Da 19 anni a questa parte , come ogni anno s'inizia a parlare della questione adriatica cioè della giornata , ora diventata la settimana palla del giorno del ricordo \ 10 febbraio ed adesso a freddo ed in anticipo al fiume di : retorica nazionalista ed nostalgica , di negazionismo ( da entrambe le parti ) , ricordi a metà , paragoni idioti e fuorvianti , e appelli ipocriti ed utopistici alla memoria condivisa , faccio soprattutto su quest'ultima la mia odierna riflessione .
Non ricordo se per la settimana del giorno del ricordo o qualche altro anniversario di un evento storico "divisivo " ho appreso che sono stati trovati dei volantini con la scritta nessuna memoria condivisa".Parola che sentiamo e sentiremo spesso per descrivere la storia del secolo scorso in paticolare da dopo la grande guerra ad mani pulite . Ma mi chiedo ogni volta che sento tale termine Cosa significa, esattamente, memoria condivisa ? quale sarebbe il significato in opposizione a quello informatico ? cosa significhi Nel suo significato socio-antropologico ? Ma soprattutto Memoria di cosa, e soprattutto, condivisa da chi ? Visto l'utilizzo mediatico e politico che ne viene fatto del termine , sospetto che questa sia un'espressione a sé stante, ma non ho trovato alcuna spiegazione del suo significato né su Google né su treccani.it.
Mettendo insieme gli spunti forniti da uomo in verde e Elberich Schneider , azzardo un'interpretazione.
Per 'memoria condivisa' si intende un insieme di racconti o mitici che condividono vivi in una data comunità senso d'identità, valori, ideali, aspirazioni, usanze, contribuendo insieme ad altri fattori a far da collante tra gli aderenti a quella stessa comunità . Tali racconti debbono essere tali da suscitare emozioni e valutazioni simili e concordi tra i più, o almeno tra chi conta di più, ma senza scatenareeccessivi contrasti, senza eccessive conflittualità nella comunità più ampia. Forse questa è la differenza rispetto alla 'memoria collettiva' citata da uomo inverde che invece mi sembra possa contenere racconti molto discordi tra di loro, e quindi non la funzione di collante: in questo caso la 'memoria condivisa' potrebbe considerarsi un sottoinsieme della 'memoria collettiva' ?
Da notare però che qui si dice che la memoria collettiva è anche condivisa, nel senso di "shared", e si mette in collegamento con altri concetti quali 'intelligenza collettiva' , 'coscienza collettiva' , 'conoscenza distribuita' : secondo me è " shared" solo nel senso che è generata più collettivamente e quindi a disposizione di tutti, ma non tale da generare le stesse reazioni emotive come suggerito invece dall'aggettivo italiano "condiviso" che mi sembra forte dell'inglese "shared".
Per come lo capisco io, il concetto di 'memoria condiviso' è associato a quello di 'mito fondante' (o fondativo ). Inoltre continuando nella mia ricerca ho , più precisamente Qui , trovato alcune opinioni interessanti, ne cito un paio:
La memoria è soggettiva, non può essere condivisa; può essere confrontata, ma non condivisa. Ciò che si può cercare di condividere non è una memoria, ma una storia (Walter Barberis)
Memoria collettiva […] non equivale necessariamente a memoria condivisa […]: perché l'una rimanda ad un unico passato, cui nessuno di può sottrarsi e che coincide appunto con la nostra storia; mentre l'altra sembra presumere un'operazione più o meno forza di azzeramento delle identità e di occultamento delle differenze. Il rischio di una memoria condivisa è una "smemoratezza parteggiata", la dimenticanza. (Sergio Luzzatto)
Ma è qui che c'è invece un più ampio pubblico in cui si discute di discorso collettivo, condiviso, comune, pubblica, uso pubblico della storia, e altro. Ma ci stiamo allontanando dalla lingua italiana per addentrarci nei meandri insidiosi della filosofia, della storia, della sociologia e della politica.
Infatti << Ora è ormai --- come fa notare quest articolo de La stampa del 23 Aprile 2009 modificato il 23 Ottobre 2019 13:10 ---- frequente, in occasione di anniversari che riconducano a momenti critici e controversi della nostra storia nazionale, sentire il richiamo a una memoria condivisa. Sembrano confondersi, tuttavia, in questo invito istanze diverse, sulle quali vale la pena riflettere. E in primo luogo per una questione assai semplice: che il termine memoria è ambiguo per definizione. Connota il giusto intento di trasmettere alle generazioni più giovani il patrimonio di esperienza di coloro che le hanno precedute. E, generalmente, indica l’esigenza di tenere viva la lezione che si presume ci abbiano lasciato avvenimenti tragici che hanno lacerato la nostra società. Ma la memoria è soggettiva, individuale, e per di più incline a deteriorarsi, a perdersi, a peggiorare. La memoria è il risultato di sguardi particolari, che non possono essere modificati. Certo, si può affermare che esperienze comuni abbiano sedimentato una memoria collettiva. È vero. Ma sarà comunque impossibile conciliare, rendere omogenee, memorie legate a esperienze diverse, derivate da punti di vista e da adesioni personali o di gruppo totalmente differenti. [.... ] >>
Secondo alcuni me compreso per memoria condivisa e qui sta la sua utopia s'intende come metafora di qualcos’altro. Ovvero come il terreno su cui far germogliare un processo di riconciliazione nazionale, cioè quell’accordo fra visuali diverse e distanti che permetterebbe di mettere alle spalle il passato: con la concessione ai «vinti» di qualche risarcimento morale e di un conseguente restauro di immagine, e con la richiesta ai «vincitori» di una qualche forma di abiura e di cessione valoriale. IL fatto è che con tutta evidenza non funziona. Perché ogni guerra civile o scontri sociali , dalla Rivoluzione Francese in avanti, ha sempre lasciato dietro di sé una scia di recriminazioni, di rese dei conti, di riscritture ed uso strumentale ( nel caso delle vicende dl confine orientale ) degli avvenimenti e una molteplicità di memorie differenti e antagoniste. Esattamente com’è successo e succede in Italia dopo periodi di forte contrapposizione sociale e culturale esempio tangentopoli \ mani pulite .Quindi, per fare un esempio, i fatti relativi ad alcune stragi italiane, tra i quali la Strage di Portella della Ginestra (1947), la Strage di Piazza Fontana (1969), la Strage di Piazza della Loggia (1974), la Strage della stazione di Bologna (1980), le Stragi di Capaci e Via D'Amelio (1992), appartengono a tutti alla memoria collettiva italiana, tutti li ricordano; ma i racconti sono discordi, non è una memoria condivisa, le ricorrenze vengono vissute con emozioni contrapposte piuttosto e tali non aperti da rafforzare il senso d'identità nazionale quanto tali da rafforzare conflittualità e apparentemente insanabili.
Ed ecco che ( chi già sa cosa la penso sul giorno del ricordo è sull'uso che viene fatto di tali dolorosi ed drammatici avvenimenti della nostra storia nazionale , può anche non leggere il resto dell post )
il giorno del ricordo come tutti gli eventi del italiani del secolo scorso su cui almeno fin ora , non si è riusciti a raggiungere rispetto all'Europa tale intento visto che 1) non si è riuscito a farci i conti ., 2) si è ancora troppo divisi come testimoniano due lettere da me ricevute in questi giorni . la prima a favore e l'altra contro tale celebrazione scelte tra quelle che ho ricevuto ( come succede tutti gli anni ) dopo i miei post sul giorno del ricordo, l'impossibilità ed l'utopia .
Caro Giuseppe
Ti seguo fin dalle origini del blog [ quando era ancora splinder N.a ] e poi su facebook account e pagina e quindi quando hai , in contemporanea all'istituzione della giornata del 10 febbraio , iniziato a fare post sulle foibe ed l'esodo degli orientali cioè sulla nostra storia e le nostre storie / memorie . Pur non condividendo il modo con cui ne parlavi ti si poteva riconoscere un po' di onestà intellettuale visto che riconoscevi il genocidio e criticavi i tuoi amici /compagni di viaggio - strada che lo negavano o sminuivano ed alcuni d'essi ogni anno ne distruggono le lapidi o targhe. Ma, mentre cercavo i post di quest'anno , ho trovato due tuoi post dell'anno scorso riportati sul blog e sull'appendice Facebook , in cui hai offeso tale ricordo : proponendo l'abolizione del 10 febbraio ¹, e mettendo sullo stesso piano gli slavi che nostri morti ². Per il momento mi prenderò sia dai tuoi social sia dal ti blog un periodo di riflessione per decidere se dirti addio o continuare a seguirti. Per il momento un abbraccio
hai riportato nei giorni precedenti la storia del maestro di musica Lojze Bratuž [ vedere secondo url dell' email prima riportata ] e quindi cosa fecero quella canaglie dei fascisti . E hai deciso di non stare a sentire la voce dei fascisti che : per sottrarsi vigliaccamente al giudizio delle loro vittime sono scappati in italia . Infatti nessuno dei fuoriusciti fu espulso ufficialmente con un preciso decreto di espulsione come avvenne per i tedeschi in Cecoslovacchia, Romania, Jugoslavia, Polonia e altre terre dell'Europa orientale. I successivi rinunciando al paradiso creato dal compagno Tito scapparono ritornare in Italia e vivere a spese nostre. Votando i partiti oppressori della DC e gli eredi dei fascismo ovvero Msi
Maresciallo Tito
potrei anche non rispondere a queste due email visto che che coloro hanno scritto dovrebbero aver letto le FAQ ed i post in cui parlo delle foibe \ giorno del ricordo . Voglio però precisare spero in maniera definitiva visto che dopo la settimana del giorno del ricordo ricevo e cestino email alcune anche peggiori di queste due cose
La prima
non sto negando ne tanto meno giustificandolo o smiuendo il genocidio giuliano - dalmata perché farlo sarebbe da imbelli e da disonesti , ma soprattutto perché non si tratta : 1) di fatti incerti ., 2) di episodi aneddotici o leggende diventate storia . E poi , alla faccia di chi accoglie la definizione classica di genocidio cioè cioè quella di Raphael Lemkin, ideatore del termine "genocidio" , io applico i nuovi parametri di definizione di tale termine esposti qui : https://it.wikipedia.org/wiki/Genocidio#Dibattito_sul_genocidio
Infatti in quelle zone oltre ai crimini di Tito ci fu anche , seguendo le nuove definizioni di genocidio , anche la "bonifica etnica" \ italianizzazione fascista ( trovate sotto fra la sitografia elementi per approfondire ) il cosiddetto fascismo di confine e quella applicata con campi di deportazione e criminale nei confronti degli slavi durante il secondo conflitto mondiale .
Ovviamente senza metterli sullo stesso piano perchè anche se tali massacri \ genocidi hanno la base comune il nazionalismo sono diversi , anche se uno conseguenza dell'altro , gli eventi ed i contesto che gli ha generati \ causati .
Quindi se proprio dobbiamo ricordare ( è per questo che ho fatto sia quel post provocatorio e quel post in cui si parla delle violenze fasciste ) ricordiamo tutto per evitare che 1) cada , come avvenne dagli anni 60 in poi fino all'istituzione del giorno del ricordo , l'oblio ufficiale sui tali fatti ; 2) << [...] Nonostante la ricerca scientifica abbia, fin dagli anni novanta del XX secolo, sufficientemente chiarito gli avvenimenti[45][46], la conoscenza dei fatti nella pubblica opinione permane distorta e oggetto di confuse polemiche politiche, che ingigantiscono o sminuiscono i fatti ed sminuendone o ingigantendo il numero delle vittime e degli esuli [ corsivo mio ] a seconda della convenienza ideologica[47][48] >> ( da https://it.wikipedia.org/wiki/Questione_adriatica ) .
La seconda
Non sono d'accordo che chi ha scelto di rimanere in quei territori durante il regime fascista cosi come di fuggire sia durante la guerra cioè all'8 di settembre sia dopo la guerra venga considerato necessariamente appartenente all'ideologia fascista . Infatti è pressoché impossibile distinguere chi vi aderii perchè : 1) ne condivideva e sosteneva il pensiero \ l'ideologia ., 2) per paura di repressione ed emarginazione ., 3) opportunismo ed carrierismo ., 4) indifferenza cioè basta che sia . Cosi come se scapparono dal governo di Tito e dal suo regime lo fecero solo ed esclusivamente , ed qui bisognerebbe provare a fare qualche domanda agli esuli , come dicono siti giornali e programmi televisivi che ci propinano ogni 10 febbraio , per la repressione e l'imposizione di quello che da movimento di liberazione diventerà una dittatura imponendo il sradicamento identitario della popolazione italiana .
per chi volesse approfondire ecco alcuni dei siti da me consultati e consigliati
Io credo che in questo Paese di merda ci sia una forma di violenza non riconosciuta: la violenza
Illustrazione di Anna Godeassi
burocratica. Dopo la morte dei miei genitori, a distanza di più di sei mesi, mi trovo ancora a dover compilare scartoffie in cui dico chi sono io, chi è mio fratello, chi erano mia mamma e mio babbo e quando sono morti. Senti l’impiegata che si occupa delle successioni: stampa, compila, firma, scannerizza, invia. Senti la banca, prendi appuntamento: stampa, compila, firma, scannerizza, invia. Senti il call center di acqua/luce/gas, chiedi bene i passaggi: stampa, compila, firma, scannerizza, invia. Senti l’amica che ti fa il favore di controllare la posta cartacea e trova delle raccomandate, ma per ritirarle ci vuole la delega: stampa, compila, firma, scannerizza, invia. Senti assicurazione auto: stampa, compila, firma, scannerizza, invia. Senti l’amica di famiglia che ti ricorda che comunque va fatta la dichiarazione dei redditi anche se sono morti: stampa, compila, firma, scannerizza, invia. Senti tuo zio che ha bisogno di una tua firma in quanto erede e allora senti il notaio prendi appuntamento: stampa, compila, firma, scannerizza, invia. Una quantità di tempo, e di soldi, incredibile. Io non mi aspettavo che il mondo mi mettesse un tappeto rosso lungo il cammino perché, poverina, le son morti i genitori, ma che mi lasciasse un po’ più in pace a capire chi sono io chi è mio fratello chi era mia mamma chi era mio babbo quando sono morti e come faremo senza di loro ecco, questo sì, lo avrei apprezzato.
questi articoli mi spingonno a riprendere in mano la macchina fotografica ed ricominciare con le regole che ho dimenticato . E che una foto vale più di mille parole ,
dal sito di mario calabresi due storie
La prima
Sono quelle che da sempre racconta con le sue immagini Michele Pellegrino. Che prima di diventare fotografo ha conosciuto la miseria e la fatica. Nella settimana dei suoi 89 anni sono andato a trovarlo e farmi raccontare una vita piena di curiosità e di rispetto per la terra e le persone
Prima mi fa sapere che non ci potremo vedere perché deve fare il pane per la settimana, poi cambia idea – “Pazienza, lo farò lunedì” – così di sabato mattina mi presento alla sua porta. Nevica leggermente, mi apre ma è indaffarato, sta aggiustando la stufa. Lavoro assolutamente necessario visto che il termometro è sotto lo zero. Ci tenevo a venire a trovarlo questa settimana perché è quella in cui compie 89 anni. Volevo farmi raccontare come si diventa il fotografo della fatica, del silenzio e delle nuvole.
Michele Pellegrino è nato il primo febbraio del 1934 a Chiusa di Pesio, sotto le montagne, dove il Piemonte confina con la Francia e la Liguria, e non se ne è mai andato. La casa in cui vive se l’è costruita tutta da solo, nei fine settimana, usando come pali di sostegno gli alberi del bosco di suo padre. Non è stato fermo un solo giorno nella sua vita: «Ho ancora tanti lavori in testa, almeno cinquanta, ma mi devo sbrigare perché mercoledì compio 89 anni». Sul tavolo c’è il suo ultimo libro, si intitola “Prima che il tempo finisca”. «Il mio tempo sta finendo ma anche quello dei paesaggi che ho conosciuto. Mi ricordo che andavo in montagna e c’era tanta di quella neve che ci si perdeva dentro, oggi è pochissima e d’estate è una pietraia che frana. Non riconosco più il mondo con cui sono cresciuto».
Mi siedo ad ascoltarlo, saranno due ore e mezza indimenticabili. Quest’uomo, che non avevo mai incontrato prima, ha così tanta passione che potrebbe accendere con la sua energia le luci di tutto il paese. Sembra non essere mai stanco, non gli manca mai una parola, un nome, un’idea. Il passato è presente e tutto è vivo: «Sono un ignorante totale. Un analfabeta. Mi sono fermato alla terza elementare, era il 1943, tempo di guerra. Ogni volta che si sentivano gli spari della lotta partigiana la maestra ci mandava tutti a casa. Ricordo di aver visto passare davanti a casa un corteo di persone disperate che sfollavano con i carri e i materassi: erano quelli che scappavano dal paese di Boves bruciato dai nazisti. Ricordo i fascisti che trascinavano due ragazzi di vent’anni, andavano verso il cimitero, sono stato per alcuni minuti immobile ad aspettare poi ho sentito i colpi. Della guerra ricordo quasi tutto. Avevamo un orto e i tedeschi ci avevano piazzato una mitragliatrice per sparare sui soldati inglesi che venivano paracadutati sulle colline. Non potendo più andare a scuola mia madre mi ha mandato “da servitore” a lavorare nei pascoli e nelle cascine. Avevo solo nove anni. In cambio di un’estate di lavoro la mia famiglia veniva ricompensata con un sacco di patate o mezzo di castagne. Il primo lavoro fu in una vecchia grangia dei monaci certosini, dovevo seguire gli animali al pascolo. Dormivo su una branda nella stalla, c’erano vacche, conigli e dei porcellini d’India che raspavano il terreno e dissotterravano le ossa dei frati sepolti nei secoli. Ero terrorizzato».
«Era una vita durissima e la cifra di quel mondo contadino erano la grettezza e l’avarizia. Alla fine della guerra venni mandato da un uomo che solcava il campo con il bue e con un gigantesco aratro di legno. Una fatica bestiale e bestemmie che fioccavano da tutte le parti. A mezzogiorno, per pranzo, mi diede un pezzo di pane e una scala, senza dire una parola. Ero perplesso, la appoggiai per terra e cominciai a mangiare il pane. Alla sera mi disse soltanto: “Perché non l’hai usata? Ti serviva per prendere le ciliegie”. Mi faceva dormire sull’essiccatoio dove seccava le castagne per conservarle. Sentivo i topi che correvano senza sosta. Sono scappato dopo quattro notti. Mia madre era infuriata che avessi abbandonato un lavoro e allora mi mandò da uno che recuperava i chiodi per riusarli, il mio compito era quello di drizzarli. A tredici anni trovai un posto nella filanda, curavo i bozzoli, il primo passo della produzione della seta».
Il racconto di Michele Pellegrino è un flusso inarrestabile, provo a interromperlo per chiedergli quando è diventato fotografo ma mi fa segno con la mano di aspettare, prima devo capire la vita e il mondo in cui si è formato: «Mia nonna era rimasta vedova per colpa dell’influenza spagnola, il suo secondo marito suonava la fisarmonica, ogni anno partiva dopo la raccolta delle castagne e andava a piedi in Francia, seguendo l’alta via del sale, per guadagnarsi da vivere come suonatore. Tornava in primavera per occuparsi della campagna. In paese c’era un altro che viveva suonando la fisarmonica, ma era meno bravo e molto geloso, e una sera di nebbia lo aspettò fuori dal camposanto, aveva in testa un lenzuolo e in mano una candela. Quando lo vide arrivare cominciò a dire: “Tu stai per morire e ti puoi salvare solo se smetti di suonare”. Il marito di mia nonna scappò di corsa e si impressionò talmente tanto che non ha mai più toccato lo strumento».
Un momento dell’incontro con Michele Pellegrino
Dopo le mucche, i chiodi e i bozzoli lo mandarono in un laboratorio di ceramica: «Facevo un lavoro pesantissimo e pericoloso: dovevo trasportare dei sacchi di terra da cinquanta chili e portarli su un banco vicino al camino. C’era un caldo insopportabile, ma io volevo comprarmi la bicicletta e facevo anche gli straordinari. Ricordo il giorno che sono andato al negozio, dopo averla scelta sono corso a casa a prendere i soldi. Ma la scatola con i miei risparmi era vuota, li aveva usati mia madre. Allora mio padre, per consolarmi, mi fece degli sci di legno, salivo fino a 2000 metri con delle pelli di foca fatte con i pezzi di tela, andavo fortissimo. Avevo bisogno di una giacca a vento, allora andai dalla
Michelina che faceva le giacche con la stoffa dei paracadute inglesi recuperati dopo la guerra».
La maggiore età per Michele è quella in cui diventa muratore e quando ha vent’anni, siamo nel 1954, viene mandato a Sanremo per lavorare nel cantiere di una villa. Dormiva in una baracca di legno nel giardino e la sera, prima di coricarsi, suonava la tromba o l’armonica a bocca. Nella casa accanto viveva una ragazza di 17 anni, Margherita, figlia della custode, che prese ad affacciarsi per ascoltare quelle serenate improvvisate. Si sposarono quattro anni dopo, alla fine del suo servizio militare negli Alpini. Viaggio di nozze in Valle d’Aosta. Sono ancora insieme. «Quell’armonica del nostro amore e sempre con noi, la teniamo in camera da letto», lo interrompe Margherita.
Lei lo ascolta con amore, sorride e lo prende un po’ in giro. Ad un certo punto, mentre lui sta raccontando un incidente in montagna in cui è sopravvissuto per miracolo, lei passa e chiede: «Siamo già nel crepaccio?».
Durante il viaggio di nozze prende in mano la sua prima macchina fotografica, gliel’ha prestata un amico, ma non ha idea di come usarla. Così la apre per cambiare il rullino e brucia tutto: «Si è salvata soltanto una foto e nemmeno memorabile». Ma servirà un incidente per incontrare la folgorazione che ha cambiato la sua vita.
«Vado a Cervinia a fare un corso di sci, sono al Plateau Rosa, ci sono venti gradi sottozero, cado da fermo e mi fratturo malamente tibia e perone. Vengo operato e mi ingessano per cento giorni. Una noia mortale, così inizio a leggere tutto quello che trovo. Mio fratello mi porta un libro di cinema e vengo folgorato dalle fotografie».
In quel momento lavorava con successo come piastrellista ma si compra una macchina fotografica tedesca e comincia a scattare appena può. Prende coraggio e manda alcuni suoi scatti di paesaggio alla rivista “Fotografare”. Dopo due mesi, gli rispondono che glieli comprano. Pensa che sia un miracolo. È la scintilla, ha passato i trent’anni e decide di licenziarsi e cominciare una nuova vita. Apre un suo studio, si mantiene fotografando matrimoni, ma ha in testa una sola cosa: raccontare storie. Deve però trovare un proprio stile, aveva copiato troppe cose ed era confuso, poi incontra il libro che lo illumina e gli indica la strada: “Un paese” dell’americano Paul Strand con testi dello scrittore e sceneggiatore Cesare Zavattini. Un reportage tra gli abitanti di Luzzara, piccola comunità contadina sulla sponda romagnola del Po.
Nel 1972 pubblica il suo primo libro “Genti di provincia”, ma non è contento, vuole essere più focalizzato e radicale, vuole raccontare quello che ha vissuto e che vede ogni giorno. Con il secondo libro trova la sua cifra, si chiama “Profondo nord” e parla dello spopolamento della montagna. Sarà un grande successo: «Entravo nelle baite e ascoltavo, e poi scattavo. Non ho mai chiesto a nessuno di mettersi in posa e non ho mai usato il flash per una questione di rispetto. Ci voleva la mano ferma ma non mi è mai mancata». Una delle foto che ama di più e che tiene sopra la sua poltrona in salotto l’ha fatta nel 1975 in Val Varaita: si vede un vecchio uomo che si sta facendo la barba accanto al letto sfatto. C’è l’atmosfera di un mondo che sta scomparendo e che Michele Pellegrino coglie nel suo tramonto. «La fatica come compagna di vita, io la fatica l’ho provata, ero uno di loro».
È convinto che la fotografia debba far vedere le cose che in genere nessuno guarda, deve spostare lo sguardo. E poi deve raccontare. «Una bella foto la può fare chiunque ma la differenza è mettere un po’ di foto insieme che raccontino una storia, che illuminino una vicenda umana. Ho lavorato più di otto anni per fare le clausure, suore, frati, eremiti, un lavoro unico e difficilissimo. Un’esperienza totale. Ho conosciuto di tutto e ho perso la fede».
Ad un certo punto, vent’anni fa, il suo sguardo scende dalle montagne e nei suoi libri comincia ad apparire anche il mare: «Ho imparato a nuotare a settant’anni, prima avevo il terrore dell’acqua. Quando l’ho superato ho cominciato a fotografare il mare». Lo ascolto da più di due ore, adesso mi sta parlando di futuro, gli chiedo quale sia il libro che ha amato di più e mi sorprende: «Come emozione è sempre l’ultimo che ho fatto. Durante il Covid ho fotografato le nuvole attraverso le finestre della casa, scattando dai quattro punti cardinali. Un racconto solo di nuvole. Ci sono forme che durano un secondo o due, ho costruito una storia piena di fascino e nel momento più difficile ho alzato lo sguardo verso l’alto. Questo mi parla di futuro».
la seconda
Mentre si avvicinavano le cento primavere cresceva la sua incredulità. Passavano gli anni e i nostri incontri avevano un non detto finale, una sorta d’imbarazzo mal celato: quando ci vedremo? «Non so se riuscirò a prendere l’aereo per l’Italia ma ti aspetto a New York dopo l’estate, il foliage dell’autunno non posso proprio perdermelo».Tony Vaccaro, fotoreporter statunitense che, dopo essersi arruolato nell’esercito con una macchina fotografica ben nascosta, scattò alcune tra le immagini divenute simbolo della Seconda guerra mondiale
Preferiva parlare di cultura italiana, di letture e film, cercare ristoranti che avevano conquistato fama e clienti pubblicizzando la pasta o la pizza con farine originali. Per trovare i segni della presenza italiana «bisogna conoscere bene New York e la sua evoluzione, non ci sono più i quartieri e le aree definite, meglio curiosare fuori dai giri turistici e vedrai che le sorprese non mancano». E il suo segreto, così lo chiamava con un grande sorriso stampato sul volto, era la curiosità insaziabile. Camminava per chilometri salendo e scendendo dalla metropolitana newyorchese, sempre sul primo vagone, meno affollato e ben posizionato per guardare indietro la vasta umanità che popola le fermate. Faticavo a stargli dietro anche quando aveva superato i 90. «Non uso lo zoom tranne in casi di necessità. Meglio muoversi con le proprie gambe, cercare di essere vicini agli oggetti dei nostri desideri, alle immagini che si vogliono fotografare». Il moto quotidiano era diventato una sua routine, conosceva New York palmo a palmo, riusciva persino a trovare i segni delle assenze, dei cambiamenti nel tessuto della città spesso incomprensibili e nascosti.
La foto scattata da Tony Vaccaro l’11 settembre del 2001 a New York. I passanti guardano la seconda torre che viene giù
La mattina del 9/11 segue le notizie, prende la macchina fotografica e cerca di fissare al di là dell’East River immagini di una sconvolgente mattinata. Guarda i volti dei passanti mentre la seconda torre viene giù, cerca conforto negli sguardi attoniti dei tanti newyorchesi che si chiedono cosa sia successo, perché tanta foga distruttrice? Si ferma in un parco al di là del fiume, le lacrime per una città in guerra lo portano indietro fino ai ricordi delle battaglie sul suolo del vecchio continente nella fase cruciale della Seconda guerra mondiale. Ne parla con timore, vorrebbe capire e leggere cosa scatena l’odio verso altri esseri umani dopo che tanta violenza ha attraversato il secolo scorso. Rimane fino alla fine un inguaribile ottimista, fiducioso nelle sorprese della vita. Aveva preso il Covid nella prima ondata, se la cava con un breve ricovero in ospedale dove fotografa e si fa fotografare. Fa in tempo a gioire per l’arrivo dei vaccini e mi chiede della situazione in Italia, «vedrai è solo questione di tempo, ce la faremo anche stavolta».
Uno dei periti che devono consegnare la relazione finale sull'inchiesta per presunto avvelenamento del poeta cileno, si trova in una zona senza connessione. E quindi tocca ancora aspettare
La verità sulla morte di Pablo Neruda tarderà a uscire. La pubblicazione del rapporto con le conclusioni dell'inchiesta che deve chiarire se il poeta cileno, premio Nobel per la Letteratura, sia stato davvero avvelenato, è stata infatti sospesa per mancanza di connessione Internet. Uno dei periti, Romilio Espejo -tra l'altro proprio quello incaricato di consegnare via Internet le conclusioni del gruppo di esperti- non è riuscito a connettersi perchè si trova in una zona del Sud del Cile colpita da vasti incendi forestali che hanno interrotto le comunicazioni. Le conclusioni del tanto
atteso rapporto si conosceranno dunque probabilmente "la prossima settimana", ha fatto sapere Paola Plaza, la giudice cilena che sovrintende ai casi sui diritti umani. Hanno avuto problemi di connessione, ha spiegato Rodolfo Reyes, nipote dello scrittore, anche alcuni dei periti internazionali che hanno partecipato all'elaborazione del rapporto e che non si trovano in Cile. Tutto rimandato, dunque, almeno per ora. "E' imbarazzante e mi fa molto male, ma dobbiamo continuare ad aspettare. C'era molta aspettativa, tutti vogliono sapere la verità sulla morte di Pablo Neruda", ha aggiunto Reyes, incontrando la stampa al Palazzo dei Tribunali a Santiago. La verità sulla morte di Neruda arriva dopo 50 anni dalla sua morte e a 12 dall'inizio di un'inchiesta giudiziaria avviata per chiarire se sia morto per complicazioni del cancro alla prostata o perchè avvelenato, come sostiene da quasi cinquant'anni il suo autista, Manuel Araya. Il panel di esperti -composto da scienziati provenienti da Canada, Danimarca e Stati Uniti, e riunitosi virtualmente e di persona a partire dal 24 gennaio- deve chiarire l'origine del batterio Clostridium botulinum trovato in un molare del poeta nel 2017. Neruda morì 12 giorni dopo il colpo di Stato dell'11 settembre 1973 che rovesciò il suo amico, il presidente Salvador Allende, e portò al potere una dittatura militare di destra. Morì poche ore prima di imbarcarsi su un aereo che lo avrebbe portato in esilio in Messico; e secondo i familiari, fu avvelenato dalla polizia segreta di Pinochet, la Dina. Il certificato di morte indica come causa del decesso il cancro metastatico e la cachessia; e la versione ufficiale è stata data per buona per anni fino a quando, nel 2011, il Partito Comunista, di cui lo scrittore era senatore e iscritto, l'ha messa in discussione e presentato una denuncia.no della sua casa di Isla Negra, sulla costa cilena- fu allora riesumato e, sette mesi dopo, un gruppo internazionale di medici anatomapatologi ha certificato che non c'erano "agenti chimici rilevanti" che potessero essere collegati alla sua morte. Ma a quel tempo l'istituto forense cileno non disponeva della tecnologia per rilevare un avvelenamento che avrebbe potuto verificarsi 40 anni prima. E nel 2017, lo stesso gruppo di medici legali ha concluso che Neruda non era morto di cancro, come affermava il suo certificato di morte; e ha scoperto invece un frammento della tossina botulinica che può colpire il sistema nervoso e portare alla morte. La chiave adesso è capire se il campione di batterio trovato sia stato alterato in laboratorio e successivamente inoculato, il che dimostrerebbe l'intervento di terzi nella morte del poeta. Ma per avere una risposta bisognerà attendere ancora.
“Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo”
José Saramago
Il nipote di un mio amica di 12\13 anni mi chiede
--- mamma mi ha consigliato di chiedere a te che sei esperto di storia cosa è il giorno e ricordo ?
-- esperto .non esageriamo , sono un semplice appassionato . Comunque Il giorno \ settimana del ricordo e quella giornata che “ci dovrebbe dare occasione per ripetere che non ci sarà mai giustificazione per l’odio, la discriminazione etnica, la presunzione di avere il diritto di sopraffare gli altri, la follia ideologica dei nazionalismi prima quello fascista e poi quelo comunista . Così come è l’occasione per riaffermare che di fronte a tutti i crimini confermati dalla verità storica non possono trovare spazio forme di revisionismo, negazionismo o giustificazionismo , ed uso politico \ ideologico , che hanno come unico risultato quello di offendere le vittime e colpire i sentimenti dei superstiti e dei discendenti. che hanno trovato la morte nei lager ( la risiera di san Saba ) nazi fascista e diversi campi di concentramento fascisti dei Balcani \ ex Jugoslavia . >Il più noto è qiuelo . Gonars (1942-1943) e nelle Foibe sia quelle tra il 25 luglio e l'8 settembre sia successivamente 1945 \1947 . Insomma a quanti, perché inseguiti dalla violenza e per in una scelta di libertà, hanno abbandonato la loro casa, la loro terra e ogni avere per affrontare la via dell’Esilio .comunque se vuoi approfondire https://www.tag24.it/484428-foibe-cosa-sono-e-giorno-del-ricordo/
---- ma come stai mettendo sullo stesso piano violenze fasciste e violenze comuniste , lager e foibe .
--- Ma quando mai . Accomunare olocausto e foibe serve solo a sminuire l’unicità della Shoah e a tacere le responsabilità del fascismo”. Qui sto contestualizzando perché purtroppo il confine orientale è stato teatro di questi tre crimini ideologici ( fascismo , nazismo , comunismo ) che uniti al nazionalismi hanno reso particolare ed ancora doloroso insieme al silenzio quasi totale dovuto alla voglia di lasciarsi alle spalle gli orrori e e brutture dei quel periodo e l'opportunismo politico della guerra fredda cioè dello scontro tra i due blocchi quello Nato ad Ovest e quello Russo \ sovietico ad est hanno determinato quella dolorosa ferita . Quindi il nostro paese deve ancora fare i conti su quello che è successo nel confine orientale .
---- Un po' sintetica come spiegazione .
------- effettivamente . Ma non volevo annoiarti con la mia logorrea. Non ti preoccupare che ne sentirai parlare visto che tra poco inizierà la settimana del ricordo ( la giornata del #10febbraio ) e ne sentirai parlare in TV e sul web in maniera più o meno dettagliata /a 360° gradi . Infatti negli ultimi anni sta venendo meno il refrain barbarie comunista e congiura del silenzio ( che certamente ci fu visto tali eventi furono regalato solo su libri specialistici o auna determinato pensiero ideologico culturale o qualche spirito libero che affrontava il tabù di tali argomenti ) . Comunque sei vuoi approfondire l'argomento trovi sotto dei siti Mi scuso se sono 4 sui 5 dello stesso sito ma erano articoli troppo interessanti . E se vuoi quando abbiamo un po' più di tempo ne parleremo più a fondo e magari ti do altri siti .
Qualche giorno dopo lo rincontro e mi dice << Grazie . Dai link che mi ha suggerito e dai programmi tv ed altri siti che ho consultato sulle vicende storiche del periodo storico riguardo alle vicende del confine orientale ho capito \ mi sono fatto un idea fra il 1918-1975 che l'italia , , non ha da quando è stata unita , fatto i conti con il proprio passato e le brutture che ha commesso e taciuto in questo caso e che le violenze e gli eccidi non furono da una parte solo come la propaganda pro 10 febbraio ci ha fatto credere >> .
Mi sono sono inumiditi gli occhi dalla gioia di vedere un seme lanciato germogliare
E' vero che Il Festival della canzone italiana, più comunemente Festival di Sanremo o anche semplicemente Sanremo, è un un simbolo insieme alla nazionale di calcio del nostro Paese . Infatti Tale rassegna che si tiene ogni anno in Italia, a Sanremo, a partire dal 1951 ha contribuito a livello italiano ma anche europeo ed internazionale a far conoscere in meglio o in peggio dipende dai punti di vista con le sue canzoni la canzone italiana .Ad esso Vi hanno preso parte come concorrenti, ospiti o compositori, molti dei nomi più noti della musica italiana. È considerato uno dei più importanti e longevi festival musicali al mondo. Inoltare Rappresenta uno dei principali eventi
mediatici italiani, con un certo riscontro anche all'estero, in quanto viene trasmesso in diretta sia televisiva, in Eurovisione, sia radiofonica. La statuetta del Leone di Sanremo (simbolo dello stemma comunale) è il riconoscimento più prestigioso per i musicisti e gli interpreti italiani di musica leggera. Ma negli ultimi anni è scaduto . Infatti fin da piccolo per tradizione familiare lo si guardava fisso poi via calando solo in zapping oppure nei locali o a scuola si commentava l'esibizione o la vincita ed la rispettiva classifica .Poi le polemiche che esso crea con i vari siparietti e le varie polemiche cosi come si leggevano i testi della canzoni . Quest'anno non credo che lo vedrò neppure in streaming perché oltre essere scaduto sempre di più tanto da essere lo specchio dell’Italia attuale
dal web
- mafia, perché i cantanti e gli ‘autori’ in gara sono imposti da un paio di case discografiche che tutto decidono
- vecchiomerdismo oltre il patetico, l‘analogo dello sdoganamento dei medici ultra70enni che ficcano le viti nelle arterie femorali invece che in acetabolo
- strumentalizzazione a solo scopo commerciale di tematiche sociali di estrema importanza (razzismo, patologia psichiatrica, parità di genere etc)
- asservimento della stampa italiana con uno stuolo di pseudo critici musicali con la lingua d’amianto e la dignità nel cesso, e rare voci critiche
- pubblico di ipodotati con un vocabolario di 15 parole, più o meno quelle usate in vario ordine nei testi scritti dagli stessi 8 autori/canzone (attualmente una canzone di merda necessità di 8 autori)
Una cosa che già so mi annoierà tantissimo di Sanremo: i monologhi delle donne sulla sorte delle donne. Amadeus in un'intervista dice: "Abbiamo scelto quattro donne che porteranno la loro storia e le loro battaglie". Ma perché i maschi non sono mai tenuti a portare storie e battaglie? Perché loro sono invitati in qualità di comici, di gente che alleggerisce il clima pesante, di persone innocue che fanno ridere, sorridere, non farebbero male a una zanzara. Poi arrivano le donne e raccontano un'altra storia, che poi è quella vera: siamo ancora qui a vestirci come bambole e a raccontare quanto siamo miserabili solo perché abbiamo una vagina. Questo crea confusione e scollamento perché allora ti chiedi dove sono questi maschi cattivi di cui queste parlano, sul palco non se ne vedono, sono tutti buoni, guarda, così buoni che concedono alle donne pure dieci minuti per parlare da sole.
Mi sono rotta di questa roba, perché è tutta una concessione, e anche se è certo importante parlare di violenza sulle donne in un contesto così pop, non si possono non notare le contraddizioni che neutralizzano quei pur giustissimi discorsi. Poi, Amadeus, con tutto il bene del mondo: quali sono state esattamente le battaglie delle vallette (chiamatele co-conduttrici e mi incazzo fortissimo) di quest'anno? Chiedi delle sue battaglie a una donna che si è separata dal marito violento e che per questo si è vista strappare un figlio in nome di una cosa che non esiste come l'alienazione parentale e poi ne riparliamo.
Ma soprattutto perchè quest'anno s' offre come cassa di risonanza di una propaganda di guerra . Sarà la seconda volta che lo boicotto dopo la 54ª del 2004 del duo Simona Ventura - Tony Reno \ Renis sempre per questioni etico morali , in quel caso anche di legalità qui maggiori news su tale evento . Spero di riuscirci o quanto meno di resistere il più possibile fino alla fine come ho fatto con i mondiali del Qatar del 2022 vedere archivio blog .
Speriamo di riuscirci con questo è tutto .per oggi
Sostituzione nazionale ma non genocidio: ecco che cosa sono state davvero le foibe
Gianni Cuperlo
Maggiorenne: in questo 2022 la legge che ha istituito il Giorno del
ricordo compie diciott’anni. È stata votata a fine marzo del 2004 per
«conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di
tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli
istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa
vicenda del confine orientale». Dunque 10 febbraio, la scelta cadde su
quella data nel rimando all’anno, era il 1947, che vide la firma sui
trattati di pace di Parigi. Doveva essere la fine, almeno nella
forma, dei postumi della guerra sul confine dove il “dopoguerra” si
predisponeva a farsi narrazione infinita. Quella data aveva sancito il
passaggio alla Jugoslavia delle terre istriane, del Quarnero (o
Quarnaro), di Zara e dunque di un’area contesa e sino a prima del
secondo conflitto in larga misura italiana. Circa trecentomila
persone, la quasi totalità della presenza italiana, e tra quelli
cinquantamila sloveni e croati, furono spinti ad abbandonare case,
campi, i luoghi della propria vita e di tradizioni familiari radicate.
Lo fecero valendosi del diritto di opzione che il Trattato prevedeva con
la possibilità di trasferirsi in Italia, molti lo fecero soprattutto a
fronte delle pressioni e intimidazioni subite. L’accoglienza
della madre patria fu tutt’altro che calorosa. Pesarono interessi geopolitici, la Jugoslavia col suo profilo di “non allineatan decennio
perché lo Stato intervenisse favorendo la piena integrazione dei
profughi giuliano-dalmati nell’Italia del boom. Il che non bastò a
sanare la “ferita della memoria” al punto che sulla pagina sanguinosa di
quel confine a lungo calò il silenzio.” era una zona cuscinetto tra questa parte d’Europa e il blocco
sovietico, né mancavano scambi commerciali, il tutto nella logica di
una buona stabilità da perpetuare anche in vista del “dopo Tito”. Lasciare che la polvere coprisse le pagine più dolorose e cruente
rispondeva a parecchi interessi. Quel mutismo complice accomunava il
partito che governava da Roma, ma pure l’opposizione comunista che sulle
scelte compiute nell’alto Adriatico non poteva dirsi mera spettatrice.
Il tutto, appunto, sino al 2004 e all’istituzione del Giorno del
ricordo: da allora non vi è stata una sola delle ricorrenze libera da
toni accesi sulle radici di una celebrazione che avrebbe dovuto scavare e
ricostruire il lungo conflitto tra opposte aspirazioni nazionali (di
italiani, sloveni, croati delle più diverse appartenenze e ideologie), e
che ha finito, invece, col sovrapporre la memoria dello scontro tra
fascismo e antifascismo. Ma si può riflettere su una celebrazione
entrata nel calendario civile del paese con un di più di rigore e
lucidità?
Odiarsi nell’intimità
Farlo
si deve, o almeno conviene, e per riuscirci Raoul Pupo, storico
triestino, diventa una bussola preziosa. Sfogliando la sua ultima
ricognizione del tema (Adriatico amarissimo. Una lunga storia di
violenza, Laterza 2021) ha senso partire dalla citazione in apertura di
Predrag Matvejevič: “L’Atlantico e il Pacifico sono i mari delle
distanze, il Mediterraneo è il mare della vicinanza, l’Adriatico è il
mare dell’intimità”. Ci si può odiare nell’intimità? Possono generarsi
sino a deflagrare conflitti di brutalità indescrivibile entro un
perimetro che nei secoli ha visto combinarsi lingue, dialetti,
religioni, costumi, identità? Ahinoi, sì. E’ complicato s
analizzare le violenze novecentesche in quel triangolo d’Europa se ci si
rinchiude in una storia “nazionale”, che sia quella italiana o slovena o
croata. Solamente considerando “punti di vista diversi” si possono
svelare le dinamiche di un territorio plurale che nell’arco lunghissimo
del “secolo breve” ha convissuto con varie appartenenze, Stati e governi
diversi. L’altro corno del problema è rappresentato dalle
parole o formule utilizzate. Anche su questo Raoul Pupo fissa un
glossario utile. A cavallo del confine orientale, prima, durante e dopo
la guerra non vi sono state pagine di deportazione, espulsione o,
peggio, “pulizia etnica”, termine per altro generato dagli eventi di un
tempo storico successivo. La definizione che appare più corretta
è un’altra, lì si sono prodotti «fenomeni di sostituzione nazionale»,
il che non paia una reductio della portata di quei fatti, fosse solo
perché è stata una delle strategie applicate in angoli diversi del
continente su come “accomodare” persone con appartenenze nazionali
diverse in un unico Stato. .Dapprima il fascismo determinò l’allontanamento di migliaia di
cittadini sloveni e croati dalle regioni italiane, successivamente
furono gli accordi di pace a indurre l’Esodo dall’Istria di molte
migliaia di cittadini italiani costretti a lasciare case e beni tra gli
anni ’40 e ’50. Detto ciò, perché all’incrocio delle due guerre
mondiali, e prima e dopo quelle tragedie, la Venezia Giulia ha vissuto
un di più di violenza? La risposta è in un’altra formula: “nella
lotta politica può sempre esserci spazio per i compromessi, in quella
nazionale no”. Il nazionalismo finisce con l’essere il migliore concime
per disseminare odi e contese destinati prima o poi a deflagrare. E così
è avvenuto.
I pogrom
A ridosso della Grande Guerra e
prima del fascismo Trieste faceva convivere una media borghesia dalle
tendenze irredentiste, un proletariato “internazionalista” e un terzo
ceppo di popolazione fedele all’Austria Felix (Viva l’A e po’ bon,
rimarrà moto popolare dove la A stava proprio per l’Impero decadente). All’indomani della guerra sarebbe stato il trattato di Rapallo,
novembre 1920, a disegnare i confini tra Italia e Jugoslavia, anche se
quattro anni più tardi avrebbe provveduto quello di Roma ad annettere lo
Stato Libero di Fiume, previsto sulla carta e impedito nel nascere
dall’avvento di Benito Mussolini. Sono anni tormentati, il
regime fascista con la sua rete di servizi individua nel Partito
socialista l’avversario da stroncare per il sospetto di essere il
collante tra slavi e nostalgici del patronato viennese. Su
entrambi i fronti si crea l’humus perfetto per il primato delle
componenti massimaliste e violente, lo squadrismo nazionalista ha
apparecchiato il tavolo e non mancherà di sedervisi con un anno
d’anticipo rispetto alle ronde fasciste.In quel contesto
s’inserisce la parabola fiumana di Gabriele D’Annunzio, ma su quella si
sono riempiti gli scaffali, qui basterà ricordare il pogrom anti-croato
di cittadini e legionari sedato dal Vate con l’argomento di “eccessi
spiegabili in un primo impeto di passione”, ma non giustificabili nella
loro sistematicità. Sarà il 13 luglio 1920, però, la data
discrimine, quando si consuma l’assalto delle squadre fasciste e
l’incendio dell’Hotel Balkan (il Narodni Dom, sede di organizzazioni e
istituzioni slave a Trieste, vuol dire slovene, croate, serbe…). È l’avvio di un altro pogrom, stavolta anti-sloveno, che Boris Pahor
descriverà in chiave letteraria nella novella Il rogo nel porto, le
camicie nere vivono le spedizioni punitive contro banche, giornali,
associazioni come “spettacolo di redenzione”, gli sloveni si trovano
catapultati nell’incubo che si prolungherà per il quarto di secolo a
seguire. Per loro quella data scolpirà il “trauma originario” della
comunità nel suo legame con lo Stato italiano. Che la storia di
territori plurali sia complicata può confermarlo il fatto che solo un
anno e mezzo prima dell’incendio del Balkan, nel gennaio del 1919 erano
state formazioni slovene guidate da Rudolf Maister a sparare sui
manifestanti tedeschi che nella piazza di Maribor rivendicavano
l’annessione alla nuova Austria. Tornando alla Trieste del 1920,
gli episodi di violenza proseguirono sotto lo sguardo indulgente delle
forze dell’ordine: lo squadrismo era un aiuto contro il pericolo
dell’eversione bolscevica.
La benevolenza dell’ordine costituito
fece della Venezia Giulia una tra le regioni dove il fascismo agì con
esiti più pesanti, solo in quella prima stagione 134 edifici incendiati,
di questi un centinaio erano circoli di cultura, alcune case del
popolo, oltre una ventina le Camere del lavoro e diverse cooperative.
La violenza sui corpi e le anime
In questa ricostruzione tra le date a merito di citazione un posto
spetta all’aprile del 1927 quando il regime estende all’alto Adriatico
le disposizioni già previste per il Tirolo meridionale, si tratta della
“restituzione in forma italiana” dei cognomi deformati in passato dalle
autorità austriache. È l’avvio di una “massiccia
italianizzazione” condotta dagli uffici senza “consultare gli
interessati”. Poteva così capitare ai fratelli Vodopivec, uno residente
nel capoluogo, l’altro a Monfalcone di trovarsi battezzati
rispettivamente Bevilacqua (traduzione letterale del cognome sloveno) e
Vodini. Il tentativo di sradicare l’identità di un popolo o
parte di esso avanzò lungo il doppio binario di una progressiva
assimilazione delle anime mai del tutto scollegata da una dose di
violenza sui corpi. Il fascismo fu questo. Tra le vittime
privilegiate di quella stagione repressiva moltissimi cattolici,
compresi preti, parroci, vescovi, con l’esplosione dell’antisemitismo in
una città, Trieste, ricca di una comunità ebraica radicata e tra le più
importanti. La durezza del regime a organico pieno (pubblica sicurezza,
carabinieri, Milizia) costituì nei fatti uno stato di polizia dove
violenze, incarcerazioni, schede segnaletiche sorressero un apparato
repressivo feroce quanto efficace. Il fronte sloveno non risultò
compatto, nell’isontino avrebbe conosciuto persino una formazione
fascista (Vladna stranka, Partito governativo) dedita a relazioni con
l’Ovra (la polizia segreta del fascismo). Non vi è dubbio però
che gran parte degli sloveni si oppose al fascismo e la conferma viene
dai movimenti di resistenza armata, tra questi spicca l’acronimo
goriziano del Tigr (Trieste, Istria, Gorizia, Rijeka). Assieme a Borba
(la versione triestina) stabilirono collegamenti con i servizi jugoslavi
per lo scambio di armi e materiale di propaganda. In
particolare, un ordigno venne fatto esplodere il 10 febbraio del 1930
presso Il Popolo di Trieste, quotidiano fascista, uccidendo un
redattore. All’attentato seguirono centinaia di arresti e ottantasette
tra questi furono deferiti al Tribunale speciale che dopo un processo
farsa comminò quattro condanne a morte. Uno dei quattro, Ferdo
Bidovec, era di madre italiana, come per altro slovena era la madre di
Guglielmo Oberdan a conferma che “per i patrioti di frontiera il sangue
non conta un bel nulla”. I quattro vennero fucilati all’alba del
6 settembre 1930 presso il poligono di Basovizza in un luogo destinato a
divenire dall’immediato dopoguerra “un sacrario” dell’antifascismo
sloveno.A metà luglio di due anni fa il presidente Sergio
Mattarella e il suo omologo sloveno, Borut Pahor, si sono raccolti mano
nella mano dinanzi alla lapide che ricorda le vittime e lo hanno fatto,
segno esplicito di una volontà di pacificazione, subito dopo avere reso
omaggio alla più nota foiba di Basovizza, perché nel tracciare la rotta
di questo Giorno del ricordo è a quella pagina che dobbiamo arrivare,
senza scorciatoie.
La guerra
La seconda guerra
mondiale scompose assetti, etnie, comunità. L’offensiva tedesca sulla
Jugoslavia scattò il 6 aprile 1941, Mussolini vi si accodò. Croazia,
Slovenia, Bosnia, Montenegro o Voivodina non sarebbero mai state regioni
controllate, tanto meno pacificate. Gli ustaša, nazionalisti
fanatici, avrebbero avviato la persecuzione di due milioni di serbi
residenti nel nuovo stato croato perseguendo al contempo il genocidio di
ebrei e rom, solo nel campo di sterminio di Jasenovac a trovare la
morte furono in centomila.Sul fronte opposto, dopo l’attacco di
Hitler all’Unione Sovietica, a giugno del ’41, i comunisti guidati da
Josip Broz detto Tito animarono la resistenza anti-tedesca, lo fecero
agendo in autonomia, fuori dalla raccomandazione di Stalin per la
creazione di larghi fronti antifascisti. I serbi, distribuiti
tra il Protettorato di Serbia occupato dai nazisti, lo Stato croato, la
Dalmazia e il Montenegro dove di stanza stavano gli italiani, diedero
vita a un movimento unitario, i četnici, “monarchici e sostenitori di un
progetto ‘grande serbo’” ovviamente in conflitto con gli ustaša,
“militanti dell’idea ‘grande croata’ in una piena logica di guerra
civile”. I partigiani combattevano entrambe le fazioni, četnici e
ustaša oltre agli occupanti italiani e tedeschi. Tra il ’41 e il ’43 le
azioni repressive italiane contro le formazioni partigiane non
esitarono a reprimere quantità di civili, non furono “danni
collaterali”, ma una strategia mirata a isolare qualunque focolaio di
resistenza. Internamenti di massa a scopo di prevenzione
condussero a costruire campi in grado di concentrare migliaia di
persone, accadde a Gonars in Friuli o nell’isola di Arbe/Rab in
Dalmazia.
Dopo l’8 settembre
8 settembre 1943: anche
la Venezia Giulia conosce la sorte del resto del paese, comandi militari
e truppe allo sbando. L’Istria piomba nel caos coi soldati italiani in
fuga. La rete dei Comitati popolari di liberazione (Cpl) a
settembre proclama la volontà dell’Istria di annettersi alla Croazia e,
per suo tramite, alla “fraterna comunità dei popoli della Jugoslavia”. La contro-repressione non è meno violenta e spesso sfugge al controllo
delle stesse autorità partigiane con atti di sadismo. Nelle campagne
attorno a Parenzo si consuma “una vera e propria jacquerie” coi
contadini croati contro archivi comunali, simbolo di uno Stato
oppressore, e vendette consumate sui loro vecchi “padroni”. L’uccisione di Norma Cossetto, studentessa istriana seviziata e
infoibata nell’autunno del ’43, resta una delle pagine atroci di quella
stagione. Foibe, dunque, in terra istriana ve ne sono diverse usate allo
scopo, da quella di Vines verranno recuperate oltre ottanta salme. Il computo delle vittime non può che risultare impreciso, la
storiografia lo quantifica attorno al mezzo migliaio, “un eccidio di
grandi dimensioni paragonabile per eccesso alle più note stragi naziste
in Italia”. Resta la frattura, l’evento in sé, destinato in
corrispondenza al ritrovamento dei corpi a trasformare rapidamente il
fatto oggettivo e tragico in un “costrutto mitico che diviene parte
integrante dell’identità collettiva degli italiani d’Istria”. I
semi di una narrazione contesa proiettata in tutto il dopoguerra tra
“opposte retoriche, vittimiste e negazioniste” sono interrati e
germoglieranno una malapianta. La tesi estrema è netta: le foibe
sono “la prima tappa di un disegno di eliminazione violenta della
presenza italiana nella penisola, destinata a divenire parte integrante
della Jugoslavia comunista”. Sappiamo oggi che non era così e
che il punto stava di nuovo nella volontà di una “sostituzione
nazionale”, concetto distinto e diverso dal genocidio. Ciò non toglie
che alla fine della mattanza in quel lembo del continente tra infoibati e
uccisi dai nazisti non vi era famiglia che non piangesse un lutto. Resta il dato storico di un secolo, il ‘900, angoscioso e terribile con
governi diversi per ideologia e impianto politico accomunati dalla
volontà di creare Stati etnicamente omogenei.
Intanto a Trieste
E Trieste? A Trieste il comando passa in mano tedesca, con le province a
ridosso delle Alpi orientali (Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume,
Lubiana) accorpate nella Zona di operazioni litorale (Ozak) dove “la
sovranità italiana è puramente nominale”. Siamo nella parte
finale della guerra e il governo di Salò non ha alcun potere su sindaci,
prefetti, legislazione. Nel capoluogo giuliano l’imprenditoria si
presta a collaborare anche in difesa dei propri interessi finanziari e
assicurativi. Nonostante nell’agosto del ’44 il vertice italiano
del PCd’I e buona parte del gruppo dirigente complessivo vengano
arrestati ed eliminati, nei mesi successivi la resistenza partigiana si
organizza tra le brigate Garibaldi, comuniste, e quelle Osoppo,
azioniste e cattoliche. Le violenze sono terribili. Nel mese di
aprile, siamo sempre nel ’44, i tedeschi compiono una rappresaglia nel
villaggio di Lipa, in provincia di Fiume. Una colonna scortata da
ufficiali italiani entra in paese e uccide chiunque incontri, le vittime
saranno 280. Nello stesso mese a Opicina, sul Carso triestino, i
partigiani uccidono sette militari in un cinema che proietta
documentari di propaganda, un secondo attentato nel cuore di Trieste
produce altre cinque vittime tedesche. La rappresaglia si
consuma nello schema classico del 10 a 1. Settantuno ostaggi sono
fucilati dopo l’attentato di Opicina, cinquantuno per quello consumato
in città con i corpi appesi a monito della popolazione nell’androne di
quello che sarà il conservatorio di musica. Ma il peggio non è neppure
lì.Dall’ottobre del ’42 all’aprile del 1945 opera a Trieste il
Polizeihaftlager (Campo di detenzione di polizia), la famigerata Risiera
di San Sabba, luogo destinato a divenire ben altro che una prigione. È gestito da SS tedesche, austriache e ucraine, annovera “specialisti”
del ramo, carnefici nazisti responsabili di buona parte della Shoah
della Polonia, Christian Wirth, detto “il selvaggio” o Kurt Franz, “il
più sadico torturatore di Treblinka” e Odilo Globočnik a cui si
ascrivono almeno un milione e mezzo di morti. Circa settecento ebrei
triestini passeranno da quelle celle (oggi monumento nazionale), se ne
salverà una ventina.
La riconciliazione
Ma è sul dopoguerra che Trieste proietta la sua ombra. Il nuovo vertice
del PCd’I passato in mano alla componente slovena del partito lascia
agli jugoslavi la possibilità di occupare le aree di frontiera (ottobre
del ’44), quest’ultimi “si impegnano a trattare gli italiani come una
minoranza nazionale col massimo dei diritti”. Soluzione ambigua. Nel frattempo, le divisioni tra le formazioni partigiane si consumano
come nell’episodio della strage alla malga di Porzȗs, febbraio 1945,
quando un reparto garibaldino stermina una brigata Osoppo. Il
Primo maggio del 1945 i partigiani jugoslavi occupano Trieste, a guidare
l’operazione i vertici dell’Ozna, la polizia segreta di Tito. Prelevano
singoli o piccoli gruppi anche se l’ampiezza delle operazioni non
sfugge a nessuno. Ancora Raoul Pupo descrive i numeri, tra Gorizia e
Trieste gli arrestati sono tra i dieci e i dodicimila, non tutti saranno
uccisi, ma questo lo si verrà a sapere solo in seguito. L’indicazione è arrestare repubblichini, fascisti, četnici, squadristi e
spie, collaborazionisti, agenti della questura e dell’Ovra, membri
della X Mas, delatori di partigiani. L’esito è una sequenza di uccisioni
in molti casi senza alcuna imputazione. Volendo semplificare,
“chi porta le armi o ne risponde ai comandi jugoslavi oppure è un
nemico, a prescindere dall’uso che ne abbia fatto assieme o contro i
tedeschi. Anzi, se contro i tedeschi si è battuto, ma non si è posto
agli ordini dell’armata jugoslava, è ancor peggio di un nemico, è un
fomentatore di guerra civile”.Il che spiega i motivi che
condussero a morte finendo infoibati anche militanti della resistenza
triestina, segnata dalla frattura dell’ala comunista a quel punto
appiattita su posizioni filo jugoslave.Sono settimane tragiche,
il giudizio storico dice come non si consumò una caccia indiscriminata
all’italiano poiché in quel caso le vittime sarebbero state decine di
migliaia e non tra le quattro e le seimila, numero terribile egualmente,
ma non di un genocidio o di una “pulizia etnica” si trattò. Fu altro.
Una orribile coda di una guerra che aveva una parabola dietro a sé. Una
resa dei conti venata dell’odio nazionalista? Certo, fu anche questo, ma
quando ci si muove su una terra di frontiera le risposte non sono mai
lineari.
Il dovere dell’anima
L’Esodo dall’Istria e
Dalmazia, ciò che il 10 febbraio ogni anno ricorda, è l’ultimo capitolo
di questa tormentata storia. Per anni su quella pagina è calato il
silenzio. In parte perché quelle donne e uomini sradicati dai luoghi di
una vita, da case, campi, vigne, cortili, arrivarono nell’Italia che si
affacciava al boom economico e una storia di soprusi e violenze stonava
col clima del tempo. In parte per una lotta politica che ancora
contrapponeva campi ideologici e, nonostante la scomunica sovietica, il
marchio della destra su quella tragedia non tardò a farsi sentire.Con gli anni i passi nella direzione di una pacificazione si sono
compiuti. Per il poco che vale, mi recai per la prima volta, da
segretario dei giovani comunisti e con una delegazione del Pci-Kpi, a
deporre un mazzo di fiori sulla Foiba di Basovizza. Correva l’anno 1989.Più tardi atti e gesti ben più autorevoli sono seguiti. Ciò che
mi preme rammentare oggi è il bisogno di non cancellare il passato
perché farlo equivale a gettare le basi a che possa ripetersi. Ma non
cancellare equivale a conoscerlo e soprattutto capirlo. Senza la paura
di misurare la Storia, i suoi torti, le sue ragioni. Per chi è nato
lassù tutto ciò non può limitarsi a un augurio. È semplicemente un
dovere dell’anima.