20.3.21

Gli anni di piombo una ferita ancora aperta .basta un niente per creare polemiche e riattivare le braci . Il caso de Il tempo di vivere con te ultimo romanzo di Giuseppe Culicchia

[..] Non so che cosa accadde, perché prese la decisione,
Forse una rabbia antica, generazioni senza nome
Che urlarono vendetta, gli accecarono il cuore:
Dimenticò pietà, scordò la sua bontà [....] 
                            Francesco Guccini




  Lo  so    che   bisogna  aspettare la  fine  per  dare  un  giudizio   completo   di  un opera   , soprattutto quando  raccontano direttamente  o indirettamente   di periodi complessi  con cui   ancora    da  una parte  e dall'altra  non  si ancora  voluto  fare i conti e  li  si  fa  ancora    troppo lentamente  . 
 Infatti   

[...] alcune settimane fa è uscito il libro di uno scrittore che conosco da molti anni e che scriveva sulla mia “Stampa”, Giuseppe Culicchia. Il libro che si intitola “Il tempo di vivere con te” racconta la vita dell’assassino di Vittorio, quel Walter Alasia che di Culicchia era cugino e che venne a sua volta ucciso, mentre fuggiva dopo aver sparato ai poliziotti. Si
racconta un ragazzo, le sue idee, i pranzi e i giochi di famiglia, perché anche i terroristi non sono numeri ma vite. Quando sono arrivato alle ultime pagine le ho lette con sconforto perché ci ho trovato un vizio vecchissimo e pericoloso, quello di giustificare il terrorismo e di ammantarlo di idealismo. Quello di parificare i morti, di pareggiare il conto, mettendo su un piatto della bilancia i terroristi caduti e sull’altro i poliziotti, magistrati, professori o sindacalisti uccisi. Ma non si può fare, perché da una parte c’erano persone che avevano deciso di combattere una guerra che nessuno aveva dichiarato e si erano messe a sparare, dall’altro chi ha difeso e salvato questa democrazia.[...]

da    https://www.mariocalabresi.com/stories/lultima-alba-di-vittorio-padovani/

Ora potrebbe  essere vero che ( sempre dalla stessa fonte ) << [...] Chi lo legge senza sapere niente di quegli anni può pensare che Walter Alasia sia stato un eroe, ma purtroppo per la sua famiglia, per quelle di Vittorio Padovani e Sergio Bazzega e per tutti noi non è così. >> anche  se nei primi , punto in cui sono arrivato nella lettura ,  ci  sono dei  cenni  alle  violenze   e vari  omicidi   di una parte   e dell'altra  che  fanno da  sfondo  alla  vicenda  di Walter  Alasia  , basta   fare  delle ricerche  via  web  per  soddisfare la propria  curiosità  .

Ma da da li a definire come ha fatto , nonostante sia un ottimo giornalista , Cesare Martinetti, il libro scabroso e << un libro prigioniero della gabbia ideologica degli anni Settanta e che non riscatta Walter, anzi lo sigilla intatto nel suo destino, vittima anch’egli del fanatismo, ma pur sempre colpevole.>>  ce  ne  passa   perchè  vuol  dire  o  che   non  si  letto per  intero il libro   olo si è  letto   con  pregiudizi  e preconcetti  .  Infatti    e  lo  dice  uno che   non ha  vissuto   , se  non in maniera  indiretta       , visto  che  cronologicamente  sono  del  1976   ,  quel periodo   da parte  di Culicchia  rispetto  ad  altri libri memorialistici soprattutto    si  è  si cercato di comprendere [ OVVIAMENTE  COMPRENDERE  NON VUOL  DIRE   NECESSARIAMENTE  GIUSTIFICARE   ] il perchè  quella  persona  in questo caso    cugino  Walter  abbia commesso  tale  gesto    e vedere la figura umana non solo la  "colpevolezza"   come dichiara lo stesso autore a la lettura  inserto  domenicale  del corriere della sera del 14\3\2021  in una doppia intervista \ conversazione a cura di CRISTINA TAGLIETTI fra Lui ( cugino di Walter Alasia ) e Giorgio Bazzega figlio di Sergio colpito a morte insieme al vicequestore Giovanni Vittorio Padovani. dal brigatista Walter Alasia, 20 anni, a sua volta ucciso nella casa dei genitori a Sesto San Giovanni durante il blitz della polizia.

Ecco  il passo  significativo  :

[...] 

GIORGIO BAZZEGA — Quando mi hanno segnalato il libro di Giuseppe mi ci sono immerso. Ho capito subito che mi permetteva di aggiungere il pezzo che mi mancava di questa storia, quello che nessuno aveva potuto raccontarmi fino a quel momento: non Walter il terrorista ma Walter il ragazzo, nella sua umanità.

Eppure una recensione apparsa online accusa Culicchia di aver fatto, con questo libro, apologia di reato.


 GIORGIO BAZZEGA — Giuseppe lo ha scritto come andava scritto, con una sensibilità e un’onestà intellettuale inattaccabili. Non c’erano altri modi.

GIUSEPPE CULICCHIA — Non si trattava di farne un eroe ma di raccontare chi era, com’era. Ho profondo rispetto per il dolore delle famiglie Bazzega e Padovani, per quei ragazzi, gli altri poliziotti, anche loro giovani, che alle 5 di mattina vedono uccidere due colleghi. Non c’è niente di giusto in questa storia, però bisogna capirla. Finora erano usciti libri di memorialistica scritti da reduci di quell’epoca oppure dalle vittime. Il mio forse è il primo in cui si racconta il dolore dall’altra parte. Ho cercato di mostrare Walter nella sua complessità umana. Credo che in tanti, come lui, sia maturata quella scelta che io non cerco di giustificare ma di capire. Come può un ragazzo di vent’anni decidere di impugnare una pistola e uccidere? Io non andai al funerale perché avevo 11 anni ma mia sorella, che ne aveva 17, sì. Quando vide i calzini bianchi sporchi di sangue nella bara capì che era tutto vero. Fino a quel momento aveva pensato che potesse essere uno scherzo di Walter. Per anni è stato identificato con una fototessera, quasi una cupa foto segnaletica in cui noi non riconoscevamo il ragazzo affettuoso che amava scherzare e disegnare. Io non lo lasciavo in pace, gli ero sempre appiccicato e non mi sono mai sentito dire un no.

[...] 

da LA LETTURA   (  inserto cartaceo   domenicale   ed  anche  sito  https://www.corriere.it/la-lettura/  )    del 14\3\2021   

Quindi   sfido Voi critici, voi personaggi austeri, militanti severi   a raccontare quel periodo  senza pregiudizi , odio ideologico , ecc . Infatti leggendo  i  vostri  giudizi  impregnati  di  pregiudizi    e  del rifiutare del comprendere  mi  viene da   dire :    non occupiamoci nè  delle vittime   della  follia  ideologica     di quel periodo   nè degli  assassini  lasciamo   che  il tempo faccia  giustizia   trasformandoli in  polvere  ed  in oblio  ,  che  le    nuove  generazioni    non  conoscano tali eventi     e  rifacciano  in misura  più  grave     gli stessi errori   . Vietiamone   quindi  le biografie  , o che  essi  parlino ,  come si faceva  un tempo     con il  sacrosanto rito  purificatore    della  damnatio memoriae  .  Ma  riflettendo mi  accorgo     è meglio  scriverle invece   queste  biografie  , inchiodiamole  come lapidi   agli angoli della  strada della  nostra memoria  , perchè nessuno  dimentichi   cosa  sono stati  ed  il loro    banale  essere   iniqui .   
Un libro  onesto   e  doloroso   come riconosciuto   da  un altro giornalista  "conservatore  "  come  Francesco merlo  .  

  da  repubblica 

Caro Merlo, cosa pensa del libro dedicato da Giuseppe Culicchia a Walter Alasia "Il tempo di vivere con te"?
Marino Della Cioppa

Penso a Giorgio Bazzega, che aveva due anni quando suo padre, il maresciallo Sergio, fu ammazzato insieme al vicequestore Vittorio Padovani dal brigatista Walter Alasia, che fu poi colpito e ucciso mentre fuggiva. Ha raccontato Bazzega a Giovanni Bianconi: «Da ragazzo mi facevo di cocaina e giravo con la P38, pensando di ucciderli tutti, specialmente Renato Curcio che aveva indottrinato Alasia che, a freddo, aveva ammazzato il mio papà». Bazzega, durante un dibattito, si avvicinò al fondatore delle Br (che oggi ha 79 anni): «Quando Curcio ha capito chi ero, si è spaventato e io mi sono sentito libero dal mio odio. Gli ho dato una pacca sulla spalla: "Stai tranquillo... volevo che mi guardavi in faccia"».
Tra le altre sfortune, Bazzega non ha un cugino romanziere, e Culicchia è un romanziere formidabile. In Italia c’è un gusto speciale per la psicologia degli assassini di quegli anni. Io non credo che appartengano, neri e rossi, alla storia della politica, se non come sfondo scenografico e come alibi, ma alla storia della criminologia che, grazie a Dio, non è più razzismo lombrosiano. Non esistono i mostri, nessun criminale lo è. E chissà com’erano dolci e generosi i nazisti con i loro bimbi tra una tortura e l’altra. E così i bombaroli neri e i mafiosi, tutti figli del loro tempo. Ma c’è un momento in cui il tempo esce di scena e rimani tu, con la pistola in mano: o spari o ti liberi dell’odio, come Giorgio Bazzega. Ho letto il bene che del libro hanno scritto Maurizio Crosetti sul Venerdì e, sull’ Huff Post , Pigi Battista e Giampiero Mughini.
Obietto solo che non è vero che la generazione del ‘68 fu complice degli assassini. Posso testimoniare che anche (persino) in Italia la ribellione della stragrande maggioranza non fu quella robaccia, non fu materia preparatoria per il terrorismo e porcheria omicida.


Ora  palle   pagine    che  ho letto fin ora  (  vedremo se  confermare o smentire   questa mia osservazione     dopo che   l'avrò finito  ) è  un libro   senza  a  differenza  di altri libri di memorie    ( da una  parte  e   dall'altra  )  senza vittimismo, senza  retorica, giustificazione  ed  esaltazione   ideologica,  c'è il dolore di quello che  all'epoca   era  un bambino che a undici anni perde in una sola notte un affetto immenso e tutte le certezze che credeva di avere, unito alla lucidità di quello che    con gli anni  è  diventato   un grande scrittore  che ha cercato ed  aspettato  per oltre quarant'anni la giusta distanza per raccontare questa storia.
Un memoir asciutto e allo stesso tempo accorato  (  per  questo ad  alcuni   ancora  indigesto ) in cui   Culicchia ricostruisce la  sua   questione   privata   e      a   smesso   di  di temere   il proprio tempo    e    quel problema     si spazio   per  parafrasare  la  famosa  Linea  Gotica   degli ex C si 




ciò che da bambino sapeva di Walter, scavando nei propri ricordi alla ricerca dei germi di ciò che sarebbe stato, e lo confronta con quello che crescendo ha appreso di lui dalla sua famiglia, ma anche dai giornali e dai libri di storia. E così facendo racconta gli anni della lotta armata e del terrorismo da una prospettiva assolutamente ( o quasi    visto il precedente   di Ero in guerra ma non lo sapevo  libro di Alberto Torregiani figlio di Pier Luigi Torregiani era un gioielliere titolare di un piccolo esercizio nella periferia nord di Milano, in via Mercantini, nel quartiere della "Bovisa" ucciso  dal gruppo  terrorista  i PAC di Cesare battisti  ) originale  .
 Infatti

Giuseppe Culicchia tiene in serbo queste pagine da più di quarant'anni. Perché la morte di Walter Alasia, al cui nome è legata la colonna milanese delle Brigate Rosse, è una storia dolorosa che lo tocca molto da vicino: per il Paese è un fatto pubblico, uno dei tanti episodi che negli anni di Piombo finivano tra i titoli dei quotidiani e dei notiziari televisivi; per lui e la sua famiglia è una ferita che non guarirà mai.
Walter Alasia, di anni venti, era figlio di due operai di Sesto San Giovanni. Giovanissimo aveva cominciato la sua militanza in Lotta Continua, ma poi era entrato nelle fila delle Brigate Rosse. Nella notte tra il 14 e il 15 dicembre 1976 la polizia fece un blitz a casa dei suoi genitori per arrestarlo. Lui aprì il fuoco, e nel giro di pochi istanti persero la vita il maresciallo dell'antiterrorismo Sergio Bazzega e il vicequestore di Sesto San Giovanni Vittorio Padovani. Subito dopo tentò di scappare, ma venne raggiunto dai proiettili della polizia.
Giuseppe all'epoca ha undici anni e Walter è suo cugino. Ma in realtà è molto di più: è il fratello maggiore con cui non vede l'ora di passare le vacanze estive, che gli insegna a giocare a basket, che lo carica sul manubrio della bicicletta e disegna per lui i personaggi dei fumetti che ama. È un ragazzo affettuoso, generoso, paziente, e agli occhi di Giuseppe incarna un esempio.

                                 dalla  retrocopertina  del libro 


per capire l' oggi bisogna conoscere il passato  frase  abusatissima   ma è vera questo non è un libro qualunque e un libro di storia la storia degli anni di piombo del secolo scorso leggetelo senza preconcetti   e  giudizi apriori  e  capirete    che   certi commenti  



Recensito in Italia il 7 marzo 2021
Acquisto verificato
Se non si configura l’apologia di reato per un libro come questo....è disgustoso idolatrare così un terrorista che ha ammazzato due innocenti ....


 

sono  fuori luogo e  dimostrano  quanto dicevo  nelle  righe precedenti     e  con quanto dice  :  « A quarant'anni di distanza, Culicchia ha scritto un libro, Il tempo di vivere con te, che è insieme memoria, ricostruzione storica, elaborazione del lutto, lontano da ogni forma di giustificazione o indulgenza verso i crimini delle Brigate Rosse» - Cristina Taglietti, in   la Lettura.  Ma soprattutto  con il  fatto che


Culicchia era più piccolo di lui di nove anni, ma gli era legato con infantile adorazione. Il tempo di vivere con te, pubblicato da Mondadori, racconta la contraddizione – anzi la convivenza – nella stessa persona di un “mostro”, raffigurato così pubblicamente e responsabile della morte di due agenti di polizia, e di un ragazzo amabile e amato da tutta la famiglia, e il dolore della famiglia stessa, cercando di mettere insieme i pezzi della storia personale e di quella italiana per costruire delle spiegazioni. La morte di Alasia è raccontata oltre la metà del libro.

                               da  https://www.ilpost.it/2021/02/11/culicchia-alasia-libro/ 


Concordo  e  qui  chiudo  con   quanto dice  Davide Dotto  in   questa recensione  su https://www.gliscrittoridellaportaaccanto.com
Non è ancora il momento di raccontare quel 15 dicembre 1976, e quel che ne seguirà. No. È, questo, il tempo di vivere con te. Ancora un poco. Almeno nello spazio di queste pagine. Perdonami, Walter, se ci ho messo così tanto. Trenta libri, e più di quarant’anni. È per raccontare la tua storia che ho cominciato a scrivere, il giorno dopo la tua morte. È per questo che ho continuato a farlo in tutto questo tempo. Eccolo qua, il primo libro che avrei voluto scrivere. Ma avevo appena undici anni, facevo la prima media, e anche se dalle elementari i miei temi venivano letti in classe da maestre e professori di Lettere, non ne ero capace. Ne sarò capace, ora?
Giuseppe Culicchia, Il tempo di vivere con te
Il tempo di vivere con te di Giuseppe Culicchia è un racconto tenuto in serbo per oltre quarant’anni. Rievoca “gli anni di piombo”, una stagione troppo recente per essere metabolizzata e pienamente compresa. [....] 



Adesso vado a leggerne  qualche altra  pagina  

Parigi, se la parola “donna” fa paura: mostra di ritratti femminili vandalizzata dalle transfemministe

premetto che ho un altra idea sulla prostituzione dev'essere lasciata libertà alla donnao anche se minoritaria quella maschile se vuole esercitarla in proprio o unendosi facendo una cooperativa se maggiorenne e non sotto pappone \ magniaccia magari pagando le tasse ed avendo una pensione . Ma un conto è una discussione(  come  quella  avvenuta    sui  social    fra  me  ed  alcune  femministe  )  anche dura con qualche insulto da parte delle femministe dure e pure , ma arrivare come è successo recentemente , vedere per ulteriore approffondimento articolo sotto , proprio non ci sto . Questo è un attivismo che anziché costruire e lottare per un proprio spazio, condivisibile o meno che sia distrugge e invade quello degli altri. Il preludio a tale atto di vandalismo è stata l‘agguato alla manifestazione del Collettivo abolizionista Anti Prostituzione CAPP a Place de la République del 7 marzo. Un manipolo di adolescenti ha assalito le donne che manifestavano contro la prostituzione con insulti, lanci di uova, minacce, cartelli stracciati e aggressioni fisiche. Le stesse scene sono state viste in Italia, a Firenze. L’episodio ha creato sconcerto sui social e non solo, coinvolgendo numerose associazioni e collettivi femministi.

Parigi, se la parola “donna” fa paura: mostra di ritratti femminili vandalizzata dalle transfemministe


Parigi, se la parola “donna” fa paura: mostra di ritratti femminili vandalizzata dalle transfemministe


 Il tempo è arrivato, per le donne, di riprendere il loro posto nello spazio pubblico. Non dobbiamo più avere paura negli spazi comuni. Dobbiamo vivere senza la paura di uscire, di giorno come di notte. Dobbiamo essere libere di vestirci come vogliamo, frequentare i luoghi che ci piacciono, senza imporci coprifuoco. Lo spazio pubblico deve essere condiviso, tra donne e uomini.
 

 Dobbiamo essere libere. Sono gli aggressori a non doverlo essere, sono le loro azioni a dover essere condannate, non la nostra libertà di essere e di esistere. La paura deve cambiare fronte”Sguardo dritto verso l’obiettivo. Mani incrociate o appoggiate sui fianchi. Dietro, il buio della notte. In primo piano, la fierezza di essere, di esistere. Senza paura.
 Si chiama proprio
 Women are not afraid, la mostra fotografica dell’artista Pauline Makoveitchoux.
Circa 150 ritratti di donne che non posano ma si stagliano in quel buio che per molte ha significato aggressione, violenza di strada, paura, stupro. L’artista ne ha scelti sessanta per l’esposizione cominciata l’8 marzo scorso a Vitry-sur-Seine, comune a sud di Parigi.  Non è questo il primo lavoro dedicato alle donne per Makoveitchoux. Intenso e quasi ancestrale il suo lavoro Les Sorcières, le streghe, sul sapere antico e guaritrice delle donne e il valore della sorellanza, o ancora sulla compagnia Les Clameuses, in periferia. Nasce invece dal movimento dei collage (affissioni) contro il femminicidio la serie Les ColleusesSono diverse, diversissime le donne di Makoveitchoux, ma nonostante tutto la sola parola “women” è ormai offensiva per l’attivismo transfemminista locale che non ha tardato a reagire, affiancando ai collage di Makoveitchoux altre affissioni, esigendo una maggiore rappresentanza di trans e “sex worker”. Un intervento quanto mai inopportuno, semplicemente perché i soli ritratti non identificano le donne né dal punto di vista del genere, né della professione. “Non abbiamo vandalizzato, ma completato” è stata la loro unica spiegazione sull’account instagram di Collage Féministes Vitry. Intorno al movimento dei collage femministi a Parigi e dintorni si assiste a una vera e propria spaccatura. Pioniera e iniziatrice dei collage contro il femminicidio è stata Marguerite Stern, autrice del volume Héroines de la rue letteralmente “eroine della strada”, che ha progressivamente preso le distanze da numerosi collettivi di collage soprattutto dopo la deriva transattivista di questi ultimi e gli atti vandalici presso l’edificio L’Amazone, a Parigi, casa rifugio per donne vittime di violenza, oltraggiato con falli e altri insulti.  
Quella all’esposizione di Makoveitchoux è cronologicamente solo l’ultima ingerenza di un attivismo che anziché costruire e lottare per un proprio spazio distrugge e invade quello degli altri. Il preludio a tale atto di vandalismo è stata l‘agguato alla manifestazione del Collettivo abolizionista Anti Prostituzione CAPP a Place de la République del 7 marzo. Un manipolo di adolescenti ha assalito le donne che manifestavano contro la prostituzione con insulti, lanci di uova, minacce, cartelli stracciati e aggressioni fisiche. Le stesse scene sono state viste in Italia, a Firenze. L’episodio ha creato sconcerto sui social e non solo, coinvolgendo numerose associazioni e collettivi femministi.

Makoveitchoux ha chiuso le discussioni rilasciando una potente dichiarazione su Instagram:

Io Pauline Makoveitchoux, residente in periferia, figlia di immigrati poveri, attivista femminista e fotografa autodidatta, rivendico la maternità e il rispetto della mia serie fotografica Women are not afraid. 

Noi, donne, siamo il 52 per cento della popolazione francese e la metà dell’umanità, e subiamo le violenze sistematiche, misogine, universali e millenarie. La mia serie fotografica Women are not afraid mette in prospettiva la legittimità delle donne a essere nello spazio pubblico e denuncia le aggressioni sessuali e sessiste quotidiane, commesse nell’indifferenza generale.
Da un anno e mezzo realizzo gratuitamente questi scatti e diffondo il mio lavoro con l’intenzione di offrire alle donne il potere di riappropriarsi degli spazi e di interpellare gli uomini sui loro comportamenti da aggressori o da testimoni passivi.
Dopo aver posato, tutte le donne hanno manifestato le emozioni forti e potenti che hanno provato durante le sedute fotografiche.

Alcune mi scrivono ancora adesso, mesi dopo, per dirmi che quando si sentono male tornano a guardare il loro ritratto per ritrovare forza.
Ho realizzato due mostre gratuite, la prima a Ivry-sur-Seine (periferia sud di Parigi), a ottobre scorso, pagata da me stessa. La seconda a Vitry-sur-Seine, lunedì 8 marzo 2021, con il sostegno economico della municipalità di Vitry, che è anche il mio comune d’origine.
Queste mostre mirano a offrire gratuitamente il mio lavoro a tutte le ragazze e a tutte le donne attraverso spazi accessibili a tutte e lontani dai musei e dalle gallerie d’élite.
Oggi, la mia esposizione a Vitry-sur-Seine è stata vandalizzata. Questo atto di vandalismo è stato rivendicato da un gruppo di donne dissimulate dietro uno pseudonimo.
Durante tutta la mia vita, gli uomini mi hanno spiegato come dovevo agire, in quanto donna, inferiore. Come dovevo parlare, perché venivo dalla periferia, senza educazione né linguaggio appropriato.
Oggi, rifiuto le invasioni sui miei pensieri, le mie azioni, il mio linguaggio.
Queste persone hanno scritto numerose frasi, uscite dalla propoaganda liberale alla moda e lontana dalla realtà:

  • il femminismo deve essere inclusivo: vi sfido a trovare un’altra serie fotografica che rappresenta tante donne differenti quanto la mia
  • le donne trans sono nostre sorelle: le donne trans non sono donne, le mie sorelle non hanno il pene
  • non esiste femminismo senza sex worker: non conosco sex worker, conosco solo la mia storia violenta di prostituzione e quelle delle sopravvissute alla prostituzione, con le quali lotto ogni per esigere diritti e mezzi perché le donne possano uscire da questo inferno.

Un promemoria: le statistiche mostrano che più del 90 per cento delle donne in prostituzione (soprattutto donne) vogliono uscirne. La media delle età d’entrata nelle maglie della prostituzione in Francia è di 14 anni, e questo unico dato è sufficiente a dimostrare che questo non è un “lavoro”, un’attività come le altre. La speranza di vita per le persone in situazione di prostituzione è di 39 anni, e il tasso di suicidio tra le persone che si prostituiscono è 9 volte più alto che nel resto della popolazione”.

                                         Valeria Nicoletti

15.3.21

coraggio di denunciare ed andare a processo per femminicidio - violenze in famiglia . la storia d Patrizia Cadau

 Giovedì, 18 marzo alle 12.30, al Tribunale di Oristano, c'è l'udienza  che  riguarda  la carissima Patrizia Cadau, per  il processo contro l'ex marito, per le violenze inaudite a cui ha sottoposto per anni  Patrizia e i figli  .  Patrizia, "viva", nonostante le violenze subite, è un simbolo per tutte le donne che non hanno avuto  la forza di denunciare e che non ce l'hanno fatta.

N.b   

ho  provato  a  chiederle  se   raccontava  per  queste pagine   qualcosa  di tale  vicenda   ma  ha  riferito    che  preferisce  non rilasciare   dichiarazioni  Quindi   il  racconto si  basa   su :   quello che ho trovato in rete  


  https://www.corrieresardo.it/cronaca

E’ la triste storia “di una donna forte” quella di Patrizia Cadau, capogruppo del Movimento 5 Stelle presso il consiglio comunale di Oristano, che ieri è apparsa davanti al giudice per l’esame della sua versione dei fatti, esame che continuerà il 19 novembre, nella causa per maltrattamenti subiti. Da sempre attiva e combattiva contro la violenza di genere, in lotta per i diritti delle donne, firmataria a luglio 2020 di una mozione per contrastare la violenza domestica  – accolta all’unanimità dal consiglio comunale – è stata lei stessa vittima di maltrattamenti e violenze da parte del suo ex marito.




Ma non ha taciuto. Ha intrapreso un percorso legale lungo e faticoso, alla ricerca di giustizia, iniziato il 30 luglio 2017 con la denuncia nei confronti del coniuge violento che l’ha ripetutamente, continuativamente percossa per anni, dal 2012 al 2017. “A nulla è valso ricorrere alla Questura che, come avviene nella maggior parte dei casi, ha sottovaluto l’accaduto e mi ha rimandato a casa nelle braccia del maltrattante”, denuncia Patrizia. Un lungo calvario che coraggiosamente affronta per dovere verso i suoi due figli, per liberare se stessa, per le donne e gli uomini che la seguono, la sostengono, le sono vicini e la vedono come esempio, come speranza di un cambiamento verso una vita libera da soprusi, discriminazioni e violenza. La forza che ogni volta, ben 7 rinvii dall’apertura del dibattimento, riesce a trovare – “ogni volta mi sento violata, ma ogni volta non devo far altro che dire la verità” – confida Patrizia, le viene anche dalla solidarietà di tante donne e di tutte le associazioni femminili del territorio. Sono veramente tante con lei ma è soprattutto lei ad essere lì per tante. Per tutte le donne che, grazie alla sua forza e perseveranza, troveranno il coraggio di non subire, di non giustificare soprusi e violenze, ma di denunciarne gli autori


Infatti    sempre  secondo l'articolo  del corrieresardo 


 “Dire la verità, sostenerla negli anni, documentarla, testimoniarla, è una fatica titanica. Ma alla fine paga – e rivolge un invito a tutte le donne – quindi siate sempre solidali, libere e coraggiose. Insieme si può fare tantissimo”. Aver avuto la forza e il coraggio di parlare, di uscire allo scoperto, anche rischiando la gogna pubblica, è stato per lei importante e di molto aiuto per liberarsi e non sentirsi sola. Un sentito incoraggiamento a Patrizia nel prosieguo della sua difficile impresa per ottenere giustizia; un ringraziamento le è dovuto per tutte le donne che salverà e da parte di tutte le donne che come lei vorrebbero vivere in una società dove l’amore prevalga sull’odio e la violenza. Corriere Sardo oggi – diversamente da altre volte – ha scelto, di comune accordo con Patrizia, di mettere il suo viso maltrattato in apertura “è un’immagine forte   ma è il messaggio che è necessario comunicare”, ci siamo dette con lei, ma non è l’unico che vogliamo lasciare alle nostre lettrici e ai nostri lettori. C’è una storia altrettanto importante che va raccontata ed è quella delle donne che si sono unite per farsi coraggio, delle donne che erano lì, fuori dal tribunale ad aspettare Patrizia; è la storia delle Reti delle Donne e dei Centri Ascolto che supportano e accolgono situazioni difficili è la storia di Coordinamento3 Donne di Sardegna sempre presente come GiuLia Giornaliste Sardegna. Associazioni, movimenti, gruppi di donne che si battono contro la violenza.


 Speriamo   che  il suo coraggio     di aver  denunciato   ed  averne parlato   sul suo  Facebook insieme alla  foto  sopra  riportata  (  non  per  morbosità e  gusto del macabro  , ma perchè sembra   che l'opinione  pubblica  capisca  solo  vedendo immagini forti  )   

   Una donna che denuncia una violenza deve combattere per anni contro le accuse di essere una "finta vittima" e una "falsa martire".Deve difendersi dallo stigma sociale di essere sopravvissuta. Di avere osato ribellarsi al violento. Di avere prima di tutto pensato a mettere in sicurezza i suoi figli.Mentre il bastardo gioca al gatto col topo nell'evidenza collettiva, protetto dal pregiudizio che lui è comunque un poverino, e che lei abbia fatto qualcosa per meritarselo, un sacco di persone decidono di fargli da spalla.

Sono quasi sempre donne che hanno un qualche tipo di risentimento nei confronti della vittima e si lasciano usare per affermare una superiorità. Donne che diventano branco, poi naturalmente vittime, ma anche familiari conniventi del mostro per questioni economiche. Di queste donne, nel tempo, ho collezionato insulti, ma anche richieste di aiuto, minacce velate suggerite dal violento, veri e propri teatrini di sfida. Donne che, prima sedotte e coinvolte dal manipolatore, poi hanno cercato di liberarsi dalla vergogna di essere cadute tanto in basso. Una vergogna tipica di chiunque sia sporcato in buonafede da questo tipo di criminali. Associata alla vergogna, la dissociazione e il tentativo di negare le proprie colpe beatificando il violento e criminalizzando la vittima. Quasi mai in buona fede sia chiaro. Figuriamoci poi in un posto come quello in cui abito dove tutti si conoscono. Dove chiunque non può non sapere di essere in compagnia di un imputato per maltrattamenti in famiglia e altri odiosi reati, e decide di mettersi in posa per un selfie con così edificante compagnia. Dire la verità, sostenerla negli anni, documentarla, testimoniarla è una fatica titanica. Ma alla fine paga. Quindi siate sempre donne solidali, libere e coraggiose. Insieme si può fare tantissimo.  


Ma soprattutto la sua  provocazione     \ sfogo   riportata   da  https://www.globalist.it 
del 22 dicembre 2020


L'idea choc della consigliera M5s: "Per fermare gli uomini violenti assoldate un sicario"

Patrizia Cadau, ex candidata sindaca del M5S per Oristano a sua volta vittima di violenza: "Ho scritto quelle cose per denunciare l'imbarazzante vuoto istituzionale su questo tema"

Patrizia Cadau
                                                         
Patrizia Cadau

Lei la definisce una provocazione, Ma per molti è andata oltre il seminato e, di fatto, ha incitato alla violenza: per fermare gli uomini violenti "assoldate un sicario: se vi beccano, ve la cavate con poco e costerà certamente meno di tutto quello che occorre per affrontare venti anni di indagini, integrazioni di indagini, procedimenti civili e penali, ri-vittimizzazione, altra violenza, economica, istituzionale".Questo il 'suggerimento' postato su Facebook dalla consigliera comunale di Oristano Patrizia Cadau, ex candidata sindaca del M5S nel comune sardo. "Una provocazione", precisa Cadau, "ma alla luce di quello che succede, a questo punto, non escluderei l'opzione". Il riferimento è all'ultimo caso di omicidio-suicidio verificatosi a Padova, dove un padre ha assassinato i suoi due figli prima di togliersi la vita. L'uomo, come raccontato dal nonno dei due adolescenti, sarebbe stato segnalato ai carabinieri più volte dalla ex compagna. "Ho scritto quelle cose - ha detto Cadau - per denunciare l'imbarazzante vuoto istituzionale su questo tema. La politica non fa abbastanza e il codice rosso non è una misura sufficiente. L'emendamento Giannone alla legge di bilancio che prevedeva un fondo per le vittime di violenza è stato rigettato". Secondo la consigliera di Oristano "la violenza di genere non viene trattata con la gravità con cui vengono trattati gli altri reati e questo determina anche un vuoto culturale": "Si parla molto di violenza - prosegue - ma non la si capisce, non si ascoltano le vittime: il male di cui soffre una vittima di violenza deve essere 'taciuto' perché quando denunci, stai denunciando le istituzioni che hanno fallito, la gente attorno che fa finta di non accorgersene"...... continua   qui  https://www.globalist.it/news/2020/12/22/l-idea-choc-della-consigliera-m5s-per-fermare-gli-uomini-violenti-assoldate-un-sicario-2070800.html


non   si rivolgano contro in sede   dibattimentale  .  

13.3.21

le donne in oriente vengono oppresse in occidente illuse quando non vengono uccise per femminicidio

leggi anche  
https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2021/03/la-sinistra-la-destra-il-velo-daniela.html


mentre   finisco  di leggere  questa  notizia partono le  note  dell'ancora attualissima Il suonatore Jones di Fabrizio De Andrè     ed è sulle sue note che scrivo questo post

da  https://www.ilmessaggero.it/ 7 MARZO 2021

di Alix Amer

Refa, l’influencer saudita perde la custodia figli per i tatuaggi e i capelli verdi: «È una mamma inadatta»

Refa, l influencer saudita perde la custodia figli per i tatuaggi e i capelli verdi: «È una mamma inadatta»


Una famosa influencer saudita ha perso la custodia dei suoi figli «perché ha tatuaggi e capelli verdi». Il marito davanti a un tribunale in Arabia Saudita ha così vinto la causa contro la moglie sottolineando il fatto che «è una mamma inadatta: ha tattoo e capelli colorati». Non solo, Refa Al-Yemi, che ha un grosso seguito su TikTok e Snapchat, sembrerebbe sia stata anche rapita da alcuni parenti che, secondo quanto riferito dai media locali, «ritengono che li stesse svergognando con le sue attività online».
La giovane mamma influencer condivide spesso consigli di salute e bellezza sulle piattaforme social. Secondo i siti di notizie locali, sarebbe stata prelevata con la forza dal suo appartamento a Gedda da membri della sua famiglia. Subito dopo il fatto sono iniziate a circolare strane voci come quella che la popolare influencer fosse stata vittima di un “delitto d’onore” (con l’hashtag #IsRefaKilled? tendenze di punta di Twitter in Arabia).
Tuttavia, è stato successivamente confermato che era stata portata in un altro appartamento a Najran, ma la polizia aveva fermato l’auto e quattro persone erano state arrestate, riferisce Albawaba.







Le autorità hanno spiegato che Refa è al sicuro «i servizi sociali si stanno prendendo cura di lei». Difensori dei diritti umani tra cui Lina Alhathloul - la cui sorella Loujain è stata recentemente rilasciata dal carcere dopo aver chiesto la libertà delle donne in Arabia Saudita - ha espresso sui social, grande preoccupazione per Refa. Lina ha affermato in un tweet: «Rafa è una donna indipendente. Ai suoi parenti maschi non piace e l’hanno rapita. È stata trovata dalla polizia e, invece di essere salvata, è stata messa in una casa di cura, alias una prigione».
La polizia non ha confermato se le quattro persone arrestate siano parenti di Refa. I timori che la star dei social media fosse stata uccisa hanno iniziato a circolare poco dopo aver perso la custodia dei suoi quattro figli. A suo marito è stata assegnata la custodia dopo aver usato i suoi tatuaggi, il colore dei capelli e le immagini dei suoi allenamenti in tribunale come “prova” che non era una brava mamma.

Come dice   l'amica   Maria Patanè 9 marzo  18:43tS pog
 
 

 
Già, siamo in Arabia Saudita un paese dove alle donne non veniva permesso fino a pochi anni fa, oltre ad assistere a spettacoli sportivi maschili, di guidare veicoli a motore! Fortunatamente, dal giugno 2018, dopo 28 anni di divieto, le donne saudite hanno riottenuto il diritto di guidare, sempre però con il consenso del "wali".
Sono sicura che di fronte a queste notizie rimaniamo tutte un po' scioccate, indignate, pensiamo che qui da noi questi soprusi maschilisti non esistono, o quanto meno non sono più così pesanti, e ci sentiamo sollevate, fiere della nostra indipendenza!
Indipendenza che però è soltanto un'illusione! Certo a noi viene concesso di guidare una automobile, e dal 1945 anche di votare, ma siamo sicure di essere libere? Le donne ancor oggi in Italia spesso in condizioni di svantaggio e maggiormente colpite da povertà, ingiustizia, violenza, malattia, discriminazione e dalla grave mancanza di accesso alle risorse e ai servizi.
Dei 444 mila occupati in meno registrati in Italia in tutto il 2020, il 70% è costituito da donne! E nel 2021 le cose non stanno andando meglio. L’aggiornamento dei dati Istat sulla situazione occupazionale del nostro Paese, ha evidenziato che nel 2021, il crollo dell’occupazione sia quasi esclusivamente al femminile: i lavoratori scendono di 101 mila unità, di queste 99 mila sono donne. Due mila sono uomini. Ricordiamoci che il lavoro è indipendenza, è libertà! È anche possibilità di mantenersi e di mantenere i nostri figli. Non sentiamoci tanto diverse da Refa.
Veronica Giannone
  quindo è neccessario pensare  globale     ed  agire  locale  

La sinistra, la destra, il velo ®© Daniela Tuscano

   da   https://feministpost.it/magazine/

La sinistra, la destra, il velo

La presidente del Senato Maria Elena Alberti Casellati è una distinta signora dal sorriso garbato e dal nome roboante. Politicamente si situa a destra. In altri tempi l’avremmo definita una democristiana conservatrice. Al femminismo poi è estranea, cosa che d’altronde non le ha impedito, nel discorso d’insediamento, di pronunciare parole ferme e non retoriche sul fenomeno della violenza misogina.

M’è capitato di ripensare alla signora dopo il webinar su Velo e libertà con Marina Terragni, Sara Punzo e Maryan Ismail. Esattamente due anni fa, un tempo infinito per i ritmi dilatati dell’era-Covid, Casellati incontrava a Doha il primo ministro Abdullah bin Nasser bin Khalifa al-Thani, un altro che quanto a nomi e patronimici non scherza. Nello stesso periodo veniva ricevuta da papa Francesco. In entrambe le occasioni si notava l’abbigliamento composto e formale, eppure disinvolto e in un certo senso volitivo. A fianco del ministro qatariota appariva minuscola, delicata ma radiosa, e piuttosto diretta. Mentre posava col Papa aveva l’aria di un’antica principessa, o una nobildonna devota. Ma nemmeno in quel caso sottomessa o annullata, malgrado il vistoso velo nero.

Precisiamo: il velo l’aveva indossato davanti al Pontefice. In Qatar si era presentata a capo scoperto.

Per mancanza di rispetto verso i costumi islamici? Non diremmo. Piuttosto per quella necessità, probabilmente spontanea, di definirsi e valorizzare le differenze. La conservatrice Casellati pareva aver compreso che il dialogo autentico non comportava la cancellazione della cultura d’appartenenza, ma richiedeva un confronto sullo stesso livello di dignità. La Madame di Palazzo Madama si presentò come una politica italiana, di tradizione cattolica – cioè universale – che svolgeva il proprio ruolo in piena autonomia.

Se scorriamo le fotografie di ministre ed ex-ministre di sinistra, laiche e dichiaratamente femministe, lo scenario è assai differente. Laura Boldrini con un velo fin troppo vistoso nella moschea di Roma (ma senza copricapo e in sandali laccati in presenza del Papa); Federica Mogherini al Parlamento iraniano, anche lei con velo -imitata da Emma Bonino e Debora Serracchiani- suscitando lo sdegno delle femministe di quel paese che combattono a rischio della vita per la libertà d’abbigliarsi come meglio credono.

Chi ignorasse la storia politica di queste donne, a quale attribuirebbe l’epiteto di progressista? Alla prima o alle seconde?

Non per infierire. Può darsi si trattasse davvero di buona fede, oltre che di obbligo. Sappiamo bene che il protocollo vaticano non prevede più, dagli anni Ottanta, il velo obbligatorio per le signore. In alcuni Paesi, e il Qatar non fa eccezione, il pudore femminile è ben più che semplicemente raccomandato. Ma i gesti vanno oltre la prescrizioni; e, a volte, si ha l’impressione che la si vada a cercare, la berlina. L’irritazione verso talune politiche progressiste non può essere (sempre) ascritta a sessismo, qualunquismo o – ci è toccato leggere pure questo – islamofobia. Si tratta di cultura. E di tradizione. Che non è tradizionalismo ma trasmissione. Anche se a volte inconsapevolmente i critici motivati delle politiche di cui sopra hanno loro rimproverato esattamente questo: la mancanza di cultura.

Donne laureate, cosmopolite, sostenitrici d’un migrantismo anche marcato: e nondimeno ignoranti, perché non escono da un esotismo di maniera, pervaso, oltretutto, da un malcelato senso di superiorità.

Il ritratto col Papa lo dimostra pienamente. Il messaggio percepito, magari oltre le intenzioni, è: “Qui posso permettermi i capelli sciolti e le ciabatte, non ci credo, sono moderna. Altrove si deve ostentare devozione, i buoni selvaggi vanno assecondati”. E poi, “fa sinistra”…

Una sinistra dimostratasi finora sorda alle persecuzioni dei cristiani (e soprattutto delle cristiane: merita eterna vergogna il silenzio delle attiviste occidentali su Huma Younus e Leah Sharibu) d’Africa e Asia, perché sono extraeuropee della “concorrenza”; perché la cultura cristiana, in particolare cattolica, va considerata necessariamente un sottoprodotto di epoche oscure, da cui una femminista doc, aperta e libertaria, deve prendere con decisione le distanze. Si aggiunga l’identificazione del cattolicesimo con l’Occidente – stessa equiparazione dei jihadisti – che le occidentalissime liberal vedono come fumo negli occhi; mentre una regina “glamour” come Rania di Giordania non esita a mostrarsi a Bergoglio in stola bianca, con una naturalezza da cui traspare tutto fuorché sottomissione e piaggeria.

La reazione alla spocchia della sinistra attuale è disaffezione e tedio, anche da parte di militanti di lungo corso.

Non stupisce che in questo momento storico le posizioni più riformatrici provengano da settori notoriamente “moderati”. È pure ovvio, comunque. Se l’errore consiste nell’ignoranza – e nella perdita di memoria – il risultato è la confusione, la sovrapposizione tra sviluppo e progresso, lo scardinamento delle prospettive. “Solo i marxisti amano il passato – scriveva Pasolini – i borghesi non amano nulla, le loro affermazioni retoriche di amore per il passato sono semplicemente ciniche e sacrileghe: comunque, nel migliore dei casi, tale amore è decorativo, o ‘monumentale’ […], non certo storicistico, cioè reale e capace di nuova storia”.

Ma è proprio il senso storico, di una storia che avanza e cambia, a mancare oggi alla sinistra non più marxista, ma liberal-capitalista, “borghese”. Appunto, modernista e non moderna. La destra vive di questa spoliazione, più che di valori propri; ma il processo è appena cominciato, e nessuno sembra rendersene conto.

Daniela Tuscano