27.8.21

Brevi storie di atleti paralimpici C'è chi arriva da un campo profughi, chi punta all'ennesimo oro e chi ha già fatto un grandissimo risultato con la qualificazione

   con   articolo      che  riporto sotto  de  https://www.ilpost.it/2021/08/25/atleti-paralimpiadi-storie/ confermo  la  riposta    da me  data nel post precedente    a chi  mi chiede  perchè   seguirli    se  non sei uno di loro   ?    Agiungi   che    è  vero   che     non   mi  manca  nessun arto  o   non sono in sedia   a  rotelle , ma  ho  altri  handicap  a  tutta la  parte destra    :  sordità , cheratocono precoce  ,  piede  cavo  ,  difficoltà musoclari ( doppia  ernia  inguinale )  .  Ma otra basta parlare di me parliamo  di loro 


(Richard Heathcote/Getty Images)

Sono iniziate martedì, con la cerimonia di apertura, le Paralimpiadi di Tokyo, che fino al 5 settembre assegneranno medaglie in oltre 500 eventi a cui parteciperanno più di 4mila atleti e atlete, rispettivamente divisi e divise in apposite categorie (indicate da sigle i cui significati sono spiegati qui). Per ragioni tra le più svariate, moltissimi tra loro hanno storie notevoli: da chi ha saputo eccellere e vincere ori su ori, a chi ha già ottenuto un grandissimo risultato anche solo arrivando a Tokyo.
Tra le tante storie possibili ne abbiamo scelte alcune (18, per l’esattezza) tra le più significative. Con l’aggiunta di quella – che sta dentro una storia ben più grande – che riguarda due atleti che avrebbero dovuto esserci ma che, almeno per ora, non ci sono.



Markus Rehm
È tedesco, ha 33 anni e il suo soprannome è “Blade Jumper”, perché gareggia nel salto in lungo nella categoria T64, una di quelle riservate ad atleti con amputazione che competono con protesi. A Rehm (che alle precedenti Olimpiadi vinse anche un oro nella staffetta) fu amputata la parte di gamba sotto al ginocchio dopo un incidente del 2005, mentre faceva wakeboard. Qualche mese fa ha saltato 8,62 metri e in carriera ha già vinto tre ori olimpici. Un po’ come fu a suo tempo per Oscar Pistorius, anche Rehm ha provato – senza riuscirci – a ottenere i permessi per partecipare alle Olimpiadi, non solo alle Paralimpiadi. Oltre a essere un atleta, nella vita fa il protesista.



(Julian Finney/Getty Images)

Grigorios Polychronidis
È greco, ha 40 anni e compete nella boccia, uno dei due sport paralimpici (l’altro è il goalball) che non ha un vero e proprio corrispettivo olimpico e che è riservato ad atleti con patologie neurologiche. Polychronidis, che è affetto da atrofia muscolare spinale e che da pochi mesi è diventato padre, scoprì la boccia intorno ai vent’anni, con l’obiettivo di partecipare alle Paralimpiadi di Atene del 2004. Non ci riuscì, ma poi vinse un argento a Pechino, un oro a Londra in una gara di coppia e altre due medaglie a Rio, nel 2016.



(Gareth Copley/Getty Images)

Zahra Nemati
Gareggia nel tiro con l’arco e nel 2012 fu la prima donna iraniana a vincere un oro paralimpico, quando ancora nessuna sua connazionale aveva vinto un oro alle Olimpiadi. Nel 2016 partecipò sia alle Olimpiadi, dove fu portabandiera, che alle Paralimpiadi, dove rivinse l’oro. Ha 36 anni e compete nella categoria W2 poiché subì una lesione del midollo spinale quando a 18 anni fu colpita da un’auto. Prima dell’incidente praticava taekwondo, che è diventato sport paralimpico solo quest’anno.



(Jamie Squire/Getty Images)


Claire Supiot
È francese, ha 53 anni e quelle di Tokyo saranno le sue prime Paralimpiadi, nel nuoto. Dopo che già nel 1988, quando aveva vent’anni, aveva partecipato alle Olimpiadi di Seul. Supiot, che ha iniziato a gareggiare nelle gare paralimpiche solo da qualche anno, ha la malattia di Charcot-Marie-Tooth, una neuropatia ereditaria per cui ancora non esiste cura e che, tra le molte altre cose, comporta diversi problemi motori e stanchezza cronica. Rispetto a quel che è cambiato da Seul a Tokyo, ha detto: «Ho qualche ruga in più e le mie gambe non funzionano più come un tempo». A Le Monde ha raccontato invece, insieme a diverse altre cose, di come fa a nuotare: «Muovo le braccia come tutti, e faccio ognuno dei quattro stili, solo utilizzo un po’ meno le gambe».




Shingo Kunieda
È giapponese, ha 37 anni e nel tennis in carrozzina non c’è nessuno più forte. Oltre ad aver vinto due ori olimpici nel 2008 e nel 2012 (nel 2016 non c’era per infortunio), ha vinto 45 trofei in tornei del Grande Slam. È stato scelto come capitano della squadra paralimpica giapponese e in una recente intervista ha detto: «Spero che molti bambini, con o senza disabilità, possano guardare gli sport paralimpici e comprendere le infinite possibilità dell’umanità». Kunieda è paralizzato sin da quando era bambino, per le conseguenze di un tumore spinale.



(AP Photo/Thibault Camus)

Sarah Storey
È una ciclista britannica di 43 anni e una delle atleti paralimpiche più vincenti di sempre, con 15 medaglie d’oro complessive (la 15esima delle quali appena vinta alle Paralimpiadi di Tokyo e alcune delle quali vinte nel nuoto, il suo precedente sport). Storey, le cui prime Paralimpiadi furono quelle di Barcellona del 1992, compete nella categoria C5, poiché dalla nascita non ha la mano sinistra. Suo marito, Barney Storey, fa il “pilota” per ciclisti ipovedenti nelle gare di ciclismo su pista.



(AP Photo/Raissa Ioussouf)

Husnah Kukundakwe
Nata senza l’avambraccio destro e con una disabilità alla mano sinistra, è un’atleta ugandese di 14 anni: a queste Paralimpiadi non c’è nessuno più giovane di lei. A Tokyo, a soli due anni dalla sua prima gara, competerà nel nuoto nella categoria S9. Non ci si aspetta che vinca una medaglia, ma lei dice che tra i suoi obiettivi c’è anche la sensibilizzazione verso le disabilità. Intervistata dal sito delle Paralimpiadi dopo un evento di presentazione a cui era stata invitata, ha raccontato inoltre di essere felicissima per aver avuto modo di conoscere alcuni dei suoi idoli, compresa l’italiana Bebe Vio: «Mi sembra di essere seduta in mezzo a stelle del cinema», ha detto.



(Richard Heathcote/Getty Images)

Kate O’Brien
Dopo essere andata vicina a partecipare alle Olimpiadi invernali nel bob, nel 2016 partecipò a quelle estive, nel ciclismo su pista. Poi nel 2017, mentre si stava allenando ebbe un gravissimo incidente, con diverse ossa rotte e con lesioni cerebrali. Andò in coma e rischiò di morire, e quando si risvegliò le fu detto che non avrebbe più potuto pedalare, camminare e forse nemmeno tornare a parlare. A 33 anni, è tra le favorite per l’oro nella categoria C4, sempre come ciclista, sia in una gara su pista che nella prova a cronometro su strada.




Natalia Partyka
Ha 32 anni, è polacca, è nata senza l’avambraccio destro e a queste Paralimpiadi punta a vincere il suo quinto oro consecutivo nel tennistavolo. Tra l’altro, a queste Paralimpiadi ci arriva poche settimane dopo aver partecipato – sempre nel tennistavolo – alle sue quarte Olimpiadi. È raro che succeda, ma il suo caso non è il primo.



(Steph Chambers/Getty Images)

Brad Snyder
Ha 37 anni, è statunitense e a Tokyo gareggerà nel triathlon nella categoria PTVI1, riservata ad atleti ciechi. Lo divenne nel 2011, quando era un militare artificiere in servizio in Afghanistan, in seguito all’esplosione di una bomba. Già un anno dopo vinse tre medaglie a Londra, nel nuoto, e nel 2016 ne vinse altre tre. Da qualche tempo ha deciso di diventare un paratriatleta, in uno sport che debuttò proprio nel 2016.



(Sean M. Haffey/Getty Images)

Hannah Cockroft
È britannica, ha 29 anni, ha vinto cinque ori paralimpici alle due precedenti edizioni a cui ha partecipato e a Tokyo gareggerà su sedia a rotelle nei 100 e negli 800 metri, le due distanze previste per gli atleti della sua categoria (T34). Come ha scritto il Guardian, comunque, si presenta a Tokyo pochi mesi dopo aver migliorato i suoi precedenti record mondiali sui 100, 200, 400 e 800 metri: sono ormai dieci anni che nessuno la batte in una competizione mondiale.



(Bryn Lennon/Getty Images)

Jefinho
È brasiliano, ha 30 anni, è completamente cieco da quando ne aveva sette e il sito delle Paralimpiadi ha scritto di lui che «è considerato il miglior giocatore di sempre di calcio a 5 per ciechi». Anche quest’anno la nazionale maschile brasiliana è favorita, dopo aver vinto l’oro in ogni edizione dal 2004 (quando divenne sport paralimpico) al 2016, anche grazie a questi due gol nella semifinale contro la Cina:




Parfait Hakizimana
Per gareggiare a queste Olimpiadi nel taekwondo, è partito da un campo profughi del Ruanda, in cui vive e insegna arti marziali da più di cinque anni, dopo essere fuggito dalla guerra civile del Burundi, il paese in cui è nato. Hakizimana – che ha 33 anni e che perse l’uso del braccio sinistro otto anni fa, dopo che gli spararono in un attacco armato in cui fu uccisa la madre – è uno dei sei atleti della squadra paralimpica dei rifugiati.




Carol Cooke
Nata in Canada nel 1961, da bambina praticò la ginnastica, per poi scegliere di dedicarsi invece al nuoto, dove andò assai meglio. «A quindici anni» ha raccontato lei «il mio obiettivo erano le Olimpiadi di Mosca del 1980, ma purtroppo il Canada le boicottò, pensai che il mio sogno era ormai svanito». Cooke divenne poliziotta – continuando a nuotare in modo non agonistico – e intorno ai trent’anni si trasferì in Australia con il marito. Fu lì che, quando aveva 36 anni, le fu diagnosticata la sclerosi multipla.
Lei continuò comunque a nuotare, e poi si dedicò anche al canottaggio, riprendendo quel vecchio sogno di gareggiare per il Canada, alle Olimpiadi, nel nuoto (nel frattempo diventato il sogno di gareggiare per l’Australia, alle Paralimpiadi, nel canottaggio). Con la squadra australiana, a 46 anni, mancò per meno di un secondo la qualificazione alle Paralimpiadi del 2008. Decise poi di dedicarsi al ciclismo paralimpico, nella categoria T2, in cui si gareggia con veicoli a tre ruote.
Nel 2012, a 51 anni, Cooke riuscì infine a partecipare alle Paralimpiadi di Londra, di cui ricorda che tra le prime cose che lesse dopo essere uscita dall’aeroporto fu un cartello con scritto: «A tutti gli atleti olimpici, grazie per aver partecipato all’evento di riscaldamento». Nella gara, vinse poi l’oro. Ne vinse altri due a Rio e ora, a 60 anni, gareggerà a Tokyo. Ha detto che non crede di poter essere sufficientemente competitiva anche a Parigi, tra tre anni, ma ha precisato: «Aspetto il giorno in cui l’allenatore mi dirà “Carol, forse è ora di smettere”, ma per ora quel giorno non è arrivato, e allora vado avanti».


(Kelly Defina/Getty Images)


Birgit Skarstein
I prossimi mesi saranno piuttosto intensi per questa atleta norvegese. Perché a Tokyo gareggerà nel canottaggio, nella categoria PR1, e perché a marzo gareggerà nello sci di fondo alle Paralimpiadi di Pechino. Qualche mese fa trovò inoltre il tempo di partecipare alla versione norvegese di “Ballando con le stelle”, con ottimi risultati. Skarstein è paralizzata dalla vita in giù dal 2010, quando a 16 anni il trattamento per un infortunio alla gamba le causò danni irreversibili alla spina dorsale.



(Naomi Baker/Getty Images)

Jessica Long
È nata in Siberia ma fu adottata da piccola ed è statunitense. Prima che compisse due anni le furono amputate entrambe le gambe. Fece il suo debutto paralimpico nel 2004 ad Atene, quando a 12 anni vinse tre medaglie d’oro. Contando anche quelle vinte nelle successive Paralimpiadi ha vinto in tutto 13 ori, a cui si aggiungono alcune decine di altre medaglie mondiali. Nonostante la sua straordinaria carriera, molti statunitensi hanno scoperto la sua storia giusto qualche mese fa, quando fu protagonista di una pubblicità del Super Bowl, in seguito riproposta anche altrove, ad esempio durante le recenti Olimpiadi.




Omara Durand
È una velocista cubana ipovedente, che gareggia nella categoria T12, in cui è detentrice dei record mondiali sui 100, 200 e 400 metri. Sui 100 metri, il suo miglior tempo è di 11 secondi e 40 centesimi; i 400 li corre in 51 secondi e 77 centesimi.




Bebe Vio
È comprensibilmente parecchio famosa, in Italia ma anche all’estero: per la sua grande storia, per la sua partecipazione al documentario Netflix Rising Phoenix, e di certo anche per la sua gran vittoria (con relativa grande esultanza) a Rio, nel fioretto.




Tra gli oltre quattromila atleti presenti alle Paralimpiadi di Tokyo, in rappresentanza di oltre 160 paesi (alcuni dei quali alla prima partecipazione di sempre) non ci sarà nessuno che rappresenterà l’Afghanistan: l’unico atleta afghano, il nuotatore Abbas Karimi, gareggerà con la squadra dei rifugiati.
Zakia Khudadadi – che gareggiando nel taekwondo sarebbe diventata la prima donna afghana a partecipare alle Paralimpiadi – non è potuta andare a Tokyo perché sarebbe dovuta partire proprio nei giorni in cui i talebani sono arrivati a Kabul. E nemmeno l’altro atleta afghano – Hossain Rasouli, che gareggia nell’atletica – è potuto partire.
Secondo il sito australiano ABC News sia Khudadadi che Rasouli sono tra le decine di atleti e atlete afghani che sono riusciti a lasciare il paese dopo che l’Australia ha concesso loro un visto speciale per motivi umanitari. Sempre secondo ABC News, i due atleti avrebbero espresso il desiderio di potere, se possibile, andare a Tokyo. Nel frattempo, durante la cerimonia di apertura delle Paralimpiadi si è scelto di mostrare comunque la bandiera afghana.

26.8.21

Marco Atzeni riporta in vita nel suo blog piccole e grandi storie della città «Non sono matto ma a volte mi sembra di vedere i personaggi dei miei racconti» Vecchie ville, statue e ricordi di una Sassari che non c'è più

dalla nuova  sardegna de  26\8\2021


SASSARI
"Scorsi poco lontano una bimba sola, aveva i fiocchi che le tenevano i capelli. Muoveva le manine nell'aria concentrandosi su qualcosa che non capivo. Che fai? Le dissi. Mi rispose "Accarezzo le farfalle!", ma io non vedevo alcuna farfalla. Rimasi ad osservarla, mi arrivava poco più su del ginocchio e guardandomi seria mi chiese "Signore, io sono morta?". Mi lasciò senza parole. Fu lei stessa a concludere il suo pensiero, dicendomi "Io non cresco mai... sono sempre piccolina!". Fuggì via coi suoi passettini. Allora socchiusi gli occhi, e per un istante riuscii anche io a vedere le farfalle attorno a lei. Poi svanirono, le farfalle e la piccola Bianca Maria Boeri".Erano le 5 di pomeriggio di sabato 9 luglio 1910, e la piccola
 Bianca Maria Boeri  busto
al cimitero moinumentale di Sassari  

Bianca Maria Boeri, a due anni e mezzo, moriva nella casa di via Cavour. Ogni palazzo, ogni statua custodisce un segreto o un mistero. Marco Atzeni spreme il marmo e tira fuori la storia di chi ci ha vissuto. Chi ha abitato, un secolo fa, in quella villa? Perché si chiama così? Chi era quella bimba con le codette del cimitero monumentale ? È strano che sia un giovane di 38 anni a scavare nella memoria di Sassari. E lo faccia solo per passione. Nel suo blog e nella sua pagina Facebook racconta i morti come fossero vivi. È come se andasse a trovarli nella loro casa in bianco e nero, suonasse il campanello, quattro passi e una chiacchierata nel presente, e poi li riaccompagnasse nel loro mondo color seppia, a riposare nelle pieghe della storia. «Alle volte mi sembra di essere matto - dice - quando passo sotto le finestre di villa Farris, a Cappuccini, o villa Crovetti in viale Caprera, o nei palazzi antichi di via Roma, sollevo lo sguardo verso le finestre, e mi sembra di vedere affacciati dal passato gli inquilini di quelle abitazioni. La nobildonna che mi saluta, sento le risate dei bimbi che giocano. Ho una tale confidenza con i protagonisti di quel tempo, che li percepisco ancora vivi».Fare il  cacciatore di storie non è il suo lavoro. Non è uno storico, non ha scritto libri.

cacciatore di storie non è il suo lavoro. Non è uno storico, non ha scritto libri. Marco Atzeni è un impiegato della Provincia, laureato in Economia, dotato di una straordinaria memoria per i nomi e per le date e di una curiosità in riserva fissa. Un topo da biblioteca, ma con la faccia furba e gli addominali da Instagram. «Sia ben chiaro: non sono una enciclopedia vivente. Io scopro e racconto. Molto spesso di quelle storie che scrivo, tre mesi prima non sapevo nulla». È un attento perlustratore del paesaggio urbano, e quando il suo sguardo si posa su una bella villa, diventa come una tomografia assiale, che vuole andare a fondo, nelle viscere, nella dimensione umana custodita nelle cose. I palazzi, gli sfarzi, le apparenze nascondono le fragilità delle famiglie: gioie, sofferenze, sacrifici, debiti, tradimenti, pianti, i delitti e tutti quei segreti di cui i muri sono intrisi. Ma non è gossip barricato, o ficcanasare nelle aristocratiche sfighe. È un rewind rispettoso, in punta di piedi. «Abitavo a Cappuccini, ed è pieno di belle ville. Chiedevo: chi l'ha costruita? Chi ci ha abitato? E non trovavo risposte. La mia ricerca è nata così. E pian piano mi sono accorto che questa curiosità non è solo mia, ma appartiene a tanti». Gli basta un nome, una traccia, una data, poi va avanti come un segugio: «Per prima cosa gli archivi della Nuova Sardegna, dove scovi tante storie. Poi gli archivi comunali, il catasto, la conservatoria». E infine lo strumento più chirurgico: Facebook. «Digiti un cognome, e scovi i parenti di quel nobile, gli eredi, che sono quasi sempre felici di riesumare le proprie origini e ti arricchiscono con gli aneddoti del bisnonno, le foto, i ricordi». E incrociando documenti e testimonianze, la pagina acquista spessore e va oltre il "Ciarameddu storicizzato", le vulgata leggenda affascinante ma priva di fondamento. C'è Villa Farris, intrisa di lutti, mai vissuta per davvero, con un senso di malinconia inestinguibile. Villa Caria, che sintetizza un romanzo, il bello e il brutto di una vita. Un proprietario che esportava il formaggio in America, con le stive dei transatlantici all'odor di pecorino, che dormiva nei migliori hotel di New York. E poi la crisi del '29, il tracollo finanziario e anche la villa che appassisce. O ancora villa Mimosa, con il barone Don Gaspare Arborio Mella dei conti di Sant'Elia che corteggiò la bella e giovane argentina Josephine con i mazzi di mimose. Vicende che Marco Atzeni riappiccica con scrupolo alle pareti, rifoderandole di storia. «I testamenti poi mi fanno impazzire. Racchiudono delle gemme inaspettate. Perché dentro inventari sterminati di ricchezze trovi piccoli spaccati di vita, o pillole che racchiudono il carattere del personaggio». Tipo: Giovanni Battista Basso, proprietario del palazzo di Piazza Azuni, che a fine 800 lasciava alla moglie un patrimonio immenso, a patto che in casa non entrasse nessun altro uomo. E che poi specificava le modalità delle esequie: due bare, una più grande, elegante, e all'interno una più piccola, rivestita con tessuto morbido, per un viaggio confort nell'aldilà. 



O ancora le ultime volontà del medico Achille De Vita, venuto da Cosenza, proprietario del palazzo De Vita in piazza d'Italia, che in più passaggi definisce la moglie deficiente. E scrive: alla mia moglie deficiente lascio.... e uno pensa: ma cosa avrà combinato questa donna? Per poi capire che la povera Fanny Lavagna non aveva alcuna colpa. Era solo l'Alzheimer, nel 1890, a non avere ancora un nome. "Scorsi poco lontano una bimba sola, aveva i fiocchi che le tenevano i capelli. Muoveva le manine nell'aria concentrandosi su qualcosa che non capivo. Che fai? Le dissi. Mi rispose "Accarezzo le farfalle!", ma io non vedevo alcuna farfalla. Rimasi ad osservarla, mi arrivava poco più su del ginocchio e guardandomi seria mi chiese "Signore, io sono morta?". Mi lasciò senza parole. Fu lei stessa a concludere il suo pensiero, dicendomi "Io non cresco mai... sono sempre piccolina!". Fuggì via coi suoi passettini. Allora socchiusi gli occhi, e per un istante riuscii anche io a vedere le farfalle attorno a lei. Poi svanirono, le farfalle e la piccola Bianca Maria Boeri".Erano le 5 di pomeriggio di sabato 9 luglio 1910, e la piccola Bianca Maria Boeri, a due anni e mezzo, moriva nella casa di via Cavour. Ogni palazzo, ogni statua custodisce un segreto o un mistero. Marco Atzeni spreme il marmo e tira fuori la storia di chi ci ha vissuto. Chi ha abitato, un secolo fa, in quella villa? Perché si chiama così? Chi era quella bimba con le codette del cimitero monumentale? È strano che sia un giovane di 38 anni a scavare nella memoria di Sassari. E lo faccia solo per passione. Nel suo blog e nella sua pagina Facebook racconta i morti come fossero vivi. È come se andasse a trovarli nella loro casa in bianco e nero, suonasse il campanello, quattro passi e una chiacchierata nel presente, e poi li riaccompagnasse nel loro mondo color seppia, a riposare nelle pieghe della storia. «Alle volte mi sembra di essere matto - dice - quando passo sotto le finestre di villa Farris, a Cappuccini, o villa Crovetti in viale Caprera, o nei palazzi antichi di via Roma, sollevo lo sguardo verso le finestre, e mi sembra di vedere affacciati dal passato gli inquilini di quelle abitazioni. La nobildonna che mi saluta, sento le risate dei bimbi che giocano. Ho una tale confidenza con i protagonisti di quel tempo, che li percepisco ancora vivi».Fare il cacciatore di storie non è il suo lavoro. Non è uno storico, non ha scritto libri. Marco Atzeni è un impiegato della Provincia, laureato in Economia, dotato di una straordinaria memoria per i nomi e per le date e di una curiosità in riserva fissa. Un topo da biblioteca, ma con la faccia furba e gli addominali da Instagram. «Sia ben chiaro: non sono una enciclopedia vivente. Io scopro e racconto. Molto spesso di quelle storie che scrivo, tre mesi prima non sapevo nulla». È un attento perlustratore del paesaggio urbano, e quando il suo sguardo si posa su una bella villa, diventa come una tomografia assiale, che vuole andare a fondo, nelle viscere, nella dimensione umana custodita nelle cose. I palazzi, gli sfarzi, le apparenze nascondono le fragilità delle famiglie: gioie, sofferenze, sacrifici, debiti, tradimenti, pianti, i delitti e tutti quei segreti di cui i muri sono intrisi. Ma non è gossip barricato, o ficcanasare nelle aristocratiche sfighe. È un rewind rispettoso, in punta di piedi. «Abitavo a Cappuccini, ed è pieno di belle ville. Chiedevo: chi l'ha costruita? Chi ci ha abitato? E non trovavo risposte. La mia ricerca è nata così. E pian piano mi sono accorto che questa curiosità non è solo mia, ma appartiene a tanti». Gli basta un nome, una traccia, una data, poi va avanti come un segugio: «Per prima cosa gli archivi della Nuova Sardegna, dove scovi tante storie. Poi gli archivi comunali, il catasto, la conservatoria». E infine lo strumento più chirurgico: Facebook. «Digiti un cognome, e scovi i parenti di quel nobile, gli eredi, che sono quasi sempre felici di riesumare le proprie origini e ti arricchiscono con gli aneddoti del bisnonno, le foto, i ricordi». E incrociando documenti e testimonianze, la pagina acquista spessore e va oltre il "Ciarameddu storicizzato", le vulgata leggenda affascinante ma priva di fondamento. C'è Villa Farris, intrisa di lutti, mai vissuta per davvero, con un senso di malinconia inestinguibile. Villa Caria, che sintetizza un romanzo, il bello e il brutto di una vita. Un proprietario che esportava il formaggio in America, con le stive dei transatlantici all'odor di pecorino, che dormiva nei migliori hotel di New York. E poi la crisi del '29, il tracollo finanziario e anche la villa che appassisce. O ancora villa Mimosa, con il barone Don Gaspare Arborio Mella dei conti di Sant'Elia che corteggiò la bella e giovane argentina Josephine con i mazzi di mimose. Vicende che Marco Atzeni riappiccica con scrupolo alle pareti, rifoderandole di storia. «I testamenti poi mi fanno impazzire. Racchiudono delle gemme inaspettate. Perché dentro inventari sterminati di ricchezze trovi piccoli spaccati di vita, o pillole che racchiudono il carattere del personaggio». Tipo: Giovanni Battista Basso, proprietario del palazzo di Piazza Azuni, che a fine 800 lasciava alla moglie un patrimonio immenso, a patto che in casa non entrasse nessun altro uomo. E che poi specificava le modalità delle esequie: due bare, una più grande, elegante, e all'interno una più piccola, rivestita con tessuto morbido, per un viaggio confort nell'aldilà. O ancora le ultime volontà del medico Achille De Vita, venuto da Cosenza, proprietario del palazzo De Vita in piazza d'Italia, che in più passaggi definisce la moglie deficiente. E scrive: alla mia moglie deficiente lascio.... e uno pensa: ma cosa avrà combinato questa donna? Per poi capire che la povera Fanny Lavagna non aveva alcuna colpa. Era solo l'Alzheimer, nel 1890, a non avere ancora un nome.



Un umido pomeriggio di aprile del 1894, verso le cinque, il ventenne Ferdinando Marianini indossò i suoi stivaletti, abbottonò il cappotto doppiopetto ed uscì di casa. Abitava con la famiglia in un elegante immobile nella parte iniziale dell'allora via Ospedale Civile, al numero civico 4, oggi via Enrico Costa. Dopo aver chiuso alle sue spalle il portone ad arco, Ferdinando iniziò una lunga camminata. Arrivò prima allo spiazzo sterrato del mulino a vento, all'apice di via Roma, dove si concludeva il centro abitato, poi proseguì per le lontane campagne di Serra Secca. Era una zona che conosceva, perché la sua famiglia possedeva alcuni terreni in quella località. A testa bassa e con le mani in tasca, il giovane Marianini procedette sino alla strada per Osilo e si addentrò silenzioso per gli ancor più sperduti boschi che conducevano al bacino del Bunnari. Eludendo la sorveglianza, arrivò di nascosto sullo strapiombo della diga che allora alimentava Sassari, fumò la pipa per qualche minuto, lasciandola poi sopra un piccolo masso. Si tolse i vestiti e li ripose ordinatamente in un luogo visibile. Fece gli ultimi tre passi del suo percorso cominciato un paio d'ore prima, chiuse gli occhi e si gettò nel nulla. Pochi istanti dopo calarono le tenebre. A casa Marianini si attese con angoscia il suo rientro fino all'indomani, poi fu chiaro che fosse accaduto qualcosa di spiacevole. L'ultimo ad aver visto il ventenne fu un bracciante. L'uomo indirizzò le ricerche, rivelando anche l'oscuro saluto rivoltogli dal giovane il giorno prima: "Ci vediamo all'altro mondo!". Il corpo fu ritrovato solo mesi dopo. Ferdinando, determinato sino all'inverosimile, si era immobilizzato le braccia con la cintura per evitare ogni ripensamento. Ferdinando era un affascinante ed educato studente dell'Istituto Tecnico di Sassari. Un biglietto, nascosto nella tasca della giacca, racconta il perché di quel gesto estremo: Ferdinando aveva perso la testa per la graziosa Antonina, ma i genitori del ragazzo proibivano una relazione con una
domestica. Ferdinando, puro d'animo, se ne innamorò e l'ultimo pensiero, prima di lasciare il mondo, lo dedicò proprio a lei: "Addio Antonina"Le storie delle ville liberty, dei palazzi più prestigiosi di Sassari e dei loro protagonisti sono raccolti nel blog http://storiasassari.blogspot.com Poi ci sono le pillole sul gruppo Facebook Sassari veccia e noba di Marco Atzeni (  foto a  sinistra  presa  dal suo account   facebook )  , Il blog racchiude decine di storie, con episodi spesso inediti e sconosciuti, raccolti attraverso la testimonianza degli eredi dei protagonisti.Marco Atzeni per il momento non ha intenzione di pubblicare alcun libro. Sarà solo l'ultima tappa, dopo aver concluso le sue ricerche. In cantiere ci sono ancora decine di storie.


vite guerriere e vite da buttare via di vanessa ruggeri

 Ci sono persone  che  hanno una forza interiore    fuori dal comune  . Persone   che preferirebbero di gran lunga   avere un' esistenza  più facile e  gentile  , e  che invece  , loor malgrado sono costrette  a combattere  ogni  giorno   per  guadagnarsi il  diritto     di vivere  una prvenza  di normalità  . Persone come  camilla   Serfini di 28  ani  . Infanzia e giovinezza interrotte prima dalla necessità di un trapianto di fegato, e poi da un linfoma di Hodgkin recidivo; un corpo impazzito che non risponde alle cure convenzionali sostenute dal sistema sanitario nazionale e che impone per la propria sopravvivenza infusioni di anticorpi monoclonali dal costo esorbitante. La vita è proprio una bastarda senza cuore, non conosce moralità, pietà o senso di giustizia, fa e disfa senza chiedere il permesso, spesso nei modi più imprevedibili e dolorosi. Eppure, anche nella malattia, o forse proprio perché prigionieri della malattia,
la vita riesce ad apparirci comunque un dono prezioso per cui vale la pena farsi guerrieri. Camilla è una giovane donna straordinaria: resiste e reagisce come una radice di ginepro pronta a rivegetare dopo ogni devastante incendio. Il suo calvario è iniziato a 9 anni, una tribolazione, la sua, che spezzerebbe il nerbo e la speranza di chiunque, perciò mi chiedo: dove trova tanta forza per splendere anche nella sofferenza? Da dove attinge l'energia per consolare gli infermieri quando non trovano vene integre nelle sue braccia? L'amore della sua famiglia e del suo fidanzato, unito alla generosità della gente, sono per lei scudo e corazza dietro cui barricarsi in attesa che spuntino nuovi germogli. Il fatto che Camilla sia una ragazza non deve offuscare il suo esempio di scontatezza: non si è forti e coraggiosi in base all'età, i giovani non sono guerrieri per natura, né sono dotati del potere infallibile di saper riconoscere e accettare l'amore e la bellezza che li circonda. Essere giovani non è uno status che garantisce la volontà di andare avanti anche dopo la sconfitta. Mi viene spontaneo pensare all'abisso che separa Camilla - aggrappata alla vita con le unghie e con i denti, impegnata a lanciare appelli necessari per riuscire a racimolare il denaro utile per la prossima infusione - da quelle migliaia di ragazzi che hanno partecipato al rave party abusivo sul lago di Mezzano: un raduno illegale per imbottirsi tutti insieme, per giorni, di alcol e droga fino a bruciarsi il cervello, a uccidere animali, a cadere in coma, a stuprare, fino a morire nella maniera più idiota. Vite sprecate, buttate via prima ancora di cominciare, viziate e viziose, annoiate e infinitamente tristi, vite che non celebrano libertà, per quanto sfrenata, ma soltanto distruzione. Ai due estremi del medesimo asse ci sono la voglia di aggrapparsi alla luce pur di esistere ad ogni costo, e il desiderio di perdersi nell'oscurità. Il costo in questione per rimanere a galla è elevatissimo, in tutti sensi. Chi dice che i soldi non danno la felicità mistifica di moralismo una verità molto più pratica e schietta: la salute, così come la qualità della vita, è purtroppo anche una questione di denaro: poter accedere a cure esclusive e costose dipende dal denaro. Quando le proprie risorse non bastano bisogna scendere a patti con la realtà e chiedere aiuto. Riconoscere di aver bisogno degli altri non è sintomo di debolezza, non lede l'orgoglio né la dignità o qualsivoglia autosufficienza raggiunta con fatica. Gli altri siamo noi, la guarigione di Camilla sarà la guarigione collettiva di tutti coloro che hanno pregato e contribuito economicamente al buon esito della sua battaglia. "Vola solo chi osa farlo" è il nome della pagina Facebook in cui Camilla racconta il suo percorso e indica come aiutarla. Camilla ha ragione, volare è un atto di coraggio, un atto di fede, il vuoto spaventa ma solo affrontandolo potremo librarci al di sopra delle nostre paure.



25.8.21

Ecco come muore un comico: ridendo in faccia ai suoi assassini. La lezione di Khasha Zwan ai talebani prima di venire ucciso






C’è una scena che mette a nudo in modo straordinariamente drammatico cos’è il regime talebano e quanto sia facile, in fondo, ridicolizzarlo se possiedi una dignità e un coraggio infiniti.
il  video    sotto Mostra il comico afghano Khasa Zwan mentre viene arrestato e caricato in auto dai talebani. E lui, con le mani ammanettate dietro la schiena, nonostante gli schiaffi, non implora, non chiede pietà, non si inginocchia ai suoi aguzzini. Fa quello che ha sempre fatto in ogni suo spettacolo, fino all’ultimo istante: li sfotte, li irride, si prende gioco di loro, di quegli emissari di morte e di un potere cieco e fanatico senza scrupoli né ironia.
Lo hanno ritrovato a fine luglio in campagna con la gola tagliata e i segni delle torture. Ma, tra i due, tra lui e i talebani, a sopravvivere sarà sempre lui.
Khasa Zwan ha mostrato al mondo come muore un comico: ridendo in faccia ai suoi assassini.
Ha tolto ai talebani il potere più grande che hanno: quello della paura.
È come se avesse detto loro: potete anche torturarmi, massacrarmi, uccidermi, ma non mi toglierete mai il potere di prendermi gioco di voi, la mia dignità, quello che sono.
Se esiste un simbolo di resistenza alla banalità del male, ad ogni latituine, eccolo qui.




Le ultime immagini di Khasha Zwan, il comico che ha ferito duramente i suoi assassini con il potere delle parole. Le sue ultime immagini da vivo lo consegneranno alla storia più di ogni suo spettacolo: ridere in faccia alla morte è dote di pochi
Khasha Zwan violenza forza afghanistan comico

Kasha Zwan è il comico afghano protagonista in queste ore, a più di 30 giorni dalla sua morte. Un destino che evidentemente lo vuole sempre al centro del piccolo schermo.

Orgoglio tricolore ad intermittenza vedi la differenza tra europei di calcio , olimpiadi e paraolimpiadi



Molti mi diranno , ma perchè Perché seguirle non sei disabile ? Perché lo sport non ha , o almeno non dovrebbe avere , barriere se non querlle fisiche . E poi vedere il discorso del pontefice , esse rappresentano lo sport, nella sua forma più pura. Perché ci permettono di vedere che i limiti nonostante gli handicap sono superabili. Consiglio a tutti di dargli la giusta attenzione che meritano . Infatti Leggo in rete  , visto  che  materialmente     come  quelle  normali   mi viene male  seguirle  perchè  sono al lavoro  ,  le seguo o indifferità  o via  internet  \ social   che nel primo giorno l'Italia ha ottenuto grandi risultati. e ben 5 medaglie ( 2 d'oro , 1 d'argento e 2 di bronzo ) ma Non leggo gli slanci patriottici di qualche settimana fa. Né da parte della stampa ufficiale , né da parte di semplici utenti.

l'unico che ne ha parlato è papa Francesco al termine dell’udienza generale di questa mattina

 


<blockquote class="twitter-tweet"><p lang="it" dir="ltr">Da <a href="https://twitter.com/hashtag/PapaFrancesco?src=hash&amp;ref_src=twsrc%5Etfw">#PapaFrancesco</a> Francesco il pensiero agli atleti impegnati nelle <a href="https://twitter.com/hashtag/Paralimpiadi?src=hash&amp;ref_src=twsrc%5Etfw">#Paralimpiadi</a> : testimoni di speranza e coraggio. <a href="https://t.co/VWPPiaOP4r">pic.twitter.com/VWPPiaOP4r</a></p>&mdash; Tg1 (@Tg1Rai) <a href="https://twitter.com/Tg1Rai/status/1430511801188376576?ref_src=twsrc%5Etfw">August 25, 2021</a></blockquote> <script async src="https://platform.twitter.com/widgets.js" charset="utf-8"></script>

 qual'ora  non dovreste vedere  il video  , blogspot  non  incorpora bene i video  di  twitter    , ha detto 


"Ieri a Tokyo hanno preso il via le Paralimpiadi. Invio il mio saluto agli atleti e li ringrazio perché offrono a tutti una testimonianza di speranza e di coraggio. Essi infatti manifestano come l'impegno sportivo aiuti a superare difficoltà apparentemente insormontabili”. 


 Infatti    ha   ragione l'account twitter ☆ℓ'ɑღอυʀ☆ #IncazzataGirlSummer🤬 @rosyb98

 

Comunque trovo assurdo e molto poco rispettoso che il profilo ufficiale dell' #ItaliaTeam non stia pubblicando NULLA in merito alle paralimpiadi, nonostante anche questi atleti siano appunto parte del team italiano... #Paralympics #Tokyo2020

24.8.21

Tokyo 2020, al via le Paralimpiadi: i fuochi d'artificio illuminano lo Stadio Olimpico

 dopo aver  archiviato   le  olimpiadi  " normali "   (  oltre i miei post  vedere  archivio  , ne trovate un sunto in  : <<  Giochi di parole: sette storie da Tokyo 2020. Una Olimpiade indimenticabile  repubblica online  12\8\2021 >>  ed  nel video sotto  )    


 ecco  le  paraolimpiadi  





Tokyo si riaccende per le Paralimpiadi. Mai così tanta Italia  di Cosimo CitoIl simbolo delle Paralimpiadi all'Olympic Stadium (afp)


Oggi la cerimonia inaugurale. La squadra azzurra è la più numerosa dopo Roma ‘60: 115 azzurri. L’Afghanistan sfila senza atleti, ma Zakia è in salvo in Australia

Share your light. Dopo essersi composto di tante piccole fiammelle provenienti da tutto il Giappone e da Stoke Mandeville, la sede inglese dei Giochi paralimpici ante litteram del 1948, il grande fuoco arderà oggi nello Stadio Olimpico di Tokyo, simbolo di pace, solidarietà e condivisione. Simbolicamente, la prima delle 163 delegazioni a sfilare sarà quella del Refugee Paralympic Team. Tra i suoi sei atleti per la prima volta una donna, la siriana Alia Issa: sventolerà lei la bandiera del Comitato paralimpico internazionale, con i tre agitos rosso, blu e verde, assieme al nuotatore afghano Abbas Karimi, rifugiato in Florida, 24enne dorsista privo delle braccia che di sé ha detto: "Quando morirò, vorrei che la gente sappia che non mi sono mai arreso". Fuggito a 16 anni in Iran, aveva poi varcato il confine con la Turchia saltando su un mezzo guidato da contrabbandieri. A Kabul è tornato una sola volta da allora, per piangere con sua madre sul corpo del padre morto.

Cinque i Comitati paralimpici all'esordio (Bhutan, Grenada, Maldive, Paraguay e St. Vincent e Grenadine). L'Afghanistan non ha delegazione ma avrà la sua bandiera, sventolata da un membro dell'Agenzia Onu per i rifugiati in segno di solidarietà nei confronti di Hossain Rasouli (lancio del disco) e Zakia Khudadadi (taekwondo), che non hanno potuto raggiungere Tokyo dopo la presa di potere da parte dei talebani. La ragazza, dopo il suo drammatico appello, è ora in salvo grazie a un visto sportivo concessole dall'Australia. La cerimonia (dalle 13 italiane) sarà sobria, in un Giappone che fronteggia una nuova impennata di contagi (oltre 4mila nella capitale in un giorno solo, il 22 agosto). "Proteggeremo i Giochi fino alla fine e saranno un successo" ha promesso la presidente del Comitato organizzatore Seiko Hashimoto, "e rafforzeremo le misure di contenimento del Covid viste anche le condizioni di particolare fragilità dei partecipanti". Saranno 4537 gli atleti in gara fino al 5 settembre, 22 gli sport, novità assolute il para-badminton e il para-taekwondo, 540 le medaglie assegnate. Mai da Roma 1960 la partecipazione italiana era stata più ricca: 115 gli iscritti, 63 donne e 52 uomini.

Paralimpiadi, la carica di Bebe Vio: "Siamo pronti per la cerimonia d'apertura"

Alla testa del fiume azzurro Bebe Vio e Federico Morlacchi: "È qualcosa di più grande di me" racconta la veneziana, "per fortuna c'è Federico che mi aiuterà a trovare la strada giusta perché io so già che passerò tutto il tempo a piangere". Morlacchi ha annunciato la sua prossima paternità proprio alla vigilia della cerimonia di apertura: "Dopo il 5 settembre inizierà una nuova sfida per me". Prima, però, le sue quattro gare in piscina, dai 400 stile libero ai 200 misti, altrettante occasioni. La spedizione azzurra punta a migliorare Rio 2016, 39 medaglie allora (10 ori, 14 argenti, 15 bronzi), mentre resteranno inarrivabili gli 82 podi di Roma '60. Nudi numeri, e invece, in questa fine d'estate giapponese, di valori ed emozioni si parlerà e di quelli si riempiranno i giorni.

Giorgio, morto ad Asti per l'esplosione di un frigo: il "gigante buono" che danzava come nessun altro. La leggenda del pianista sul lago di Como: il Festival 'galleggiante' di Alessandro Martire ed altre storie



Giorgio, morto ad Asti per l'esplosione di un frigo: il "gigante buono" che danzava come nessun altro 
                                                di Marco Patucchi
Tibaldi, 56 anni, era tecnico manutentore di impianti refrigeranti. Lascia la moglie e tre ragazzi a Santena

Repubblica dedica uno spazio fisso alle morti sul lavoro. Una Spoon River che racconta le vite di ciascuna vittima, evitando che si trasformino in banali dati statistici. Vite invisibili e dimenticate. Nel nostro Paese una media di oltre due lavoratori al giorno non fa ritorno a casa e "Morire di lavoro" vuole essere un memento ininterrotto rivolto a istituzioni e politica fino a quando avrà termine questo "crimine di pace".

"Caro Giorgio, tutte le mattine al semaforo ci incontravamo. Io andavo verso Torino, tu a prendere la macchina: la tua sigaretta in bocca - scrive Giordano nei social - a malapena un saluto, tutti e due addormentati. Mi mancherà da matti vederti sul lato opposto della strada, farci un piccolo gesto giusto per salutarci". Esistono attimi di vita ordinaria ai quali non abbiamo dato peso, sommersi nell'oblio del giorno dopo giorno. Poi, improvvisamente, spuntano fuori come un minuscolo tesoro che vorremmo sempre tenere con noi. Ma non si può più. Giorgio Tibaldi, 56 anni, moglie (Alessandra) e tre ragazzi (Gabriele, Stefano, Davide), è morto sul lavoro ad Asti: era un tecnico di una ditta di manutenzione frigoriferi, stava riparando l'impianto in un negozio di surgelati quando è stato investito dalla fiammata di un'esplosione. Il lavoro che è tutto e niente nella nostra vita: se un marziano scendesse sulla terra o desse un'occhiata ai social, penserebbe che Giorgio era prima di tutto un ballerino.

Giorgio, il 'gigante buono' di Santena, una manciata di chilometri da Asti e da Torino: un operaio, un marito, un padre con la passione per le danze. Sempre insieme alla sua Alessandra. "Hanno seguito le lezioni di fandango, di valzer e di sbrando che proprio Giorgio già ballava benissimo - scrive Sara nei social - . Se sentiamo qualche tuono, può darsi sia lui che balla lassù dando calcioni con le sue lunghissime gambe. Sono venuto anche ai corsi di irlandese e ci ha lasciati sbigottiti per la rapidità di apprendimento e la precisione nei passi. Ma soprattutto la simpatia, ragazzi, la simpatia...". E Sara: "Ciao Giorgio, ballerino infaticabile, agilissimo, simpatico, divertente. La vita è ingiusta e crudele con i migliori". Ciao Giorgio, operaio danzatore.

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"Non distruggetelo, lo portiamo nella nostra chiesa", così Madonna di Campiglio ha salvato un organo a canne tedesco

 Gianfranco Piccoli
L'organo nelle chiesa di Saarbrucken, prima di essere smontato

  
Acquistato a un decimo del suo prezzo, lo strumento di una chiesa in via di demolizione a Saarbrücke è stato smontato pezzo pezzo. E verrà rimontato nella parrocchia di Santa Maria a Madonna di Campiglio. Grazie all'impegno di un avvocato di Crema. "Musica celestiale per le Dolomiti"

Come un enorme Lego da mille pezzi, alto cinque metri e largo quattro, smontato e rimontato dopo un viaggio di 750 chilometri su un rimorchio da 18 metri. È la storia dell'organo della chiesa cattolica di San Tommaso Moro a Saarbrücken, capoluogo del Saarland, regione a sudovest della Germania: lo strumento rischiava di essere demolito insieme all'edificio di culto, ritroverà una nuova vita nella chiesa di Santa Maria a Madonna di Campiglio, in Trentino, dove nei prossimi giorni verrà rimontato pezzo per pezzo dalle sapienti mani di un organaro di Montichiari. Una storia a lieto fine grazie alla "folle" idea di un avvocato quarantenne di Crema, Marcello Palmieri.

La vicenda dell'organo di Saarbrücken non è così rara, almeno in Germania, dove il vento della secolarizzazione soffia forte, svuota le chiese e (a volte) le butta giù. Un processo che nella terra di Goethe corre più veloce che altrove. Non a caso nelle 27 diocesi tedesche negli ultimi 20 anni sono stati centinaia gli edifici di culto demoliti per mancanza di fedeli. L'uso delle ruspe, certo non di fronte ad edifici dal riconosciuto valore artistico, è l'extrema ratio, quando anche le spese per il mantenimento diventano insostenibili o non è possibile destinare gli immobili ad altro uso una volta sconsacrati. Un fenomeno che ha, tra le conseguenze, il destino incerto degli organi che per decenni hanno accompagnato la liturgia in quelle chiese un tempo gremite di fedeli.


Risultato? L'abbandono degli edifici sacri ha alimentato un ricco mercato dell'usato: organi del valore di centinaia di migliaia di euro finiscono in vendita per una manciata di soldi. L'alternativa è finire a pezzi sotto i colpi di una benna per poi essere smaltiti (a caro prezzo) in discarica.

È il destino cui sarebbe andato incontro l'organo della chiesa cattolica di San Tommaso Moro di Saarbrücken, uno strumento da 700 canne realizzato nel 1981, un decennio dopo la consacrazione della chiesa. E qui la storia dell'organo - un Oehms da 13 registri e 2 tastiere a trasmissione meccanica - si intreccia con l'intuizione di Marcello Palmieri. Campigliano d'adozione, organista appassionato con una predilezione per i brani liturgici, Palmieri durante le vacanze estive accompagna la messa nella grande chiesa di SantaMaria, costruita ad inizio anni Settanta per rispondere alle esigenze del turismo nella località della Val Rendena. Un organo "vero" non c'è, gli organisti si alternano su uno strumento digitale. L'avvocato di Crema, grazie ad un amico, scopre così il fiorente mercato dell'usato in Germania e mette gli occhi sull'organo di Saarbrücken, in vendita su un sito specializzato a poco più di 20mila euro, un decimo del valore reale. Palmieri coinvolge le autorità ecclesiastiche locali, ottenendo un formale via libera, e trova anche i finanziatori, di Campiglio, eredi di un patrimonio importante che lo stesso avvocato si è trovato a gestire in qualità di legale di fiducia.

Detto e fatto. All'alba del 2 agosto, il carico eccezionale è arrivato nel cuore di Madonna di Campiglio: quattro volontari hanno scaricato l'organo, ora custodito in un deposito della Funivie. Nei prossimi giorni Giuseppe Tisi, organaro di Montichiari, comincerà ad assemblare i mille pezzi (un lavoro che durerà circa un mese) e l'organo di Saarbrücken tornerà a far sentire la sua voce possente ai piedi delle Dolomiti di Brenta.

Miura, il toro veneto da un milione di euro con cinquemila eredi

Miura al pascolo a Vallevecchia 

Primo in classifica nella razza Frisona, ha richieste da tutto il mondo. Con il suo Dna genera vacche che producono latte di primissima qualità



Il toro Miura ha 5mila figlie in 5 continenti, ma non ha mai conosciuto una femmina. Si chiama come la Lamborghini ammirata dal suo allevatore, ma se l’auto negli anni ’70 costava 8 milioni di lire, lui oggi che ci sono gli euro arriva a valerne un milione. Ferruccio Lamborghini scelse per il bolide il nome di una famigerata razza di tori da corrida di Siviglia. Miura è il contrario. Con i suoi 11 quintali di muscoli lavati e coccolati quotidianamente, trascorre il tempo ruminando foraggio biologico sull’isola di Vallevecchia, oasi naturalistica della Laguna veneta. «Da noi non mancano gli esemplari pericolosi, ma lui è mansueto come un agnellino» racconta Francesco Cobalchini, direttore di Intermizoo, l’azienda per la genetica animale fondata dalla Regione Veneto nel 1974.«Oggi per le vacche da latte il 90-95% delle gravidanze avviene con inseminazione artificiale». E Miura con il suo Dna garantisce alle figlie mammelle sane, capezzoli adatti alle mungitrici, latte ricco di grassi e proteine. Per questo, suscitando l’orgoglio del governatore del Veneto Luca Zaia, a 6 anni ha conquistato il primo posto nel catalogo dell’Associazione Nazionale Allevatori di Razza Frisona e Jersey Italiana. Non arriverà a farsi pagare 15mila euro a puledro, come il cavallo da corsa Varenne, ma è pur sempre un bel risultato.Sarebbe un toro da monta, quindi, il campione Miura, «ma per raccogliere il suo seme lo stimoliamo con tori castrati e usiamo una vagina artificiale» racconta Cobalchini. L’operazione si ripete 3 giorni a settimana. «Produce circa 500 dosi ogni volta», vendute in 55 paesi. «I ricavi della sua vita arrivano tranquillamente al milione di euro». Ogni provetta, spedita in azoto a — 196°, costa 15-17 euro. Oppure 37 euro se “sessata”: sottoposta a una selezione degli spermatozoi che porta al 90% le chance di concepire una femmina. Perché è alla virilità che Miura deve il primato, ma sono le femmine a contare veramente nell’industria del latte.Oggi solo a Roma, diventata una città zoo, si poteva filmare un video con un toro e una mucca che si accoppiano nel traffico, come avvenuto di recente. Che la riproduzione nel mondo bovino sia cambiata lo raccontava già il film “Il toro” di Carlo Mazzacurati, in cui il campione di sperma, chiamato Corinto, era rubato dall’uomo che l’accudiva, appena licenziato.

«È dagli anni ‘70 — conferma Cobalchini — quando è stato introdotto il congelamento del seme, che l’inseminazione artificiale è così diffusa». All’inizio serviva a evitare infezioni. Ora con gli esami del Dna rende possibile la selezione. «Negli animali cerchiamo di recuperare le caratteristiche del passato. Se negli anni ‘80 e ‘90 si spingeva per aumentare la produzione, oggi lavoriamo sui nutrienti del latte». A Miura e alle sue figlie si chiede di restituirci il sapore del latte di una volta. Un compito in effetti da un milione di euro.








 

Un pianoforte suona in mezzo al lago di Como, all’ora del tramonto, e sullo sfondo c’è l’incantevole villa Balbianello. E’ la performance di Alessandro Martire, famoso per le sue esibizioni con il pianoforte in mezzo alla natura o in contesti spettacolari e insoliti, per lanciare il LEJ Festival – Floating Moving Concert 2021, il festival che unisce musica e natura e che è nato da un’idea del pianista e compositore comasco. Dal 27 agosto al 5 settembre l’evento torna in presenza dopo l’edizione in streaming dell’anno scorso, con l’obbiettivo di portare giovani artisti e compositori provenienti da tutto il mondo a esibirsi sul territorio comasco: dalla Valle Intelvi, a Cernobbio, a Oltrona di San Mamette, da San Fermo della Battaglia ad Argegno, per citarne alcune. Assieme a Martire si esibiranno anche Ana Zimmer, Naiad, Summit, Harp Night, Jamira, Frapporsi, Frontera e altri ospiti. Cuore della manifestazione sarà il Floating moving concert, la performance sul lago di Como che si terrà il 31 agosto dalle 18 a Cernobbio: un concerto su piattaforma galleggiante trainata da un motoscafo, che porterà la musica creando una passeggiata musicale godibile da tutto il lungolago. Alessandro Martire eseguirà brani tratti da “Share the world”, suo ultimo album (Carosello Records). Per partecipare all’evento è obbligatoria la prenotazione gratuita tramite Eventbrite: https://www.eventbrite.it/e/biglietti-alessandro-martire-floating-moving-concert2021-164009357403. Il Floating moving concert verrà poi trasmesso in esclusiva su TikTok Live a settembre.






A Milano Spazio Caroli12, in sala e in cucina vince l’inclusivitàdi Alessandra Iannello

Paolo Ferrario nella fattoria della Fondazione Pino Cova da lui presieduta 
Così un quartiere abbandonato diventa il teatro di integrazione sociale e lavoro per giovani con disagi. Paolo Ferrario, presidente della Fondazione Pino Cova: "Accogliamo gli emarginati e diamo loro un futuro fra fornelli, fattoria didattica, bar e 
Paolo Ferrario, presidente della Fondazione Pino Cova: "Accogliamo gli emarginati e diamo loro un futuro fra fornelli, fattoria didattica, bar e bistrot"


Via Caroli 12 Milano. Per i “ragazzi” cresciuti nella zona delimitata dal triangolo via Padova-Crescenzago, via ponte Nuovo, via del ricordo, questo era l’indirizzo dell’oratorio. Di un luogo dove le brutture di un quartiere della periferia milanese, noto per le ondate migratorie (prima meridionali e poi straniere), rimanevano fuori dai cancelli di ferro. Un luogo che, alla metà degli anni ’90 del secolo scorso, chiude e rimane alla mercé dell’incuria. I cancelli vengono mangiati dalla ruggine, le piante infestano il cortile mentre l’edificio invecchia male e senza manutenzione. Tutto questo degrado sembra non avere fine finché un uomo, visionario ma con i piedi ben saldi a terra, se ne innamora. «Un paio di anni fa – racconta Paolo Ferrario, presidente della Fondazione Pino Cova – stavo cercando un’area per creare un luogo dove persone con disabilità o con condizione di emarginazione sociale, soprattutto giovani, potessero percorrere un cammino nel mondo del lavoro. Ho visitato tante realtà, ma mi sono innamorato di questo luogo». Con la preziosa collaborazione della Curia milanese, alla Fondazione non resta che iniziare la ristrutturazione degli oltre 1500 metri quadri fra aree coperte, cortili e giardini. Dopo diversi stop dovuti alla pandemia, nel giugno del 2020 si inaugura lo spazio multifunzionale Caroli12. «Con questo progetto – continua Ferrario – abbiamo voluto restituire qualcosa al territorio che ha visto crescere l’azienda grazie alla quale la Fondazione è nata. Nel 2000, infatti, dopo una vita spesa fra sindacato e associazionismo, Giuseppe Cova, detto Pino, ha fondato e-work, un’agenzia per il lavoro con una particolare attenzione all’etica. Nel 2020 abbiamo creato la Fondazione dedicata a Pino, che è purtroppo mancato nel 2013».

Spazio Caroli12 

Il primo progetto della Fondazione è lo Spazio Caroli12 (che ospita anche la sede della Fondazione) che, a oggi, ha dato una possibilità lavorativa, nella sala e nella cucina del Cafè & Bistrot, a una oltre una decina di persone con disagio. «Abbiamo accordi con molte scuole alberghiere in Lombardia – spiega Ferrario - che hanno progetti specifici per i ragazzi che necessitano di percorsi di inclusione sociale o mirati di accompagnamento. Una su tutte, come esempio, la scuola alberghiera In-Presa di Carate Brianza che ha una linea dedicata a ragazzi che in una cucina o in una sala o in un albergo “normale”, fanno fatica a inserirsi e a trovare un cammino di alternanza scuola-lavoro o stage. Con loro individuiamo le persone più adatte per operare a contatto col pubblico per abituarli, in un ambiente protetto, al lavoro del loro futuro. Facciamo anche formazione e tirocini formativi per gli adulti con disagi psichici».

Oltre che in cucina e in sala, gli “stagisti”, trovano lavoro anche da Tana Caroli, una fattoria didattica composta da un orto e da recinti che ospitano animali da fattoria provenienti da situazioni di maltrattamenti o dai macelli. «Nell’orto – precisa Paolo - vengono coltivati gli ortaggi che impieghiamo in cucina. Inoltre, abbiamo strutturato dei percorsi per i bambini. Così, insieme con Marta, la responsabile di Tana Caroli, i più piccoli possono approcciarsi agli animali entrando nei recinti e dando loro da mangiare». All’insegna dell’inclusività è anche il parco giochi strutturato con giochi non più alti di un metro e senza barriere architettoniche per permettere a tutti i bambini di giocare insieme.

Tana Caroli è la fattoria dedicata agli animali nell'ambito del progetto della Fondazione Pino Cova 
Bimbi giocano con gli animali a Tana Caroli 

 

Lo Spazio Caroli12 è aperto dalla colazione della mattina, appuntamento per gli anziani della zona, fino al dopocena, una volta la settimana c’è anche la musica dal vivo, passando per pranzo, merenda e cena. La cucina è semplice e il menù, stagionale, è composto da una ventina di pietanze preparate al momento. Le materie prime sono di produzione locale, oltre che dall’orto si trovano salumi, formaggi e carni lombarde. La sera si apre il ristorante e la proposta si fa più raffinata con piatti a base di pesce, molluschi e crostacei. In menù c’è anche una buona scelta di piatti vegetariani e vegani. Ad accompagnare vini bianchi, rossi e bollicine italiane e champagne francesi oltre che birre artigianali e cocktail. Per gli amanti degli spirits c’è una drink list dedicata ai gin con oltre 25 proposte e una agli amari con una ventina di referenze da tutto il mondo.

Nei progetti futuri della Fondazione, l’ampliamento dello Spazio Caroli12, l’apertura di una caffetteria sempre nel quartiere (a poche centinaia di metri da Spazio Caroli) e l’inaugurazione di un albergo a Buscate (in provincia di Milano). «Stiamo trattando con il Comune di Milano – conclude Ferrario – la riqualificazione di un'area adiacente a Spazio Caroli in stato di abbandono per iniziare ulteriori progetti di inserimento sociale e lavorativo. Sarà un’attività legata al florovivaismo, alla coltivazione in piena terra e in serra con punto vendita gestito da ragazzi down. La vicina fisica è fondamentale non solo per la residenza, presso Spazio Caroli ci sono delle camere dove alloggiano gli stagisti fuori sede, ma anche per psicologi e tutor che devono seguire i ragazzi. Infine, a Buscate, accanto ad Arluno (città natale di Pino Cova) stiamo ristrutturando una vecchia corte contadina dove apriremo un hotel 4 stelle con ristorazione, il tutto circondato da parco di oltre 16mila metri quadrati. Qui, i ragazzi potranno fare esperienza oltre che in cucina e in sala, anche nelle diverse mansioni dell’albergo».



per evitare chiamate indesiderate o messaggi molesti su whatsapp usate due schede una pubblica ed una privata

  questo post     di  Aranzulla     conferma    il consiglio      che  davo    in un post   (  cercatevelo  nell'archiviuo  dell'ann...