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19.12.25

«Ho curato gli attacchi di panico facendo rally con mia madre. Poi siamo diventate campionesse italiane»: storia di Veronica Verzoletto e Patrizia Perosino

  DA   VANITY  FAIR    19\12\2025 
Una figlia che vive sdraiata sul divano in preda agli attacchi di panico. Una madre preoccupatissima. Poi, l’idea: correre insieme in macchina. Da quel percorso nasce l’inizio della guarigione, e di un sodalizio sportivo che farà la storia dell’automobilismo italiano
Nel 2020 Patrizia Perosino 64 anni e Veronica Verzoletto 28 sono diventate campionesse italiane nella classifica...
Nel 2020, Patrizia Perosino, 64 anni, e Veronica Verzoletto, 28, sono diventate campionesse italiane nella classifica femminile del rally. Nel 2022 hanno riconquistato il titolo (foto Mario Leonelli).

Questo articolo sugli attacchi di panico è pubblicato sul numero 1-2 di Vanity Fair in edicola fino al 6 gennaio 2025.

«Mi ero appena addormentata dopo mesi di notti insonni. Neanche il tempo di chiudere gli occhi e mi sveglio di soprassalto. Trovo mia figlia inginocchiata accanto al letto. Piangeva mentre mi diceva: “Ti sembra normale lasciarmi morire così, senza fare niente?”. Veronica non stava morendo: il tumore al cervello che pensava di avere era frutto di un’ipocondria spinta. E non era nemmeno vero che io non stessi facendo niente: la accudivo come e più di quando era piccola, anche se aveva 20 anni. Ma su una cosa aveva ragione: non avevo ancora trovato la chiave giusta per aiutarla. Quella notte, però, mi venne un’idea».Patrizia Perosino, classe 1961, valdostana trapiantata a Biella, parla con una voce sottile come la sua figura, i ciuffi di capelli corvini le nascondono gli occhi ma non lo sguardo: quello è sempre rivolto verso la figlia, Veronica Verzoletto, che siede accanto a lei, sul divano di casa, e gioca con la maglietta, copre e scopre le spalle a seconda dell’argomento. Insieme formano una celebre coppia del rally amatoriale italiano: l’unica composta da mamma e figlia, l’unica a essersi aggiudicata due volte il titolo nazionale, nel 2020 e nel 2022. L’unica, anche, ad avere con questo sport un debito cospicuo: sono state proprio le gare di rally a far riemergere Veronica dal buio che la inghiottiva.«Ho sempre avuto paura del buio», racconta la 28enne. «Da piccola avevo l’incubo di morire nel sonno. È come se, affievolendosi, la luce si portasse via il controllo che ho sulla mia vita». Il controllo è qualcosa che Veronica non ha mai smesso di cercare, a scuola (è laureata con lode in Giurisprudenza), nello sport (è stata un’agonista del tennis) e nell’unico ambito in cui non si può avere: in amore. «I miei si sono separati che avevo sei anni e mio fratello Federico quattro. Siamo cresciuti con la mamma, che viveva per noi. Ero così preoccupata di perderla e di restare sola che la obbligavo, ogni intervallo, a palesarsi davanti al cancello della scuola: dovevo vederla per sincerarmi che stesse bene. Era il mio unico punto di riferimento».Il padre, Stefano, imprenditore tessile, lo frequentava poco: «Lavorava sempre, spesso all’estero. Dal punto di vista economico, non ci ha mai fatto mancare niente. Ma, tante volte, ai suoi soldi avrei preferito un abbraccio».Nel tempo, il vuoto d’amore è diventato una voragine: «Non sono stata una bambina felice. Ero chiusa, in mezzo alla gente mi sentivo a disagio. Ero quella che, a scuola, camminava a testa bassa sperando di passare inosservata. Da adolescente ho sofferto di disturbi alimentari: non mi sentivo accettata, quindi non mi accettavo. Ne sono uscita grazie al tennis: quando mi rendevo conto di non avere energie sufficienti per giocare, piano piano tornavo a mangiare».A tennis Veronica ha talento, ma non vince: «Durante gli allenamenti andavo forte, mi facevano i complimenti, dicevano che avevo un braccio pazzesco. Poi in partita tremavo, e deludevo tutti. Ho mollato l’anno della maturità, per concentrarmi sullo studio, l’unico ambito che interessava a mio padre. Ci tenevo al suo giudizio».A 19 anni, dopo il diploma, Veronica si iscrive a Legge a Torino: non pratica più sport agonistico ma la spinta alla perfezione non la molla e lei la riversa sui libri, studiando fino a notte fonda. Un giorno comincia a provare un fortissimo mal di testa a cui si sommano altri disturbi: fiato corto, lampi negli occhi, senso di soffocamento. L’autodiagnosi è impietosa: tumore al cervello. A poco servono esami e screening medici di ogni tipo, tutti negativi. Lei è convinta di avere i giorni contati. Torna a casa per le feste di Natale, si stende sul divano e non si rialza per sei mesi. Patrizia ricorda: «Usciva solo per correre al Pronto soccorso. Andavamo una sera sì e una no. Quando i dottori le dicevano che non aveva niente, si calmava per dieci minuti, poi ricominciava da capo». Psicoterapia non la vuole fare, psicofarmaci non vuole prenderne: «Tanto a cosa servono, che sto per morire?».È stato con questa convinzione che una notte ha svegliato sua madre, rimproverandola di non occuparsi abbastanza di lei. È stata quella notte che a Patrizia è venuta in mente l’idea che avrebbe cambiato la vita di Veronica, per sempre: «La porto a correre in macchina con me».

A ogni competizione la coppia PerosinoVerzoletto devolve parte dellinvestimento degli sponsor al Fondo Edo Tempia...

A ogni competizione, la coppia Perosino-Verzoletto devolve parte dell’investimento degli sponsor al Fondo Edo Tempia, un’associazione piemontese che si occupa di lotta contro i tumori (foto Mario Leonelli).

Prima di sposarsi, molto prima di diventare madre, Patrizia era una ragazza indipendente amante del rischio (ha frequentato un corso per croupier) e della velocità. Figlia del giornalista sportivo Luigi Perosino, frequenta gli autodromi dacché ne ha memoria: «A sei anni, al circuito di Le Castellet, mi ero persa nei box a osservare i meccanici. Hanno dovuto chiamare i miei genitori con il megafono perché mi venissero a recuperare! Già allora le auto mi appassionavano. Tempo dopo, prendere la patente per me è stata una passeggiata: ho fatto l’esame da privatista, senza neanche lezioni di guida. Ero portata, come un bravo disegnatore sa usare la matita io sapevo spingere i pedali. Quando nel 1993, grazie a un amico, ho avuto l’occasione di provare una macchina da corsa non me la sono fatta sfuggire: l’adrenalina della velocità mi ha conquistata subito e non ho più smesso, salvo una pausa di qualche anno quando sono nati i bambini».Correre per Patrizia è terapeutico: «Quando salgo in macchina dimentico le paure del quotidiano, incluse “sarò una buona madre?”, “avrò preso la decisione giusta per i miei figli?”. Dimentico i pregiudizi maschili che vedono noi donne guidatori di serie B – sì, è ancora così, posso garantirlo. Mi scordo persino degli acciacchi fisici. Divento sicura di me stessa, cosa che nella vita non sono stata mai».E così, il giorno dopo la notte in bianco di pianti e di paure, Patrizia prende sua figlia per mano e la porta in macchina con sé. Le affida il ruolo di navigatrice, ovvero la persona che sta accanto al pilota per spiegare ogni centimetro della strada e indicare, nel dettaglio, le mosse da compiere. Destinazione: Rallye Sanremo, una delle corse più difficili, con curve strette e passaggi a strapiombo sul mare. Inizialmente riluttante, Veronica si lascia convincere da un pensiero non proprio ottimista: «Tanto io sto per morire, magari oggi io e la mamma ce ne andiamo insieme».Le prime ore, l’esperimento si rivela un disastro: «Continuava a ripetere che si sentiva mancare», ricorda Patrizia. «Infilare il casco, una tragedia: “Soffoco”, gridava. A complicare le cose, una pioggia torrenziale. Io ero in preda a un mix di emozioni: da un lato, temevo di mettere la vita di mia figlia in pericolo, perché quella corsa è davvero ostica. Dall’altro, ero consapevole che non potevo mollare: dovevo far qualcosa per tirarla fuori dalla palude emotiva in cui stava affogando. In tutto questo, la priorità era rimanere vigile per non sbandare».A metà strada, il miracolo: per la prima volta dopo mesi Veronica non sente più male alla testa, non soffoca, non pensa alla morte. «Dovevo stare così concentrata sulle indicazioni da dare a mia madre alla guida che ho distolto la mente da tutto il resto. Lì ho capito che non poteva trattarsi di tumore al cervello o i sintomi non sarebbero spariti così all’improvviso». Patrizia aggiunge: «Quel giorno l’ho rivista sorridere dopo tanto, e quando non mi guardava, io piangevo di gioia. Quel giorno, sono rinata anch’io con lei».Alla prima gara ne è seguita un’altra, poi un’altra ancora, ciascuna delle quali ha allontanato le ombre di qualche chilometro. Nel 2020 mamma e figlia sono diventate campionesse italiane nella categoria femminile. Nel 2022 hanno riconquistato il titolo. Come gesto di riconoscenza verso uno sport che ha ridato loro la voglia di vivere, l’ormai celebre coppia Perosino-Verzoletto devolve a ogni competizione una percentuale dell’investimento degli sponsor all’associazione Fondo Edo Tempia, che si occupa di lotta contro i tumori: «Così aiutiamo chi un tumore ce l’ha davvero».Oggi, gli attacchi di panico per Veronica sono un ricordo lontano. Nemmeno un po’ d’ansia prima delle gare? «No, nemmeno. Forse solo un filo di apprensione appena sveglia la mattina, ma passa subito. Quando il semaforo comincia a lampeggiare sono tranquilla: 5-4-3-2-1, infilo il casco e mi sento invincibile».


Tragedia di Conc’e Oru, la moglie di Ingrosso: «Ridatemi la piastrina del mio Toto» Il capitano dell’Esercito era a bordo dell’aereo precipitato nel 1979 sui monti di Capoterra

 E poi  mia  madre  come   credo  anche se  le  vostre  ( anche    se non  vivete   più con loro ma  avete  lasciato  delle  cose nella  vostra    camera  )   madri  mi  rimprovera    e  ....   perchè conservo   oggetti  o ninoli     come  li chiama  lei   .  Ogetti  che    ,  come  nel  caso della storia   che  trovate  sotto   ( presa  dall'unione  sarda  del  18     c.m  )    sono  legati   alla vita   e  al  ricordo   di una  persona  morta   .

di cosa  stiamo  parlando
Lo schianto di Capoterra: 31 vittime e tanti dubbi su quel volo tragico







non è vero ma ci credo La statua tabù della Banca d'Italia: perché a Palazzo Koch nessuno ci passa dietro

 il  mesagero.it  tramite msn 




Roma ci sono tantissime opere che si fanno notare per la loro bellezza, e altre che diventano leggenda. È il caso dell’Abisso, una misteriosa statua conservata nell’atrio di Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia:


Video

Roma ci sono tantissime opere che si fanno notare per la loro bellezza, e altre che diventano leggenda. È il caso dell’Abisso, una misteriosa statua conservata nell’atrio di Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia: un gruppo marmoreo che in pochi osano guardare troppo da vicino. Il motivo? Secondo una curiosa superstizione interna, chi la sfiora rischierebbe… di precipitare nella carriera.

Photo Credits: Annarita Canalella; music by Korben MkdB

18.12.25

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata LXII PER RICONOSCERE LA PAURA VA ALLENATO IL CORAGGIO

La prudenza è l’arma più efficace, sempre. Ma è importante anche allenare il coraggio, che – bene intesi – non significa diventare impavidi, ma imparare a muoversi nonostante la legittima paura, che è una reazione naturale e serve a proteggerci. Il coraggio nasce quando impariamo a riconoscere proprio la paura, quando la guardiamo in faccia e la usiamo come una bussola preziosa invece che come un freno. Ecco perché l’allenamento è importante, così come è importante conoscere il proprio corpo e quelle che possono essere le sue risposte. Quando il cuore accelera, per esempio, o quando le mani sudano e il respiro si fa corto, è perché il corpo sta preparando l’energia necessaria. Non esiste un libre$o di

istruzioni, naturalmente, ma è consigliabile respirare a fondo, radicare i piedi bene a terra, sentire il proprio peso e il proprio baricentro. Più ci si abitua a restare presenti e legati alla realtà, più si riduce lo spazio che viene concesso all’ansia. Non a caso nei corsi di autodifesa “dal vivo” si lavora proprio su questo aspetto, non tanto sul colpire e attaccare, quanto sul restare lucidi e presenti quanto più possibile. Per allenarvi, ci sono esercizi semplici che potete svolgere: per esempio, camminare di no$e lungo una strada poco illuminata, naturalmente accompagnati e in totale sicurezza, alzare lo sguardo invece di abbassarlo, parlare a voce ferma con uno sconosciuto che accidentalmente invade il vostro spazio. Sono piccole prove quotidiane che sono in grado di insegnare al cervello che non tu#o ciò che fa paura è realmente pericoloso. Praticare l’allenamento del coraggio peraltro è un gesto che può diventare collettivo. Lo si impara anche quando si guardano altre donne che a$rontano le stesse paure che provate voi. Si impara anche sostenendosi a vicenda, raccontandosi vicendevolmente le proprie esperienze e trasformando quella che potrebbe essere ingiustamente percepita come vergogna in forza. Perché  il coraggio è anche presenza e condivisione. E voglia di difendersi e di mettersi al riparo


Infatti  molti psicologici      e   studi  di psicologia (  vedere  url  sotto ) confermano quanto detto nelle righe precedenti da Antonio bianco . Ecco che   riconoscere la paura e affrontarla, è fondamentale allenare il coraggio. Questo processo richiede consapevolezza, riconoscimento e accettazione delle proprie paure. Ecco alcuni passaggi chiave per riconoscere e affrontare la paura:

  1. Sviluppare il coraggio: Comprendere che il coraggio è il compiere azioni che spaventano e che la paura è un'emozione utilissima per la guida.
  2. Utilizzare l'intelligenza emotiva: Scegliere risposte efficaci in situazioni di paura, evitando reazioni automatiche.
  3. Trasformare la paura in alleata: La paura può diventare un'alleata se usata per crescere e ascoltare il proprio intuito. 

Questi passaggi possono aiutare a riconoscere e affrontare la paura in modo più efficace, portando a una maggiore consapevolezza e a un coraggio più forte.





L’ANSIA DELLE FESTE: QUANDO LA FELICITÀ METTE SOTTO PRESSIONE Pillole di psicologia I consigli del famoso terapeuta Gerry Grassi

Chiara* arriva in seduta pochi giorni prima di Natale. «Tutti sono felici, io invece mi sento so"o pressione. Devo essere serena, devo godermi le feste, ma dentro sento solo ansia». Le sue parole raccontano una condizione molto più di$usa di quanto si pensi: l’ansia da vacanze natalizie. Il periodo delle feste, simbolo di convivialità e riposo, può amplifcare tensioni, aspettattive. Le luci, i regali, i sorrisi dei social diventano un promemoria di ciò che manca:
relazioni autentiche, tempo per sé o la libertà di non dover essere felici a comando.L’ansia delle feste nasce dall’incontro tra tre fa"ori: il sovraccarico di stimoli (impegni, spese, viaggi), l’idealizzazione della felicità e la ria"ivazione di vissuti familiari irrisolti. La mente, invece di riposare, entra in uno stato di vigilanza, teme di non essere all’altezza del Natale. Come lavoro terapeutico a Chiara propongo due strategie.

STRATEGIA 1 – La mappa delle aspettative: insieme analizziamo cosa sente di “dover” fare per forza durante le feste e cosa sceglierebbe davvero. Spesso emerge una distanza tra ciò che desidera e ciò che pensa di dover rappresentare. Ridurre questa distanza significa tornare padroni del proprio tempo emotivo.

STRTEGIA 2 – Il rito del silenzio: ogni giorno, anche per dieci minuti, invito Chiara a sospendere musica, notidche e conversazioni. Uno spazio di vuoto per ritrovare il contatto con se stessa. È sorprendente come, nel silenzio, l’ansia perda forza e riemerga la presenza.

Clinicamente, questo periodo natalizio rivela un paradosso molto interessante: più cerchiamo di “costruire” la felicità, più rischiamo di perderla. La serenità non nasce da come dovrebbe andare il Natale, ma da come scegliamo di viverlo, anche se è imperfetto, anche se non corrisponde all’immagine ideale. A volte, il regalo più grande che dobbiamo farci è concederci il permesso di non dover essere felici a tutti i costi.




*I nomi e i riferimenti presenti sono stati modificati per garantire la riservatezza e l’anonimato del caso.

                                                 gerry.grassi@gmail.com




Aggiungo che L'ansia durante le feste di Natale è un fenomeno comune, spesso dovuto a aspettative irrealistiche e pressioni sociali. È importante affrontare questo periodo con equilibrio e rispetto per i propri bisogni. Ecco alcuni consigli per gestire l'ansia e godere al meglio delle festività:

  • Ridimensiona le aspettative: Non ci sono regali perfetti o famiglie perfette. Concentrati su ciò che è significativo per te.
  • Pianifica senza strafare: Lascia spazi liberi per riposarti e goderti momenti di tranquillità.
  • Ristruttura i pensieri stressanti: Scegli momenti di gioia e non ti limiti a "non piacere a tutti".
  • Mantieni i tuoi spazi personali: Anche durante le feste hai diritto a momenti solo per te.
  • Dici "no": Non tutto è essenziale e necessario. Stabilisci priorità chiare e prenditi cura di te stesso.

Se l'ansia persiste, considera di consultare un professionista della salute mentale per supporto e miglioramento.

17.12.25

Per 33 anni 'ostaggio' dell’Italia dove è nata e cresciuta, ora è finalmente apolide: il decreto del Viminaleente apolide: il decreto del Viminale ., Sputa la foglia che gli era finita in bocca per il vento, 86enne riceve una multa di 285 euro per abbandono di rifiuti



ecco dopo la precedente ecco altre due storie d'assurde






 decreto del Viminale

(Adnkronos) – E’ arrivato un provvedimento che fa giustizia in una storia che si trascinava da troppi anni. A Suada Hadzovic, trentatré anni vissuti tutti in Italia fin dalla nascita, un decreto del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno ha riconosciuto lo status di apolide. Una conquista, quella attestata nel documento che porta la data del 9 dicembre in possesso dell’Adnkronos, che la libera da una condizione di surreale costrizione, di fatto ostaggio del Paese in cui è nata e cresciuta perché impossibilitata ad avere un documento, il passaporto o anche solo la carta d’identità valida per l’espatrio. La storia di Suada era stata denunciata dall’agenzia di stampa più di un anno fa, a novembre 2024, evidenziando le conseguenze grottesche di un ‘buco’ di legislazione in cui è finita per la sola ‘colpa’ di un percorso di vita difficile, complicato ulteriormente dal cortocircuito di una burocrazia che ha prodotto un evidente paradosso. Oggi, il provvedimento amministrativo che le restituisce la libertà.
Suada Hadzovic nasce ad Albano laziale il 21 ottobre 1992, da due genitori stranieri di origini slave ma anche loro nati in Italia. Il padre, nato il 10 ottobre 1975 sempre ad Albano laziale e di nazionalità serba, muore il 16 ottobre del 2000, quando Suada ha 8 anni. La madre, sempre di nazionalità serba e nata a Torino il 29 luglio del 1975, decide alla morte del padre di affidare Suada a una casa famiglia, la Comunità 21 marzo di Terracina. Da questo momento, entra in gioco come tutrice legale un assistente sociale. Quando ha 14 anni, Suada viene trasferita in un’altra casa famiglia, la Comunità Domus Bernadette, a Roma.
Al compimento del diciottesimo anno di età, in base alla legge 91 del 5 febbraio del 92, Suada avrebbe avuto il diritto di diventare cittadina italiana presentando una semplice dichiarazione di volontà all’Ufficio di Stato Civile del comune di Roma. Il problema è che il Comune di Roma non manda la relativa comunicazione nei sei mesi precedenti, come avrebbe dovuto fare in base all’art. 33 della legge 98/2013, e la tutrice legale non informa Suada di questa possibilità. La conseguenza è che al compimento del diciannovesimo anno di età la ragazza perde il diritto alla cittadinanza. Nel 2010 Suada ottiene il suo primo permesso di soggiorno in cui viene erroneamente indicata la cittadinanza serba, deducendola evidentemente dalle origini dei genitori. E qui c’è l’altro snodo chiave della vicenda. Perché la Serbia, come risulta dalla comunicazione ufficiale dell’Ambasciata serba in Italia, dichiara esplicitamente che Suada Hadzovic non è cittadina serba. Del resto, non ha mai messo piede in Serbia ed è vissuta in Italia fin dalla sua nascita.
Nel corso degli anni, Suada e i legali ai quali si è rivolta tentano diverse strade, incluse la richiesta di cittadinanza per residenza e la richiesta dello status di apolide. Ma tutte le istanze si infrangono su sentenze di Tribunale che non indicano mai una soluzione al problema. “Fatto sta che mi ritrovo a 32 anni prigioniera di un Paese, in cui sono nata e in cui vivo da sempre, che non mi riconosce come cittadina e che sostiene io sia cittadina di un altro Stato in cui non ho mai messo piede”, sintetizzava con amarezza un fa, in attesa di rivolgersi al prossimo legale e di fare l’ennesimo tentativo per uscire dalla sua condizione di ostaggio. Diventata adulta, con un compagno e un figlio italiani, rimane senza nazionalità e senza cittadinanza, priva di passaporto e con una carta d’identità che continua a recitare la dicitura ‘non valida per l’espatrio’. Da oggi, però, lo status di apolide libera Suada Hadzovic dalla sua condizione e le restituisce, finalmente, il diritto a muoversi anche fuori dall’Italia. (Di Fabio Insenga)

cronaca webinfo@adnkronos.com (Web Info)


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Sputa la foglia che gli era finita in bocca per il vento, 86enne riceve una multa di 285 euro per abbandono di rifiuti



(Foto: Facebook)© Social (Facebook etc)

(Foto: Facebook) Sputa la foglia che gli era finita in bocca per il vento, 86enne riceve una multa di 285 euro per abbandono di rifiuti© Social (Facebook etc)
Si era seduto su una panchina, gli è finita una foglia in bocca a causa del vento, l'ha sputata per strada e ha ricevuto una multa di 285 euro per abbandono di rifiuti. È la disavventura di un uom di 86 anni, RoyMarsh, fermato da due agenti che hanno visto il gesto. Accade a Skegness, in Inghilterra«Inutile e sproporzionato»
L'anziano ha denunciato alla BBC l'accaduto, definendolo «inutile e sproporzionato». La sanzione, dopo un ricorso, da 285 euro (circa 250 sterline, ndr) sarebbe dovuta essere ridotta a 170 euro (150 sterline), ma l'86enne ha dovuto comunque pagare l'intero importo.
Secondo il consigliere della contea Adrian Findley, si tratta di uno dei tanti casi in cui gli agenti hanno calcato la mano laddove non ce n'era il bisogno. Il consiglio distrettuale di Eat Lindsey ha dichiarato alla BBC che gli agenti avrebbero fermato solo chi è stato visto «commettere reati ambientali».

MA IN CHE PAESE VIVIAMO? I DELINQUENTI SONO A PIEDE LIBERO E CHI DENUNCIA IL RACKET È COSTRETTO A FALLIRE STORIA DI MAURIZIO DI STEFANO, 59ENNE COSTRETTO A CHIUDERE IL RISTORANTE A BOLOGNA DOPO CHE LO STATO RIVUOLE INDIETRO I 150MILA EURO CHE GLI AVEVA DATO PER RICOMINCIARE FUORI DALLA SICILIA.

 da  dagospia  del  17\12\2025

MA IN CHE PAESE VIVIAMO? I DELINQUENTI SONO A PIEDE LIBERO E CHI DENUNCIA IL RACKET È COSTRETTO A FALLIRE -
 LEGGERETE LA STORIA DI MAURIZIO DI STEFANO, 59ENNE COSTRETTO A CHIUDERE IL RISTORANTE A BOLOGNA DOPO CHE LO STATO RIVUOLE INDIETRO I 150MILA EURO CHE GLI AVEVA DATO PER RICOMINCIARE FUORI DALLA SICILIA. IL MOTIVO? "I MAFIOSI CHE MI IMPONEVANO IL PIZZO A CATANIA SONO STATI CONDANNATI PER USURA AGGRAVATA E NON PER ESTORSIONE. SONO VITTIMA DELLO STATO PER DUE VOLTE: PRIMA MI HA PORTATO A ESEMPIO PER QUANTI NON SI PIEGANO AL RACKET, ORA LO STESSO STATO MI TRATTA COME UN BANDITO…” 

Estratto dell’articolo di Alfio Sciacca per il "Corriere della Sera"

 

maurizio di stefano 3

Dieci giorni fa ha chiuso per sempre il suo ristorante a Bologna.

Si chiamava «Liccu», che sta per goloso ed era un rifugio dove gustare tutte le specialità della rosticceria e della pasticceria siciliana. Ma era anche il segno tangibile di una storia di riscatto. Il titolare, Maurizio Di Stefano, 59 anni, aveva infatti avviato l’attività con i fondi per le vittime di estorsione. 

Circa 150 mila euro che ora lo Stato vuole indietro. «L’Agenzia delle Entrate mi ha notificato una cartella esattoriale per lo stesso importo». Perché? «La motivazione è che i mafiosi che mi imponevano il pizzo sono stati condannati per usura aggravata e non per estorsione ».

 

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Di Stefano ha provato ad opporsi, ma ha dovuto fare i conti con un’altra faccia dello Stato: la lentezza della giustizia. «La prima udienza del ricorso in sede civile è stata fissata per gennaio 2027 —racconta—. L’opposizione non sospende la cartella e quindi ora devo pagare, poi si vede. Ma io non ho dove prenderli 150 mila euro. Se non pago mi viene pignorato tutto, anche il conto corrente. Non mi resta che chiudere, vendere il ristorare e provare a racimolare i soldi per pagare la cartella». 

Tanta la rabbia. «Prima lo Stato mi ha portato ad esempio per quanti si piegano al racket, ora lo stesso Stato mi tratta come un bandito e ruba il futuro mio e della mia famiglia. In Italia si dicono tante belle parole, ma poi la realtà è questa e te la sbattono in faccia senza tanti scrupoli. Mi sento tradito due volte».

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 La storia di Maurizio Di Stefano comincia oltre 20 anni.

In Sicilia era la stagione della rivolta dei commercianti contro la mafia del «pizzo». E lui fu uno dei protagonisti. All’epoca viveva a Catania dove gestiva due librerie: una all’interno dell’aeroporto, l’altra in centro città. Attività che, come tante in quegli anni, finirono nel mirino della mafia. In particolare della temuta famiglia Nizza […] Gli imponevano di pagare 800 euro al mese di «pizzo». Più l’obbligo di accettare e scambiare un giro di assegni strani che erano anche una forma di usura. Fino a quando Di Stefano non decise di ribellarsi, denunciando e facendo arrestare alcuni dei suoi aguzzini.

 

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«[…] Nel 2018 decisi di chiudere con la Sicilia e di ripartire con una nuova attività qui a Bologna». Di Stefano aveva ripreso in mano la sua vita. Tutto sembrava filare liscio. «L’attività in questi anni è andata benissimo —spiega —. Il locale era sempre pieno.

Pensavo di essermi lasciato per sempre il passato alle spalle. E invece all’improvviso lo Stato si è rifatto vivo trattandomi come un lestofante».

 

Oltre alla rabbia c’è anche tanta amarezza. «A suo tempo erano in tanti che mi davano coraggio e mi dicevano che avrei potuto contare sul loro aiuto. Sono spariti tutti. […]».

maurizio di stefano 4

 Di Stefano sostiene che il processo ai suoi estorsori non sarebbe mai cominciato. «Sono andati avanti con il processo per usura — spiega — mentre quello per estorsione non si è mai capito che fine abbia fatto». Non gli resta che fare i conti con la solitudine.

[…]

Emergenza medici, nel sud dell’Isola un drappello di veterani ancora in servizio: «Il riposo può aspettare» Al lavoro anche se in età di pensione .,


Anche la vecchiaia è vita
 Essa non indica soltanto l'esaurirsi di una sorgente dalla quale non sgorga più nulla , bensì è essa stessa vita, con una propria configurazione e in proprio valore
          ( Romano Guardini )

unione  sarda 16\12\2025   estratto 


Emergenza medici, nel sud dell’Isola un drappello di veterani ancora in servizio: «Il riposo può aspettare»Al lavoro anche se in età di pensione: gli over 70 che non hanno deposto il camice bianco sono una piccola e fondamentale pattuglia sul territorio

Emergenza medici, nel sud dell’Isola un drappello di veterani ancora in servizio: «Il riposo può aspettare»Al lavoro anche se in età di pensione: gli over 70 che non hanno deposto il camice bianco sono una piccola e fondamentale pattuglia sul territorio

(foto (Ansa)



Il dottor Paolo Piras è un medico di famiglia in servizio permanente effettivo, praticamente un veterano. Settantaquattro anni, natali a Seui, è in pensione dal febbraio 2021 e ha risposto sì alle chiamate dell’Asl di Cagliari e di Lanusei. «Non ho fatto domanda per restare al lavoro, mi è stata chiesta la disponibilità». Non ha mai smesso di lavorare un giorno, e oggi, nel suo ambulatorio di Sadali, continua a ricevere i pazienti del paese e del territorio.
Lui è uno dei medici over 70 che non hanno deposto il camice bianco. Sono una piccola pattuglia in tutto il sud Sardegna, l’area più popolosa che, sulla mappa desolante delle 470 sedi vacanti in tutta la regione, conta decine di ambulatori chiusi e decine di migliaia di persone (470mila in tutta l’Isola) senza medico di base.
LA MAPPA – Una desolazione che – per restare nel versante meridionale - va dal Sulcis Iglesiente (1.500 pazienti non coperti solo tra Giba e Piscinas) ai paesi del Medio Campidano, dai paesi intorno a Cagliari fino al Sarcidano e alla Barbagia di Seulo. Territori in parte distanti dagli ospedali e dai pronto soccorso, con una popolazione anziana e quindi con un carico di malattie croniche che richiederebbero migliore assistenza. Dopo che la Corte Costituzionale ha respinto il ricorso del governo contro la legge regionale (prorogata per tutto il 2026) che dà modo alle Asl di richiamare in servizio i medici di base in pensione (o chiedere di restare a quelli prossimi alla quiescenza) per fronteggiare i vuoti dell’assistenza, i dottori più anziani restano una risorsa fondamentale per scongiurare il collasso definitivo delle cure primarie. Ancor più perché – a fronte del numero enorme di pensionamenti, che entro il 2030 conterà in Sardegna l’uscita di almeno 600 camici bianchi – i giovani non scelgono più questa specializzazione, e i pochi che ci sono rifiutano le sedi disagiate.

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16.12.25

mancano 15 giorni a natale e anche i Grinch s'inteneriscono e cedono o quasi all'atmofera natalizia

 il  countdown natalizio ormai agli sgoccioli; inizierà a regalarci  sempre più  il luccichio delle luminarie e quell'atmosfera via via più calda e ovattata che anche i Grinch come il sottoscritto finiscono col respirare  facendosi inevitabilmente influenzare-  Ma  non passivamente  . Infatt come  ho  già  detto   in  « Malinconia  Natalizia » e  « ormai  a quasi    50 anni sto iniziado    ad   avere  un   rapporto complicato con  il natale lo vedo più come un obbligo sociale     e  commerciale più  che  una  festa  vera » reagisco     condivenendo     video come  questi    due  dei  I  sansoni  




o    canzoni  ed  album  alternativi    come  


 
 un modo di reagire a cagate natalizie simili 

oltre  che  alla martellante  pubblicità  e  musiche    per  le  vie  cittadine  proveniuenti   oltrte  che  dagli esercizi  commerciali  da  altoparlanti  comunali  

15.12.25

recensioni del filosofo imperinente : Riflesso perfetto di mattia surroz. Contro il silenzio imposto: l’amore come atto di verità




Riflesso perfetto di Mattia Surroz, pubblicato da Sergio Bonelli Editore — la casa editrice che ha dato vita a Dylan Dog, uno dei personaggi a fumetti che ho più amato — è una graphic novel che tocca corde scoperte e mi ha emozionato profondamente.
Da poco ho perso mio padre e chi ha vissuto la lacerante esperienza di accompagnare un proprio caro in una struttura per anziani sa bene cosa intendo. Alcune riflessioni presenti nel libro mi hanno riportato a quei giorni, a quei mesi sospesi, fatti di dolore silenzioso e senso di colpa.
Inoltre,come Enea,ho vissuto un’adolescenza privandomi della felicità sentimentale, punendomi. Nel mio libro Sulle tracce dell’altrove ho raccontato proprio di queste punizioni che mi sono autoimposto, di quel senso di colpa interiorizzato che per anni ha accompagnato me e molti altri.
Una società omofoba riesce a isolarti lentamente, nel tempo, fino a convincerti che la rinuncia sia una forma di protezione. Per chi è stato a lungo emarginato dalla Storia, il rischio è sempre quello di fare la fine di Enea.
Surroz racconta anche qualcosa che raramente trova spazio nella narrazione: l’amore maturo. Spesso si parla di corpi giovani, sinuosi, erotici, pensati per stimolare le fantasie del lettore, ma quasi mai dell’amore che attraversa gli anni, che riguarda le persone adulte. Eppure, come cantava Franco Battiato, «i desideri non invecchiano quasi mai con l’età».
Enea e Giacomo si scoprono in gioventù e, a causa dei pregiudizi sociali, si perdono. Tuttavia restano saldamente ancorati l’uno nell’anima dell’altro. Come Enea, anch’io ho pensato che «la fantasia degli infelici ha confini più vasti di quella degli altri». Da ragazzino ero un Charlie Brown malinconico, capace di immaginare il futuro ma incapace di scorgerne davvero i confini.
Fortunatamente, con il passare degli anni, ho conosciuto la persona che amo. È stato lui a spalancare le finestre che tenevo chiuse e ad abbattere i muri che avevo eretto per proteggermi dalle delusioni. Grazie a lui, e a differenza di Enea, ho imparato a volermi bene davvero perché, citando ancora il caro Battiato, non possiamo pregare il tempo: «Se penso a come ho speso male il mio tempo / che non tornerà, non ritornerà più».
Ho scoperto questo libro grazie al mio ragazzo e, una volta terminato, mi è rimasto addosso. Serve una grande sensibilità per creare e raccontare una storia così toccante.
È bellissima l’immagine secondo cui ognuno di noi è un’isola e i sentimenti che proviamo diventano ponti. Quando ci innamoriamo, andiamo a vivere lì, proprio nel mezzo, e costruiamo un rifugio. Toni poetici accompagnano un connubio riuscitissimo di immagini meravigliose e impattanti.
Ci vuole coraggio a raccontare e pubblicare libri così intensi, in una società che vorrebbe nascondere chi non ama secondo il vangelo eteronormativo. Surroz narra tutto senza aggiungere né dipingere il superfluo: parla una scrittura serrata ed empatica, che lascia spazio al significato più profondo della parola Amore.


©️ Cristian A. Porcino Ferrara IL FILOSOFO IMPERTINENTE

preoccupazioni e sgomenti culturali comunicato di Giuditta Sireus direttrice artistica presso Il Club di Jane Austen Sardegna- Circolo Letterario Femminile

 Esprimo una preoccupazione sempre più profonda verso quelle comunità che, in modo sistematico o silenzioso, non sostengono i progetti culturali e le iniziative culturali che nascono e crescono nei propri territori, salvo poi vederli riconosciuti, apprezzati e applauditi altrove, fuori dai confini della città o della cittadina di origine.Un paradosso ormai diffuso, una sorta di epidemia che investe — chi più chi meno — molte realtà. Progetti che trovano ascolto, attenzione e valore lontano da casa, ma che restano invisibili, ignorati o ostacolati proprio nei luoghi che dovrebbero esserne il primo nutrimento. In questo scenario esprimo un sentimento profondo di dispiacere, di disappunto e anche di rabbia.Il

Ph credit: Barrosa che legge, AriuCeramiche.
mancato sostegno assume forme diverse: economiche, certo, ma anche morali, istituzionali, di semplice disponibilità e presenza. 𝐄̀ 𝐮𝐧’𝐚𝐬𝐬𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐩𝐞𝐬𝐚, 𝐩𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́ 𝐧𝐨𝐧 𝐞̀ 𝐦𝐚𝐢 𝐧𝐞𝐮𝐭𝐫𝐚. 𝐄̀ 𝐮𝐧𝐚 𝐬𝐜𝐞𝐥𝐭𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐢𝐧𝐜𝐢𝐝𝐞 𝐬𝐮𝐥𝐥𝐚 𝐯𝐢𝐭𝐚𝐥𝐢𝐭𝐚̀ 𝐝𝐢 𝐮𝐧 𝐭𝐞𝐫𝐫𝐢𝐭𝐨𝐫𝐢𝐨 𝐞 𝐬𝐮𝐥𝐥𝐚 𝐩𝐨𝐬𝐬𝐢𝐛𝐢𝐥𝐢𝐭𝐚̀ 𝐬𝐭𝐞𝐬𝐬𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐥𝐚 𝐜𝐮𝐥𝐭𝐮𝐫𝐚 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐢𝐧𝐮𝐢 𝐚 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 𝐮𝐧 𝐦𝐨𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐝𝐢 𝐜𝐫𝐞𝐬𝐜𝐢𝐭𝐚. 𝐋𝐚 𝐜𝐮𝐥𝐭𝐮𝐫𝐚 𝐧𝐨𝐧 𝐞̀ 𝐮𝐧 𝐨𝐫𝐧𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨, 𝐧𝐞́ 𝐮𝐧 𝐞𝐬𝐞𝐫𝐜𝐢𝐳𝐢𝐨 𝐚𝐮𝐭𝐨𝐫𝐞𝐟𝐞𝐫𝐞𝐧𝐳𝐢𝐚𝐥𝐞. 𝐄̀ 𝐜𝐫𝐞𝐬𝐜𝐢𝐭𝐚 𝐜𝐨𝐥𝐥𝐞𝐭𝐭𝐢𝐯𝐚, 𝐜𝐨𝐧𝐝𝐢𝐯𝐢𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞, 𝐚𝐩𝐞𝐫𝐭𝐮𝐫𝐚. 𝐄̀ 𝐮𝐧𝐨 𝐬𝐩𝐚𝐳𝐢𝐨 𝐜𝐨𝐦𝐮𝐧𝐞 𝐜𝐡𝐞 𝐯𝐢𝐯𝐞 𝐬𝐨𝐥𝐨 𝐬𝐞 𝐯𝐢𝐞𝐧𝐞 𝐚𝐭𝐭𝐫𝐚𝐯𝐞𝐫𝐬𝐚𝐭𝐨, 𝐬𝐨𝐬𝐭𝐞𝐧𝐮𝐭𝐨, 𝐝𝐢𝐟𝐞𝐬𝐨. Ogni progetto culturale dovrebbe essere coltivato con amore e attenzione, al di là delle amicizie personali, dei pregiudizi, delle simpatie o delle prese di posizione individuali. Sostenere la cultura significa riconoscerne il valore anche quando non ci somiglia, anche quando disturba, anche quando mette in discussione. 𝑵𝒐𝒏 𝒔𝒐𝒔𝒕𝒆𝒏𝒆𝒓𝒆 𝒄𝒊𝒐̀ 𝒄𝒉𝒆 𝒏𝒂𝒔𝒄𝒆 𝒔𝒖𝒍 𝒑𝒓𝒐𝒑𝒓𝒊𝒐 𝒕𝒆𝒓𝒓𝒊𝒕𝒐𝒓𝒊𝒐 𝒔𝒊𝒈𝒏𝒊𝒇𝒊𝒄𝒂 𝒓𝒊𝒏𝒖𝒏𝒄𝒊𝒂𝒓𝒆 𝒂 𝒖𝒏𝒂 𝒑𝒂𝒓𝒕𝒆 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒑𝒓𝒐𝒑𝒓𝒊𝒂 𝒊𝒅𝒆𝒏𝒕𝒊𝒕𝒂̀ 𝒄𝒐𝒍𝒍𝒆𝒕𝒕𝒊𝒗𝒂.

𝐋𝐚 𝐛𝐚𝐫𝐫𝐨𝐬𝐢𝐚: 𝐫𝐞𝐬𝐭𝐚𝐫𝐞
In questa situazione, rivendico ciò che chiamo barrosia: la scelta di non andare via dai luoghi in cui non si è apprezzati o considerati, ma di restare.
𝐑𝐞𝐬𝐭𝐚𝐫𝐞 non per rassegnazione, ma come dichiarazione di esistenza.
𝐑𝐞𝐬𝐭𝐚𝐫𝐞 come atto di volontà e di responsabilità. Restare per continuare a seminare, anche quando il terreno appare ostile o indifferente. Seminare per gli altri, per chi lo desidera, per chi apprezza, per chi riconosce il valore di ciò che viene proposto.
𝐑𝐞𝐬𝐭𝐚𝐫𝐞, e non andare, per alimentare con la propria presenza un disturbo: non nel senso negativo del termine, ma come accensione del dibattito critico, come stimolo al confronto, come possibilità di ricchezza e bellezza. Un disturbo necessario, che rompe l’abitudine, che impedisce l’appiattimento, che tiene viva la comunità.
𝐑𝐞𝐬𝐭𝐚𝐫𝐞 significa credere che la cultura debba essere viva, non comoda. Che debba interrogare, creare frizioni, aprire possibilità.
𝐀𝐠𝐥𝐢 𝐚𝐦𝐦𝐢𝐧𝐢𝐬𝐭𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐩𝐮𝐛𝐛𝐥𝐢𝐜𝐢
Questo discorso è rivolto in modo particolare agli amministratori pubblici. Perché sostenere la cultura non è un gesto opzionale, né una concessione. È una responsabilità politica. Ogni scelta di non partecipare, di non sostenere, di voltarsi dall’altra parte — per calcolo, per presa di posizione o per disinteresse — lascia un progetto solo e indebolisce l’intero tessuto culturale di un territorio.
𝑪𝒐𝒏𝒄𝒍𝒖𝒅𝒐 𝒓𝒊𝒏𝒈𝒓𝒂𝒛𝒊𝒂𝒏𝒅𝒐 𝒄𝒉𝒊 𝒄’𝒆̀ 𝒔𝒕𝒂𝒕𝒐 𝒆 𝒄𝒉𝒊 𝒄𝒐𝒏𝒕𝒊𝒏𝒖𝒂 𝒂 𝒆𝒔𝒔𝒆𝒓𝒄𝒊. 𝑴𝒂 𝒂𝒏𝒄𝒉𝒆 𝒄𝒉𝒊 𝒏𝒐𝒏 𝒄’𝒆̀ 𝒔𝒕𝒂𝒕𝒐, 𝒑𝒆𝒓𝒄𝒉𝒆́ 𝒐𝒈𝒏𝒊 𝒂𝒔𝒔𝒆𝒏𝒛𝒂 𝒆̀ 𝒖𝒏 𝒔𝒆𝒈𝒏𝒂𝒍𝒆. 𝑶𝒈𝒏𝒊 𝒎𝒂𝒏𝒄𝒂𝒕𝒂 𝒑𝒂𝒓𝒕𝒆𝒄𝒊𝒑𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒆̀ 𝒖𝒏𝒂 𝒔𝒄𝒆𝒍𝒕𝒂 𝒄𝒉𝒆 𝒑𝒓𝒐𝒅𝒖𝒄𝒆 𝒄𝒐𝒏𝒔𝒆𝒈𝒖𝒆𝒏𝒛𝒆. 𝑬 𝒒𝒖𝒂𝒏𝒅𝒐 𝒖𝒏 𝒑𝒓𝒐𝒈𝒆𝒕𝒕𝒐 𝒄𝒖𝒍𝒕𝒖𝒓𝒂𝒍𝒆 𝒗𝒊𝒆𝒏𝒆 𝒍𝒂𝒔𝒄𝒊𝒂𝒕𝒐 𝒔𝒐𝒍𝒐, 𝒏𝒐𝒏 𝒑𝒆𝒓𝒅𝒆 𝒔𝒐𝒍𝒐 𝒄𝒉𝒊 𝒍𝒐 𝒑𝒐𝒓𝒕𝒂 𝒂𝒗𝒂𝒏𝒕𝒊: 𝒑𝒆𝒓𝒅𝒆 𝒕𝒖𝒕𝒕𝒂 𝒍𝒂 𝒄𝒐𝒎𝒖𝒏𝒊𝒕𝒂̀.
Giuditta Sireus

14.12.25

“Le rose di Versailles e le spine dell’oggi” – intreccio tra nostalgia culturale e critica sociale. nostante il deludente Le Rose di Versailles - Lady Oscar - Film (2025)

siti consultati
Le Rose di Versailles - Lady Oscar - Film (2025) - MYmovies.it
Lady Oscar torna a spada tratta con l’adattamento La rosa di Versailles: ma dove possiamo (ri)vedere le altre versioni?
Lady Oscar Recensione: nostalgia e delusione tra le Rose di Versailles
Lady Oscar, il nuovo anime Le rose di Versailles su Netflix è sdolcinato e lagnoso | Wired Italia


Le rose di Versailles sbocciano ancora, ma i loro petali portano con sé il peso del tempo. 
un immagine del film 
Non sono soltanto i colori di un manga  e di un anime che ha segnato la nostra adolescenza, ma il riflesso di un desiderio di emancipazione che oggi si scontra con nuove barriere. Oscar, la ribelle 
che sfidava i palazzi del potere, diventa specchio delle piazze .  
Le spine dell’oggi pungono la memoria: ci ricordano che la rivoluzione promessa non è mai 
compiuta, e che la nostalgia culturale deve trasformarsi in critica sociale.
infatti  Le rose di Versailles profumano di nostalgia, ma le spine dell’oggi graffiano i diritti negati. Le rose di Versailles profumano di nostalgia, ma le spine dell’oggi graffiano i diritti negati. Oscar ci ricorda che la rivoluzione non è finita.   Infatti  è con questo che  ho deciso ,  nonostante  scoraggiato  dalla recensioni  in  maggioranza negative  in particolre     questa 



     che     ieri   ho   deciso  di vedere    su  netflix "Le rose di Versailles - Lady Oscar"  film d'animazione del 2025 diretto da Ai Yoshimura, tratto dal manga Lady Oscar di Riyoko Ikeda. 



Il film ha suscitato opinioni miste, con alcuni critici lodando la visuosa reinterpretazione del manga originale, mentre altri hanno espresso preoccupazioni riguardo alla narrazione frammentata e alla mancanza di approfondimento psicologico dei personaggi.  Infatti  ecco cosa dice  un mio amico   apassionato di lady oscar : « Lady oscar di Netflix non ho avuto nemmeno la curiosità di guardare la promo, per me lady oscar è una! Unica, inimitabile   non replicabile, ho visto i disegni, non mi piacciono, ho ascoltato il doppiaggio non mi piace » .
"Le rose di Versailles - Lady Oscar" è un omaggio visivamente sono al capolavoro di Riyoko Ikeda e o alla storia che ha segnato generazioni.Esso ha notevoli differenze .
La differenza principale tra il Lady Oscar classico e il Lady Oscar moderno risiede nella technique di animazione e uno stile di disegno più fresco e contemporaneo. Il nuovo adattamento, diretto da Studio Mappa, mira a unire un'ambientazione tipica degli shojo manga e una maggiore tridimensionalità dei personaggi protagonisti. Questo cambiamento è inteso come un upgrade più conscio delle tematiche di genere, rispettando il periodo storico in cui il nuovo adattamento è ambientato.
Inoltre, la figura di Oscar è stata trasformata da spalla nei confronti di Maria Antonietta a protagonista indiscussa, con una narrazione più sentimentale che si sofferma sulle sfumature emotive dei suoi personaggi principali. Questo cambiamento mira a rendere la storia più complessa e profonda, affrontando temi di emancipazione e coraggio in un contesto di politica e intrighi di corte.
Il nuovo film tentama con scarso successo di far rivivere la magia di un classico intramontabile a una nuova generazione di fan, mantenendo il legno centrale della storia e della figura di Oscar, ma con un'immagine più moderna e contemporanea snaturandolo . Infatti “Una rosa è una rosa, che sia bianca o rossa. Una rosa non sarà mai un lillà”, si sentiva dire l'eroina del seminale cartone animato Lady Oscar. In Le rose di Versailles, film animato dal 30 aprile su Netflix e remake cinematografico del manga di Riyoko Ikeda, concludendo un mezzo polpettone   seza  infamia  e  senza  lode .  con mancanze  storiche  fondamentali  tipolo  scandalo della  collana ,  il perchè   il re  deve convocare gli stati generali  e  soprattutto l'errore storico   gravissimo    sulla  durata  del  terrore    e la  descrizione   della   rivoluzione    con esso  . Un   omaggio tentativo fallito . Consigliato  a  chi  ama   i film  d'amore  melensi  e  a  chi non ha   visto  l'anime  originale   o letto il manga  .  Sconsigliato  ai fruitori  della    serie originale .  

sfatiamo il mito propagandistico dell'integrazione leghista

per  approfondimenti

D'acordo  che  chi viene  a vivere   in italia    sia   clandestinamente  ( perchè quando fuggi da  guerre   o dittature   e  trovi l'ocassione  per  fuggire  non stai    guardare  come ma  lo fai ) o legalmente \ corridoi umanitari  debba  rispettare  le leggi  o  conoscere la  lingua    del paese  ospitante  soprattutto  se  vuole la cittadinanza    senza  aspettare   20   anni il test  ci può  anche stare  .
Ma quando una  coppia straniera    o uno\a  di loro  sposa  un italiano o  viceversa   e mette  su famiglia scegliendo  di rimanere  qui   in maniera  stabile  cioè  per  più due anni  facendo studiare  i  figli    e rispettando le  leggi    allora  la  proposta   della  Lega   è  becera  propaganda  malpancista  . Infatti secondo  Loro  “Lo straniero nato in Italia per diventare italiano a 18 anni deve superare un esame di integrazione”.
Ora come l'amica  Pacmogda Clémentine  Mi sorge una domanda: se uno è nato  e cresciuto  in Italia perché è chiamato straniero ? A me “lo straniero nato in Italia” mi sembra una grande cavolata già così . Se poi deve superare un esame di integrazione la cosa mi sembra ancora una cosa da gente senza cervello funzionante. Cosa significa integrarsi in un posto dove sei nato e cresciuto fino a 18 \20 anni ? Integrato rispetto a cosa e a chi? Se uno nasce in un posto e cresce , studia  e lavora  lì significa che va o è andato a scuola lì, mangia in quel paese, parla per forza la lingua come madrelingua,  conoconosce il dialetto  ,  le strade e sa dove andare per cosa, si cura in questo paese, ecc. di cosa si deve integrare? Come si dimostra uno integrato nel posto dove è nato e cresciuto ? Questo è davvero uno  strano  paese perché  solo in questo paese si possono trovare delle persone pagate profumatamente per dire scemenze 
Purtroppo il cosiddetto "ius soli" non fa parte del nostro ordinamento giuridico, a me personalmente dispiace, se una persona nasce quì e fa gli studi  , lavora  , pala  lingua   è italiana . La legge dice un poco differente, quello che nella gran parte delle Americhe è la normalità, cioè hai la cittadinanza dello stato dove nasci da noi no....e in questo purtroppo siamo in buona compagnia in Europa. Con qualche distinguo ma la situazione è simile ...   . 
 Infatti   come dice  l'amica  Pacmogda Clémentine  « lo so ma non sono stranieri da integrare comunque anche se la legge rifiuta di riconoscerli come cittadini. Non si può integrare una persona nata e cresciuta in un paese. Nella pratica sa già tutto del suo paese anche se la legge non lo accetta come figlio del paese. Chiamarli stranieri  [ e ,  corsivo  mio , dire  che  non sono italiani  ] è da pazzi »
Proprio  mentre  finivo  di scrivere il post  odierno  ecco partire  dallo stereo  le note di Come Una Pietra Scalciata  cover    di  like a rolling stone - bob dylan  degli.  Articolo 31

12.12.25

cosa è la speranza ?

in sottofondo
Dio è morto - Francesco Guccini - con testo in scorrimento

 
partendo dall 'horror club di Dyla Dog n 471 Una finestra Sull'abisso  ( SOGGETTO\SCENEGGIATURA Giovanni Eccher DISEGNI Luigi Siniscalchi )  mi  chiedo  spinto    da  tale    aricolo  in  un opuscolo \  rivista  mi pare  Svegliatevi   dei testimoni  di Geova  lasciato in bottega     cosa  voglia  dire la  parola   speranza    cercando  ovviamente       d'anda re  olttre  il classico significato   e se   La speranza è sempre e solo una pia illusione, un modo per rifugiarsi in qualcosa di irreale? Oppure ci sono valide ragioni per considerare la speranza qualcosa di più, uno stato d’animo di cui tutti abbiamo bisogno per godere di buona salute e felicità, che ha una solida base e che porta benefìci concreti?
Infatti ho  provato   ad    analizzare il termine  sia in senso   religoso    sia   in senso laico  . 
In senso  religioso  in particolare nel Cristianesimo, il concetto di speranza acquisisce una dimensione completamente diversa e più profonda, fondata sulla fede e sulle promesse divine.
🕊️ La Speranza come Virtù Teologale
Nella teologia cattolica e in gran parte del Cristianesimo, la speranza è considerata una delle tre Virtù Teologali (insieme a Fede e Carità/Amore).
La speranza è la virtù teologale mediante la quale desideriamo il Regno dei Cieli e la Vita Eterna come nostra felicità, confidando nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull'aiuto della grazia dello Spirito Santo. (Parafrasi del Catechismo della Chiesa Cattolica)
Elementi Chiave del Concetto Religioso Oggetto (Il Fine Ultimo): Non è un bene terreno, un successo personale o un miglioramento sociale (anche se questi non sono esclusi), ma è primariamente la Salvezza e la Vita Eterna (il Paradiso o il Regno di Dio). È l'attesa certa del compimento delle promesse divine.


Fondamento (La Certezza): A differenza della speranza laica che implica una possibilità ("spero che succeda"), la speranza religiosa (cristiana) implica una certezza o una fiducia incrollabile. Non è basata sulla nostra capacità, ma sulla fedeltà di Dio e sul fatto storico della Resurrezione di Cristo, che è la garanzia che le promesse si realizzeranno.
Un noto paragone è che non si spera che il sole sorga domani (è probabile), ma lo si attende con certezza. La speranza cristiana è attesa di qualcosa che è già stato compiuto in Cristo.
Fonte (Dono Divino): È considerata un dono di Dio (una grazia infusa) che eleva le capacità umane. Non è solo un'inclinazione naturale.
Dinamismo (La Perseveranza): Anche qui, non è passività. La speranza spinge il credente alla pazienza e alla perseveranza ($hypomonē$ in greco), cioè a "tener duro" e a operare il bene (la carità) in questo mondo in attesa del compimento finale.
In sintesi, mentre la speranza laica è la fiducia nelle forze umane e nelle possibilità di questo mondo, la speranza religiosa è la fiducia assoluta nelle promesse di Dio, orientata primariamente al destino eterno dell'anima.

Ma  basandosi  sul principio di tesi e  antitesi     ho  voluto analizzarla     anche  dal  punto  di vista    Laico  




La speranza, spogliata della sua dimensione religiosa o trascendente, smette di essere un'attesa passiva di un intervento divino e si trasforma in qualcosa di molto più terreno, attivo e umano. Infatti In senso laico, la speranza non è la garanzia che "tutto andrà bene", ma la convinzione che le nostre azioni abbiano un senso. È una forza pragmatica.
Ecco un'analisi di cosa significa sperare in un contesto puramente laico:
1. La Speranza come "Azione" (Agire Propositivo)
Mentre la speranza religiosa può talvolta scivolare nel fatalismo ("Dio provvederà"), la speranza laica è intrinsecamente legata all'agire.
È la capacità di immaginare un futuro diverso dal presente e lavorare attivamente per costruirlo.
È il motore della scienza, della politica progressista e dell'attivismo. Chi lotta contro il cambiamento climatico o cerca una cura per una malattia lo fa mosso da una speranza laica: la fiducia nelle capacità umane di risolvere problemi.
2. La Distinzione tra Ottimismo e Speranza
Questa è una distinzione cruciale, spesso evidenziata dal filosofo e statista Václav Havel.
L'ottimismo è la convinzione che le cose andranno bene (spesso basata su un calcolo delle probabilità o un'illusione).
La speranza, invece, è uno stato della mente e dello spirito. Secondo Havel:
"La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che qualcosa abbia un senso, indipendentemente da come andrà a finire." In senso laico, si spera non perché il successo è garantito, ma perché l'impegno verso quell'obiettivo è la cosa giusta da fare.
3. Il "Principio Speranza" (Ernst Bloch)
Il filosofo tedesco Ernst Bloch ha definito la speranza come un "sogno in avanti" (docta spes).
Per Bloch, l'essere umano è caratterizzato dal "Non-Ancora". Non siamo mai completi; siamo sempre in divenire.
La speranza laica è l'apertura verso il possibile, la ribellione contro lo status quo. È rifiutare di accettare che il mondo così com'è sia l'unico mondo possibile.
4. Una Risposta alla "Casualità"
Senza una Provvidenza divina che ordina il cosmo, il mondo laico può sembrare dominato dal caso o dal caos.
In questo contesto, la speranza è lo strumento psicologico che ci permette di tollerare l'incertezza.
È una forma di resilienza cognitiva: di fronte all'imprevedibilità della vita, la speranza laica è la scelta di investire nel futuro nonostante l'assenza di garanzie assolute.
5. La Dimensione Collettiva
La speranza laica è raramente un atto solitario; è spesso un progetto sociale.Si fonda sulla solidarietà tra esseri umani.
Si basa sulla fiducia che, unendo le forze, l'umanità possa correggere le ingiustizie. La democrazia stessa è un esercizio di speranza laica istituzionalizzata: la scommessa che possiamo governarci meglio insieme che da soli.
In sintesi
La speranza laica è l'accettazione del rischio della vita. È guardare in faccia la realtà, con tutte le sue difficoltà e la sua mancanza di un "copione" prestabilito, e decidere comunque di piantare un albero, scrivere un libro, o crescere un figlio.
Non è un anestetico contro il dolore del presente, ma uno stimolo a trasformarlo.

  Io   penso , almeno  per   il momento  che  entrambe   le vie   siano  utili e     quindi   cercare  una  strada  che  le  runisca  insieme perchè   sia    che   la  s'intende   in senso  religioso \  spirituale  tutti  ne  abbiamo  bisogno
L'importante  è     che    stiamo   lontani  il  più possibile   da chi vive sperando, muore cagando .Si tratta di un proverbio popolare, spesso considerato volgare o scurrile, che serve a esprimere un concetto cinico e disincantato sulla natura della speranza.Questo detto è una critica ironica e brutale all'eccessiva passività o all'attesa vana di un evento positivo.
  • "Chi vive sperando..." Si riferisce a una persona che trascorre la vita aspettando costantemente che le cose migliorino da sole, senza agire, senza sforzarsi o senza prendere l'iniziativa. Si affida solo a un futuro ipotetico e fortunato.

  • "...muore cagando." La seconda parte usa un'immagine volutamente cruda e trivializzata della morte. Lo scopo è quello di sottolineare che la fine della vita (la morte) arriva in un momento qualunque, banale, sgradevole e involontario, proprio come una funzione corporea non gloriosa e quotidiana.

Il significato è quindi: Se passi tutta la tua vita ad aspettare un miracolo, una ricchezza inaspettata o una felicità promessa (sperando), finirai per morire in un modo del tutto ordinario, deludente e per nulla eroico o eccezionale (cagando), senza che la speranza ti abbia portato alcun beneficio concreto.È un monito a: Agire: Non affidarsi solo alla fortuna o alla speranza passiva. Vivere il Presente: Non rimandare la felicità o la realizzazione in attesa di un futuro incerto. In sostanza, è l'estrema versione popolare del motto: "Aiutati che Dio ti aiuta" (o "Fatti gli affari tuoi, perché altrimenti il destino non ti riserva nulla di speciale").

Divine messengers: Italian nuns’ social media posts go viral - Messaggeri divini: i post sulle suore italiane sui social media diventano virali

fonte the https://www.theguardian.com/world/2025/dec/25/divine-messengers-italian-nuns-social-media-posts-go-viral Divine messengers: ...