4.2.23

quest'anno provo a dire basta al detto \ lo slogan e il detto San remo è San remo .


E'  vero  che   Il Festival della canzone italiana, più comunemente Festival di Sanremo o anche semplicemente Sanremo, è un  un  simbolo   insieme  alla nazionale  di  calcio    del nostro   Paese  . Infatti   Tale  rassegna   che si tiene ogni anno in Italia, a Sanremo, a partire dal 1951 ha  contribuito   a livello  italiano  ma  anche europeo ed  internazionale   a  far  conoscere  in meglio  o  in peggio  dipende   dai  punti  di  vista    con le   sue  canzoni  la  canzone italiana .Ad  esso   Vi hanno preso parte come concorrenti, ospiti o compositori, molti dei nomi più noti della musica italiana. È considerato uno dei più importanti e longevi festival musicali al mondo. Inoltare  Rappresenta uno dei principali eventi

mediatici italiani, con un certo riscontro anche all'estero, in quanto viene trasmesso in diretta sia televisiva, in Eurovisione, sia radiofonica. La statuetta del Leone di Sanremo (simbolo dello stemma comunale) è il riconoscimento più prestigioso per i musicisti e gli interpreti italiani di musica leggera. Ma negli ultimi  anni    è    scaduto  . Infatti   fin da piccolo  per  tradizione  familiare   lo  si  guardava  fisso    poi   via   calando  solo   in zapping  oppure     nei locali o  a scuola   si  commentava  l'esibizione  o la  vincita    ed  la  rispettiva  classifica  .Poi   le  polemiche    che esso  crea   con  i  vari siparietti   e le  varie  polemiche    cosi  come  si leggevano i testi della  canzoni  .    Quest'anno  non credo    che lo  vedrò  neppure   in streaming    perché   oltre  essere  scaduto      sempre  di più   tanto    da    essere  lo specchio dell’Italia attuale

dal  web 

mafia, perché i cantanti e gli ‘autori’ in gara sono imposti da un paio di case discografiche che tutto decidono 

- vecchiomerdismo oltre il patetico, l‘analogo dello sdoganamento dei medici ultra70enni che ficcano le viti nelle arterie femorali invece che in acetabolo

- strumentalizzazione a solo scopo commerciale di tematiche sociali di estrema importanza (razzismo, patologia psichiatrica, parità di genere etc) 

- asservimento della stampa italiana con uno stuolo di pseudo critici musicali con la lingua d’amianto e la dignità nel cesso, e rare voci critiche

- pubblico di ipodotati con un vocabolario di 15 parole, più o meno quelle usate in vario ordine nei testi scritti dagli stessi 8 autori/canzone (attualmente una canzone di merda necessità di 8 autori)


Una cosa che già so mi annoierà tantissimo di Sanremo: i monologhi delle donne sulla sorte delle donne. Amadeus in un'intervista dice: "Abbiamo scelto quattro donne che porteranno la loro storia e le loro battaglie". Ma perché i maschi non sono mai tenuti a portare storie e battaglie? Perché loro sono invitati in qualità di comici, di gente che alleggerisce il clima pesante, di persone innocue che fanno ridere, sorridere, non farebbero male a una zanzara. Poi arrivano le donne e raccontano un'altra storia, che poi è quella vera: siamo ancora qui a vestirci come bambole e a raccontare quanto siamo miserabili solo perché abbiamo una vagina. Questo crea confusione e scollamento perché allora ti chiedi dove sono questi maschi cattivi di cui queste parlano, sul palco non se ne vedono, sono tutti buoni, guarda, così buoni che concedono alle donne pure dieci minuti per parlare da sole.
Mi sono rotta di questa roba, perché è tutta una concessione, e anche se è certo importante parlare di violenza sulle donne in un contesto così pop, non si possono non notare le contraddizioni che neutralizzano quei pur giustissimi discorsi. Poi, Amadeus, con tutto il bene del mondo: quali sono state esattamente le battaglie delle vallette (chiamatele co-conduttrici e mi incazzo fortissimo) di quest'anno? Chiedi delle sue battaglie a una donna che si è separata dal marito violento e che per questo si è vista strappare un figlio in nome di una cosa che non esiste come l'alienazione parentale e poi ne riparliamo.

Ma  soprattutto    perchè  quest'anno  s' offre     come  cassa  di risonanza   di una  propaganda di   guerra   .  Sarà la  seconda  volta    che  lo  boicotto  dopo  la  54ª  del  2004   del  duo  Simona Ventura - Tony Reno  \  Renis sempre   per  questioni etico  morali  , in quel  caso  anche  di legalità   qui maggiori  news su  tale  evento  .  Spero     di riuscirci o  quanto meno    di resistere  il  più possibile     fino   alla   fine    come     ho  fatto  con i  mondiali  del   Qatar  del  2022    vedere  archivio blog  .


Speriamo di riuscirci con questo è tutto .per oggi

Sostituzione nazionale o genocidio ? secondo me entrambe le cose frutti guasti del nazionalismo







in attesa   del fiume     di retorica  della settimana  del ricordo     chiariamo cosa furono le foibe  .
  da   editorialedomani.it 7 febbraio 2022 • 08:00 editoriale    

Sostituzione nazionale ma non genocidio: ecco che cosa sono state davvero le foibe 

Sostituzione nazionale ma non genocidio: ecco che cosa sono state davvero le foibe

Gianni Cuperlo

Maggiorenne: in questo 2022 la legge che ha istituito il Giorno del ricordo compie diciott’anni. È stata votata a fine marzo del 2004 per «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». Dunque 10 febbraio, la scelta cadde su quella data nel rimando all’anno, era il 1947, che vide la firma sui trattati di pace di Parigi. Doveva essere la fine, almeno nella forma, dei postumi della guerra sul confine dove il “dopoguerra” si predisponeva a farsi narrazione infinita. Quella data aveva sancito il passaggio alla Jugoslavia delle terre istriane, del Quarnero (o Quarnaro), di Zara e dunque di un’area contesa e sino a prima del secondo conflitto in larga misura italiana.
Circa trecentomila persone, la quasi totalità della presenza italiana, e tra quelli cinquantamila sloveni e croati, furono spinti ad abbandonare case, campi, i luoghi della propria vita e di tradizioni familiari radicate. Lo fecero valendosi del diritto di opzione che il Trattato prevedeva con la possibilità di trasferirsi in Italia, molti lo fecero soprattutto a fronte delle pressioni e intimidazioni subite. L’accoglienza della madre patria fu tutt’altro che calorosa.
Pesarono interessi geopolitici, la Jugoslavia col suo profilo di “non allineatan decennio perché lo Stato intervenisse favorendo la piena integrazione dei profughi giuliano-dalmati nell’Italia del boom. Il che non bastò a sanare la “ferita della memoria” al punto che sulla pagina sanguinosa di quel confine a lungo calò il silenzio.” era una zona cuscinetto tra questa parte d’Europa e il blocco sovietico, né mancavano scambi commerciali, il tutto nella logica di una buona stabilità da perpetuare anche in vista del “dopo Tito”.
Lasciare che la polvere coprisse le pagine più dolorose e cruente rispondeva a parecchi interessi. Quel mutismo complice accomunava il partito che governava da Roma, ma pure l’opposizione comunista che sulle scelte compiute nell’alto Adriatico non poteva dirsi mera spettatrice. Il tutto, appunto, sino al 2004 e all’istituzione del Giorno del ricordo: da allora non vi è stata una sola delle ricorrenze libera da toni accesi sulle radici di una celebrazione che avrebbe dovuto scavare e ricostruire il lungo conflitto tra opposte aspirazioni nazionali (di italiani, sloveni, croati delle più diverse appartenenze e ideologie), e che ha finito, invece, col sovrapporre la memoria dello scontro tra fascismo e antifascismo. Ma si può riflettere su una celebrazione entrata nel calendario civile del paese con un di più di rigore e lucidità?  

Odiarsi nell’intimità

Farlo si deve, o almeno conviene, e per riuscirci Raoul Pupo, storico triestino, diventa una bussola preziosa. Sfogliando la sua ultima ricognizione del tema (Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza, Laterza 2021) ha senso partire dalla citazione in apertura di Predrag Matvejevič: “L’Atlantico e il Pacifico sono i mari delle distanze, il Mediterraneo è il mare della vicinanza, l’Adriatico è il mare dell’intimità”. Ci si può odiare nell’intimità? Possono generarsi sino a deflagrare conflitti di brutalità indescrivibile entro un perimetro che nei secoli ha visto combinarsi lingue, dialetti, religioni, costumi, identità? Ahinoi, sì.
E’ complicato s analizzare le violenze novecentesche in quel triangolo d’Europa se ci si rinchiude in una storia “nazionale”, che sia quella italiana o slovena o croata. Solamente considerando “punti di vista diversi” si possono svelare le dinamiche di un territorio plurale che nell’arco lunghissimo del “secolo breve” ha convissuto con varie appartenenze, Stati e governi diversi.
L’altro corno del problema è rappresentato dalle parole o formule utilizzate. Anche su questo Raoul Pupo fissa un glossario utile. A cavallo del confine orientale, prima, durante e dopo la guerra non vi sono state pagine di deportazione, espulsione o, peggio, “pulizia etnica”, termine per altro generato dagli eventi di un tempo storico successivo.
La definizione che appare più corretta è un’altra, lì si sono prodotti «fenomeni di sostituzione nazionale», il che non paia una reductio della portata di quei fatti, fosse solo perché è stata una delle strategie applicate in angoli diversi del continente su come “accomodare” persone con appartenenze nazionali diverse in un unico Stato. .Dapprima il fascismo determinò l’allontanamento di migliaia di cittadini sloveni e croati dalle regioni italiane, successivamente furono gli accordi di pace a indurre l’Esodo dall’Istria di molte migliaia di cittadini italiani costretti a lasciare case e beni tra gli anni ’40 e ’50. Detto ciò, perché all’incrocio delle due guerre mondiali, e prima e dopo quelle tragedie, la Venezia Giulia ha vissuto un di più di violenza? La risposta è in un’altra formula: “nella lotta politica può sempre esserci spazio per i compromessi, in quella nazionale no”. Il nazionalismo finisce con l’essere il migliore concime per disseminare odi e contese destinati prima o poi a deflagrare. E così è avvenuto.

I pogrom

A ridosso della Grande Guerra e prima del fascismo Trieste faceva convivere una media borghesia dalle tendenze irredentiste, un proletariato “internazionalista” e un terzo ceppo di popolazione fedele all’Austria Felix (Viva l’A e po’ bon, rimarrà moto popolare dove la A stava proprio per l’Impero decadente). All’indomani della guerra sarebbe stato il trattato di Rapallo, novembre 1920, a disegnare i confini tra Italia e Jugoslavia, anche se quattro anni più tardi avrebbe provveduto quello di Roma ad annettere lo Stato Libero di Fiume, previsto sulla carta e impedito nel nascere dall’avvento di Benito Mussolini. Sono anni tormentati, il regime fascista con la sua rete di servizi individua nel Partito socialista l’avversario da stroncare per il sospetto di essere il collante tra slavi e nostalgici del patronato viennese. Su entrambi i fronti si crea l’humus perfetto per il primato delle componenti massimaliste e violente, lo squadrismo nazionalista ha apparecchiato il tavolo e non mancherà di sedervisi con un anno d’anticipo rispetto alle ronde fasciste.In quel contesto s’inserisce la parabola fiumana di Gabriele D’Annunzio, ma su quella si sono riempiti gli scaffali, qui basterà ricordare il pogrom anti-croato di cittadini e legionari sedato dal Vate con l’argomento di “eccessi spiegabili in un primo impeto di passione”, ma non giustificabili nella loro sistematicità. Sarà il 13 luglio 1920, però, la data discrimine, quando si consuma l’assalto delle squadre fasciste e l’incendio dell’Hotel Balkan (il Narodni Dom, sede di organizzazioni e istituzioni slave a Trieste, vuol dire slovene, croate, serbe…). È l’avvio di un altro pogrom, stavolta anti-sloveno, che Boris Pahor descriverà in chiave letteraria nella novella Il rogo nel porto, le camicie nere vivono le spedizioni punitive contro banche, giornali, associazioni come “spettacolo di redenzione”, gli sloveni si trovano catapultati nell’incubo che si prolungherà per il quarto di secolo a seguire. Per loro quella data scolpirà il “trauma originario” della comunità nel suo legame con lo Stato italiano. Che la storia di territori plurali sia complicata può confermarlo il fatto che solo un anno e mezzo prima dell’incendio del Balkan, nel gennaio del 1919 erano state formazioni slovene guidate da Rudolf Maister a sparare sui manifestanti tedeschi che nella piazza di Maribor rivendicavano l’annessione alla nuova Austria. Tornando alla Trieste del 1920, gli episodi di violenza proseguirono sotto lo sguardo indulgente delle forze dell’ordine: lo squadrismo era un aiuto contro il pericolo dell’eversione bolscevica.

La benevolenza dell’ordine costituito fece della Venezia Giulia una tra le regioni dove il fascismo agì con esiti più pesanti, solo in quella prima stagione 134 edifici incendiati, di questi un centinaio erano circoli di cultura, alcune case del popolo, oltre una ventina le Camere del lavoro e diverse cooperative.

La violenza sui corpi e le anime

In questa ricostruzione tra le date a merito di citazione un posto spetta all’aprile del 1927 quando il regime estende all’alto Adriatico le disposizioni già previste per il Tirolo meridionale, si tratta della “restituzione in forma italiana” dei cognomi deformati in passato dalle autorità austriache. È l’avvio di una “massiccia italianizzazione” condotta dagli uffici senza “consultare gli interessati”. Poteva così capitare ai fratelli Vodopivec, uno residente nel capoluogo, l’altro a Monfalcone di trovarsi battezzati rispettivamente Bevilacqua (traduzione letterale del cognome sloveno) e Vodini.   Il tentativo di sradicare l’identità di un popolo o parte di esso avanzò lungo il doppio binario di una progressiva assimilazione delle anime mai del tutto scollegata da una dose di violenza sui corpi. Il fascismo fu questo.  Tra le vittime privilegiate di quella stagione repressiva moltissimi cattolici, compresi preti, parroci, vescovi, con l’esplosione dell’antisemitismo in una città, Trieste, ricca di una comunità ebraica radicata e tra le più importanti. La durezza del regime a organico pieno (pubblica sicurezza, carabinieri, Milizia) costituì nei fatti uno stato di polizia dove violenze, incarcerazioni, schede segnaletiche sorressero un apparato repressivo feroce quanto efficace.  Il fronte sloveno non risultò compatto, nell’isontino avrebbe conosciuto persino una formazione fascista (Vladna stranka, Partito governativo) dedita a relazioni con l’Ovra (la polizia segreta del fascismo). Non vi è dubbio però che gran parte degli sloveni si oppose al fascismo e la conferma viene dai movimenti di resistenza armata, tra questi spicca l’acronimo goriziano del Tigr (Trieste, Istria, Gorizia, Rijeka). Assieme a Borba (la versione triestina) stabilirono collegamenti con i servizi jugoslavi per lo scambio di armi e materiale di propaganda. In particolare, un ordigno venne fatto esplodere il 10 febbraio del 1930  presso Il Popolo di Trieste, quotidiano fascista, uccidendo un redattore. All’attentato seguirono centinaia di arresti e ottantasette tra questi furono deferiti al Tribunale speciale che dopo un processo farsa comminò quattro condanne a morte. Uno dei quattro, Ferdo Bidovec, era di madre italiana, come per altro slovena era la madre di Guglielmo Oberdan a conferma che “per i patrioti di frontiera il sangue non conta un bel nulla”.  I quattro vennero fucilati all’alba del 6 settembre 1930 presso il poligono di Basovizza in un luogo destinato a divenire dall’immediato dopoguerra “un sacrario” dell’antifascismo sloveno.A metà luglio di due anni fa il presidente Sergio Mattarella e il suo omologo sloveno, Borut Pahor, si sono raccolti mano nella mano dinanzi alla lapide che ricorda le vittime e lo hanno fatto, segno esplicito di una volontà di pacificazione, subito dopo avere reso omaggio alla più nota foiba di Basovizza, perché nel tracciare la rotta di questo Giorno del ricordo è a quella pagina che dobbiamo arrivare, senza scorciatoie.

La guerra

La seconda guerra mondiale scompose assetti, etnie, comunità. L’offensiva tedesca sulla Jugoslavia scattò il 6 aprile 1941, Mussolini vi si accodò. Croazia, Slovenia, Bosnia, Montenegro o Voivodina non sarebbero mai state regioni controllate, tanto meno pacificate. Gli ustaša, nazionalisti fanatici, avrebbero avviato la persecuzione di due milioni di serbi residenti nel nuovo stato croato perseguendo al contempo il genocidio di ebrei e rom, solo nel campo di sterminio di Jasenovac a trovare la morte furono in centomila.Sul fronte opposto, dopo l’attacco di Hitler all’Unione Sovietica, a giugno del ’41, i comunisti guidati da Josip Broz detto Tito animarono la resistenza anti-tedesca, lo fecero agendo in autonomia, fuori dalla raccomandazione di Stalin per la creazione di larghi fronti antifascisti.  I serbi, distribuiti tra il Protettorato di Serbia occupato dai nazisti, lo Stato croato, la Dalmazia e il Montenegro dove di stanza stavano gli italiani, diedero vita a un movimento unitario, i četnici, “monarchici e sostenitori di un progetto ‘grande serbo’” ovviamente in conflitto con gli ustaša, “militanti dell’idea ‘grande croata’ in una piena logica di guerra civile”.  I partigiani combattevano entrambe le fazioni, četnici e ustaša oltre agli occupanti italiani e tedeschi. Tra il ’41 e il ’43 le azioni repressive italiane contro le formazioni partigiane non esitarono a reprimere quantità di civili, non furono “danni collaterali”, ma una strategia mirata a isolare qualunque focolaio di resistenza.  Internamenti di massa a scopo di prevenzione condussero a costruire campi in grado di concentrare migliaia di persone, accadde a Gonars in Friuli o nell’isola di Arbe/Rab in Dalmazia.

Dopo l’8 settembre

8 settembre 1943: anche la Venezia Giulia conosce la sorte del resto del paese, comandi militari e truppe allo sbando. L’Istria piomba nel caos coi soldati italiani in fuga.  La rete dei Comitati popolari di liberazione (Cpl) a settembre proclama la volontà dell’Istria di annettersi alla Croazia e, per suo tramite, alla “fraterna comunità dei popoli della Jugoslavia”. La contro-repressione non è meno violenta e spesso sfugge al controllo delle stesse autorità partigiane con atti di sadismo. Nelle campagne attorno a Parenzo si consuma “una vera e propria jacquerie” coi contadini croati contro archivi comunali, simbolo di uno Stato oppressore, e vendette consumate sui loro vecchi “padroni”. L’uccisione di Norma Cossetto, studentessa istriana seviziata e infoibata nell’autunno del ’43, resta una delle pagine atroci di quella stagione. Foibe, dunque, in terra istriana ve ne sono diverse usate allo scopo, da quella di Vines verranno recuperate oltre ottanta salme. Il computo delle vittime non può che risultare impreciso, la storiografia lo quantifica attorno al mezzo migliaio, “un eccidio di grandi dimensioni paragonabile per eccesso alle più note stragi naziste in Italia”.  Resta la frattura, l’evento in sé, destinato in corrispondenza al ritrovamento dei corpi a trasformare rapidamente il fatto oggettivo e tragico in un “costrutto mitico che diviene parte integrante dell’identità collettiva degli italiani d’Istria”.  I semi di una narrazione contesa proiettata in tutto il dopoguerra tra “opposte retoriche, vittimiste e negazioniste” sono interrati e germoglieranno una malapianta.  La tesi estrema è netta: le foibe sono “la prima tappa di un disegno di eliminazione violenta della presenza italiana nella penisola, destinata a divenire parte integrante della Jugoslavia comunista”.   Sappiamo oggi che non era così e che il punto stava di nuovo nella volontà di una “sostituzione nazionale”, concetto distinto e diverso dal genocidio. Ciò non toglie che alla fine della mattanza in quel lembo del continente tra infoibati e uccisi dai nazisti non vi era famiglia che non piangesse un lutto.  Resta il dato storico di un secolo, il ‘900, angoscioso e terribile con governi diversi per ideologia e impianto politico accomunati dalla volontà di creare Stati etnicamente omogenei.

Intanto a Trieste


E Trieste? A Trieste il comando passa in mano tedesca, con le province a ridosso delle Alpi orientali (Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Lubiana) accorpate nella Zona di operazioni litorale (Ozak) dove “la sovranità italiana è puramente nominale”.  Siamo nella parte finale della guerra e il governo di Salò non ha alcun potere su sindaci, prefetti, legislazione. Nel capoluogo giuliano l’imprenditoria si presta a collaborare anche in difesa dei propri interessi finanziari e assicurativi.  Nonostante nell’agosto del ’44 il vertice italiano del PCd’I e buona parte del gruppo dirigente complessivo vengano arrestati ed eliminati, nei mesi successivi la resistenza partigiana si organizza tra le brigate Garibaldi, comuniste, e quelle Osoppo, azioniste e cattoliche. Le violenze sono terribili. Nel mese di aprile, siamo sempre nel ’44, i tedeschi compiono una rappresaglia nel villaggio di Lipa, in provincia di Fiume. Una colonna scortata da ufficiali italiani entra in paese e uccide chiunque incontri, le vittime saranno 280. Nello stesso mese a Opicina, sul Carso triestino, i partigiani uccidono sette militari in un cinema che proietta documentari di propaganda, un secondo attentato nel cuore di Trieste produce altre cinque vittime tedesche. La rappresaglia si consuma nello schema classico del 10 a 1. Settantuno ostaggi sono fucilati dopo l’attentato di Opicina, cinquantuno per quello consumato in città con i corpi appesi a monito della popolazione nell’androne di quello che sarà il conservatorio di musica. Ma il peggio non è neppure lì.Dall’ottobre del ’42 all’aprile del 1945 opera a Trieste il Polizeihaftlager (Campo di detenzione di polizia), la famigerata Risiera di San Sabba, luogo destinato a divenire ben altro che una prigione. È gestito da SS tedesche, austriache e ucraine, annovera “specialisti” del ramo, carnefici nazisti responsabili di buona parte della Shoah della Polonia, Christian Wirth, detto “il selvaggio” o Kurt Franz, “il più sadico torturatore di Treblinka” e Odilo Globočnik a cui si ascrivono almeno un milione e mezzo di morti. Circa settecento ebrei triestini passeranno da quelle celle (oggi monumento nazionale), se ne salverà una ventina.

La riconciliazione

Ma è sul dopoguerra che Trieste proietta la sua ombra. Il nuovo vertice del PCd’I passato in mano alla componente slovena del partito lascia agli jugoslavi la possibilità di occupare le aree di frontiera (ottobre del ’44), quest’ultimi “si impegnano a trattare gli italiani come una minoranza nazionale col massimo dei diritti”. Soluzione ambigua. Nel frattempo, le divisioni tra le formazioni partigiane si consumano come nell’episodio della strage alla malga di Porzȗs, febbraio 1945, quando un reparto garibaldino stermina una brigata Osoppo. Il Primo maggio del 1945 i partigiani jugoslavi occupano Trieste, a guidare l’operazione i vertici dell’Ozna, la polizia segreta di Tito. Prelevano singoli o piccoli gruppi anche se l’ampiezza delle operazioni non sfugge a nessuno. Ancora Raoul Pupo descrive i numeri, tra Gorizia e Trieste gli arrestati sono tra i dieci e i dodicimila, non tutti saranno uccisi, ma questo lo si verrà a sapere solo in seguito. L’indicazione è arrestare repubblichini, fascisti, četnici, squadristi e spie, collaborazionisti, agenti della questura e dell’Ovra, membri della X Mas, delatori di partigiani. L’esito è una sequenza di uccisioni in molti casi senza alcuna imputazione. Volendo semplificare, “chi porta le armi o ne risponde ai comandi jugoslavi oppure è un nemico, a prescindere dall’uso che ne abbia fatto assieme o contro i tedeschi. Anzi, se contro i tedeschi si è battuto, ma non si è posto agli ordini dell’armata jugoslava, è ancor peggio di un nemico, è un fomentatore di guerra civile”.Il che spiega i motivi che condussero a morte finendo infoibati anche militanti della resistenza triestina, segnata dalla frattura dell’ala comunista a quel punto appiattita su posizioni filo jugoslave.Sono settimane tragiche, il giudizio storico dice come non si consumò una caccia indiscriminata all’italiano poiché in quel caso le vittime sarebbero state decine di migliaia e non tra le quattro e le seimila, numero terribile egualmente, ma non di un genocidio o di una “pulizia etnica” si trattò. Fu altro. Una orribile coda di una guerra che aveva una parabola dietro a sé. Una resa dei conti venata dell’odio nazionalista? Certo, fu anche questo, ma quando ci si muove su una terra di frontiera le risposte non sono mai lineari.

Il dovere dell’anima

L’Esodo dall’Istria e Dalmazia, ciò che il 10 febbraio ogni anno ricorda, è l’ultimo capitolo di questa tormentata storia. Per anni su quella pagina è calato il silenzio. In parte perché quelle donne e uomini sradicati dai luoghi di una vita, da case, campi, vigne, cortili, arrivarono nell’Italia che si affacciava al boom economico e una storia di soprusi e violenze stonava col clima del tempo. In parte per una lotta politica che ancora contrapponeva campi ideologici e, nonostante la scomunica sovietica, il marchio della destra su quella tragedia non tardò a farsi sentire.Con gli anni i passi nella direzione di una pacificazione si sono compiuti.  Per il poco che vale, mi recai per la prima volta, da segretario dei giovani comunisti e con una delegazione del Pci-Kpi, a deporre un mazzo di fiori sulla Foiba di Basovizza. Correva l’anno 1989.Più tardi atti e gesti ben più autorevoli sono seguiti. Ciò che mi preme rammentare oggi è il bisogno di non cancellare il passato perché farlo equivale a gettare le basi a che possa ripetersi. Ma non cancellare equivale a conoscerlo e soprattutto capirlo. Senza la paura di misurare la Storia, i suoi torti, le sue ragioni. Per chi è nato lassù tutto ciò non può limitarsi a un augurio. È semplicemente un dovere dell’anima.   


per  ch vuole  saperne  di più 


3.2.23

la scuola cattolica film di Stefano Mordini.




Ieri ho visto su netflix La scuola cattolica è un film italiano del 2021 diretto da Stefano Mordini.Il film è
tratto dall'omonimo romanzo vincitore del Premio Strega del 2016 scritto da Edoardo Albinati, ispirato a fatti realmente accaduti passati alla cronaca e ala storia come il massacro del Circeo.


I deboli  di stomaco     possono    saltare   pure  il  trailler     soprattutto   perché  è  uno  di  quei  film   che  ,  a mio  avviso    va  visto    senza  trailler   onde    evitare  di  farsi  influenzare   
 aprioristicamente .
film bello , fiero ed indigesto (citazione musicale ) visto che il film inizialmente dopo la scorsa edizione del cinema di venezia era programmato per per poi esser distribuito nelle sale cinematografiche italiane da Warner Bros. con divieto ai minori di 14 anni a partire dal 7 ottobre dello stesso anno La commissione per la valutazione dei film ha successivamente elevato il divieto ai minori di 18 anni . Le motivazioni (  in parte  comprensibili    ed   in parte  no   c'è  di peggio  . Infatti   su  netflix e    su prime     e  vietato ai minori  di  14  )  

"Il film presenta una narrazione filmica che ha come suo punto centrale la sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice. In particolare i protagonisti della vicenda pur partendo da situazioni sociali diverse, finiscono per apparire tutti incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano coinvolti. Questa lettura che appare dalle immagini, assai violente negli ultimi venti minuti, viene preceduta nella prima parte del film, da una scena in cui un professore, soffermandosi su un dipinto in cui Cristo viene flagellato, fornisce assieme ai ragazzi, tra i quali gli omicidi del Circeo, un'interpretazione in cui gli stessi, Gesù Cristo e i flagellanti vengono sostanzialmente messi sullo stesso piano. Per tutte le ragioni sopracitate la Commissione a maggioranza ritiene che il film non sia adatto ai minori di anni diciotto". La notizia venne accolta da enormi critiche, alimentate sui social soprattutto dall'account ufficiale della Warner Bros. e di Benedetta Porcaroli, che avevano promosso lo slogan "Vietato ai minori il film che denuncia la violenza sulle donne". Il Tar del Lazio ha poi ristabilito il divieto ai minori di 14 anni apportando alcuni tagli nelle scene più forti.

Un film    drammatico , triste , che smuove ( o Almenno dovrebbe ) le coscienze e un cultura perbenista ed ipocrita .lo  Consiglio  a chi vede la religione in maniera critica non solo dogmatica ,ma vissuta giorno per giorno . A chi vuole ricordare o ha dimenticato o peggio non conosce il fermento culturale non omologante degli anni 60/80 , lotta contro una cultura tossica.
Lo  Sconsiglio  invece   a chi vede : la religione e la fede in maniera acritica e passiva solo dogmatica , gli anni 60/80 solo come violenti e di degrado morale ed ideologico

Un anziano e ricco signore inglese racconta: ..... di Tommaso Notarstefano

 


 
Un anziano e ricco signore inglese racconta:
«Avevo perso i miei genitori da ragazzo e
all’età di nove anni ero stato mandato in
un orfanotrofio vicino a Londra.
Sembrava una prigione. Dovevamo lavorare 14 ore
al giorno, in giardino, in cucina, nelle stalle, nei
campi.
Così tutti i giorni. C’era un solo giorno di festa:
il giorno di Natale. L’unico giorno in cui ogni ragazzo riceveva un regalo: un’arancia. Niente dolci.
Niente giocattoli. Per di più l’arancia veniva data
solo a chi non aveva fatto nulla di male durante
l’anno ed era sempre stato obbediente. Questa
arancia a Natale rappresentava il desiderio dell’anno intero.
Ricordo il mio primo Natale all’orfanotrofio. Ero
tristissimo. Mentre gli altri ragazzi passavano
accanto al direttore dell’orfanotrofio e tutti ricevevano la loro arancia, io dovevo stare in un angolo
del dormitorio. Questa era la mia punizione per
aver voluto scappare dall’orfanotrofio, un giorno
d’estate.
Finita la distribuzione dei regali, gli altri ragazzi
andarono a giocare in cortile.
Io dovevo stare in dormitorio tutto il giorno. Piangevo e mi vergognavo. Mi ero messo una coperta
fin sulla testa e stavo rannicchiato là sotto.
Dopo un po’ sentii dei passi nella stanza. Una
mano tirò via la coperta. Guardai. Un ragazzino di
nome William stava in piedi davanti al mio letto,
aveva un’arancia nella mano destra e me la tendeva
sorridendo. Non capivo. Le arance erano contate,
da dove poteva essere arrivata un’arancia in più?
Guardai William e il frutto e improvvisamente
mi resi conto che l’arancia era già stata sbucciata e,
guardando più da vicino, tutto mi divenne chiaro.
Sapevo che dovevo stringere bene quell’arancia
perché non si aprisse. Che cosa era successo?
Dieci ragazzi si erano riuniti in cortile e avevano
deciso che anch’io dovevo avere la mia arancia per
Natale. Ognuno di essi aveva tolto uno spicchio
dalla sua arancia e i dieci spicchi erano stati accuratamente messi insieme per creare una nuova,
rotonda e delicata arancia.
Quell’arancia è stato il più bel regalo di Natale
della mia vita.
Mi ha insegnato quanto
può essere confortante
la vera amicizia»


Letizia, 17 anni e già regista: «Il teatro è il mio mondo»

 nuova sardegna  1\2\2023 

                                             Silvia  Sanna

Studentessa al Classico di Olbia, ha portato in scena due spettacoli. Gli attori sono ragazzini, il palco aiuta a superare insicurezze e paure



 Ipnotizzata di fronte ai capolavori di Alfred Hitchcock e Stanley Kubrick, affascinata da Tim Burton all’età in cui il massimo della trasgressione sono solitamente Pollon e i
Simpson. Immersa nella lettura della storia del cinema e del teatro, volumi su volumi accatastati in cameretta e infilati nello zaino della scuola. E poi occhi sgranati e bocca spalancata per cogliere i dettagli nei racconti della mamma Maria Grazia, che prima di diventare insegnante alle scuole medie, ha lavorato a lungo nei più grandi teatri italiani come costumista e scenografa, al fianco di maestri come Luca Ronconi ed Ettore Scola.
Si dice che la mela non cada mai lontano dall’albero e Letizia Loi è la dimostrazione di quanto questo proverbio contenga una grande verità: «Sono cresciuta a pane e arte – racconta – ho ereditato l’enorme passione di mia madre e sin da piccola accarezzo il sogno di ritagliarmi un ruolo in quel mondo». Diciassette anni, studentessa al penultimo anno del Liceo Classico Gramsci di Olbia , 10 fisso in italiano, divoratrice professionista di libri, un taccuino sempre in tasca per segnare pensieri e trasformarli in immagini sul palco:


Letizia Loi sul palco dopo lo spettacolo portato in scena al Cineteatro di Olbia


 Letizia Loi vuole diventare una regista di teatro ma in realtà lo è già perché due spettacoli da lei scritti e diretti sono andati in scena e un terzo è quasi pronto. «Il teatro, perché dà emozioni uniche. E ogni replica è una prima, perché è uguale ma diversa da tutte le altre».

L’infanzia e la passione Non c’è un momento d’inizio, Letizia non riesce a ricordare quando il suo sogno ha iniziato a prendere forma. «La passione è nata con me, perché l’ho respirata grazie a mia madre e ai suoi racconti che ascoltavo incantata. Da piccolissima ho iniziato a guardare film, a studiare la storia del cinema e dei grandi autori. E a scrivere, perché mi è piaciuto da subito, dalla scuola elementare». E non ha mai smesso, con una costanza e un rigore ereditato dal padre Massimo, militare di professione. Nonostante gli sguardi perplessi dei compagni di scuola di fronte ai suoi interessi “non convenzionali”: «Alle elementari e alle Medie ho frequentato a Padru, dove vivo, con la stessa classe. A tanti compagni non sono mai andata a genio. Forse mi consideravano strana, diversa da loro. Bullismo? Non so se definirlo così, di sicuro però non mi sono mai fatta condizionare e sono andata avanti, focalizzata sul mio obiettivo. Grazie soprattutto ai miei genitori che non hanno mai smesso di incoraggiarmi e sostenermi».

Bullismo o no, c’è tanto dell’infanzia di Letizia nel primo testo scritto per il teatro: si chiama “Forte come un leone” e racconta la storia di Leonardo, un ragazzino alle prese con i bulli. «L’ho scritto quando ero in terza media – racconta Letizia – ma all’inizio non ha avuto molta fortuna. L’ho tenuto in un cassetto sino a un paio di anni fa quando è stata mia madre a chiedermi di tirarlo fuori». Maria Grazia, insegnante di arte e immagine alle medie, organizza corsi di teatro per i suoi studenti. Perché la passione non muore mai.




In scena Letizia per curiosità ha deciso di accompagnare la madre ai corsi «ed è successo qualcosa di inaspettato. Con i ragazzi della media Diaz di Olbia è scattata una intesa fantastica, abbiamo parlato, ci siamo confrontati, mi è venuta una voglia immensa di lavorare insieme». E loro, studenti di 13-14 anni, sono diventati gli attori dello spettacolo “Forte come un leone” andato in scena già parecchie volte al Cineteatro di Olbia, sempre tra gli applausi. E poi, più recente, ecco “La Rosa di Dio”, testo teatrale incentrato sulla figura di Suor Giuseppina Demuro (Rosina), religiosa di Lanusei che a rischio della propria vita salvò molte persone, soprattutto donne e bambini, dalla furia nazista nel carcere Le Nuove di Torino. «Sono venuta a conoscenza della sua storia nel 2021, durante un viaggio a Torino. Mi ha colpito moltissimo. Al rientro a casa ho scritto un monologo che poi ho trasformato in un testo teatrale». Anche in questo caso gli attori scelti sono giovanissimi: «Compagni di scuola del Liceo, della mia e di altre classi. Siamo andati in scena qualche giorno fa a Olbia, a scuola e poi in teatro. E poi siamo stati invitati a Ittiri, dal responsabile di Mab teatro Daniele Monachella. Bello, emozionante».

I progetti C’è tanto in programma nella testa di questa ragazza vulcanica che dopo la maturità pensa di iscriversi in Lettere, frequentare corsi di teatro, studiare, specializzarsi e continuare a scrivere. «Con i ragazzi siamo quasi pronti, il mio terzo testo ci aspetta: tratta della dipendendenza da videogiochi. Gli spunti vengono fuori dal dialogo con loro, mi raccontano storie, si aprono. Vogliono affrontare argomenti “difficili” come il bullismo, i disturbi alimentari, la disforia di genere, il body shaming. Lo facciamo insieme, e questo aiuta a superare le paure».

Happie, la regina di Mkuru di Stefano Lotumolo Photographer




In viaggio ricerco sempre un equilibrio diverso. Mi trovo spesso a contatto con culture e tradizioni differenti dalla mia e da quando ho iniziato a giudicare il meno possibile, mi sono trovato a ottenere in cambio insegnamenti preziosi.
Vivere ai piedi del Monte Meru nella zona arida significa faticare per avere acqua, compito che spetta spesso o quasi sempre alle donne. Durante la giornata di carico si parte con gli asinelli per raggiungere la fonte pulita più vicina, quando ce n’è una.
Ovviamente l’utilizzo di acqua durante la giornata è razionato e l’igiene dei bambini è per forza di cose relativo al contesto, alle loro abitudini.
La regina comunica con gli occhi e con il cuore. E ride spesso, emana energia e amore e sogna una lavatrice. Tra un mese avrà il terzo figlio e per farla ridere le ripeto sempre : Philipo 3 Stefano 0.

le  altre le   trovate     qui dal  suo     account   facebook  https://www.facebook.com/stefanolotumoloofficial/


Clara Immerwahr, scienziata ebrea, che decise di togliersi la vita per protestare contro l'uso dei gas asfissianti inventati da suo marito, Fritz Haber da Piero Gurrieri tra la gente



 Grazie  a   Piero Gurrieri tra la gente  per   questa    bellissima storia  
 
 · Clara si era laureata in Chimica a Breslavia, la prima donna in Germania, sposando poi Fritz Haber, altro chimico. Due scienziati che lavoravano insieme, cui si deve l'invenzione della sintesi dell’ammoniaca da idrogeno e azoto atmosferico.
Clara però non voleva essere solo la "spalla" di Fritz: "È sempre stato il mio modo di pensare che una vita valga la pena di essere vissuta solo se si è fatto pieno uso di tutte le proprie abilità e si è cercato di vivere ogni tipo di esperienza che la vita umana ha da offrire. È stato sotto questo impulso, tra le altre cose, che ho deciso di sposarmi in quel momento, la vita che ho avuto è stata molto breve e le ragioni
principali sono il modo oppressivo di Fritz di mettersi al primo posto in tutto, così che una personalità meno spietatamente auto-assertiva è stata semplicemente distrutta."
Scoppia la guerra, il governo tedesco commissiona a Fritz i gas asfissianti per l'ndustria bellica, lui acconsente, nonostante le proteste di lei. L'Iprite è la prima arma di distruzione di massa, 5mila morti a Yprès.
Nella notte dell'1 maggio 1915, Clara si suicida, sparandosi con la pistola di ordinanza del marito: un modo per dichiararsi "non complice dello sterminio".
Non ne parlò nessuno, ma sei giorni dopo il giornale locale riferì che “la moglie del Dr. H. dei Servizi Segreti, attualmente al fronte, ha messo fine alla sua vita sparandosi. Le ragioni del gesto infelice della donna sono sconosciute.”
Haber continuò, inventando anche lo Zyklon, che fu usato nelle camere a gas dei lager nazisti. Se avesse ascoltato sua moglie Clara, e non lo fece, forse la storia sarebbe andata in modo diverso.
Onore a questa grande donna.

2.2.23

partenza - arrivo ?

Rispondo     al  questo      del  contatto 

 Immagina di essere al giro di boa della tua vita (metà strada ipotetico).

Sei leggermente in ritardo sul ritmo del tuo primato personale ( ovvero la “vita” che pensi di meritare in funzione delle tue potenzialità).Quale/i domanda/e potresti farti per imprimere un cambio di passo?

Le risposte date nei commenti el tuo post sono diverse , ovviamente dipende dal tipo di viaggio , se si è arrivati ad un bivio o meno o se si preferisce le strade dritte o contorte e piene di curve cioè si segue il metodo << .....
la retta via è per chi ha fretta ( cit Csi ) >>* .
Per me , ancora non sono arrivato al giro di boa forse perché considero il viaggio unico e senza soste , considero entrambe le cose . Infatti o
gni inizio ha una fine e di conseguenza anche una partenza ha un arrivo. Se seguiamo i famosi paradossi Achille dopo aver consentito alla tartaruga un leggero vantaggio in una ipotetica gara non riuscirà mai a raggiungerla..   Infatti   si dice  l'inizio  della  fine  la  fine dell'inizio  . 
Mi piace  concludere   il  post     con la  poesia  

“L’inizio e la fine”  sempre  di  Wislawa Szymborska Kórnik2 luglio 1923 – Cracovia1º febbraio 2012 )


Dopo ogni guerra
c’è chi deve ripulire.
In fondo un po’ d’ordine
da solo non si fa.

C’è chi deve spingere le macerie
ai bordi delle strade
per far passare
i carri pieni di cadaveri.

C’è chi deve sprofondare
nella melma e nella cenere,
tra le molle dei divani letto,
le schegge di vetro
e gli stracci insanguinati.

C’è chi deve trascinare una trave
per puntellare il muro,
c’è chi deve mettere i vetri alla finestra
e montare la porta sui cardini.

Non è fotogenico
e ci vogliono anni.
Tutte le telecamere sono già partite
per un’altra guerra.

Bisogna ricostruire i ponti
e anche le stazioni.
Le maniche saranno a brandelli
a forza di rimboccarle.

C’è chi con la scopa in mano
ricorda ancora com’era.
C’è chi ascolta
annuendo con la testa non mozzata.
Ma presto
gli gireranno intorno altri
che ne saranno annoiati.

C’è chi talvolta
dissotterrerà da sotto un cespuglio

argomenti corrosi dalla ruggineBolormaa
e li trasporterà sul mucchio dei rifiuti.

Chi sapeva
di che si trattava,
deve far posto a quelli
che ne sanno poco.
E meno di poco.
E infine assolutamente nulla.

Sull’erba che ha ricoperto
le cause e gli effetti,
c’è chi deve starsene disteso
con la spiga tra i denti,
perso a fissare le nuvole.


Colonna sonora
  • Bolormaa - Csi

Danyart New Quartet fiori e tempeste

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