Cercando , non ricordo cosa sono capitato su questa canzone del mio passato
In effetti riascoltandola come sottofondo alla lettura della storia che trovate sotto , mi sono reso conto che : << ...Solo mettendosi in gioco per migliorare un poco la vita si riuscirà a “sconfiggere” la morte". Viva la vida, muera la muerte! è la frase con cui i rappresentanti delle comunità zapatiste del Chiapas chiudono i loro discorsi di benvenuto agli ospiti che considerano loro amici. da La Grande Famiglia >> ed ciò che fanno certe persone come quella di cui riporto la storia
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Repubblica 21\1\20120
dal nostro inviato FABIO TONACCI
dal nostro inviato FABIO TONACCI
L’italiana che cura i traumi dei bambini dell’Isis: “Li aiuto a uscire dal buio”
Anna Pelamatti, ex docente universitaria di Psicologia a
Trieste, ora lavora nel centro di Salute mentale per l’infanzia di
Duhok: uno dei pochi presidi in Medio Oriente, venti campi assistiti,
con un progetto sulla salute mentale per bambini e adolescenti affetti
da sindrome post-traumatica da stress.
DUHOK
- Li vedi cercare un equilibrio precario su una tavoletta di legno
nelle stanze colorate del centro di Salute Mentale di Duhok, e ti viene
naturale pensare che stiano giocando. Invece stanno provando a sentire
di nuovo il proprio corpo, irrigidito dalle morti, dalle bombe,
dall'Isis. Dalla paura che ancora li possiede e li costringe a farsi la
pipì addosso quando i rumori attorno assomigliano al fucile che spara.
Dalla diffidenza, che li sprofonda in un angolo della tenda, nel
silenzio. Bambini che sopravvivono nei campi profughi, bambini figli di
uno stupro, bambini che l'Isis aveva addestrato a fare il soldato,
bambini cui hanno rubato l'infanzia. La guerra li ha talmente violati
che non lo sanno più dire ciò che provano. Lo disegnano, al massimo. Una
casa in fiamme, un cuore spezzato, un viso rigato dalle lacrime.
Emozioni minime eppure enormi. "Ma un poco alla volta li tireremo fuori
dal buio", dice la psicologa Anna Pelamatti, che vive nel Kurdistan
iracheno in missione per Aispo, l'ong legata all'ospedale San Raffaele
di Milano, specializzata in interventi di cooperazione sanitaria e
presente in Iraq dal 2013.
Anna Pelamatti è una di quelle persone che ti fanno pensare che, in fondo, la speranza è più potente dei missili. Sessantasei anni, ex docente di psicologia, per dieci anni direttrice della Scuola di specializzazione in neuropsicologia clinica a Trieste. Poteva godersi la pensione, invece è qui nel centro medico di Duhok, in una terra martoriata dai conflitti: venti campi assistiti, migliaia di casi trattati, in sostanza uno dei rari progetti sulla salute mentale di bambini e adolescenti dell'intero Medio Oriente.
Anna, come è nata la sua scelta?
"Sono andata in pensione nel 2016, a 63 anni. Potevo rimanere fino a 70 anni in quanto professore ordinario, ma ho voluto dare spazio ai giovani. Due anni dopo mi contatta un amico che lavora a Duhok per Aispo. Mi dice che il Direttorato della Salute locale ha bisogno di aiuto perché la situazione era disperata. Nei campi profughi c'erano adolescenti che si davano fuoco".
Non venivano curati?
"Qui non esiste la neuropsichiatria infantile e nemmeno una seria formazione in psicologia"
Perché ha contattato lei?
"I servizi sanitari a Trieste sono di tradizione basagliana. Per la diagnosi e il trattamento usiamo il modello bio-psico-sociale che integra i fattori biologici, sociali e relazionali col contesto famigliare. Lavoriamo con gli amici e la famiglia del paziente, in altre parole. In Kurdistan questo è fondamentale, perché lo stigma è ancora forte..."
Lo stigma?
"Sebbene i curdi siano laici, democratici e attenti alla parità di genere, rifiutano la malattia psicologica. Se ne vergognano, un po' come in Italia 50 anni fa. Preferiscono rivolgersi all'autorità religiosa piuttosto che a psicologi e psichiatri"
Quando è arrivata a Duhok?
"Nel febbraio del 2018 per una prima valutazione di 15 giorni. Mi sono accorta che i bambini del Centro risultavano essere soprattutto autistici o con ritardi mentali, ma solo perché gli strumenti diagnostici erano tarati sull'Occidente. Era necessario un lavoro di adattamento culturale dei test e dei questionari con cui si misurano il quoziente intellettivo, il disagio sociale, i comportamenti a rischio. Ero convinta di poter davvero aiutare questo gruppo di dottori curdi e allora mi sono trasferita".
Si immaginava così la pensione?
"Avevo deciso di continuare a insegnare gratuitamente al dipartimento di Trieste, però il progetto curdo mi ha conquistato. Sto bene e vivo bene".
Quanto tempo passa qui?
"Otto mesi nel 2019. L'appartamento dove stiamo è in un palazzo orribile, ma per lo meno c'è l'elettricità tutto il giorno ed è controllato da un servizio di sicurezza armato. Dopo l'attacco missilistico iraniano, ci è stato vietato di andare al campo di Bardarash perché vicino alla base americana"
È sposata?
"No, e non ho figli. Ho un compagno"
Concorda con la sua scelta?
"Sì, l'abbiamo presa insieme. Il mio team è composto da cinque donne. I nostri compagni non riescono a capire perché talvolta non riusciamo neanche a fare una telefonata per un saluto, ma è perché usciamo di casa alle 8.30 e rientriamo tardi. Dopo la guerra turca ai curdi del Rojava, c'è un nuovo campo rifugiati con una popolazione che, per il 60 per cento, ha meno di 15 anni. Immaginatevi quanto lavoro abbiamo da fare"
Che tipo di patologie mentali hanno?
"Presentano tutti la sindrome post-traumatica da stress. Si fanno la pipì addosso durante la notte, o quando sentono un rumore che associano alle bombe o agli spari. Poi attacchi acuti d'ansia o di panico, non dormono, alcuni sono depressi. Nel campo di Bardarash ci sono bambini che non riescono ad uscire dalle tende. 'Se esco arriva l'uomo col fucile e mi spara', mi dicono".
I casi più gravi?
"I bambini yazidi. Hanno visto le loro madri stuprate e rapite dall'Isis, e i loro padri assassinati. Ho conosciuto una donna yazida che ha tre figli: uno è nato da uno stupro e la sua famiglia non lo accetta, per cui lei dice che stava meglio quando era prigioniera dello Stato Islamico perché allora le violenze avevano una causa. Il figlio più grande ha 14 anni ed è stato un bambino soldato: ora non ha più desideri, non parla, ha reazioni aggressive. L'Isis gli ha fatto il lavaggio del cervello, dandogli anche un nome nuovo. È un bambino intriso della violenza che gli hanno imposto. Considera l'angolo della tenda il suo territorio, e non vuole che nessuno lo violi"
Come si curano adolescenti così provati?
"Bisogna farli ripartire da dove si erano fermati. Per prima cosa devono ricominciare a sentire il proprio corpo, irrigidito da quanto hanno passato. Gli facciamo fare esercizi di equilibrio in piedi su una tavoletta basculante, ad esempio"
E per rieducarli alla socialità?
"Ci vuole molta pazienza. All'inizio li mettiamo accanto a un compagno, schiena contro schiena, per recuperare la sensazione del contatto, dell'esistenza dell'altro. Poi li facciamo respirare insieme per creare un contatto più profondo, e li facciamo descrivere le emozioni"
E come, se non parlano?
"Lavorando attraverso il corpo, importantissimo veicolo dei sintomi traumatici. Abbiamo un'artista curda che li aiuta a raffigurare le emozioni con il disegno, con i suoni e con i gesti."
Riuscite a recuperarli veramente?
"Non si può parlare di guarigione, non tornano quelli di prima. Il vero successo è che arrivino a riconoscere emozioni nuove e a pensare di poter avere un futuro. L'approccio clinico integrato sembra dare buoni risultati. Stanno uscendo dall'abisso in cui sono sprofondati. Piano piano, un po' alla volta".
Anna Pelamatti è una di quelle persone che ti fanno pensare che, in fondo, la speranza è più potente dei missili. Sessantasei anni, ex docente di psicologia, per dieci anni direttrice della Scuola di specializzazione in neuropsicologia clinica a Trieste. Poteva godersi la pensione, invece è qui nel centro medico di Duhok, in una terra martoriata dai conflitti: venti campi assistiti, migliaia di casi trattati, in sostanza uno dei rari progetti sulla salute mentale di bambini e adolescenti dell'intero Medio Oriente.
Anna, come è nata la sua scelta?
"Sono andata in pensione nel 2016, a 63 anni. Potevo rimanere fino a 70 anni in quanto professore ordinario, ma ho voluto dare spazio ai giovani. Due anni dopo mi contatta un amico che lavora a Duhok per Aispo. Mi dice che il Direttorato della Salute locale ha bisogno di aiuto perché la situazione era disperata. Nei campi profughi c'erano adolescenti che si davano fuoco".
Non venivano curati?
"Qui non esiste la neuropsichiatria infantile e nemmeno una seria formazione in psicologia"
Perché ha contattato lei?
"I servizi sanitari a Trieste sono di tradizione basagliana. Per la diagnosi e il trattamento usiamo il modello bio-psico-sociale che integra i fattori biologici, sociali e relazionali col contesto famigliare. Lavoriamo con gli amici e la famiglia del paziente, in altre parole. In Kurdistan questo è fondamentale, perché lo stigma è ancora forte..."
Lo stigma?
"Sebbene i curdi siano laici, democratici e attenti alla parità di genere, rifiutano la malattia psicologica. Se ne vergognano, un po' come in Italia 50 anni fa. Preferiscono rivolgersi all'autorità religiosa piuttosto che a psicologi e psichiatri"
Quando è arrivata a Duhok?
"Nel febbraio del 2018 per una prima valutazione di 15 giorni. Mi sono accorta che i bambini del Centro risultavano essere soprattutto autistici o con ritardi mentali, ma solo perché gli strumenti diagnostici erano tarati sull'Occidente. Era necessario un lavoro di adattamento culturale dei test e dei questionari con cui si misurano il quoziente intellettivo, il disagio sociale, i comportamenti a rischio. Ero convinta di poter davvero aiutare questo gruppo di dottori curdi e allora mi sono trasferita".
Si immaginava così la pensione?
"Avevo deciso di continuare a insegnare gratuitamente al dipartimento di Trieste, però il progetto curdo mi ha conquistato. Sto bene e vivo bene".
Quanto tempo passa qui?
"Otto mesi nel 2019. L'appartamento dove stiamo è in un palazzo orribile, ma per lo meno c'è l'elettricità tutto il giorno ed è controllato da un servizio di sicurezza armato. Dopo l'attacco missilistico iraniano, ci è stato vietato di andare al campo di Bardarash perché vicino alla base americana"
È sposata?
"No, e non ho figli. Ho un compagno"
Concorda con la sua scelta?
"Sì, l'abbiamo presa insieme. Il mio team è composto da cinque donne. I nostri compagni non riescono a capire perché talvolta non riusciamo neanche a fare una telefonata per un saluto, ma è perché usciamo di casa alle 8.30 e rientriamo tardi. Dopo la guerra turca ai curdi del Rojava, c'è un nuovo campo rifugiati con una popolazione che, per il 60 per cento, ha meno di 15 anni. Immaginatevi quanto lavoro abbiamo da fare"
Che tipo di patologie mentali hanno?
"Presentano tutti la sindrome post-traumatica da stress. Si fanno la pipì addosso durante la notte, o quando sentono un rumore che associano alle bombe o agli spari. Poi attacchi acuti d'ansia o di panico, non dormono, alcuni sono depressi. Nel campo di Bardarash ci sono bambini che non riescono ad uscire dalle tende. 'Se esco arriva l'uomo col fucile e mi spara', mi dicono".
I casi più gravi?
"I bambini yazidi. Hanno visto le loro madri stuprate e rapite dall'Isis, e i loro padri assassinati. Ho conosciuto una donna yazida che ha tre figli: uno è nato da uno stupro e la sua famiglia non lo accetta, per cui lei dice che stava meglio quando era prigioniera dello Stato Islamico perché allora le violenze avevano una causa. Il figlio più grande ha 14 anni ed è stato un bambino soldato: ora non ha più desideri, non parla, ha reazioni aggressive. L'Isis gli ha fatto il lavaggio del cervello, dandogli anche un nome nuovo. È un bambino intriso della violenza che gli hanno imposto. Considera l'angolo della tenda il suo territorio, e non vuole che nessuno lo violi"
Come si curano adolescenti così provati?
"Bisogna farli ripartire da dove si erano fermati. Per prima cosa devono ricominciare a sentire il proprio corpo, irrigidito da quanto hanno passato. Gli facciamo fare esercizi di equilibrio in piedi su una tavoletta basculante, ad esempio"
E per rieducarli alla socialità?
"Ci vuole molta pazienza. All'inizio li mettiamo accanto a un compagno, schiena contro schiena, per recuperare la sensazione del contatto, dell'esistenza dell'altro. Poi li facciamo respirare insieme per creare un contatto più profondo, e li facciamo descrivere le emozioni"
E come, se non parlano?
"Lavorando attraverso il corpo, importantissimo veicolo dei sintomi traumatici. Abbiamo un'artista curda che li aiuta a raffigurare le emozioni con il disegno, con i suoni e con i gesti."
Riuscite a recuperarli veramente?
"Non si può parlare di guarigione, non tornano quelli di prima. Il vero successo è che arrivino a riconoscere emozioni nuove e a pensare di poter avere un futuro. L'approccio clinico integrato sembra dare buoni risultati. Stanno uscendo dall'abisso in cui sono sprofondati. Piano piano, un po' alla volta".