. Il 21 luglio anche tre di loro erano lì nell'aula magna "provvisoria" dell'Università dell'Aquila, insieme alla mamma, alle sorelle e ai nonni. Per applaudirla, darle coraggio e stringerla in un abbraccio. In prima fila c'era anche il suo avvocato, Vania Della Vigna, che l'assiste nella causa
contro la Protezione Civile. Sì, perché Ana Paola, dopo la tragedia, si è costituita parte civile contro la Commissione nazionale Grandi Rischi (organo tecnico della Protezione Civile) che - secondo l'accusa della procura dell'Aquila - sottovalutò lo sciame sismico e rassicurò, invece di informare la popolazione sul rischio che stava correndo.
"I miei amici sono morti perché la protezione civile disse che non c'era pericolo, che era tutto normale..." racconta Ana con tono acceso. Adesso che si è laureata, non sa se tornerà mai più all'Aquila. Non ci ha mai più dormito da quella notte. "Mai...". "Non so dirlo se tornerò... La sensazione che provo ogni volta è quella di un grande dolore. È come se venissi al cimitero".
Non ha chiare le idee sul futuro "non lo vedo..." dice. "Il preside mi consiglia di andare all'estero, sfruttando la conoscenza dello spagnolo, ma non ho ancora deciso. È una scelta difficile". 
Si è laureata in Scienze delle Investigazioni e il preside della sua facoltà, Franco Sidoti, è entusiasta di lei.
"Ana Paola ha scritto una tesi splendida - racconta il preside - con tante citazioni in spagnolo e in inglese, mostrando una conoscenza storica, politica, professionale dell'argomento assolutamente incredibile in una ventenne. Metterò tra i documenti la relazione che il suo correlatore ha scritto per lei, in termini di apprezzamento assolutamente fuori dal normale. Le tragedie o ti distruggono o ti rafforzano: Anita è fortissima. Il suo prossimo appuntamento con il destino è nel procedimento penale contro gli imputati per la tragedia della Casa dello Studente, che inizierà in fase dibattimentale il 20 settembre 2011. Io ci sarò e spero che anche qualcun altro degli iscritti al mio corso sia presente: è un appuntamento con la verità e con la giustizia".
Ana Paola, nel frattempo, è tornata a vivere di nuovo. "Dopo due anni e mezzo di patimenti, sofferenze e ripensamenti, ho capito che la vita mi ha dato un'altra possibilità e devo coglierla. Anche per i miei amici che non ci sono più". Anche per Michelone, il ragazzo morto tra le macerie, che quella notte (durante lo sciame sismico) prima della scossa fatale, lungo un corridoio, l'abbracciò e le disse: "non avere paura...".








9.8.11

11 settembre 2001 11 settembre 2011

 Io non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della Terra — non augurerei a nessuna di queste ciò che ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui sono colpevole. Sto soffrendo perché sono un radicale, e davvero io sono un radicale; ho sofferto perché ero un Italiano, e davvero io sono un Italiano [...] »
(dal discorso di Vanzetti del 19 aprile 1927, a Dedham, Massachusetts prima  d'ssere  di 'esser  bruciato  sulla sedia elettrica )
A differenza  degli altri  articoli celebrativi  , siamo  nel decennale  dell’evento  tragico ( sia  che , come la penso io , è una cospirazione americana , sia  che  sia  realmente un attentato   esterno  )  s’inizia  già  a parlarne prima  dl solito  .  d  per  evitare  d’essere  coinvolto nel bit  \  fiume d’inchiostro  retorico  ( al 90 % )  ne parlerò in più post , riportando articoli interessanti  come  questo  tratto  da  repubblica 3 \08\2011 

IL REPORTAGE
Le Torri dieci anni dopo
ritorno a Ground Zero
Grattacieli in costruzione, cascate e due piscine al posto delle Twin Towers abbattute l'11 settembre 2001. Viaggio nel cantiere più famoso del mondo, 10 anni dopo l'attacco agli Usa dal nostro inviato ANGELO AQUARO 






 
NEW YORK - Il cielo sopra Ground Zero è limpido come quell'11 settembre ma dal 50esimo piano della Freedom Tower nulla è più come prima. Il primo aereo è sbucato da lì: dall'autostrada nelle nuvole che insegue il percorso dell'Hudson, il fiume che diede vita a New York e poi l'ha tradita a morte accompagnando al bersaglio i dieci dirottatori dell'apocalisse. Alle 8.45 l'American Airlines Flight 11 si schiantò a 600 chilometri all'ora sulla Torre Nord, che adesso è quella "vasca" che si vede qua sotto: un buco nero di due chilometri quadrati e mezzo, profondo 10 metri.

IL REPORTAGE Nel cantiere di Ground Zero

La Torre Sud, invece, fu la seconda a essere colpita, ma la prima a cadere. Il volo American Airlines 175 la centrò alle 9.04 e 61 minuti dopo era già in macerie: anche il suo perimetro adesso raccoglie una "vasca", uguale e speculare all'altra.
Sembra impossibile: ma questo cantiere infinito che romba "24/7", come si dice qui, cioè 24 ore su 24 per 7 giorni alla settimana - 10 chilometri quadrati, 5mila operai - tra un mese diventerà un giardino di meditazione. Spiega Matthew Donham, l'architetto dei paesaggi di Pwp, lo studio californiano responsabile del Memorial, che i riflessi delle cascate d'acqua nella vasca saranno la traduzione più visibile del concetto firmato Michael Arad & Peter Walker: "Assenza riflettente". Che volete: gli architetti parlano così. Poi incroci Francis Connely, 68 anni, che bazzica questo posto da quando ne aveva 26 e lavorava alle vecchie Torri Gemelle, quelle di Minoru Yamasaki.
Beh, oggi Francis continua a fare sopra e sotto per la decina di ascensori che imbragano la Freedom Tower di David Childs. E' l'operaio più anziano di Ground Zero, e altro che assenza riflettente: "Più presenza di così"
A Osama Bin Laden sono bastati meno di venti minuti per quell'uno-due che mise in ginocchio l'umanità. Dieci anni dopo la Ground Zero che verrà è ancora un'intuizione. Vergogna? La vergogna, dicono i parenti delle vittime, sarebbe stata un'altra: quella di una ricostruzione forzata dove tutto sarebbe dovuto brillare più bello e più nuovo di pria. Non è un caso che il partito fosse simbolizzato dal palazzinaro più temuto del mondo: Donald Trump. Naturalmente anche la crisi ci ha messo del suo: bloccando la corsa al mattone che tutti temevano.



corto di  di Sean Penn tratto dal film collettivo 11.09.011 qui maggiori news  e  l'elenco  dei registi  che  vi hanno partecipato 


Tutto è ovviamente provvisorio. Un primo montacarichi ti porta da terra - le quattro entrate più la buca per il metrò, che a regime inietteranno nell'intero sito 3 milioni di persone - fino al 39esimo piano. Mezzo giro e da una lobby improvvisata spuntanto altri due ascensori. Sopra a ciascuno c'è scritto col pennello: "Express" e "Local". Ma è solo un gioco degli operai. Justine Karp, la ragazza di Port Authority che fa da scorta, occhiali da sole alla Top Gun e baci e abbracci col capomastro di ogni piano, ha un modo mica da signorine per chiamare l'ascensore: ma è l'unico. Un bel calcione al portellone con gli anfibi da cantiere. L'operaio coglie il messaggio e blocca al piano il montacarichi, le pareti con gli adesivi che inneggiano a Johnny Cash (ma c'è anche un bollino "No alla moschea") e la radio che spara rock Donald Marmen fa parte dello squadrone di Som, l'internazionale degli architetti (sono più di 70 e c'è pure un italiano: Stefano Ceccotto) che innalzano totem di case in mezzo mondo, e adesso si aggira come un ispettore affacciandosi a ogni vetrata del mostro di cemento e acciaio. E' un'altra New York. L'architetto non lo sa, confessa, da dove arrivarono gli aerei, però ti mostra come intorno tutto è davvero cambiato: qui accanto non c'era la 7 Word Trade Center che è stata la prima a risorgere, lì in fondo non c'era il grattacielo curvilineo di Frank Gehry che è ancora vuoto perché gli affitti sono fermi.TJ Gottesnieder, il gran capo di Som, giura che anche questa Torre 1 sarà finita, come da programma, entro due anni. Dovremmo esserci: anche se per la verità lo scheletro d'acciaio doveva essere completato quest'autunno e invece si slitta a gennaio. D'altronde qui tutto è gigantesco e quindi anche i tempi sono ingigantiti. Per questo la Ground Zero che verrà è ancora tutta da immaginare. Là dove sorgerà la Torre 2 di David Foster, ancora niente. Ecco qui le fondamenta della Torre 3 di Richard Rogers. E finalmente si riesce a indovinare qualche piano del 4 World Trade Center di Fumihiko Maki.
Stop. Ma che cosa vedranno allora le decine di migliaia di persone che tra un mese torneranno qui per la prima volta? Come si ripresenterà al mondo il luogo profanato dall'orrore? Quando tutto sarà finito apparira così. Le due piscine del Memorial al centro, dove sorgevano le torri. La Freedom Tower a svettare all'angolo sinistro del quadrilatero che comprende tutto il sito. Di fronte, la cupola della metropolitana disegnata da Santiago Calatrava. Poi a corallo e in senso orario le torri 2, 3 e 4. Tutt'intorno alle vasche, centinaia di querce bianche. E a galleggiare tra le vasche del Memorial e la cupola della metropolitana, ecco il museo. Tra poco più di un mese al pubblico verrà aperto solo il Memorial
Sarà possibile, cioè, affacciarsi dove sorgevano le Twin Towers - i "Twins Voids", i vuoti gemelli, li chiama Matthew Donham - e leggere i nomi delle 2973 vittime incisi sul bordo:  Richard Allen Pearlman, Karen J. Klitzman, Christine Sheila McNulty... Sarà possibile passeggiare tra le querce che sono state scelte a una una nei boschi di Pennsylvania, Maryland, New Jersey e New York: "Piante che parlano del luogo in cui si trovano" dice sempre l'architetto dei paesaggi. E ci si potrà fermare a meditare sui sedili di pietra. Che come tutti i marmi di qui arrivano invece dall'altra parte del mondo: la nostra. "Si chiama Verde Fontaine e viene da Pietrasanta, una ditta italiana che si chiama Savema: il migliore riflesso di grigi e di verde che potessimo trovare al mondo". Ecco: riflesso. Riflesso è la parola d'ordine che gli architetti migliori del pianeta si sono scambiati per riempire di senso il buco nero del dolore. "Il riflesso di questi specchi sarà differente" dice Donald Marmen spiegando che la Torre del 1 World Trade Center splenderà come nessuna prima mai. Ma nel gioco di pieni diventati vuoti - e di riflessi che si inseguono sui vetri dei grattacieli - forse il vero spirito del luogo lo cogli in quella specie di antro che è destinato a diventare il museo.
Sarà pronto soltanto tra un anno ma lo scheletro a dirigibile già emerge mentre Anne Lewinson, l'architetto di Snohetta, lo studio che ha realizzato il disegno che ingloba i "tridenti" d'accio delle vecchie Torri Gemelle, controlla che gli specchi appena installati riflettano - anche qui - la giusta prospettiva. Il "dirigibile" che si vede all'esterno è solo il padiglione d'accoglienza del museo che raccoglierà i visitatori direttamente dal metrò: e li spedirà negli inferi di Ground Zero. Perché l'orrore che sconvolse il mondo verrà ricostruito quaggiù: nella caverna ricavata negli abissi delle Torri Gemell. E dove adesso, a dieci metri di profondità, passeggi intorno all'involucro delle due vasche: i due Vuoti Gemelli che nessun architetto riuscirà mai a colmare.
All'uscita sarà un sollievo ritrovarsi tra querce bianche e cascate. "Il suono delle cascate" dice Matthew Donham "isolerà dal rumore della metropoli". Qualche decina di piani più su, nella Torre più alta d'America, sciameranno i giornalisti del New Yorker, di Vogue e tutte le riviste patinate della Condé Nast, il primo big ad aver contrattato un posto lassù, per la modica cifra di 2 miliardi di dollari per 25 anni. Vacilla il trasloco della banca svizzera Ubs: troppo costoso. E pensare che questo qui sotto, dice sempre l'architetto - mostrando i marmi, le querce bianche e quel Survivor Tree, l'albero sopravvisuto agli attacchi, a cui dopo l'uccisione di Osama Bin Laden il presidente Barack Obama si è aggrappato per rendere omaggio ai parenti delle vittime - "in fondo è un cimitero". Non ci libereremo mai della sua maledizione?
Proprio gli architetti insegnano che una volta le città sorgevano intorno ai cimiteri. Per questo Matthew non si scompone quando uscendo dal cantiere un ragazzino smarrito lo ferma. "Mi sa dire dove posso trovare..." . Ma no, mica cerca il buco nero del mondo, il museo provvisorio in Liberty Street, la croce di acciaio miracolosamente trovata tra le macerie: macché: "Mi sa dire dove posso trovare il 'Century 21?'", chiede. E già. Sta cercando il megastore che porta il nome del secolo che si aprì con quell'11 settembre: quel gigantesco discount della moda proprio lì di fronte, su Church Street, dove ogni giorno alle casse c'è una fila che non finisce più. Perché, almeno in questo, all'ombra dei grattacieli che verranno, non è poi così vero che nulla a New York è più come prima.

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