E' vero che Il Festival della canzone italiana, più comunemente Festival di Sanremo o anche semplicemente Sanremo, è un un simbolo insieme alla nazionale di calcio del nostro Paese . Infatti Tale rassegna che si tiene ogni anno in Italia, a Sanremo, a partire dal 1951 ha contribuito a livello italiano ma anche europeo ed internazionale a far conoscere in meglio o in peggio dipende dai punti di vista con le sue canzoni la canzone italiana .Ad esso Vi hanno preso parte come concorrenti, ospiti o compositori, molti dei nomi più noti della musica italiana. È considerato uno dei più importanti e longevi festival musicali al mondo. Inoltare Rappresenta uno dei principali eventi
mediatici italiani, con un certo riscontro anche all'estero, in quanto viene trasmesso in diretta sia televisiva, in Eurovisione, sia radiofonica. La statuetta del Leone di Sanremo (simbolo dello stemma comunale) è il riconoscimento più prestigioso per i musicisti e gli interpreti italiani di musica leggera. Ma negli ultimi anni è scaduto . Infatti fin da piccolo per tradizione familiare lo si guardava fisso poi via calando solo in zapping oppure nei locali o a scuola si commentava l'esibizione o la vincita ed la rispettiva classifica .Poi le polemiche che esso crea con i vari siparietti e le varie polemiche cosi come si leggevano i testi della canzoni . Quest'anno non credo che lo vedrò neppure in streaming perché oltre essere scaduto sempre di più tanto da essere lo specchio dell’Italia attuale
dal web
- mafia, perché i cantanti e gli ‘autori’ in gara sono imposti da un paio di case discografiche che tutto decidono
- vecchiomerdismo oltre il patetico, l‘analogo dello sdoganamento dei medici ultra70enni che ficcano le viti nelle arterie femorali invece che in acetabolo
- strumentalizzazione a solo scopo commerciale di tematiche sociali di estrema importanza (razzismo, patologia psichiatrica, parità di genere etc)
- asservimento della stampa italiana con uno stuolo di pseudo critici musicali con la lingua d’amianto e la dignità nel cesso, e rare voci critiche
- pubblico di ipodotati con un vocabolario di 15 parole, più o meno quelle usate in vario ordine nei testi scritti dagli stessi 8 autori/canzone (attualmente una canzone di merda necessità di 8 autori)
Una cosa che già so mi annoierà tantissimo di Sanremo: i monologhi delle donne sulla sorte delle donne. Amadeus in un'intervista dice: "Abbiamo scelto quattro donne che porteranno la loro storia e le loro battaglie". Ma perché i maschi non sono mai tenuti a portare storie e battaglie? Perché loro sono invitati in qualità di comici, di gente che alleggerisce il clima pesante, di persone innocue che fanno ridere, sorridere, non farebbero male a una zanzara. Poi arrivano le donne e raccontano un'altra storia, che poi è quella vera: siamo ancora qui a vestirci come bambole e a raccontare quanto siamo miserabili solo perché abbiamo una vagina. Questo crea confusione e scollamento perché allora ti chiedi dove sono questi maschi cattivi di cui queste parlano, sul palco non se ne vedono, sono tutti buoni, guarda, così buoni che concedono alle donne pure dieci minuti per parlare da sole.
Mi sono rotta di questa roba, perché è tutta una concessione, e anche se è certo importante parlare di violenza sulle donne in un contesto così pop, non si possono non notare le contraddizioni che neutralizzano quei pur giustissimi discorsi. Poi, Amadeus, con tutto il bene del mondo: quali sono state esattamente le battaglie delle vallette (chiamatele co-conduttrici e mi incazzo fortissimo) di quest'anno? Chiedi delle sue battaglie a una donna che si è separata dal marito violento e che per questo si è vista strappare un figlio in nome di una cosa che non esiste come l'alienazione parentale e poi ne riparliamo.
Ma soprattutto perchè quest'anno s' offre come cassa di risonanza di una propaganda di guerra . Sarà la seconda volta che lo boicotto dopo la 54ª del 2004 del duo Simona Ventura - Tony Reno \ Renis sempre per questioni etico morali , in quel caso anche di legalità qui maggiori news su tale evento . Spero di riuscirci o quanto meno di resistere il più possibile fino alla fine come ho fatto con i mondiali del Qatar del 2022 vedere archivio blog .
Speriamo di riuscirci con questo è tutto .per oggi
Sostituzione nazionale ma non genocidio: ecco che cosa sono state davvero le foibe
Gianni Cuperlo
Maggiorenne: in questo 2022 la legge che ha istituito il Giorno del
ricordo compie diciott’anni. È stata votata a fine marzo del 2004 per
«conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di
tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli
istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa
vicenda del confine orientale». Dunque 10 febbraio, la scelta cadde su
quella data nel rimando all’anno, era il 1947, che vide la firma sui
trattati di pace di Parigi. Doveva essere la fine, almeno nella
forma, dei postumi della guerra sul confine dove il “dopoguerra” si
predisponeva a farsi narrazione infinita. Quella data aveva sancito il
passaggio alla Jugoslavia delle terre istriane, del Quarnero (o
Quarnaro), di Zara e dunque di un’area contesa e sino a prima del
secondo conflitto in larga misura italiana. Circa trecentomila
persone, la quasi totalità della presenza italiana, e tra quelli
cinquantamila sloveni e croati, furono spinti ad abbandonare case,
campi, i luoghi della propria vita e di tradizioni familiari radicate.
Lo fecero valendosi del diritto di opzione che il Trattato prevedeva con
la possibilità di trasferirsi in Italia, molti lo fecero soprattutto a
fronte delle pressioni e intimidazioni subite. L’accoglienza
della madre patria fu tutt’altro che calorosa. Pesarono interessi geopolitici, la Jugoslavia col suo profilo di “non allineatan decennio
perché lo Stato intervenisse favorendo la piena integrazione dei
profughi giuliano-dalmati nell’Italia del boom. Il che non bastò a
sanare la “ferita della memoria” al punto che sulla pagina sanguinosa di
quel confine a lungo calò il silenzio.” era una zona cuscinetto tra questa parte d’Europa e il blocco
sovietico, né mancavano scambi commerciali, il tutto nella logica di
una buona stabilità da perpetuare anche in vista del “dopo Tito”. Lasciare che la polvere coprisse le pagine più dolorose e cruente
rispondeva a parecchi interessi. Quel mutismo complice accomunava il
partito che governava da Roma, ma pure l’opposizione comunista che sulle
scelte compiute nell’alto Adriatico non poteva dirsi mera spettatrice.
Il tutto, appunto, sino al 2004 e all’istituzione del Giorno del
ricordo: da allora non vi è stata una sola delle ricorrenze libera da
toni accesi sulle radici di una celebrazione che avrebbe dovuto scavare e
ricostruire il lungo conflitto tra opposte aspirazioni nazionali (di
italiani, sloveni, croati delle più diverse appartenenze e ideologie), e
che ha finito, invece, col sovrapporre la memoria dello scontro tra
fascismo e antifascismo. Ma si può riflettere su una celebrazione
entrata nel calendario civile del paese con un di più di rigore e
lucidità?
Odiarsi nell’intimità
Farlo
si deve, o almeno conviene, e per riuscirci Raoul Pupo, storico
triestino, diventa una bussola preziosa. Sfogliando la sua ultima
ricognizione del tema (Adriatico amarissimo. Una lunga storia di
violenza, Laterza 2021) ha senso partire dalla citazione in apertura di
Predrag Matvejevič: “L’Atlantico e il Pacifico sono i mari delle
distanze, il Mediterraneo è il mare della vicinanza, l’Adriatico è il
mare dell’intimità”. Ci si può odiare nell’intimità? Possono generarsi
sino a deflagrare conflitti di brutalità indescrivibile entro un
perimetro che nei secoli ha visto combinarsi lingue, dialetti,
religioni, costumi, identità? Ahinoi, sì. E’ complicato s
analizzare le violenze novecentesche in quel triangolo d’Europa se ci si
rinchiude in una storia “nazionale”, che sia quella italiana o slovena o
croata. Solamente considerando “punti di vista diversi” si possono
svelare le dinamiche di un territorio plurale che nell’arco lunghissimo
del “secolo breve” ha convissuto con varie appartenenze, Stati e governi
diversi. L’altro corno del problema è rappresentato dalle
parole o formule utilizzate. Anche su questo Raoul Pupo fissa un
glossario utile. A cavallo del confine orientale, prima, durante e dopo
la guerra non vi sono state pagine di deportazione, espulsione o,
peggio, “pulizia etnica”, termine per altro generato dagli eventi di un
tempo storico successivo. La definizione che appare più corretta
è un’altra, lì si sono prodotti «fenomeni di sostituzione nazionale»,
il che non paia una reductio della portata di quei fatti, fosse solo
perché è stata una delle strategie applicate in angoli diversi del
continente su come “accomodare” persone con appartenenze nazionali
diverse in un unico Stato. .Dapprima il fascismo determinò l’allontanamento di migliaia di
cittadini sloveni e croati dalle regioni italiane, successivamente
furono gli accordi di pace a indurre l’Esodo dall’Istria di molte
migliaia di cittadini italiani costretti a lasciare case e beni tra gli
anni ’40 e ’50. Detto ciò, perché all’incrocio delle due guerre
mondiali, e prima e dopo quelle tragedie, la Venezia Giulia ha vissuto
un di più di violenza? La risposta è in un’altra formula: “nella
lotta politica può sempre esserci spazio per i compromessi, in quella
nazionale no”. Il nazionalismo finisce con l’essere il migliore concime
per disseminare odi e contese destinati prima o poi a deflagrare. E così
è avvenuto.
I pogrom
A ridosso della Grande Guerra e
prima del fascismo Trieste faceva convivere una media borghesia dalle
tendenze irredentiste, un proletariato “internazionalista” e un terzo
ceppo di popolazione fedele all’Austria Felix (Viva l’A e po’ bon,
rimarrà moto popolare dove la A stava proprio per l’Impero decadente). All’indomani della guerra sarebbe stato il trattato di Rapallo,
novembre 1920, a disegnare i confini tra Italia e Jugoslavia, anche se
quattro anni più tardi avrebbe provveduto quello di Roma ad annettere lo
Stato Libero di Fiume, previsto sulla carta e impedito nel nascere
dall’avvento di Benito Mussolini. Sono anni tormentati, il
regime fascista con la sua rete di servizi individua nel Partito
socialista l’avversario da stroncare per il sospetto di essere il
collante tra slavi e nostalgici del patronato viennese. Su
entrambi i fronti si crea l’humus perfetto per il primato delle
componenti massimaliste e violente, lo squadrismo nazionalista ha
apparecchiato il tavolo e non mancherà di sedervisi con un anno
d’anticipo rispetto alle ronde fasciste.In quel contesto
s’inserisce la parabola fiumana di Gabriele D’Annunzio, ma su quella si
sono riempiti gli scaffali, qui basterà ricordare il pogrom anti-croato
di cittadini e legionari sedato dal Vate con l’argomento di “eccessi
spiegabili in un primo impeto di passione”, ma non giustificabili nella
loro sistematicità. Sarà il 13 luglio 1920, però, la data
discrimine, quando si consuma l’assalto delle squadre fasciste e
l’incendio dell’Hotel Balkan (il Narodni Dom, sede di organizzazioni e
istituzioni slave a Trieste, vuol dire slovene, croate, serbe…). È l’avvio di un altro pogrom, stavolta anti-sloveno, che Boris Pahor
descriverà in chiave letteraria nella novella Il rogo nel porto, le
camicie nere vivono le spedizioni punitive contro banche, giornali,
associazioni come “spettacolo di redenzione”, gli sloveni si trovano
catapultati nell’incubo che si prolungherà per il quarto di secolo a
seguire. Per loro quella data scolpirà il “trauma originario” della
comunità nel suo legame con lo Stato italiano. Che la storia di
territori plurali sia complicata può confermarlo il fatto che solo un
anno e mezzo prima dell’incendio del Balkan, nel gennaio del 1919 erano
state formazioni slovene guidate da Rudolf Maister a sparare sui
manifestanti tedeschi che nella piazza di Maribor rivendicavano
l’annessione alla nuova Austria. Tornando alla Trieste del 1920,
gli episodi di violenza proseguirono sotto lo sguardo indulgente delle
forze dell’ordine: lo squadrismo era un aiuto contro il pericolo
dell’eversione bolscevica.
La benevolenza dell’ordine costituito
fece della Venezia Giulia una tra le regioni dove il fascismo agì con
esiti più pesanti, solo in quella prima stagione 134 edifici incendiati,
di questi un centinaio erano circoli di cultura, alcune case del
popolo, oltre una ventina le Camere del lavoro e diverse cooperative.
La violenza sui corpi e le anime
In questa ricostruzione tra le date a merito di citazione un posto
spetta all’aprile del 1927 quando il regime estende all’alto Adriatico
le disposizioni già previste per il Tirolo meridionale, si tratta della
“restituzione in forma italiana” dei cognomi deformati in passato dalle
autorità austriache. È l’avvio di una “massiccia
italianizzazione” condotta dagli uffici senza “consultare gli
interessati”. Poteva così capitare ai fratelli Vodopivec, uno residente
nel capoluogo, l’altro a Monfalcone di trovarsi battezzati
rispettivamente Bevilacqua (traduzione letterale del cognome sloveno) e
Vodini. Il tentativo di sradicare l’identità di un popolo o
parte di esso avanzò lungo il doppio binario di una progressiva
assimilazione delle anime mai del tutto scollegata da una dose di
violenza sui corpi. Il fascismo fu questo. Tra le vittime
privilegiate di quella stagione repressiva moltissimi cattolici,
compresi preti, parroci, vescovi, con l’esplosione dell’antisemitismo in
una città, Trieste, ricca di una comunità ebraica radicata e tra le più
importanti. La durezza del regime a organico pieno (pubblica sicurezza,
carabinieri, Milizia) costituì nei fatti uno stato di polizia dove
violenze, incarcerazioni, schede segnaletiche sorressero un apparato
repressivo feroce quanto efficace. Il fronte sloveno non risultò
compatto, nell’isontino avrebbe conosciuto persino una formazione
fascista (Vladna stranka, Partito governativo) dedita a relazioni con
l’Ovra (la polizia segreta del fascismo). Non vi è dubbio però
che gran parte degli sloveni si oppose al fascismo e la conferma viene
dai movimenti di resistenza armata, tra questi spicca l’acronimo
goriziano del Tigr (Trieste, Istria, Gorizia, Rijeka). Assieme a Borba
(la versione triestina) stabilirono collegamenti con i servizi jugoslavi
per lo scambio di armi e materiale di propaganda. In
particolare, un ordigno venne fatto esplodere il 10 febbraio del 1930
presso Il Popolo di Trieste, quotidiano fascista, uccidendo un
redattore. All’attentato seguirono centinaia di arresti e ottantasette
tra questi furono deferiti al Tribunale speciale che dopo un processo
farsa comminò quattro condanne a morte. Uno dei quattro, Ferdo
Bidovec, era di madre italiana, come per altro slovena era la madre di
Guglielmo Oberdan a conferma che “per i patrioti di frontiera il sangue
non conta un bel nulla”. I quattro vennero fucilati all’alba del
6 settembre 1930 presso il poligono di Basovizza in un luogo destinato a
divenire dall’immediato dopoguerra “un sacrario” dell’antifascismo
sloveno.A metà luglio di due anni fa il presidente Sergio
Mattarella e il suo omologo sloveno, Borut Pahor, si sono raccolti mano
nella mano dinanzi alla lapide che ricorda le vittime e lo hanno fatto,
segno esplicito di una volontà di pacificazione, subito dopo avere reso
omaggio alla più nota foiba di Basovizza, perché nel tracciare la rotta
di questo Giorno del ricordo è a quella pagina che dobbiamo arrivare,
senza scorciatoie.
La guerra
La seconda guerra
mondiale scompose assetti, etnie, comunità. L’offensiva tedesca sulla
Jugoslavia scattò il 6 aprile 1941, Mussolini vi si accodò. Croazia,
Slovenia, Bosnia, Montenegro o Voivodina non sarebbero mai state regioni
controllate, tanto meno pacificate. Gli ustaša, nazionalisti
fanatici, avrebbero avviato la persecuzione di due milioni di serbi
residenti nel nuovo stato croato perseguendo al contempo il genocidio di
ebrei e rom, solo nel campo di sterminio di Jasenovac a trovare la
morte furono in centomila.Sul fronte opposto, dopo l’attacco di
Hitler all’Unione Sovietica, a giugno del ’41, i comunisti guidati da
Josip Broz detto Tito animarono la resistenza anti-tedesca, lo fecero
agendo in autonomia, fuori dalla raccomandazione di Stalin per la
creazione di larghi fronti antifascisti. I serbi, distribuiti
tra il Protettorato di Serbia occupato dai nazisti, lo Stato croato, la
Dalmazia e il Montenegro dove di stanza stavano gli italiani, diedero
vita a un movimento unitario, i četnici, “monarchici e sostenitori di un
progetto ‘grande serbo’” ovviamente in conflitto con gli ustaša,
“militanti dell’idea ‘grande croata’ in una piena logica di guerra
civile”. I partigiani combattevano entrambe le fazioni, četnici e
ustaša oltre agli occupanti italiani e tedeschi. Tra il ’41 e il ’43 le
azioni repressive italiane contro le formazioni partigiane non
esitarono a reprimere quantità di civili, non furono “danni
collaterali”, ma una strategia mirata a isolare qualunque focolaio di
resistenza. Internamenti di massa a scopo di prevenzione
condussero a costruire campi in grado di concentrare migliaia di
persone, accadde a Gonars in Friuli o nell’isola di Arbe/Rab in
Dalmazia.
Dopo l’8 settembre
8 settembre 1943: anche
la Venezia Giulia conosce la sorte del resto del paese, comandi militari
e truppe allo sbando. L’Istria piomba nel caos coi soldati italiani in
fuga. La rete dei Comitati popolari di liberazione (Cpl) a
settembre proclama la volontà dell’Istria di annettersi alla Croazia e,
per suo tramite, alla “fraterna comunità dei popoli della Jugoslavia”. La contro-repressione non è meno violenta e spesso sfugge al controllo
delle stesse autorità partigiane con atti di sadismo. Nelle campagne
attorno a Parenzo si consuma “una vera e propria jacquerie” coi
contadini croati contro archivi comunali, simbolo di uno Stato
oppressore, e vendette consumate sui loro vecchi “padroni”. L’uccisione di Norma Cossetto, studentessa istriana seviziata e
infoibata nell’autunno del ’43, resta una delle pagine atroci di quella
stagione. Foibe, dunque, in terra istriana ve ne sono diverse usate allo
scopo, da quella di Vines verranno recuperate oltre ottanta salme. Il computo delle vittime non può che risultare impreciso, la
storiografia lo quantifica attorno al mezzo migliaio, “un eccidio di
grandi dimensioni paragonabile per eccesso alle più note stragi naziste
in Italia”. Resta la frattura, l’evento in sé, destinato in
corrispondenza al ritrovamento dei corpi a trasformare rapidamente il
fatto oggettivo e tragico in un “costrutto mitico che diviene parte
integrante dell’identità collettiva degli italiani d’Istria”. I
semi di una narrazione contesa proiettata in tutto il dopoguerra tra
“opposte retoriche, vittimiste e negazioniste” sono interrati e
germoglieranno una malapianta. La tesi estrema è netta: le foibe
sono “la prima tappa di un disegno di eliminazione violenta della
presenza italiana nella penisola, destinata a divenire parte integrante
della Jugoslavia comunista”. Sappiamo oggi che non era così e
che il punto stava di nuovo nella volontà di una “sostituzione
nazionale”, concetto distinto e diverso dal genocidio. Ciò non toglie
che alla fine della mattanza in quel lembo del continente tra infoibati e
uccisi dai nazisti non vi era famiglia che non piangesse un lutto. Resta il dato storico di un secolo, il ‘900, angoscioso e terribile con
governi diversi per ideologia e impianto politico accomunati dalla
volontà di creare Stati etnicamente omogenei.
Intanto a Trieste
E Trieste? A Trieste il comando passa in mano tedesca, con le province a
ridosso delle Alpi orientali (Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume,
Lubiana) accorpate nella Zona di operazioni litorale (Ozak) dove “la
sovranità italiana è puramente nominale”. Siamo nella parte
finale della guerra e il governo di Salò non ha alcun potere su sindaci,
prefetti, legislazione. Nel capoluogo giuliano l’imprenditoria si
presta a collaborare anche in difesa dei propri interessi finanziari e
assicurativi. Nonostante nell’agosto del ’44 il vertice italiano
del PCd’I e buona parte del gruppo dirigente complessivo vengano
arrestati ed eliminati, nei mesi successivi la resistenza partigiana si
organizza tra le brigate Garibaldi, comuniste, e quelle Osoppo,
azioniste e cattoliche. Le violenze sono terribili. Nel mese di
aprile, siamo sempre nel ’44, i tedeschi compiono una rappresaglia nel
villaggio di Lipa, in provincia di Fiume. Una colonna scortata da
ufficiali italiani entra in paese e uccide chiunque incontri, le vittime
saranno 280. Nello stesso mese a Opicina, sul Carso triestino, i
partigiani uccidono sette militari in un cinema che proietta
documentari di propaganda, un secondo attentato nel cuore di Trieste
produce altre cinque vittime tedesche. La rappresaglia si
consuma nello schema classico del 10 a 1. Settantuno ostaggi sono
fucilati dopo l’attentato di Opicina, cinquantuno per quello consumato
in città con i corpi appesi a monito della popolazione nell’androne di
quello che sarà il conservatorio di musica. Ma il peggio non è neppure
lì.Dall’ottobre del ’42 all’aprile del 1945 opera a Trieste il
Polizeihaftlager (Campo di detenzione di polizia), la famigerata Risiera
di San Sabba, luogo destinato a divenire ben altro che una prigione. È gestito da SS tedesche, austriache e ucraine, annovera “specialisti”
del ramo, carnefici nazisti responsabili di buona parte della Shoah
della Polonia, Christian Wirth, detto “il selvaggio” o Kurt Franz, “il
più sadico torturatore di Treblinka” e Odilo Globočnik a cui si
ascrivono almeno un milione e mezzo di morti. Circa settecento ebrei
triestini passeranno da quelle celle (oggi monumento nazionale), se ne
salverà una ventina.
La riconciliazione
Ma è sul dopoguerra che Trieste proietta la sua ombra. Il nuovo vertice
del PCd’I passato in mano alla componente slovena del partito lascia
agli jugoslavi la possibilità di occupare le aree di frontiera (ottobre
del ’44), quest’ultimi “si impegnano a trattare gli italiani come una
minoranza nazionale col massimo dei diritti”. Soluzione ambigua. Nel frattempo, le divisioni tra le formazioni partigiane si consumano
come nell’episodio della strage alla malga di Porzȗs, febbraio 1945,
quando un reparto garibaldino stermina una brigata Osoppo. Il
Primo maggio del 1945 i partigiani jugoslavi occupano Trieste, a guidare
l’operazione i vertici dell’Ozna, la polizia segreta di Tito. Prelevano
singoli o piccoli gruppi anche se l’ampiezza delle operazioni non
sfugge a nessuno. Ancora Raoul Pupo descrive i numeri, tra Gorizia e
Trieste gli arrestati sono tra i dieci e i dodicimila, non tutti saranno
uccisi, ma questo lo si verrà a sapere solo in seguito. L’indicazione è arrestare repubblichini, fascisti, četnici, squadristi e
spie, collaborazionisti, agenti della questura e dell’Ovra, membri
della X Mas, delatori di partigiani. L’esito è una sequenza di uccisioni
in molti casi senza alcuna imputazione. Volendo semplificare,
“chi porta le armi o ne risponde ai comandi jugoslavi oppure è un
nemico, a prescindere dall’uso che ne abbia fatto assieme o contro i
tedeschi. Anzi, se contro i tedeschi si è battuto, ma non si è posto
agli ordini dell’armata jugoslava, è ancor peggio di un nemico, è un
fomentatore di guerra civile”.Il che spiega i motivi che
condussero a morte finendo infoibati anche militanti della resistenza
triestina, segnata dalla frattura dell’ala comunista a quel punto
appiattita su posizioni filo jugoslave.Sono settimane tragiche,
il giudizio storico dice come non si consumò una caccia indiscriminata
all’italiano poiché in quel caso le vittime sarebbero state decine di
migliaia e non tra le quattro e le seimila, numero terribile egualmente,
ma non di un genocidio o di una “pulizia etnica” si trattò. Fu altro.
Una orribile coda di una guerra che aveva una parabola dietro a sé. Una
resa dei conti venata dell’odio nazionalista? Certo, fu anche questo, ma
quando ci si muove su una terra di frontiera le risposte non sono mai
lineari.
Il dovere dell’anima
L’Esodo dall’Istria e
Dalmazia, ciò che il 10 febbraio ogni anno ricorda, è l’ultimo capitolo
di questa tormentata storia. Per anni su quella pagina è calato il
silenzio. In parte perché quelle donne e uomini sradicati dai luoghi di
una vita, da case, campi, vigne, cortili, arrivarono nell’Italia che si
affacciava al boom economico e una storia di soprusi e violenze stonava
col clima del tempo. In parte per una lotta politica che ancora
contrapponeva campi ideologici e, nonostante la scomunica sovietica, il
marchio della destra su quella tragedia non tardò a farsi sentire.Con gli anni i passi nella direzione di una pacificazione si sono
compiuti. Per il poco che vale, mi recai per la prima volta, da
segretario dei giovani comunisti e con una delegazione del Pci-Kpi, a
deporre un mazzo di fiori sulla Foiba di Basovizza. Correva l’anno 1989.Più tardi atti e gesti ben più autorevoli sono seguiti. Ciò che
mi preme rammentare oggi è il bisogno di non cancellare il passato
perché farlo equivale a gettare le basi a che possa ripetersi. Ma non
cancellare equivale a conoscerlo e soprattutto capirlo. Senza la paura
di misurare la Storia, i suoi torti, le sue ragioni. Per chi è nato
lassù tutto ciò non può limitarsi a un augurio. È semplicemente un
dovere dell’anima.
I deboli di stomaco possono saltare pure il trailler soprattutto perché è uno di quei film che , a mio avviso va visto senza trailler onde evitare di farsi influenzare aprioristicamente .
film bello , fiero ed indigesto (citazione musicale ) visto che il film inizialmente dopo la scorsa edizione del cinema di venezia era programmato per per poi esser distribuito nelle sale cinematografiche italiane da Warner Bros. con divieto ai minori di 14 anni a partire dal 7 ottobre dello stesso anno La commissione per la valutazione dei film ha successivamente elevato il divieto ai minori di 18 anni . Le motivazioni ( in parte comprensibili ed in parte no c'è di peggio . Infatti su netflix e su prime e vietato ai minori di 14 )
"Il film presenta una narrazione filmica che ha come suo punto centrale la sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice. In particolare i protagonisti della vicenda pur partendo da situazioni sociali diverse, finiscono per apparire tutti incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano coinvolti. Questa lettura che appare dalle immagini, assai violente negli ultimi venti minuti, viene preceduta nella prima parte del film, da una scena in cui un professore, soffermandosi su un dipinto in cui Cristo viene flagellato, fornisce assieme ai ragazzi, tra i quali gli omicidi del Circeo, un'interpretazione in cui gli stessi, Gesù Cristo e i flagellanti vengono sostanzialmente messi sullo stesso piano. Per tutte le ragioni sopracitate la Commissione a maggioranza ritiene che il film non sia adatto ai minori di anni diciotto". La notizia venne accolta da enormi critiche, alimentate sui social soprattutto dall'account ufficiale della Warner Bros. e di Benedetta Porcaroli, che avevano promosso lo slogan "Vietato ai minori il film che denuncia la violenza sulle donne". Il Tar del Lazio ha poi ristabilito il divieto ai minori di 14 anni apportando alcuni tagli nelle scene più forti.
Un film drammatico , triste , che smuove ( o Almenno dovrebbe ) le coscienze e un cultura perbenista ed ipocrita .lo Consiglio a chi vede la religione in maniera critica non solo dogmatica ,ma vissuta giorno per giorno . A chi vuole ricordare o ha dimenticato o peggio non conosce il fermento culturale non omologante degli anni 60/80 , lotta contro una cultura tossica. Lo Sconsiglio invece a chi vede : la religione e la fede in maniera acritica e passiva solo dogmatica , gli anni 60/80 solo come violenti e di degrado morale ed ideologico
Studentessa al Classico di Olbia, ha portato in scena due spettacoli. Gli attori sono ragazzini, il palco aiuta a superare insicurezze e paure
Ipnotizzata di fronte ai capolavori di Alfred Hitchcock e Stanley Kubrick, affascinata da Tim Burton all’età in cui il massimo della trasgressione sono solitamente Pollon e i
Simpson. Immersa nella lettura della storia del cinema e del teatro, volumi su volumi accatastati in cameretta e infilati nello zaino della scuola. E poi occhi sgranati e bocca spalancata per cogliere i dettagli nei racconti della mamma Maria Grazia, che prima di diventare insegnante alle scuole medie, ha lavorato a lungo nei più grandi teatri italiani come costumista e scenografa, al fianco di maestri come Luca Ronconi ed Ettore Scola.
Si dice che la mela non cada mai lontano dall’albero e Letizia Loi è la dimostrazione di quanto questo proverbio contenga una grande verità: «Sono cresciuta a pane e arte – racconta – ho ereditato l’enorme passione di mia madre e sin da piccola accarezzo il sogno di ritagliarmi un ruolo in quel mondo». Diciassette anni, studentessa al penultimo anno del Liceo Classico Gramsci di Olbia , 10 fisso in italiano, divoratrice professionista di libri, un taccuino sempre in tasca per segnare pensieri e trasformarli in immagini sul palco:
Letizia Loi sul palco dopo lo spettacolo portato in scena al Cineteatro di Olbia
Letizia Loi vuole diventare una regista di teatro ma in realtà lo è già perché due spettacoli da lei scritti e diretti sono andati in scena e un terzo è quasi pronto. «Il teatro, perché dà emozioni uniche. E ogni replica è una prima, perché è uguale ma diversa da tutte le altre».
L’infanzia e la passione Non c’è un momento d’inizio, Letizia non riesce a ricordare quando il suo sogno ha iniziato a prendere forma. «La passione è nata con me, perché l’ho respirata grazie a mia madre e ai suoi racconti che ascoltavo incantata. Da piccolissima ho iniziato a guardare film, a studiare la storia del cinema e dei grandi autori. E a scrivere, perché mi è piaciuto da subito, dalla scuola elementare». E non ha mai smesso, con una costanza e un rigore ereditato dal padre Massimo, militare di professione. Nonostante gli sguardi perplessi dei compagni di scuola di fronte ai suoi interessi “non convenzionali”: «Alle elementari e alle Medie ho frequentato a Padru, dove vivo, con la stessa classe. A tanti compagni non sono mai andata a genio. Forse mi consideravano strana, diversa da loro. Bullismo? Non so se definirlo così, di sicuro però non mi sono mai fatta condizionare e sono andata avanti, focalizzata sul mio obiettivo. Grazie soprattutto ai miei genitori che non hanno mai smesso di incoraggiarmi e sostenermi».
Bullismo o no, c’è tanto dell’infanzia di Letizia nel primo testo scritto per il teatro: si chiama “Forte come un leone” e racconta la storia di Leonardo, un ragazzino alle prese con i bulli. «L’ho scritto quando ero in terza media – racconta Letizia – ma all’inizio non ha avuto molta fortuna. L’ho tenuto in un cassetto sino a un paio di anni fa quando è stata mia madre a chiedermi di tirarlo fuori». Maria Grazia, insegnante di arte e immagine alle medie, organizza corsi di teatro per i suoi studenti. Perché la passione non muore mai.
In scena Letizia per curiosità ha deciso di accompagnare la madre ai corsi «ed è successo qualcosa di inaspettato. Con i ragazzi della media Diaz di Olbia è scattata una intesa fantastica, abbiamo parlato, ci siamo confrontati, mi è venuta una voglia immensa di lavorare insieme». E loro, studenti di 13-14 anni, sono diventati gli attori dello spettacolo “Forte come un leone” andato in scena già parecchie volte al Cineteatro di Olbia, sempre tra gli applausi. E poi, più recente, ecco “La Rosa di Dio”, testo teatrale incentrato sulla figura di Suor Giuseppina Demuro (Rosina), religiosa di Lanusei che a rischio della propria vita salvò molte persone, soprattutto donne e bambini, dalla furia nazista nel carcere Le Nuove di Torino. «Sono venuta a conoscenza della sua storia nel 2021, durante un viaggio a Torino. Mi ha colpito moltissimo. Al rientro a casa ho scritto un monologo che poi ho trasformato in un testo teatrale». Anche in questo caso gli attori scelti sono giovanissimi: «Compagni di scuola del Liceo, della mia e di altre classi. Siamo andati in scena qualche giorno fa a Olbia, a scuola e poi in teatro. E poi siamo stati invitati a Ittiri, dal responsabile di Mab teatro Daniele Monachella. Bello, emozionante».
I progetti C’è tanto in programma nella testa di questa ragazza vulcanica che dopo la maturità pensa di iscriversi in Lettere, frequentare corsi di teatro, studiare, specializzarsi e continuare a scrivere. «Con i ragazzi siamo quasi pronti, il mio terzo testo ci aspetta: tratta della dipendendenza da videogiochi. Gli spunti vengono fuori dal dialogo con loro, mi raccontano storie, si aprono. Vogliono affrontare argomenti “difficili” come il bullismo, i disturbi alimentari, la disforia di genere, il body shaming. Lo facciamo insieme, e questo aiuta a superare le paure».
In viaggio ricerco sempre un equilibrio diverso. Mi trovo spesso a contatto con culture e tradizioni differenti dalla mia e da quando ho iniziato a giudicare il meno possibile, mi sono trovato a ottenere in cambio insegnamenti preziosi.
Vivere ai piedi del Monte Meru nella zona arida significa faticare per avere acqua, compito che spetta spesso o quasi sempre alle donne. Durante la giornata di carico si parte con gli asinelli per raggiungere la fonte pulita più vicina, quando ce n’è una. Ovviamente l’utilizzo di acqua durante la giornata è razionato e l’igiene dei bambini è per forza di cose relativo al contesto, alle loro abitudini. La regina comunica con gli occhi e con il cuore. E ride spesso, emana energia e amore e sogna una lavatrice. Tra un mese avrà il terzo figlio e per farla ridere le ripeto sempre : Philipo 3 Stefano 0.
·Clara si era laureata in Chimica a Breslavia, la prima donna in Germania, sposando poi Fritz Haber, altro chimico. Due scienziati che lavoravano insieme, cui si deve l'invenzione della sintesi dell’ammoniaca da idrogeno e azoto atmosferico. Clara però non voleva essere solo la "spalla" di Fritz: "È sempre stato il mio modo di pensare che una vita valga la pena di essere vissuta solo se si è fatto pieno uso di tutte le proprie abilità e si è cercato di vivere ogni tipo di esperienza che la vita umana ha da offrire. È stato sotto questo impulso, tra le altre cose, che ho deciso di sposarmi in quel momento, la vita che ho avuto è stata molto breve e le ragioni
principali sono il modo oppressivo di Fritz di mettersi al primo posto in tutto, così che una personalità meno spietatamente auto-assertiva è stata semplicemente distrutta." Scoppia la guerra, il governo tedesco commissiona a Fritz i gas asfissianti per l'ndustria bellica, lui acconsente, nonostante le proteste di lei. L'Iprite è la prima arma di distruzione di massa, 5mila morti a Yprès. Nella notte dell'1 maggio 1915, Clara si suicida, sparandosi con la pistola di ordinanza del marito: un modo per dichiararsi "non complice dello sterminio". Non ne parlò nessuno, ma sei giorni dopo il giornale locale riferì che “la moglie del Dr. H. dei Servizi Segreti, attualmente al fronte, ha messo fine alla sua vita sparandosi. Le ragioni del gesto infelice della donna sono sconosciute.” Haber continuò, inventando anche lo Zyklon, che fu usato nelle camere a gas dei lager nazisti. Se avesse ascoltato sua moglie Clara, e non lo fece, forse la storia sarebbe andata in modo diverso. Onore a questa grande donna.
Immagina di essere al giro di boa della tua vita (metà strada ipotetico).
Sei leggermente in ritardo sul ritmo del tuo primato personale ( ovvero la “vita” che pensi di meritare in funzione delle tue potenzialità).Quale/i domanda/e potresti farti per imprimere un cambio di passo?
Le risposte date nei commenti el tuo post sono diverse , ovviamente dipende dal tipo di viaggio , se si è arrivati ad un bivio o meno o se si preferisce le strade dritte o contorte e piene di curve cioè si segue il metodo << .....
la retta via è per chi ha fretta ( cit Csi ) >>* . Per me , ancora non sono arrivato al giro di boa forse perché considero il viaggio unico e senza soste , considero entrambe le cose .
Infatti ogni inizio ha una fine e di conseguenza anche una partenza ha un arrivo. Se seguiamo i famosi paradossi Achille dopo aver consentito alla tartaruga un leggero vantaggio in una ipotetica gara non riuscirà mai a raggiungerla.. Infatti si dice l'inizio della fine la fine dell'inizio . Mi piace concludere il post con la poesia “L’inizio e la fine” sempre di Wislawa Szymborska( Kórnik, 2 luglio1923 – Cracovia, 1º febbraio2012 )