6.9.11

Il fabbro siciliano: «Così ho costruito e visto crollare le Torri» di G. R.

di Giuseppe Rizzo | tutti gli articoli dell'autore
nino schifano 11 settembre
Due immagini si sono saldate alla retina degli occhi di Nino Schifano nel corso della sua vita: la seconda è la nevicata del 1962 a Palermo. «Avevo diciannove anni e lavoravo ai cantieri navali – racconta – eravamo nelle stive di una nave, avevamo lavorato tutta la notte e la mattina, una volta sul ponte, non credevamo ai nostri occhi: tutto era bianco, ricoperto di neve». Chiunque sia nato a Palermo, ovvero vi abbia passato un po' di anni della propria vita, ha in qualche modo la sua nevicata da raccontare – e non sono molte, e pochi i fortunati. Le palme che si colorano di bianco, Montepellegrino che magia, il Teatro politeama una nuvola di zucchero nel traffico impazzito. Nino, la nevicata del 1962: «Un'immagine indimenticabile», dice. La seconda per il carico di stupore e sbalordimento che i suoi occhi riescano a ricordare.

FOTOGALLERY: LE IMMAGINI SCATTATE
DA NINO AL WTC DOPO GLI ATTACCHI


La prima sono le Twin Towers che crollano. Tra le due immagini si srotola la sua intera esistenza. Quella di un ragazzo che a ventidue anni sale su un aereo per New York per raggiungere la ragazza che ama, che trova lavoro come fabbro nella Grande Mela, che partecipa alla costruzione delle Twin Towers e che anni dopo le vedrà crollare per poi essere richiamato a sgombrarne le macerie. A dieci anni da quella mattina feroce la sua memoria corre ai primi giorni trascorsi nella Grande Mela.

IN AMERICA
«Furono momenti durissimi, pensavo di tornarmene in Sicilia: troppo grande la città, troppo dura la vita», dice. A salvarlo sono due cose: l'amore per la moglie, Maddalena, che in America lo ha trascinato nelle speranze di un destino meno storto di quello che spettava loro in Sicilia, e l'abilità con cui sa lavorare il ferro. Inizia a lavorare, paghe da fame, sfruttamento continuo, ma le cose pian piano si aggiustano.

IL LAVORO NEL 1969
La prima volta che mette piede al World Trade Center è il 1969, e subito la vertigine progettata dall'architetto Minoru Yamasaki lo incanta e paralizza. L'edificazione sulla roccia, le fondamenta oltre i 20 metri sotto il suolo, il cuore di acciaio e alluminio della struttura: per un fabbro catapultato dalle case popolari di Palermo al centro di una delle più grandi metropoli dell'Occidente è un continuo capogiro. Nino e la sua squadra sono chiamati a sistemare gli ambienti che avrebbero ospitato uffici di multinazionali, hotel, ristoranti, centri della finanza globale e studi di avvocati.

«Era anche un lavoro delicato – spiega Schifano – perché oltre alla sistemazione basilare dei locali, dovevamo metterli in sicurezza: erano gli anni degli attentati dei Weathermen», i bombaroli dell'estrema sinistra americana da qualche tempo terrorizzavano gli Stati Uniti. Billy Ayers, uno degli elementi di spicco del movimento, a misura del fatto che raramente si sopravvive alle proprie idee scellerate, parlò di quei giorni un'intervista rilasciata al New York Times. Il titolo suonava così: «Nessun pentimento per la passione degli esplosivi». La data di pubblicazione, per un capriccio del destino, era l'11 settembre del 2001.

IL CROLLO DELLE TORRI

Un giorno di cui Nino ricorda ogni particolare: «Ero nella Diciannovesima Strada, Settima Avenue, nel West Side. Le Twin Towers lì vicino, il solito straordinario spettacolo». Per anni Schifano ci è passato davanti, incollando il naso alla punta delle Torri ogni volta che ha potuto. «Mi ricordo che all'inizio ci fu un gran silenzio – dice – scesi in strada e dall'angolo dove mi trovavo alzai gli occhi al cielo, verso il World Trade Center, e non mi resi subito conto di quello che stava succedendo». Nel 1974 era stato nominato vicepresidente del sindacato Iron Workers Local 40. Restò in carica per quattordici anni, e le prime persone che sentì la mattina degli attacchi furono proprio i suoi capi. L'ordine fu di dirigersi verso le Torri e controllare cosa fosse successo.

«Quando arrivai a Canal Street, però, trovai un muro di Blue – racconta, riferendosi alle decine di poliziotti che intanto avevano recintato l'area – fu impossibile superarli». La scena intanto si riempiva di tutti quei particolari da apocalisse urbana che negli anni la retorica delle immagini ripetute ossessivamente avrebbe trasformato nei grani di un rosario di cui tutti conosciamo i passaggi: le Torri in fiamme, i vetri esplosi, il volo disperato di decine di persone dalle finestre dei grattacieli, il crollo, i superstiti che si aggirano come fantasmi, la nube bianca che si alza sulla testa di tutti.

L'ODISSEA DEL RITORNO A CASA
Nino osserva la scena dal Manhattan Bridge assieme ad altre decine di migliaia di persone. Sta provando a tornare a casa, non sente la moglie e i figli da un po', e non li sentirà per tutta la durata della sua piccola odissea – sei ore per lasciare Manhattan e arrivare a Brooklyn.

«Decisi di andare a East – racconta – sopra il ponte la gente andava a East, ma guardava verso il West. La nube biancastra veniva spinta verso East, come noi sul ponte. Brooklyn era dall’altra sponda. Pensai ai terroristi nascosti sotto il Manhattan Bridge con l’esplosivo pronto. Continuai verso Est, verso l’altra sponda». Dal ponte Nino realizza per la prima volta cosa è successo. Si gira verso Manhattan: le Torri non ci sono più. A casa abbraccerà la moglie, sentirà i figli e si attaccherà alla televisione. I giorni e i mesi successivi saranno i giorni e i mesi della rabbia.

AL WTC, TRA LE MACERIE
«Tempo dopo mi chiamò il sindacato, mi chiedevano di ritornare al Wtc per partecipare allo sgombero delle macerie: in fondo, quella era roba nostra», dice. Ferro e acciaio e quel che restava di ferro e acciaio: roba loro. «La prima cosa che mi colpì una volta lì fu l'odore. Era impressionante. Un odore di morte, di cadaveri. Un giorno fui costretto a tornarmene a casa perché non ce la facevo più a sentirmelo addosso », dice. «Ma la cosa più dolorosa per me, che sono un fabbro, fu vedere quel ferro, che fino a poco prima ti sembrava un materiale invincibile, accartocciato come fosse uno spaghetto. Pensavamo che quelle Torri non sarebbero potute crollare mai, e invece sono andate giù come fuscelli».

Ne tagliarono i pezzi in piccole parti perché fosse più semplice portarle fuori. Giornate intere con il rumore delle seghe negli orecchi e l'odore di morte nel naso. A interrompere il lavoro, il suono della campana che suonava ogni volta che venivano ritrovati dei corpi – o pezzi di.

LA CROCE PER LE VITTIME
«Venivano i parenti delle vittime, e noi, se erano credenti, gli regalavamo delle piccole croci che avevamo ricavato dai resti delle Twin Towers». Una di quelle croci Nino se la porta ancora dietro, anche ad Alimena, piccolo paese arroccato sulle Madonie, in Sicilia, dove ogni estate ritorna per qualche mese. Quest'anno, per la festa della Maddalena, quando la banda del paese è passata sotto casa sua e lui come da tradizione gli ha offerto acqua e arancine e panini l'hanno vista tutti. I musicisti hanno suonato l'inno di Mameli e quello americano. Senza retorica. Nino ne è stato contento.
5 settembre 2011

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