Lia Tagliacozzo
il secondo ed è questo quello più grave ( senza sminuire la gravità del primo ) da https://www.frosinonetoday.it/politica/ 11 gennaio 2021 10:30
Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
Ogni mio ulteriore commento alla storia di Enzo (uso ancora il nome maschile in quanto anagraficamente e chirurgicamente non è donna ) che leggerete sotto è inutile ed non aggiunge niente di più a quanto detto sotto da lui stesso . Ser non queste poche righe prese dall'articolo riportato sotto
La sua è una storia particolare in quanto Innocenzo Giagoni ha 55 anni ed è nato a Roma dove ha vissuto fino al 1992 per trasferirsi, poi, in Sardegna. Nel 1986 è entrato in polizia. Dopo aver chiesto e ottenuto il trasferimento nell'isola, ha lavorato nei diversi reparti della polizia della provincia di Sassari. Nel 2010 è arrivato in città ed è entrato in servizio alla polizia stradale di Olbia, successivamente, nel 2013, l'anno in cui il ciclone Cleopatra devastò la Gallura provocando la morte di 13 persone, tra cui la compagna di 42 anni e la figlia di quasi due anni, lavorava alla polizia di frontiera all'aeroporto "Olbia Costa Smeralda"
Detto questo lascio la parola alla sua storia presa Da la nuova Sardegna del 12\1\2021
Giagoni, 55 anni, era sopravvissuto all'alluvione che gli aveva strappato moglie e figlioletta. Ora sta diventando donna
OLBIA. Carla Baffi non è una persona qualunque. E non solo perché Carla prima era Enzo, ma soprattutto perché Carla, quando era ancora Enzo, è sopravvissuta all’alluvione del 18 novembre 2013 a Olbia. Ha visto morire davanti ai suoi occhi la compagna Patrizia e la loro figlia Morgana di 23 mesi, trascinate via dalla piena. Una ferita che nel suo cuore non guarirà mai.Enzo Giagoni, 55 anni, romano, ex poliziotto, con trent’anni di servizio alle spalle, ha deciso di cambiare sesso e lo ha fatto dopo un lungo travaglio interiore. Un percorso che deve ancora concludere. «Sono Carla. E ora sono quella che sono sempre stata. Non potevo più continuare a farmi del male costringendomi a vivere una vita che non sentivo mia».
«Sono Carla. E ora sono quella che sono sempre stata. Non potevo più continuare a farmi del male costringendomi a vivere una vita che non sentivo mia». La gonna ha preso il posto dei pantaloni, i tacchi hanno soppiantato le scarpe basse, la parrucca nasconde i riccioli neri ribelli. Ma il suo animo è sempre stato quello di una donna anche quando indossava giacca e cravatta o la divisa da poliziotto. Così è stato fin da quando era bambino e di nascosto infilava i collant e indossava i vestiti delle clienti dell'affittacamere di sua madre. «Ho dovuto far morire Carla mille volte rinnegando me stessa, il mio vero essere, per non far soffrire gli altri. Ora è tempo di essere liberamente, fisicamente e totalmente Carla», dice. Nella sua nuova vita non c'è più spazio per Enzo Giagoni. L'uomo che è stato per quasi cinquant'anni vive solo nei documenti. Per la legge lei è ancora uomo, ma Carla Baffi - così ha scelto di chiamarsi - da un anno ha cominciato il suo complesso percorso di transizione che la porterà ad essere riconosciuta anche legalmente donna, col cambio di generalità e i conseguenti interventi chirurgici. Accavalla le gambe avvolte dagli stivali neri. Gli occhi brillano sotto i capelli a caschetto. È pronta per raccontare. Dice che spiegare, per lei, è liberatorio. Sì, perché Carla, o meglio Enzo, 55 anni, romano, ex poliziotto, con trent'anni di servizio alle spalle, non è suo malgrado una persona qualunque. È sopravvissuto all'alluvione del 18 novembre 2013. Ha visto morire davanti ai suoi occhi la compagna Patrizia e la loro figlia Morgana di 23 mesi, trascinate via dalla piena. Una ferita che nel suo cuore non guarirà mai. «Cinque anni dopo la loro morte ho deciso di dire basta: non potevo più continuare a nascondermi. Ho deciso di uscire allo scoperto. E di combattere per essere me stessa. Quasi tutti ormai sanno di Carla e io mi sento felice e libera di esserlo. Non indosso più abiti maschili, me ne sono disfatta. Racconto di me perché voglio che sia chiaro a tutti una cosa: quella che sono ora, non è un riflesso o una conseguenza del trauma subito nella tragedia di sette anni fa. Voglio demolire preconcetti o idee sbagliate: Carla è sempre esistita, è sempre stata dentro di me, ma non potevo farla vedere agli altri», spiega. E va avanti, con l'impeto di chi vuole far emergere la verità. «Ho avuto quattro donne nella mia vita, tutte importantissime. E tutte sapevano. Alcune hanno accettato la mia parte femminile, altre no. E io per non perdere il loro amore, nascondevo Carla, la reprimevo. Spesso le persone con cui parlo mi chiedono se sono sicura di ciò che sto facendo, se sia la cosa che desidero. La mia risposta è sì, è ciò che ho sempre desiderato. Non rinnego nulla della vita di Enzo perché mi ha dato due splendide figlie, la più grande che ha 30 anni, nata dal mio matrimonio, e la piccola Morgana, avuta con Patrizia, ma col senno di poi, vedendo la serenità con cui vivo ora e la conflittualità che Enzo aveva dentro se stesso e nelle relazioni con le donne, mi dico che avrei dovuto cominciare il percorso molti anni fa. Avrei dovuto far nascere Carla prima anziché farla morire continuamente per non far soffrire gli altri».I ricordi affiorano veloci nel suo racconto. Immagini ed emozioni del passato, forti e nitide come allora. «Sono stata consapevole del mio essere femminile fin da quando avevo sette anni. Amavo i collant, rimanevo incantata a guardare gli abiti sui letti e negli armadi delle clienti della piccola pensione che mia madre adottiva, mamma Michelina, aveva a Roma. Ho vissuto con lei fino al 1992. Andavo con mamma a pulire e sistemare le camere e qualche volta, di nascosto, indossavo i loro vestiti. Quando lei mi beccava, piangeva. Non capiva. Io ricordo benissimo la sensazione che provavo quando mettevo quegli abiti: mi sentivo bene, tranquilla, protetta. Ma quando vedevo mamma piangere, facevo sparire tutto. Non volevo che soffrisse». Parlare e spiegare della sua nuova vita alle persone che hanno conosciuto Enzo e che ora si ritrovano davanti Carla, non è certamente facile. «"Guarda che non sono più quello di prima: quando ci vediamo capirai"», avvisa prima di incontrare - puntualmente vestita con gonna e tacchi - chi ancora non lo sa. «So che ci vuole tempo per metabolizzare, è normale, lo capisco. Ma per me affermare la mia vera identità è fondamentale. Spero di realizzarmi presto anche sotto l'aspetto professionale, trovare un lavoro ora è molto difficile, molti non capiscono la natura di una transgender». Carla un anno fa, ha cominciato il percorso di transizione. È seguita dal Saifip (Servizio di adeguamento tra identità fisica e identità psichica) del San Camillo Forlanini di Roma che ha accertato la disforia di genere (disturbo dell'identità sessuale), ed è sotto terapia ormonale al Policlinico Umberto 1 di Roma. Con le relazioni finali delle due strutture sanitarie, quando arriverà il momento, potrà chiedere al tribunale il cambio delle generalità e iniziare il percorso chirurgico, come prevede la legge. «A mia mamma biologica, mamma Teresa, che oggi ha 90 anni, ho cercato prima di farglielo capire e poi gliel'ho detto chiaramente. "Ti ho partorito come Enzo, per me è difficile accettarlo", mi ha detto. Ma, poi, un giorno l'ho vista che mi lavava un vestito, un altro giorno mi ha consigliato di usare la piastra per i capelli come fanno le mie sorelle perché mi lamentavo dei miei ricci... Mi ama e piano piano si abituerà. Ci vuole tempo per tutti. Ma io in questo tempo che serve agli altri, continuerò a percorrere la mia strada. Chi mi vuole bene, capirà»
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Ma soprattutto ha avuto sempre dalla nuova sardegna
IL ricordo doloroso di quel giorno: «Volevo morire con loro. Ora chiedo giustizia»
«L'acqua me le ha strappate via»
Un ottima iniziativa ma senza un esempio vale poco e finisce solo per essere uno dei tanti bla... bla ... ovvero solo chiacchere e non sostanza \ fatti .Ma ci sono qui sul canale youtube di Smile and Learn - Italiano dei tutorial ricchi di consigli e indicazioni. Quali sono i temi affrontati nei video? Le regole di comportamento sui social e quelle di protezione della propria privacy online, come usare il telefono con gli amici o a tavola con i genitori, come riconoscere e contrastare il cyberbullismo e le fake news. I protagonisti delle storie sono ragazzi e ragazze che stanno imparando come vivere in Rete e affrontare questo divertente viaggio nel cyberspazio, fatto di tanti amici provenienti da tutto il mondo e di molte cose da imparare divertendosi. Quindi una bella iniziativa senza per questo stravolgere e deturpare la nostra grammatica e la nostra lingua scritta proprio una bella come il titolo dell'articolo di Cristian
Il Göteborg Film Festival, con la sua storia ormai più che quarantennale (è attivo dal 1979), trampolino di lancio per i nuovi lungometraggi nati nel grembo di ghiaccio della penisola scandinava con destinazione resto del mondo grazie a un concorso e un premio tutto suo, il Dragon Award Best Nordic Film, non si lascia abbattere dalle circostanze infauste e sfida la pandemia autoesiliandosi. Proprio così: in tempi in cui è fondamentale cambiare le proprie, vecchie (ahimè) abitudini adottando un comportamento giudizioso che preveda il minor numero di contatti con altri esseri umani stando alla larga da ambienti affollati, il Festival di Göteborg fa uno sgambetto al virus e segue alla lettera le norme imposte dal coronavirus. Che, per una volta almeno, riescono a trasfigurare un contenitore culturale in un'opera d'arte nell'opera d'arte. Povera, quasi brutalista e quindi estremamente affascinante nella sua essenzialità.
Una rassegna cinematografica che, da evento in cui gli assembramenti rappresentavano una consuetudine gioiosa poiché mezzo necessario per compiere appieno il rito della collettività, di unione tra tanti sconosciuti davanti a uno schermo – ovvero cinema – diventa unica. Unica intesa proprio come 'uno'. Solitaria. Non più 160mila visitatori ma un solo spettatore, con a disposizione un biglietto di andata (e di ritorno, state tranquilli) per la remota isola svedese di nome Hamneskär. Più che una vera e propria isola, però, si tratta di un cumulo di scogli, circondati da macchie sparute di vegetazione strinata dal vento e dalle intemperie, con un faro nel mezzo riconvertito in hotel. Un hotel che, come va di moda oggi, viene definito 'boutique', cioè di lusso, un 5 stelle caldo e accogliente per combattere il gelo.
Un luogo necessario per rendere tutto più allettante e permettere al fortunato, unico spettatore del Göteborg Film Festival che verrà (è programmato da venerdì 29 gennaio a lunedì 8 febbraio, in versione online-streaming tramite abbonamento, mentre lo spettatore rimarrà sull'isola per sette giorni), di vedere, lontano dal rumore e dai problemi del mondo, la selezione in concorso. Anche se a causa della pandemia il festival ha dovuto ridurre drasticamente la sua programmazione, passando da una media di 450 titoli ad appena 60, l'Italia può gioire: tra i film è infatti presente anche Molecole, il documentario di Andrea Segre girato a Venezia durante il primo lockdown. Il titolo dell'iniziativa, che per assonanza ricorda una delle più interessanti nel nostro paese, Il cinema ritrovato di Bologna, è Il cinema isolato, e può definirsi – oltre le definizioni canoniche – anche un esperimento sociale: siamo davvero pronti a guardare scorrerci davanti agli occhi delle storie, vere, fantastiche, sognanti, felici o drammatiche introiettando ogni singola emozione custodendola – anzi, obbligatoriamente, tenendola – solo per noi stessi? L'intento (dichiarato) del festival, infatti, non è solo quello di promuovere la settima arte ma di esaminare l'impatto dell'isolamento sull'uomo e il ruolo che la visione di un film in solitudine ha su di esso.
In passato, il Göteborg Film Festival aveva già portato agli 'estremi' l'idea più scontata di fruizione del cinema. Un altro peculiare progetto era stato quello che aveva in cartellone titoli esclusivamente a tema religioso da far proiettare in luoghi sacri, a ogni latitudine di culto: in una chiesa, in una moschea o in una sinagoga. E se agli spettatori di sesso maschile, poi, fosse stato richiesto di guardare alcuni specifici lungometraggi seduti non su calde e comode poltroncine di velluto rosso ma distesi con le gambe spalancate su un lettino di ferro, di quelli usati dai ginecologi durante le loro visite? Anche questo è stato uno dei molti esperimenti della rassegna nordica.
Parallelamente a questa iniziativa, il festival organizzerà due altre esclusive proiezioni 'per uno' in due iconici luoghi di Göteborg: lo Scandinavium, una delle arene più note in Svezia dove si svolge il campionato mondiale di hockey su ghiaccio, e il Draken Cinema, la sala dove solitamente vengono presentate le anteprime. Ad Hamneskär, e in particolare nel faro-hotel di Pater Noster (si chiama proprio così, 'Padre Nostro', ecco, non allarmatevi ulteriormente), una sola cosa è certa: non sono ammessi i cellulari – e dunque ogni contatto con l'Oltremare – e neppure i libri, altra 'finestra' verso l'esterno. Chi verrà scelto per questa impresa affascinante ma non così emotivamente semplice da sostenere dovrà accettare di abbandonare tutto, ma siamo sicuri per trovare molto.
Hamneskär, situata al largo della costa occidentale svedese, può essere raggiunta esclusivamente in gommone (o in elicottero, se il tempo è buono. Se...) dal paesino da 1.400 abitanti circa di Marstrand, frazione del comune di Kungälv, nella contea di Västra Götaland, o da Göteborg, la seconda città più popolosa della Svezia dopo Stoccolma e la quinta del Nord Europa.
Una volta là, a parte lo schermo allestito all'interno del resort Pater Noster, potrete fare i conti solo con i vostri demoni (o angeli). Certo, l'hotel 5 stelle, a vederlo sulla carta, fa spuntare subito un sorriso: l’agenzia di design svedese Stylt ha infatti trasformato la casa del maestro del faro del XIX secolo dell’isola rocciosa – per la precisione si tratta di una struttura in ferro dipinta di uno sgargiante rosso costruita nel 1868, automatizzata nel 1964 e poi caduta definitivamente in disuso nel decennio tra il 1977 e il 1987 – in un alloggio da sogno. Quella luce che un tempo illuminava l’orizzonte per guidare i marinai attraverso le nere, pericolose acque nordiche ora profuma di legno e folklore, grazie anche ai dettagli rustici originali, ai cimeli marittimi d'epoca, ai mobili tradizionali nordici e alle tonalità ispirate alle acque circostanti. Con le sue sole nove camere doppie per un massimo di 18 ospiti (ma voi sarete soli, ve lo ricordiamo!) e una zona notte realizzata all'esterno, sugli scogli e sotto la volta celeste limpidissima, disponibile ai turisti a un costo di circa 435 dollari a notte inclusi i pasti principali, Pater Noster più che un hotel sembra davvero il set di un film.
“Stiamo tutti guardando il cinema in isolamento, ora, e questo cambia il nostro rapporto con esso; abbiamo visto nuovi tipi di lungometraggi in questo periodo che hanno assunto un significato diverso a causa della pandemia”, ha dichiarato Jonas Holmberg, il giovane critico cinematografico svedese e direttore artistico, dall'aprile 2014, della rassegna. “Una scena in cui le persone abbracciano uno sconosciuto, ad esempio, sembra molto diversa in un momento in cui non ci si può abbracciare”, ha continuato Holmberg.
Il direttore ha dunque tracciato il profilo, anzi, i requisiti assolutamente necessari, che deve possedere il candidato – che verrà scelto dopo un colloquio diretto realizzato in videocollegamento – di questa esperienza cultural-sociologica: “Essere amanti del cinema, accettare di registrare un video-blog giornaliero ed essere emotivamente e psicologicamente in grado di trascorrere una settimana in questo tipo di isolamento. Con l'esplosione degli schermi e le immagini in movimento che possono essere viste ovunque e in ogni tipologia di situazione, vogliamo proporre una riflessione non solo sul cinema e su chi lo fa ma anche su come lo fruiamo in questa nuova epoca”, ha aggiunto Holmberg. Fiero sponsor dell'annuncio (guardate la clip sopra, in questo articolo) che promuove l'iniziativa di cine-isolamento: “Niente telefono. Niente amici. Niente famiglia. Nessuno. Solo tu. E 60 film in anteprima”. E se, come diceva Wim Wenders, “i grandi film cominciano quando usciamo dal cinema”, l'isola che risuona tra i venti come una 'preghiera del Signore' è lì per dimostrarlo.
Se io mi volessi rivolgere a una persona che non ha ancora ben chiara la propria identità di genere o che sta semplicemente attraversando una fase della sua vita in cui sta decidendo in quale “pelle” si sente più a suo agio, dovrei stare attento, per rispettare la persona con la quale sto parlando ed evitare che i miei pregiudizi o le mie abitudini le arrechino danno.
Perché, contrariamente a quel che molti credono, anche la scelta della vocale da utilizzare alla fine di un aggettivo può rappresentare una importante differenza.
Questioni di vocali
Che cosa chiedo, quindi, a una persona che si definisce “non binary”, ovvero priva della rigida distinzione “maschio – femmina”? Prima di dedicarci a queste sottili (che poi sottili non sono) disquisizioni, dobbiamo tuttavia rilevare che ancora oggi, primi mesi del 2021, spesso anche chi si occupa di comunicazione istituzionale dimostra di avere in testa preconcetti difficili da estirpare e di essere ignorante, in materia di diritti s’intende, come una panchina (che dire ignorante come una capra sarebbe offensivo per un animale che, tutto sommato, dimostra di avere un certo piglio).
Confcommercio, 1920.
In realtà, parliamo di una campagna di Confcommercio che sembra stata scritta nei primi anni 20 del secolo scorso e che invece è stata concepita a dicembre appena trascorso.
Nell’epoca storica in cui si combattono ogni giorno sacrosante battaglie che riguardano pari diritti e pari opportunità, il geniale pubblicitario di Confcommercio se ne esce con un cartellone in cui vediamo raffigurata la silhouette di un uomo, dotato di occhi e naso, vicino alla dicitura “un lavoratore, un padre che guarda speranzoso al futuro”.
A fianco a lui, senza occhi ne naso, la sagoma di una donna, recante la dicitura “sua moglie, la sua famiglia” e, infine, piccolo e pure lui senza naso, il figlio, vicino alla scritta “suo figlio, il suo futuro”.Difficile immaginare una comunicazione peggiore di questa: l’uomo è l’unico che lavora, la donna è raffigurata più piccola e senza accessori sensoriali, sia la donna sia il bambino sono di proprietà del padre famiglia (“sua”, “suo”) e via discorrendo, implicazione dopo implicazione. Certamente, di strada ce n’è ancora da fare, e parecchia. [.....] continua
[....] Tale uso dell’asterisco è però foriero di alcuni inconvenienti: il più banale e non scientifico (sotto il profilo linguistico) è che, nel caso di car*tutt*, sembra di avere a che fare con un supermercato. Il secondo inconveniente è meno soggettivo: l’effetto è molto da modulo burocratico, ricorda, anche se per contrasto, le doppie uscite maschile femminile divise da una barra: il/la || sottoscritto/a || nato/a eccetera. Il terzo inconveniente sembra più decisivo. L’asterisco si usa in tre circostanze: 1. In un testo, rinvia a una nota a piè di pagina oppure è messo dopo una firma per rinviare a una qualifica a fondo pagina, per esempio, a un articolo: Mario Rossi* > *Presidente di “Cieli puliti”. 2. In un testo, quando l’autore omette volontariamente un nome di luogo o di persona, sostituendoli con tre asterischi era nato a *** nella contea di ***. 3. Infine, si mette prima di una parola o frase per segnalare che è agrammaticale o insensata. In tutti questi casi l’asterisco funziona come un segnale, ma non incide nel corpo della parola. Invece, nel car* tutt* e simili, viene messa in gioco addirittura la morfologia, un livello cioè strutturale del sistema lingua.da https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/domande_e_risposte/grammatica/grammatica_1665.html
La settimana " rompi " sta per iniziare . speriamo che per questo 27 gennaio d non dover assistere di novo a simili bestialità come quella fatta da Alessandro Meluzzi su Twitter il cui post è stato rimosso ( forse in un barlume di razionalità o forse per evitare insulti personali ) ma fortunatamente la foto dell'orripilante misfatto è stata salvata in tempo per essere messa in circolo nella rete .
La foto ritoccata e postata ( poi rimossa visto che se si cerca su twitter compare la scritta : << Questo Tweet non è disponibile. ) da Alessandro Meluzzi
Purtroppo non è la prima volta che succede, che il fotoritocco, cioè, arrivi a prenderla a prestito. A taroccarla. A cambiarne le parole. A utilizzarla, nonostante ciò che rappresenta di per sé, per veicolare messaggi di altro tipo. Accadde nel 2014 con Beppe Grillo, che la scelse, stravolgendola tra le polemiche, per attaccare il Colle e il governo. Riaccade oggi con Alessandro Meluzzi, psichiatra e già parlamentare - nel 1994 e 1996 - con Forza Italia. Opinionista televisivo, è riallacciandosi all'emergenza Covid che su Twitter Meluzzi pubblica un post con la foto del campo nazista. In alto, la rivisitazione della scritta: al posto de Il Lavoro Rende Liberi, il copia e incolla di un leit motiv degli ultimi mesi, quell'Andrà Tutto Bene che ha accompagnato emotivamente le settimane di lockdown prima dell'estate (sui balconi, alle finestre, nei selfie dei bambini) e che ora, con la risalita del numero dei contagi e il ritorno delle misure restrittive, si ripropone per molti.
Premetto che non sono del Pd e non lo voto più perchè .. ma questo è un altro discorso . Ma concordo con loro
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Pd si è levato un coro di polemiche per l'uso di un'immagine che riconduce ai crimini dell'Olocausto. "Twitter oscuri il 'cinguettio' dello psichiatra Alessandro Meluzzi con un richiamo a Auschwitz". È quanto chiede Alessia Morani (Pd), sottosegretaria al ministero dello Sviluppo economico. Nel tweet, spiega Morani, "c'è una foto dell'ingresso al campo di sterminio con la scritta Arbeit macht frei sostituita da Andrà tutto bene. Io mi chiedo come Twitter possa consentire questa vergogna. Ma oscuratelo santo cielo!", conclude la sottosegretaria.Le fa eco il deputato dem Andrea Romano: "Chi si fa beffe della Shoah per la propria piccola, misera propaganda non merita la dignità di interlocutore. Nel mio piccolo, non parteciperò ad alcuna trasmissione televisiva che abbia questo signore tra i suoi ospiti #orabasta".
"Questo Meluzzi, psichiatra, passa la giornata sui canali Mediaset a dispensare lezioni su qualsiasi aspetto della vita umana. Qui ha toccato il fondo". Lo scrive il responsabile esteri del Pd, Emanuele Fiano, su Facebook commentando la fotografia pubblicata da Meluzzi. "Io non ammetto scuse con chi gioca con il simbolo dell'abominio dell'essere umano. Auschwitz. Utilizzare il simbolo della fabbrica della morte nazista, dove un milione e duecentomila persone sono state rese schiave, torturate, picchiate gasate e bruciate, dove è stata cancellata l'idea stessa di umanità per pura propaganda politica, a me fa orrore e schifo", aggiunge Fiano. "Fossi un conduttore di Mediaset non chiamerei più una persona del genere in trasmissione".
«Una volta, durante un esame di Morale avevo l’impressione che il professore guardasse il pulviscolo atmosferico. Allora mi fermai e smisi ...