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29.6.25

Come si visita un museo? Alcune dritte che potrebbero aiutarci, soprattutto in questa stagione, se ogni tanto vi siete sentiti un po' spaesati o respinti

 dopo i fatti di Verona e di Firenze di cui  si ampiamente  parlato anche   qui da  noi ,ecco Alcune dritte che potrebbero aiutarvi, soprattutto in questa stagione, se ogni tanto vi siete sentiti un po' spaesati o respinti  o si hanno ancora su dubbi su Come si visita un museo . 

da https://ilpost.link/zGfR2DrhHI 

 I musei possono disorientare, annoiare o addirittura sfinire i propri visitatori. Alcuni, come il Kunsthistorisches di Vienna, il Louvre di Parigi e il British Museum di Londra, sono organizzati dentro a edifici vastissimi, ospitano migliaia di oggetti e anche dopo esserci tornati più volte è praticamente impossibile riuscire a vedere tutto senza che la visita diventi frenetica e confusionaria.

                                            Alcuni visitatori di una mostra al museo di arte contemporanea di Teheran, in Iran                                                                                                                                (Majid Saeedi/Getty Images)

In realtà, persino da un posto come il Louvre è possibile uscire lucidi e relativamente riposati. Molto, infatti, dipende dal modo con cui si decide di approcciare un museo, da quanto avete le idee chiare su quello che state cercando – soprattutto se avete poco tempo, come capita spesso ai turisti – e da quanto siete organizzati.
Evitare code e affollamentiUna gita al museo è più piacevole quando gli spazi sono vuoti e silenziosi, ma nei musei più grandi e famosi questo non è sempre possibile. Quando sono molto pieni può capitare che si senta un brusio costante, fatto di passi, sussurri, commenti sommessi e qualche guida in sottofondo.I momenti migliori per evitare affollamenti sono le prime ore della mattina (dove però c’è il rischio di imbattersi in una classe in gita, nei giorni feriali) e le ultime del pomeriggio. Tra lunedì e venerdì i musei sono meno frequentati rispetto al fine settimana, ovviamente. Diversi musei grandi poi restano aperti fino a tardi almeno una volta a settimana, solitamente il giovedì o il venerdì: il giovedì per esempio la Ny Carlsberg Glyptotek, uno dei più importanti musei danesi, chiude alle 21 al posto che alle 17, come negli altri giorni della settimana.Per quanto riguarda le mostre, se volete schivare il trambusto è meglio evitare di andarci durante le settimane di inaugurazione e di chiusura, cioè le più affollate.
Non c’è bisogno di vedere tutto
Secondo diversi studi la capacità media delle persone di rimanere concentrate durante una visita al museo si colloca tra i 20 e i 45 minuti. Nei musei più grandi per riuscire a vedere tutto ci vorrebbero giorni interi; ma anche nei più piccoli, spesso, non ha senso cercare di vedere più cose possibili o addirittura cercare di vedere tutto.In alcuni musei molto grandi i percorsi organizzati possono durare delle ore, e per questo la cosa migliore da fare è di capire sin dall’inizio che cosa si vuole vedere a tutti i costi, in modo da non selezionare involontariamente solo le opere situate all’inizio.Nei musei d’arte quello che spesso viene consigliato è di concentrarsi su poche, pochissime opere. Massimiliano Rossi, storico della critica d’arte che per decenni si è occupato anche di museologia, suggerisce di sceglierne una o due, e di studiare in anticipo le informazioni sugli autori e sul contesto storico-artistico in cui sono state fatte. «Questo è un approccio che può restituire una piacevolezza: bisogna fare una selezione. Poi magari in quel museo ci ritorni per vedere anche altre cose», spiega Rossi.Se invece volete improvvisare e il museo non è troppo vasto, potete prima fare una passeggiata esplorativa al suo interno per capire che cosa vi piace, così da capire a quali oggetti esposti volete dare la priorità, prima di perdere la concentrazione.
Ovviamente molto dipende dal tipo di esposizione offerta o dalle esigenze dei visitatori, in certi casi non c’è proprio bisogno di restare concentrati: magari cercate solo un posto dove lasciar scorrazzare i vostri pensieri.

Dipinti di Giorgio Morandi a Palazzo Citterio, Milano, venerdì 6 dicembre 2024 (Foto AP, Luca Bruno)

                     Dipinti di Giorgio Morandi a Palazzo Citterio, Milano, venerdì 6 dicembre 2024
                                                            ( Foto AP, Luca Bruno )

Informarsi un po’, prima della visita
I dati sulla frequentazione e sugli orari di punta di un museo si possono trovare facilmente su Google Maps. Ma in generale il consiglio che viene dato da chi lavora nei musei è quello di farsi sempre un giro sul sito del museo che si vuole visitare per capire quali servizi sono offerti (per esempio, se c’è il guardaroba o un’area dove poter lasciare i cani). Inoltre, in alcuni posti è necessario prenotarsi perché gli ingressi sono contingentati, mentre a volte le biglietterie fanno orari particolari: meglio controllare prima, per evitare spiacevoli sorprese.
Oltre che per avere un’idea più chiara di dove si sta andando, informarsi prima della visita può stimolare la curiosità e aiutare ad arrivare sul posto con un po’ di informazioni di contesto. Molte delle persone sentite dal Post sull’argomento suggeriscono di provare a informarsi sulla storia del museo – se per esempio ha puntato storicamente su una certa corrente artistica, anche minore, e ha un patrimonio che non si trova da nessun’altra parte – e sugli argomenti dell’esposizione a cui si è più interessati. A volte vale la pena approfondire anche la storia del palazzo che ospita il museo, che spesso, soprattutto in Italia, ha di per sé un valore artistico e culturale.
Non serve essere degli esperti
Informarsi può essere utile, ma non significa che per apprezzare un’esposizione bisogna essere molto competenti sull’argomento. È un problema percepito soprattutto nei musei d’arte, che ad alcuni possono apparire un po’ respingenti.A volte verso l’arte si prova un timore quasi reverenziale, e ci si può convincere che per visitare bene una galleria si debba avere una qualche dimestichezza con la storia dell’arte (cosa che senz’altro aiuta). «Ma per godersi un’opera non c’è per forza bisogno di sapere chissà che cosa», spiega Laura Orlic, imprenditrice nel settore museale. Secondo Orlic addirittura a volte le informazioni contenute nelle didascalie e nelle audioguide possono diventare un ostacolo e portare a un’eccessiva razionalizzazione. Specie nelle mostre d’arte, per le quali certe persone preferiscono un approccio contemplativo.

Meglio le guide delle audioguide
Nella maggior parte dei casi però ha senso capire esattamente cosa si ha davanti. In questo caso, se si ha la possibilità di scegliere, meglio affidarsi a un umano che a una voce registrata. Secondo Orlic una buona guida può adattare il percorso della visita e le spiegazioni in base agli interessi e alle reazioni del gruppo, offrire vari spunti, e rispondere a domande e curiosità.I tour guidati costano di più, è vero, ma nulla vieta di mettervi in ascolto di quel che si dice, nel caso fortuito in cui la guida decida di soffermarsi proprio sulla stessa opera, o sullo stesso oggetto, su cui stavate puntando anche voi (ma non approfittatevene troppo).

Le prime audioguide mentre vengono testate al Louvre; sullo sfondo Il giuramento degli Orazi di Jacques-Louis David. Parigi, 1966 (Imagno, Getty Images)

     Le prime audioguide mentre vengono testate al Louvre; sullo sfondo Il giuramento degli Orazi
                               di Jacques-Louis David. Parigi, 1966 (Imagno, Getty Images)

Mettersi comodi, fare delle pause
Se c’è il guardaroba, usatelo: posate lo zaino, in modo da rendere meno faticosa la visita. Anche indossare vestiti e scarpe comode può fare la differenza, visto che in molti musei il grosso dell’esposizione viene fruito stando in piedi.Se è estate e siete freddolosi, portate qualcosa per coprirvi: alcuni musei d’arte, per esempio, devono mantenere temperature relativamente basse (attorno ai 20 o ai 21 gradi), in modo da ottenere un microclima adatto alla conservazione delle opere.Sedersi ogni tanto e prendersi delle pause (magari al bar, se il museo ne ha uno) aiuta a “ricaricare” anche l’attenzione.
Nei musei si può tornare
A volte concepiamo i musei come posti da visitare solo una volta e poi basta, come se dovessimo spuntare una casella. Se si ha tempo, tornare in un museo e diluire le visite le rende più piacevoli, e permette di vedere tutto (proprio tutto) con calma.Secondo una custode museale, che per motivi di opportunità preferisce rimanere anonima, i musei possono essere visti anche come luoghi dove passare il tempo, o incontrarsi con gli amici per fare una cosa diversa. A volte è possibile fare un abbonamento annuale a una rete di musei di una città o di una regione, che in molti casi permettono accessi senza limiti: in Italia esiste una tessera che vale per la maggior parte dei musei pubblici in Piemonte, Lombardia e Valle d’Aosta.La custode consiglia di familiarizzare con alcuni musei della propria città, col personale che ci lavora, di conoscere meglio le iniziative – cineforum, esibizioni temporanee, presentazioni di libri – che organizzano durante l’anno: «si può scoprire che in un museo si possono fare tante cose, più di quelle che sono vietate».
Parlare col personale
Nel suo lavoro la custode si occupa soprattutto di accogliere i visitatori. «Spesso l’idea che si ha di un museo è un po’ come quella che si ha di un tempio: si entra in punta di piedi, si ha paura di chiedere e di sbagliare», dice. In realtà, il personale del museo può aiutare molto i visitatori a orientarsi. Per esempio rispetto alla fruizione degli oggetti in esposizione: a partire dai vostri gusti possono consigliarvi delle sale o delle cose specifiche da vedere. Secondo la custode il contatto con le persone che lavorano nei musei è spesso sottovalutato. Lei, invece, consiglia di non essere timidi nel condividere con loro dubbi, esigenze e desideri.

Sbizzarritevi Andare al museo resta comunque un’esperienza personale e soggettiva: non c’è un modo giusto per farlo, e non per forza deve essere un momento istruttivo. L’importante è avere bene a mente questa cosa e non sentirsi in dovere di imparare qualcosa, magari controvoglia. Ciascuno, poi, funziona in modo diverso e ha bisogno di contesti diversi per assorbire informazioni. «Si può provare a disegnare, oppure si può mettere della musica in cuffia in modo da creare una colonna sonora della propria visita», dice la custode.


28.6.25

Fabrizio Miccoli, compleanno speciale: dalla serie A all'inferno e il carcere. La nuova vita: «Ho chiesto scusa alla famiglia Falcone, ora servo le colazioni al b&b»

Fabrizio Miccoli compie 47 anni oggi, 27 giugno 2025, è un ex calciatore, di ruolo attaccante. Nato a Nardò, è cresciuto a San Donato di Lecce. È soprannominato Il Romário del Salento e il Pibe di Nardò. Sposato dal 2002 con Flaviana Perrone, ha due figli, Swami (nata nel 2003) e Diego (nato nel 2008), chiamato così in onore di Diego Armando Maradona. Ha un fratello, Federico (nato nel 1984), anch'egli attaccante, che fu acquistato dal Perugia insieme a lui. 
La cittadinanza onoraria revocata per gli insulti a Giovanni Falcone




Il 24 settembre 2009 è stato insignito della cittadinanza onoraria del comune di Corleone, in provincia di Palermo, per meriti sportivi, riconoscimento revocato il 1º luglio 2013 in seguito alle polemiche suscitate dagli insulti proferiti dal giocatore nei confronti del magistrato Giovanni Falcone. Dopo aver iniziato a gestire uno stabilimento balneare a Santa Maria di Leuca, a San Donato, il paese di cui è originario, nel 2010 ha aperto una scuola calcio per bambini, l'A.S.D. Fabrizio Miccoli. Attualmente, dopo aver scontato la pena, gestisce dei b&b insieme alla moglie Flaviana.
La carriera calcistica, il Romario del Salento





Fabrizio Miccoli ha vestito le maglie di Casarano, Ternana, Perugia, Juventus, Fiorentina, Benfica, Palermo, Lecce e Birkirkara vincendo una Supercoppa italiana nel 2003 con la Juventus. Ha segnato più di 220 reti in carriera, 81 delle quali con il Palermo, squadra alla quale ha legato la maggior parte della sua carriera e di cui è il miglior marcatore di tutti i tempi, il miglior marcatore in Serie A (74 reti) ed il giocatore con più presenze (165) in massima serie. Con la maglia del Perugia è stato, invece, capocannoniere della Coppa Italia 2002-2003. Dal 2003 al 2004 ha fatto parte della nazionale italiana, totalizzando 10 presenze e 2 reti
Procedimenti giudiziari








Il 22 giugno 2013 Fabrizio Miccoli riceve un avviso di garanzia dalla procura di Palermo per tentata estorsione, concorso in tentata estorsione ed accesso abusivo a sistema informatico (per l'uso di schede telefoniche cellulari intestate a persone ignare); nello stesso contesto le intercettazioni telefoniche rivelano insulti rivolti dal giocatore al giudice Giovanni Falcone, qualificato come «fango», durante conversazioni con Mauro Lauricella, il figlio del boss del quartiere Kalsa di Palermo. La FIGC apre un'inchiesta sul caso. Il 27 giugno seguente Miccoli tiene una conferenza stampa in cui in lacrime chiede scusa «alla città di Palermo» per il proprio comportamento; il giorno successivo affida al quotidiano la Repubblica una lettera idealmente indirizzata a Falcone stesso, scritta di propria mano. In conseguenza di tali fatti, il 1º luglio il comune di Corleone gli revoca la cittadinanza onoraria. Il 20 aprile 2015 viene indagato con l'accusa di estorsione aggravata perché avrebbe contattato sempre Mauro Lauricella per recuperare un credito di 12 000 euro che l'ex giocatore del Palermo aveva nei confronti di un imprenditore dopo avergli ceduto la proprietà della discoteca "il Paparazzi" di Isola delle Femmine . Nell'ottobre 2017 viene condannato dal tribunale di Palermo a 3 anni e 6 mesi di reclusione, con rito abbreviato, per estorsione aggravata dal metodo mafioso,condanna confermata in appello a gennaio 2020. Il 23 novembre 2021 diventa definitiva la condanna a tre anni e sei mesi di reclusione dopo che la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e ha confermato la sentenza decisa nel gennaio 2020 dalla Corte di Appello di Palermo per estorsione aggravata dal metodo mafioso.
Il giorno successivo si costituisce presso il Carcere di Rovigo. Il 13 maggio 2022 il tribunale di sorveglianza di Venezia, accogliendo il ricorso del suo legale, gli concede la misura alternativa dell'affidamento in prova: da allora Miccoli ha potuto tornare ad occuparsi della sua scuola calcio, ma deve rientrare a casa prima di mezzanotte e non deve frequentare pregiudicati. 

Un cambiamento di vita radicale nato da un grande errore, spiega Fabrizio Miccoli: "Ho fatto io un errore enorme. Dire sempre di sì a tutti. Sono stato molto ingenuo, troppo disponibile, ma questo è il mio carattere che sto cercando di modificare. Ho sbagliato, ho pagato, ho chiesto scusa e ho messo un punto definitivo incontrando Maria Falcone".Cosa fa oggi Fabrizio Miccoli
L'ex attaccante  adesso è un uomo libero e si dedica alle attività di famiglia che ha creato investendo i soldi conservati durante tutta la sua carriera. È proprietario di alcune strutture alberghiere alle quali si dedica in prima persona: "Sono io che a volte vado a fare i check in ai clienti, mi capita di andarli a prendere in aeroporto, consegno le colazioni". E poi c'è l'amore per il calcio con la sua scuola calcio fondata a Lecce che gli ha regalato la soddisfazione di vedere qualche ragazzo tra i grandi: "Siamo un centro federale del Milan e qualche ragazzino lo abbiamo dato anche a squadre di serie A. Lavoriamo bene, aiutiamo chi ha situazioni familiari complicate".

Alvaro Vitali, l'ultimo sfregio arriva dalla Francia

il giornale  tramite  msn.it 

La tragica morte di Alvaro Vitali, che si è spento a 75 anni il 24 giugno a Roma a causa di una broncopolmonite, non frena le critiche. Ne arrivano di molto aspre dalla Francia. E in particolare dal quotidiano Le Monde. In occasione della sua morte il noto quotidiano francese decide di attaccare severamente l’attore italiano descrivendolo come “infantile e libidinoso”. Ma non solo: “Basso (1,56 metri) e brutto, con il naso borbonico e gli occhi strabici, sistematico bersaglio per gli altri protagonisti dei film in cui appariva".
Sul quotidiano si legge che "la sua popolarità in Francia non raggiunse mai i livelli di cui godette Oltralpe per almeno un decennio. In Italia, era una sorta di mito popolare e banale". Insomma, una descrizione pesante e negativa volta a ridimensionare il ruolo dell’attore e la sua importanza nell’Italia. Una critica che, spesso, oltrepassa ogni limite e cade nell’insulto più banale.
"Inizia il regno delle stelline nude, interpretate da Edwige Fenech, Gloria Guida, Nadia Cassini e altre, oggetto delle attenzioni lascive e sbavanti di un erotomane infantile e sistematicamente sfortunato interpretato da Vitali in titoli come 'La maestra dà lezioni private', di Nando Cicero (1975); 'Il poliziotto dei polli', di Michele Massimo Tarantini (1976); 'Il maestro e gli imbecilli', di Mariano Laurenti (1978), ecc", si legge sulle colonne di Le Monde che fa riferimento ai film che lo vedevano come protagonista indiscusso.
Vitali, sempre secondo il giornale parigino, è il “simbolo di una regressione che caratterizza una parte del cinema popolare italiano, quella della furia immatura e inarrestabile”. Fondatore di un tipo di cinema “che era destinato al fallimento”. “La tradizione della comicità si evolve verso forme più sofisticate, il pubblico dei suoi film si rivolge al piccolo schermo e la carriera di Alvaro Vitali si interrompe bruscamente nel 1983”, conclude bruscamente Le Monde.

Ora  è vero   che  quui in Italia, passa quasi sotto silenzio la morte di Lea Massari, Warner Bentivegna o Luigi Vannucchi o Nando Gazzolo o ancora Nino Castelnuovo e si parla di  Vitali come di una grande figura o grande maschera...   in quanto   come  ho detto  precedentemente  : <<  Vitali  era stato molto più di un attore: era stato lo specchio sboccato di una società che amava la prurigine, il simbolo di un'Italia che rideva dei propri vizi purché fossero travestiti da farsa. Finché era tutto una risata, finché restava nel recinto sicuro della commedia, nessuno si scandalizzava. La trasgressione era accettabile se condita dall'ironia, l'osceno diventava digeribile e tollerabile se trasformato in barzelletta. Infatti Quella società che Vitali rappresentava non se n'è mai davvero andata, è solo diventata ipocrita. Continua ad amare la prurigine o la dozzinalità , ma preferisce consumarla in privato, sui social, nelle chat, nei realityshow e nel trash o nei pochi film dozzinali che tentano imitare quel periodo . Infatti [ .... ] segue nel post Alvaro vitali un pezzo d'italia che se ne va . >> Certo, non mi meraviglio, dopo lo sdoganamento di Lino Banfi salito da circa 25 anni nell'olimpo tra i grandi attori italiani, non mi meraviglia più niente del nostro Paese; si è arrivato a paragonarlo al grande Totò il signor Vitali. Aver partecipato una volta ad una "carrozzonata" di Fellini e lo si laurea grande personaggio... Ma andiamo! Mi sembra eccessivo.Infatti  I francesi amano il nostro cinema ed i nostri attori ed i nostri registi...quelli di un certo spessore. Anche se  secondo alòcuni  in particolare 

  salvo mare5 ore fa
E' una critica che mi fa sorridere. Io vivo in Francia e ci riconosco la spocchia tipica degli intellettuali francesi che credono ancora che la Francia sia un faro di cultura mentre oggi produce solo spazzatura
Ma qui   si sconfina  inmancanza  di rispetto ed insulti  personali  .  Infatti  Sarà pure per alcuni Umorismo di bassissima lega, per decerebrati,e maniaci    secondo  alcuni  .Ma  Questo non significa che l'uomo debba essere segno di spregio. Ha fatto la sua carriera, non ha mai fatto del male a chicchessia (cosa rara di questi tempi) è morto. Lasciatelo in pace.

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco - puntata n XXXII IL CELLULARE DEVE SEMPRE AVERE LA BATTERIA CARICA e L’Importanza delle App contro la Violenza sulle Donne. 4 app consigliate

 Può sembrare scontato, ma la sicurezza passa anche da un cellulare sempre carico. Il telefonino è di fa!o uno strumento prezioso anche per mette!ersi al sicuro: funziona da bussola, da torcia, oltre che naturalmente da semplice mezzo di comunicazione. Eppure capita che ci si dimentichi di metterlo in carica e ancora più spesso che si esca con il cellulare scarico o non suffcientemente carico. Per chi si trova a percorrere tratti di strada a piedi, soprattutto la sera, o a salire su un mezzo pubblico, o semplicemente a rientrare a casa tardi, avere il cellulare perfettamente funzionante – e quindi carico – può fare la differenza tra sicurezza e vulnerabilità. Avere il telefono con sé, ma  non averlo suffcientemente carico diventa inutile, come se volessimo uscire e davanti a noi avessimo una porta
chiusa che non possiamo aprire perché non abbiamo le chiavi. Anche senza credito, con il cellulare è possibile infatti chiamare immediatamente i numeri di emergenza, così come attivare le funzioni di richiesta di aiuto di cui dispongono gli smartphone, che possono inviare la posizione in tempo reale a numeri fidati. Ancora, un cellulare può funzionare da torcia, può aprire mappe, registrare messaggi audio oppure video, oltre alle app che offrono sicurezza, e consentire di restare in contatt!o telefonico con qualcuno $no a quando non ci si trova al sicuro. Ecco perché può essere utile portare con sé una power bank o attivare la funzione del risparmio energetico: si tratta di piccoli gesti di responsabilità che possono fare la differenza. Insomma, avere con sé un telefono con la batteria carica non è un lusso e nemmeno un capriccio, ma è uno strumento di prevenzione e quindi di autodifesa. A questo proposito, ancora una volta vogliamo ricordarvi come prevenire sia meglio di curare – perdonate la citazione di una vecchia pubblicità di un dentifricio – e come la prevenzione resti l’arma più efficace quando si tra!a di difesa da possibili aggressioni da parte di malintenzionati


Infatti    a  confermare    tali  consigli      c'è  . come  dice    : « Proteggersi con un Clic: L'Importanza delle App contro la Violenza sulle Donne. »  di SettimoLink


[...] 
In un’era digitale in continua evoluzione, le app contro questo tipo di violenza si sono rivelate strumenti essenziali nel fornire supporto immediato e protezione alle vittime. Vediamo il perché queste applicazioni sono diventate parte integrante della lotta contro la violenza di genere e quali possono essere installate sul proprio smartphone.

1. Risposta Rapida in Situazioni di Emergenza:

Una delle funzioni fondamentali di queste app è offrire una risposta immediata in situazioni di emergenza. Attraverso la geolocalizzazione, le vittime possono inviare segnali di soccorso ai contatti predefiniti o alle autorità competenti con un semplice tocco. Questa risposta tempestiva può fare la differenza tra la sicurezza e il pericolo, permettendo di agire rapidamente per proteggersi.

2. Creare una Rete di Supporto:

Molte app contro la violenza consentono agli utenti di creare una rete di supporto affidabile. Gli amici, la famiglia o i servizi di assistenza possono essere inclusi come contatti di emergenza. Questo non solo fornisce alle vittime un sistema di supporto immediato, ma anche un senso di connessione e solidarietà in tempi difficili.

3. Fornire Risorse Informative:

Oltre alla risposta immediata, molte di queste app offrono risorse informative sulle diverse forme di violenza di genere, sui diritti delle vittime e sui percorsi disponibili per ottenere aiuto legale e psicologico. La conoscenza è un potente strumento contro la violenza, e queste applicazioni cercano di educare e informare le donne sulle loro opzioni.

4. Deterrente alla Violenza:

Il semplice fatto di avere un’app dedicata alla sicurezza delle donne può fungere da deterrente contro potenziali aggressori. La consapevolezza che le vittime hanno strumenti per chiedere aiuto può contribuire a prevenire situazioni pericolose e a promuovere un ambiente più sicuro per tutti.

5. Advocacy e Condivisione delle Storie:

Alcune app offrono anche funzionalità di advocacy, permettendo alle vittime di condividere le proprie storie in modo sicuro e anonimo. Questo non solo fornisce uno spazio di supporto, ma contribuisce anche a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla gravità della violenza di genere.

In conclusione, le app contro la violenza svolgono un ruolo cruciale nell’offrire alle vittime gli strumenti necessari per proteggersi e per richiedere assistenza quando ne hanno bisogno. Sono una risorsa moderna che si adatta alle esigenze della società contemporanea, contribuendo a creare un futuro in cui ogni donna possa vivere libera dalla paura e dalla violenza.


4 applicazioni gratuite per la sicurezza e protezione di genere:


1522 Anti violenza e stalking




Il 1522 è un servizio pubblico promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Pari Opportunità. Il numero, gratuito è attivo 24 h su 24, accoglie con operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking. Per avere aiuto o anche solo un consiglio chiama il 1522 (il numero è gratuito anche dai cellulari) oppure: chatta dall’app, con una loro operatrice.


Where are U



È un’app per l’emergenza collegata alle Centrali Uniche di Risposta (CUR) del NUE 112. Permette di effettuare una chiamata di emergenza con il contestuale invio della posizione esatta del chiamante.

Pro

Localizzazione Rapida: L’app offre una localizzazione rapida e precisa degli utenti, può essere un punto forte, specialmente in situazioni di emergenza in cui è necessario condividere la posizione con contatti di fiducia o servizi di soccorso.
Funzioni di Emergenza: L’app include funzioni di emergenza, come la possibilità di inviare rapidamente messaggi di aiuto o attivare chiamate di emergenza con pochi tocchi, può essere un vantaggio cruciale per la sicurezza personale.
Condivisione Sicura della Posizione: Un’app che garantisce la sicurezza e la privacy nella condivisione della posizione è essenziale. La possibilità di controllare chi può accedere alle informazioni sulla posizione può aumentare la fiducia degli utenti nell’utilizzo dell’app.
Integrazione con Servizi di Emergenza: L’app è in grado di integrarsi con servizi di emergenza locali, fornendo informazioni dirette alle autorità in caso di necessità, questo rappresenta un punto forte.

Contro

Problemi di Privacy e Sicurezza: Se ci sono preoccupazioni riguardo alla sicurezza dei dati o alla privacy degli utenti, questo è un punto debole significativo. Gli utenti devono sentirsi sicuri nel condividere la propria posizione tramite l’app.
Consumo Elevato di Batteria: L’app ha un impatto significativo sul consumo di batteria del dispositivo, potrebbe essere considerata un’inefficienza, specialmente in situazioni di emergenza dove la durata della batteria è cruciale.
Copertura Geografica Limitata: L’app ha una copertura geografica limitata e non è disponibile ovunque, potrebbe non essere utile per tutti gli utenti, riducendo la sua efficacia.
Difficoltà Tecnica o Bug: Problemi tecnici, come malfunzionamenti, bug frequenti o difficoltà di utilizzo, possono limitare l’efficacia dell’app e la sua affidabilità in situazioni di emergenza.
Necessità di Connessione Internet: L’app richiede una connessione Internet costante per funzionare, può rappresentare un limite in aree con connettività limitata.



Guardian Safely around



È un’applicazione che integra un sistema di navigazione e monitoraggio del pericolo. All’interno di questa app, gli utenti possono identificare il percorso più sicuro per raggiungere una destinazione, aggiungere i propri “guardiani” – amici o familiari – e accedere ai principali numeri di emergenza, tra cui la chiamata rapida al 112.

Pro

Navigazione Sicura: L’app fornisce un sistema di navigazione che identifica percorsi sicuri per raggiungere una destinazione, questo rappresenta un punto forte, specialmente in situazioni in cui la sicurezza personale è una priorità.
Monitoraggio del Pericolo: La presenza di funzionalità di monitoraggio del pericolo, che consentono agli utenti di ricevere avvisi in tempo reale o informazioni sulla sicurezza del luogo in cui si trovano, è un vantaggio significativo.
Aggiunta di “Guardiani”: L’app offre la possibilità di aggiungere contatti di fiducia come “guardiani”, permettendo loro di ricevere notifiche in caso di emergenza, questo può essere un elemento cruciale per la sicurezza personale.
Accesso Rapido ai Numeri di Emergenza: La facilità con cui gli utenti possono accedere ai numeri di emergenza, come la chiamata rapida al 112, è un aspetto positivo che contribuisce alla prontezza di risposta in situazioni critiche.

Contro

Problemi di Privacy e Sicurezza: Se ci sono preoccupazioni riguardo alla sicurezza dei dati personali o alla privacy degli utenti, questo rappresenta un punto debole significativo che può influire sulla fiducia degli utenti nell’utilizzare l’app.
Stabilità Tecnica: Problemi tecnici, come malfunzionamenti frequenti o instabilità dell’app, possono limitare la sua affidabilità e la sua utilità nelle situazioni di emergenza.
Limitazioni Geografiche: L’app ha una copertura geografica limitata e non è disponibile ovunque, può essere un limite alla sua efficacia e utilità per utenti in diverse regioni.
Complessità d’Uso: L’interfaccia utente è complessa o se l’app richiede una curva di apprendimento elevata, potrebbe non essere adatta a un utilizzo immediato in situazioni di emergenza.
Dipendenza dalla Connessione Internet: L’app richiede una connessione Internet costante per funzionare, può rappresentare un limite in aree con connettività limitata.
Viola Walkalone



Viola gestisce un servizio di videochiamata 24 ore su 24, 7 giorni su 7, per tutti coloro che vogliono essere accompagnati quando tornano a casa la sera.

Pro

Funzioni di Sicurezza Personale: L’app offre funzioni specifiche per migliorare la sicurezza personale, come la possibilità di condividere la propria posizione in tempo reale, inviare avvisi di emergenza o attivare un sistema di allarme, queste possono essere considerate caratteristiche positive.
Intuitività dell’Interfaccia Utente: Un’interfaccia utente intuitiva e di facile utilizzo è un aspetto positivo che contribuisce all’efficacia dell’app in situazioni di emergenza.
Notifiche Personalizzate: L’app consente agli utenti di personalizzare le notifiche o gli avvisi in base alle proprie esigenze, offrendo flessibilità nel ricevere informazioni di sicurezza, questo può essere considerato un punto forte.
Supporto Continuo e Aggiornamenti: Un’app con un team di supporto attivo e regolari aggiornamenti è più probabile che risponda prontamente a problemi tecnici, migliorando la sua affidabilità nel tempo.

Contro

Problemi di Privacy e Sicurezza: Se ci sono preoccupazioni riguardo alla sicurezza dei dati personali o alla privacy degli utenti, questo rappresenta un punto debole che può influire sulla fiducia degli utenti nell’utilizzare l’app.
Limitazioni Tecniche: Problemi tecnici, come malfunzionamenti frequenti o lentezza nell’esecuzione delle funzioni, possono limitare l’utilità dell’app e la sua affidabilità in situazioni di emergenza.
Limitazioni Geografiche: L’app ha una copertura geografica limitata e non è disponibile ovunque, può rappresentare un limite alla sua efficacia e utilità per utenti in diverse regioni.
Dipendenza dalla Connessione Internet: L’app richiede una connessione Internet costante per funzionare, potrebbe essere un punto debole in aree con connettività limitata.
Complessità d’Uso: L’app è complicata da utilizzare o richiede una curva di apprendimento elevata, potrebbe non essere adatta a un utilizzo immediato in situazioni di emergenza.

 
Per una valutazione più precisa, lo stesso  articolo  consiglia di consultare le informazioni ufficiali fornite dagli sviluppatori delle applicazioni sopracitate e di leggere recensioni degli utenti.
Infatti affrontare la Violenza di Genere con Tecnologia Responsabile Nel contesto della crescente consapevolezza e impegno per contrastare la violenza di genere, l’utilizzo di applicazioni dedicate emerge come un importante passo verso la sicurezza personale delle donne. Applicazioni come Guardian Safely Around, Viola Walkalone e altre, pur con caratteristiche specifiche, cercano di offrire soluzioni innovative per migliorare la sicurezza e fornire supporto immediato in situazioni di pericolo.
I loro punti di forza, come la localizzazione rapida, le funzioni di emergenza e la creazione di reti di supporto, sono elementi chiave nella promozione di un ambiente più sicuro per le donne. Tuttavia, è cruciale affrontare apertamente i punti deboli, come le preoccupazioni sulla privacy, i problemi tecnici e le limitazioni geografiche, per garantire che queste app siano efficaci e accessibili a tutti.
In ultima analisi, la tecnologia può giocare un ruolo significativo nel fornire strumenti pratici per la prevenzione e la gestione della violenza di genere. Tuttavia, l’adozione di queste app deve essere supportata da un approccio olistico, inclusivo di educazione, sensibilizzazione e azioni concrete da parte della società e delle istituzioni. Solo integrando la tecnologia con un impegno collettivo possiamo sperare di costruire un futuro in cui ogni donna possa vivere libera dalla paura e dalla violenza.

27.6.25

Trend Fashion Tatreez, il ricamo tradizionale che custodisce la storia della Palestina: quando la resistenza passa da ago e filo. Dalle sue radici ai collezionismo

Ieri  ad  Aggius   come annunciato nel post precedente ho partecipato  a Frequenze per G4z4    e  ho visto   questi due film : 
The Embroiderers \Le ricamatrici di Maeve Brennan  e Gaza Fights For Freedom" di Abby Martin .  Mi ha colpito molto il primo film / corto metraggio di cui trovate  sotto  due video con i sottotitoli   in inglese  e   con  sottotitoli   in italiano .
 Prima  di lasciarvi ai video e  agli articoli    che ho trovato in rete per approfondire le mie curiosita sull'argomento vorrei  dire  alcune   cose  .
 Non sapevo  o  quanto meno non  immaginavo  che    anche   ago e  filo     fossero un potente strumento di resistenza culturale insieme a un'antichissima tecnica di ricamo - mantiene viva la memoria e l'identità palestinese, oltre la distruzione e la diaspora, e ci consegna un messaggio importante. Nonostante  stia  come  sembra  testimoniare  il secondo articolo  diventando moda  . Ma   nonostante  tutto   esso  è  «  [....] Rinomato per la sua complessità, il tatreez è l’arte di ricamare a mano motivi a punto croce con fili dai colori vivaci sugli abiti. Molto diffuso nella società palestinese, esprime un patrimonio di conoscenze e abilità che si caratterizzano come una «pratica sociale e intergenerazionale», spiega l’Unesco, che il 15 dicembre scorso ha incluso l’arte del ricamo palestinese nel Patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Con tale riconoscimento l’Unesco cerca di dare maggiore visibilità e di tutelare i vari elementi del patrimonio culturale del genere umano che possono essere minacciati.
Simbolo dei legami familiari
Tradizionalmente le donne palestinesi si riuniscono nelle case dell’una o dell’altra per ricamare e cucire insieme, spesso accompagnate dalle figlie. Questa abilità manuale (ma non solo), che simboleggia i legami familiari, si trasmette essenzialmente di generazione in generazione. Oggigiorno le donne possono anche incontrarsi nei centri sociali, dove hanno anche modo di commercializzare i loro lavori. [...]   da : Il ricamo palestinese è patrimonio dell’Umanità   di Terrasanta.net ».  

Ma  ora  bado alle  ciancie  a  voi   i video   e  gi articoli   in questione   buona   visione   e lettura 



 Per chi non mastica bene l'inglese ecco la versione con sottotitoli in italiano



insieme a un'antichissima tecnica di ricamo - mantiene viva la memoria e l'identità palestinese, oltre la distruzione e la diaspora, e ci consegna un messaggio importante. Nonostante   stia  come  sembra  testimonia  il secondo articolo  diventando moda  .


Di Maha Abu Shusheh THIS WEEK IN PALESTINE 

All’inizio, il ricamo sugli indumenti veniva utilizzato per adornare gli abiti dell’élite dominante e delle figure religiose di alto rango e incorporava metalli come l’oro e l’argento nella seta e in altri tessuti per imprimere e abbellire gli indumenti. Con il tempo, il ricamo si è diffuso nei villaggi grazie alle religiose che hanno formato ragazze economicamente svantaggiate nel ricamo per creare abiti per figure religiose. Successivamente, le ragazze trasferirono queste pratiche nei loro villaggi. Questa transizione ha permesso più libertà alla forma d’arte di fiorire, diventando in seguito una pratica popolare che era distinguibile in base alla cultura, alla comprensione della natura e alle credenze di ogni villaggio. Il ricamo è diventato una pratica continua e sostenibile che collega gli abitanti del villaggio con l’eredità, le pratiche, le storie trovate sui simboli e motivi dell’epoca. Le donne palestinesi dei villaggi e delle comunità beduine hanno portato avanti questa tradizione, sviluppandola ulteriormente e permettendole di evolversi nel corso degli anni, utilizzando tessuti di seta, lino e cotone per creare i loro capi. Queste donne erano generalmente note per indossare una vasta gamma di indumenti, da abiti pesantemente ricamati (indossati ai matrimoni e in occasioni speciali) agli abiti di tutti i giorni leggermente ricamati. Tutti sono stati decorati con una miriade di tecniche di ricamo, in particolare il punto croce e il rivestimento di Betlemme.      Questi punti si sono uniti in uno spettro di colori vivace e ampio che sono stati combinati con tecniche altamente qualificate per creare capolavori colorati in diversi tagli, riflettendo la bellezza e la modestia del villaggio e delle sue donne.

La parte posteriore di un abito di Al-Ramleh che condivide elementi con gli abiti dei villaggi di Yibna, Bashit e Al-Basheer, spopolati nel 1948.               I primi campioni di abiti palestinesi ricamati risalgono al diciannovesimo secolo. Prima di allora, abbiamo solo una descrizione di questi pezzi basata sulle osservazioni dei viaggiatori. Solo pochi orientalisti e viaggiatori avevano descritto l’abbigliamento palestinese in relazione al loro interesse religioso per la Terra Santa, dove il loro disprezzo e disdegno per la popolazione locale era evidente attraverso la loro descrizione della popolazione locale “primitiva”.
Gli indumenti ricamati palestinesi sono conservati nelle collezioni di John Whiting, la Church Missionary Society (CMS), Rolla Foley, Dar Al-Tifl Al-Arabi, Widad Kawar, il Museo di Israele e il Museo della cultura beduina.

Missionari, orientalisti e viaggiatori acquistavano ricami per interessi religiosi oltre che economici. Per alcuni la priorità era collezionare ricami, per altri vendere gli articoli in Europa e negli Stati Uniti per sponsorizzare i loro progetti in Palestina. Questi pezzi ricamati sono entrati a far parte delle collezioni di individui o chiese e alla fine sono finiti nelle collezioni dei musei etnografici nel ventesimo secolo, formando la base delle collezioni museali di abiti tradizionali palestinesi.

The John Whiting Collection: in qualità di manager del negozio American Colony nella Città Vecchia di Gerusalemme, John Whiting parlava correntemente l’arabo e conosceva bene le tradizioni locali. Era anche molto appassionato di acquistare abiti tradizionali palestinesi dai vari villaggi che ha visitato. La sua collezione comprendeva alcuni pezzi che risalgono al 1840 Quando John Whiting morì negli Stati Uniti nel 1951, la sua collezione fu inizialmente passata a sua moglie e in seguito finì al Museum of International Folk Art di Santa Fe. La sua collezione di 26 pezzi è diventata il fulcro della collezione del museo di abiti tradizionali palestinesi, che è stata successivamente integrata dal sostegno di Widad Kawar che è stato in grado di colmare le lacune nella Collezione Whiting.

Il pannello posteriore di un abito di Ni’lin, un villaggio a ovest di Ramallah.

Collezione della Church Missionary Society (CMS): Sheila Weir ha collaborato con il British Museum nella selezione di una collezione di abiti tradizionali palestinesi dalla Collezione CMS che era stata portata dalla Palestina. Tra il 1967 e il 1968, Weir ha condotto un’indagine attraverso la Palestina storica per documentare la Collezione CMS, per apprendere il vocabolario del ricamo e i nomi di elementi, motivi e punti e per identificare le caratteristiche distintive dei pezzi in base al loro luogo di origine .ra il 1969 e il 1970, Sheila Weir ha ampliato la sua indagine per includere la Giordania e i campi profughi palestinesi e ha acquisito un gran numero di pezzi che le donne nei campi profughi avevano conservato dopo la Nakba e la Naksa . Weir ha anche acquisito telai da Al-Majdal da aggiungere alla collezione etnografica in espansione del British Museum. A ciò è seguita l’istituzione del Museum of Mankind a Londra che ha avviato le sue attività con una mostra sulla tessitura in Palestina e sugli abiti tradizionali palestinesi.

La manica di un abito di Ramallah che è eccezionale perché è stata ricamata con un rivestimento in stile Betlemme.

The Rolla Foley Collection: Rolla Foley è stato un insegnante di musica americano che dal 1938 al 1946 ha lavorato presso la Friends School di Ramallah, dove è stato responsabile del programma musicale in Palestina, Libano, Giordania orientale e Siria. Ha pubblicato diversi libri sulla musica in inglese, francese, arabo e armeno e ha fondato un festival di musica folcloristica che comprendeva il suo interesse per la produzione culturale e artistica locale, in particolare il ricamo. Durante il suo soggiorno in Palestina, Foley collezionò ricami palestinesi, dipinti e ceramiche prima di tornare negli Stati Uniti nel 1946.
Foley tornò in Palestina nel 1952 per completare la sua ricerca di dottorato sulla musica folcloristica palestinese, dove si trovò di fronte al fatto che i suoi amici di Yafa erano diventati rifugiati a Ramallah dopo la Nakba.. Avevano perso le loro case e la maggior parte dei loro beni. Foley ha riconosciuto che a causa degli sfollamenti forzati, il ricamo palestinese era minacciato di cancellazione, quindi ha avviato una collezione diversificata che includeva abiti, giacche e cuscini ricamati. All’inizio degli anni ’60 fondò anche un piccolo museo a Oakland, Illinois, ma a causa della sua prematura scomparsa nel 1970 il museo fu chiuso. La sua collezione passò ad Hanan e Farah Munayer, con una descrizione dettagliata di ogni pezzo, inclusa la storia del pezzo stesso, la data di acquisizione, il nome del proprietario e il villaggio da cui aveva avuto origine. Questa accurata documentazione ha permesso di tramandare questo patrimonio alle generazioni future e ha fornito preziose informazioni sui pezzi della collezione.
All’inizio degli anni ’30, i collezionisti palestinesi iniziarono a creare le proprie collezioni di ricami nel tentativo di preservare questo patrimonio e garantirne la continuità per le generazioni future. È importante menzionare qui due raccolte principali.
Collezione Dar Al-Tifl Al-Arabi: Hind Al-Husseini iniziò a collezionare abiti palestinesi come parte della Collezione Dar Al-Tifl Al-Arabi negli anni ’30, per poi ampliare la collezione dopo la Nakba del 1948 . La sua risposta è derivata dalla sua convinzione nell’importanza di salvaguardare il patrimonio palestinese dall’essere spazzato via di fronte all’occupazione. Questo è stato in aggiunta al suo lavoro filantropico, dove ha fornito alloggi ai bambini rifugiati nella sua fondazione, Dar Al-Tifl Al-Arabi. Dopo la Naksa del 1967 , la Collezione Dar Al-Tifl Al-Arabi si espanse ulteriormente per includere la collezione di ricami del Museo di arte popolare palestinese.

La manica del vestito di Al-Ramleh.

La collezione Widad Kawar: qualche tempo dopo, Widad Kawar ha iniziato un viaggio che ora l’ha portata ad acquisire migliaia di pezzi dalla Palestina, dalla Giordania e da altre parti del mondo arabo. Ha iniziato la sua collezione con un abito affascinante del villaggio di Aboud e oggi possiede una collezione che ha viaggiato per il mondo portando il messaggio della Palestina. Widad Kawar ha anche fondato il Tiraz Center ad Amman, in Giordania, per mostrare la sua collezione speciale di abiti palestinesi in un ambiente interattivo ed educativo. Ha anche contribuito notevolmente alla produzione di libri e materiali di valore inestimabile per documentare e preservare questo patrimonio. La sua collezione e i suoi sforzi hanno ispirato e incoraggiato la creazione di diverse collezioni individuali e organizzative.Altre collezioni di ricami palestinesi sono detenute da istituzioni palestinesi, tra cui la Birzeit University e il Museo Palestinese, e da individui palestinesi che cercano di preservare e documentare l’eredità e la storia palestinese.
Ci sono anche collezioni di abiti e gioielli ricamati palestinesi, tra molti altri oggetti palestinesi, che si trovano oggi nei musei e nelle collezioni private israeliane. Nel 1948 Israele cancellò dalla mappa più di 400 villaggi palestinesi e trasferì le loro popolazioni nei paesi vicini. I collezionisti israeliani hanno successivamente accumulato un gran numero di costumi e strumenti tradizionali palestinesi nel tentativo di trovare un collegamento tra questi oggetti e la presunta storia israeliana nella regione.

Il retro di un abito di Hebron con elementi tipici anche degli abiti di Al-Faluja, Iraq al-Manshiyya e Beit Jibrin, villaggi spopolati nel 1948.

Parallelamente agli sforzi in corso dello stato israeliano per cancellare la Palestina e i palestinesi dalla mappa e dalla memoria, i musei israeliani hanno paradossalmente raccolto abiti e strumenti tradizionali palestinesi in modo implacabile nel corso degli anni. I seguenti sono alcuni esempi.
The Israel Museum: il museo è stato fondato nel 1965, quando il ricercatore e curatore antropologico Ziva Amir era responsabile della raccolta in massa di abiti tradizionali palestinesi. Amir ha approfittato dell’estrema vulnerabilità dei palestinesi dell’epoca e ha sfruttato questa situazione per acquisire ricami palestinesi dai rifugiati palestinesi impoveriti. Amir ha pubblicato diversi libri e articoli sull’argomento, concentrandosi sulla traccia dell’Antico Testamento attraverso questi pezzi raccolti, senza menzionare nemmeno la Palestina oi palestinesi.

Pannello laterale di un abito Ramallah bianco di rumi (lino) dei primi del Novecento.

Il Museo della cultura beduina: la collezione del museo risale alla sua istituzione nel mandato britannico della Palestina nel 1938. Documenta la vita dei beduini ad Al-Naqab e comprende una vasta gamma di pezzi che includono vestiti, strumenti, tende, tappeti e tessuti intrecciati
Questa storia e la realtà odierna sottolineano l’importanza di sviluppare ed espandere le collezioni di ricami di proprietà palestinese. Oltre a salvaguardare una forma d’arte tradizionale palestinese che è stata violentemente interrotta a causa della Nakba e dell’occupazione in corso, queste collezioni possono anche preservare una parte essenziale del nostro patrimonio immateriale. Le storie che raccontano non comprendono solo gli indumenti stessi, ma anche il modo di vivere che sono stati progettati ad arte per accogliere. Di fronte alla brutale macchina dell’occupazione, preservare e celebrare la nostra identità culturale è fondamentale per garantire la continuità della nostra cultura per le generazioni a venire.Visualizza PDF

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Il tatreez è più di una semplice decorazione. È un modo di raccontare storie, preservare il patrimonio culturale ed esprimere la nostra identità». Mi spiega Yasmeen Mjalli fondatrice e direttrice creativa di Nöl Collective, brand di abbigliamento basato a Ramallah, in Cisgiordania. «Ogni punto ha un significato, ogni motivo racconta la storia familiare, l’identità regionale o eventi significativi nella vita di chi lo indossa».

Una camicia di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen MjalliNöl Collective.

Una camicia di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen Mjalli/Nöl Collective.

Una gonna di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen MjalliNöl Collective.

Una gonna di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen Mjalli/Nöl Collective.

Una felpa di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen MjalliNöl Collective.

Una felpa di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen Mjalli/Nöl Collective.


Abeer Dajani, fondatrice di Taqa Clothing aggiunge: «La parola tatreez (تطريز) significa "abbellimento" in arabo. Ma oltre a essere una decorazione, è sempre stato un modo per le donne palestinesi di esprimere la propria identità, le esperienze e il patrimonio regionale attraverso motivi e disegni. Storicamente, è stato un linguaggio a sé: alcuni punti e colori potevano raccontare da dove veniva la donna che il indossava, il suo stato civile e persino la sua storia personale».
Praticata da oltre 3.000 anni, questa forma di ricamo tradizionale viene trasmessa di generazione in generazione, da madre a figlia, in Palestina così come nelle comunità di emigranti palestinesi in tutto il mondo. Sebbene la sua origine risalga alle zone rurali, oggi la tradizione di cucire e indossare abiti ricamati è diffusa sia nei villaggi che nelle città, e i diversi motivi rappresentano le diverse regioni della Palestina storica.


Il thobe abito tradizionale palestinese ricamato con trateez nell'interpretazione contemporanea di Taqa Clothing....

Il thobe, abito tradizionale palestinese ricamato con trateez, nell'interpretazione contemporanea di Taqa Clothing. Courtesy of Abeer Dajani/Taqa Clothing.


«Molti motivi tradizionali del tatreez rappresentano elementi della terra - fiori, alberi, animali -simboli del paesaggio unico della Palestina – mi spiega ancora Mjalli di Nöl Collective - Alcuni motivi rappresentano piante specifiche come i rami di ulivo, i fiori selvatici o i melograni, che hanno un significato culturale significativo, mentre altri raffigurano elementi della vita palestinese legati alla terra, come la kefiah o la famosa Cupola della Roccia. Questi motivi non sono semplicemente belli, sono una forma di resistenza, un modo per mantenere viva la memoria di una terra e della sua biodiversità di fronte alla diaspora, all'occupazione e alla distruzione»
Dichiarato nel 2021 dall’UNESCO patrimonio culturale immateriale e intellettuale dell’umanità, il tatreez è simbolo di resistenza culturale. Mantenere viva quest’arte significa preservare una parte fondamentale dell’identità e della cultura palestinese, in un momento in cui le radici culturali rischiano di essere cancellate. «Il tatreez offre un modo per archiviare e conservare ciò che sta per essere cancellato - continua Mjalli - Preserva le storie della terra, storie che non possono essere distrutte da bulldozer o da confini. Tessendo questi motivi nei nostri design, stiamo attivamente proteggendo la memoria di un paesaggio che potrebbe presto essere dimenticato dal mondo, ma che vivrà sempre nei nostri fili».



Un capo di Nöl Collective realizzato con la tecnica di tessitura majdalawi. Courtesy of Yasmeen MjalliNol Collective.

Un capo di Nöl Collective realizzato con la tecnica di tessitura majdalawi. Courtesy of Yasmeen Mjalli/Nol Collective.

 
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Un tessitore che Nöl Collective ha aiutato a evacuare in Egitto. Courtesy of Yasmeen MjalliNöl Collective.

Un tessitore che Nöl Collective ha aiutato a evacuare in Egitto. Courtesy of Yasmeen Mjalli/Nöl Collective


l thobe, ampio abito tradizionale indossato dalle donne palestinesi, è il capo di abbigliamento più comunemente ricamato. Ma sono diversi i designer che integrano il tatreez in creazioni dal design contemporaneo, producendo abbigliamento e accessori in grado di parlare anche al resto del mondo. Questo è particolarmente evidente nel lavoro di Yasmeen Mjalli che mixa le tradizioni della sua terra di origine con una visione contemporanea e internazionale della moda.
Nata negli Stati Uniti da genitori palestinesi emigrati, la giovane designer è tornata in Cisgiordania dopo la laurea in North Carolina e nel 2017 ha fondato Nöl Collective a Ramallah. Mjalli integra nel suo lavoro tecniche indigene, come la tintura dei tessuti con coloranti naturali derivati da piante locali, radici e insetti, l’utilizzo di metodi tradizionali di tessitura come il majdalawi, e il coinvolgimento di una rete di artigiani locali per ricamare a mano gli abiti, creando una combinazione unica di silhouette e tagli contemporanei e decori tradizionali palestinesi.


Una gonna di Taqa Clothing decorata con ricamo tatreez. Courtesy of Abeer DajaniTaqa Clothing.

Una gonna di Taqa Clothing decorata con ricamo tatreez. Courtesy of Abeer Dajani/Taqa Clothing.



Lo stesso fa Abeer Dajani con Taqa Clothing, seppure lontana dalla sua terra, tra Sidney, in Australia, e Riyad, in Arabia Saudita. Dopo aver studiato modellistica per abbigliamento femminile all'Istituto di Moda Burgo di Amman, in Giordania, con l'obiettivo principale di avviare una linea di moda ispirata al patrimonio palestinese, nel 2017 Dajani ha fondato Taqa, che lei stessa definisce un'esplorazione dell'arte indossabile, pezzi che raccontano storie, cultura e identità, rimanendo moderni e versatili.
«La moda è uno strumento potente di rappresentazione. Pensate alla kefiah, è diventato un simbolo globale di resistenza, identità e solidarietà. Allo stesso modo, il tatreez non è solo ricamo, è storia indossabile. Ogni punto porta con sé una narrazione, una connessione con il passato e un senso di appartenenza. Indossando questi pezzi, le persone si connettono a una storia più grande di loro. Vedo tutto ciò come parte di un cambiamento più ampio: le persone stanno rivendicando le arti indigene, valorizzando l'artigianato rispetto alla produzione di massa e trovando modi per esprimere la loro identità attraverso la moda».
La storia di queste e delle tante altre designer, tessitrici, ricamatrici palestinesi, che fanno della moda un mezzo di preservazione della storia, si colloca in un movimento globale che sta coinvolgendo il mondo della moda: non solo l'artigianalità (e la sostenibilità) di ciò che indossiamo comincia ad acquisire importanza, ma anche le mani che lo creano hanno rilevanza, così come la storia che si cela dietro a ogni capo e accessorio. Soltanto così la moda diventa energia creativa, forza propulsiva che sospinge verso il futuro. Nonostante le guerre, nonostante tutto.
«La creatività è una forma di resistenza, un modo di affrontare e persino di guarire - sono le parole di Yasmeen Mjalli - è una risposta al dolore, un modo per reclamare bellezza e dignità in uno spazio dove sono costantemente minacciate. Per me, essere creativa in questo contesto significa onorare il passato e il presente, ma anche immaginare un futuro, un futuro in cui i palestinesi possano vedere le possibilità di una vita più luminosa e libera. È una miscela di cuore spezzato e speranza, e il lavoro porta con sé quel peso emotivo. È un promemoria che anche nei momenti più bui, c'è ancora spazio per la creazione, per l'espressione e per reclamare la nostra narrazione».

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