7.10.24

“The Beatles Everyday. Tutte le canzoni dei mitici “Fab Four .di federico martelli un libro non solo per Beatles mitomani

 Finalmente  mi   è  arrivato il libro di  Federico Martelli , ordinato   dall'autore   stesso   pewr  avere  l'autografo  ,    caita  quando  un libro ti prende  ,   “The Beatles Everyday. Tutte le canzoni dei mitici “Fab Four edizione   Guttemberg .
Generalmente    per problemi di spazio nella  libreria   , leggo i libri o  su i lettori digitali  o   dalla biblioteca .  Ma  per  il libro  di Federico   un ragazzo di oggi,  che   giorno dopo giorno  recensice   e    racconta  in italiano   e   in italiano e inglese.    di cui  ne  avevo  parlato  in : <<    certe    canzoni  e certi  gruppi   non  hanno età e  sono immortali intervista  a  federico  martelli  Il 18enne   di carpi  che ha scritto The Beatles Everyday”: un libro in cui analizza  una per  una le  canzoni    dei  Beatles  e  da   me  intervistato in  :   << certe canzoni e certi gruppi non hanno età e sono immortali intervista a federico martelli Il 18enne di carpi che ha scritto The Beatles Everyday”: un libro in cui analizza una per una le canzoni dei Beatles >>    .  IL  libro mi  ha  prso moltissimo  perchè    nonostante  la  notevolissima  ( potrebbe essere mio  figlio o  mio nipote  )     differenza  di età     abbiamo  fatto lo  stesso  percorso   musicale    con  i Beatles .  Infatti è stato il mio  primo gruppo ascoltato  autonomamente  .  Tale libro   è   Ben scritto  ,  si vede    che   ci sono dietro anni  d'ascolto    e  una  grnade  passione per  la  musica  e  le  sue  teniche olltre  che   un  notevole interese   per la  filosofia   .In realta  da uel che ho trovato  in  rete    mentre  cercavo    appigli  per  l'intervista      so  he fa  il  classico    ,  ma    sembra   che       autodidatta  ,  oppure  al  conservatorio  o abbia fatto   un  liceo    artistico  ad  indirizzo musicale  .  Un libri    scritto  con il  ciuore  e  la  passione    di    un vero cultore   . Sembra     che abbia  vissuto  gli anni  dei B   in prima  persona  .  Ottima  l'idea  di   scrivere  anche  in inglese  . credo  che a B   quelli viventi  o  gli eredi   di quelli  morti  farebbe  piacere  ricevere una  copia  del libro.Un’opera ,  dicevo ,  che è soprattutto una grande dichiarazione d’amore, appassionata e vera come solo un  apassionato sa fare . Un libro che è nato prima come rubrica social, e che sui social sta diventando un caso .Infatti   Come facilmente prevedibile, questo progetto ha suscitato tanti commenti. Quasi tutti accolti con grande favore dell’autore. "L’unico commento spiacevole – aggiunge Federico – è stato quello di una persona che ha detto che non ha senso comprare un libro sui Beatles scritto da un diciottenne. Non sono ovviamente d’accordo". La pubblicazione è disponibile nelle librerie e negli e-store . Non  sono d'accordo   perchè  come   mi pare  bbia  ichiarato  lui stesso    da quyalche  parte   Oggi il rock ha settant’anni, c’è meno stupore per certi sound o per certi messaggi, ma personalmente credo che la discografia dei Beatles porti con sé messaggi universali, raccontati in maniera unica, che difficilmente si può non tanto superare ma anche solo avvicinare  . Infatti      Il libro nasce come appuntamento quotidiano su Instagram e Facebook   , pagina  poi chiusa  per  problemi di  copy  right    dove, ogni giorno alle 14, l’autore ha pubblicato dal primo gennaio 2023 una recensione al giorno delle 215 canzoni dei Beatles, che sono poi diventate 221 con la scelta di una canzone a testa dalla carriera solista degli ex Fab Four e l’aggiunta di Now & Then, brano uscito lo scorso anno, canzone postuma che chiude il cerchio sulla carriera dei quattro ragazzi di Liverpool.  Un  opera   "The Beatles everyday" è il frutto dello sforzo, della passione e dell’anima di un sedicenne innamorato dei Fab Four che con tutta la spontaneità e l’urgenza della sua età ha deciso di analizzare ogni loro brano su una pagina Instagram di sua creazione, dal titolo omonimo (@thebeatleseveryday), dove ogni giorno – senza un ordine prestabilito – postava una recensione; lo ha fatto con un tono più informale del consueto, con il coraggio e l’impudenza di dare giudizi personali, talvolta tranchant, senza alcun timore o remora. L’aspetto più interessante è potere avere una nuova visuale, fresca, diretta, talvolta sfacciata, di tutta l’opera della band, senza mediazioni e compromessi. E soprattutto con l’aggiunta di considerazioni personali, non necessariamente legate all’aspetto artistico, che pongono il libro in un contesto quasi filosofico: con la peculiarità, che non guasta mai, anzi è il sale della vita, di sana (auto) ironia. Qualcuno si indispettirà (“Ma come si permette?”) nel leggere certe considerazioni su questo o quel brano, non cogliendo invece il grande pregio di "The Beatles everyday": una visione mai paludata di un’opera così importante e classica.  Unici nei ,  che  mi vengono cosi  a  caldo e  un po'  banali soprattutto il primo    ,  ma     che non ne   sminuiscono  per  questo la belezza e  l'importanza  ,  e    che  credo  che  se   vorraà presentarlo  ad  un pubblico di specialisti   in eventuale  ristampa  ,  saranno corretti   ,   sono  : 1)  le  canzoni  esposte   alla  rinfusa   cioè   sparse  e    non  album  per album    e  quindi  una lettura  difficile     che  costringe  a   saltare di qua  e  di la    a  chi  non è un  vero fans    o  nostalgico  di B   , ma  vi  si avvicina  per  la  prima volta .  2)  Manca  una  nota  che spieghi  , infatti  ho  avuto all'inizio e   sono  dovuto  ricorrere  ad  internet  per  capirle   i  suoi voti  ,   il  metodo dei voti americani  rispetto   a    quelli europei .   3)  il voler   giustamente  , fare una  cosa  spontanea  e  non  programmata  . A  volte  succede  persino  a me  ,    quando  voglio bloccare  una  cosa ed  evitare    che finisca   dispersa nel   vento    e nell'rapido oblio .   Comunque  un ottimo  libro  d'avere     nella propria  biblioteca     a prescindere  dall'essee  fans  o meno  dei B  .  Concludo   con   i  complimenti  a  Federico   per  un eventuale   prossimo libro o  cd     di cover   dei B  . 

Lea e Sammy i due campioni - © Daniela Tuscano

 Credo di essere stata un po' innamorata di #leapericoli, da bambina. Era l'opposto di me, biondissima, aggraziata ma non leziosa, pareva non toccar mai terra. Le avevano disegnato un completo con piume di cigno, che indossava con spontaneità non umana. Quella che vedevo era un vero uccello, forse per questo mi piaceva tanto. #langelocapovolto fu il giusto titolo del suo ultimo libro. Impagabile la sua torsione berniniana, che sfidava le leggi di gravità.
Era una milanese d'Africa, vissuta ad #addisabeba. Laggiù emerse la sua passione e a quei luoghi sempre rimase legata, come ricorda nella sua autobiografia #maldafrica.Poi la terribile malattia. #Carcinomaallutero. Lo seppi dai miei genitori. Se adesso difficilmente se ne esce, nel 1972 non dava scampo. E le cure erano, come Lea stessa dichiarò, «devastanti». Quando le comunicano la notizia, sviene. Ma ricorda subito chi è. Sconfigge il #tumore. Non è finita. Il maledetto si ripresenta nel 2012, quarant'anni dopo. Questa volta al #seno. I tempi sono mutati, la medicina meno invasiva, ma Lea è sempre Lea, malgrado gli sfregi al suo corpo e alla sua femminilità. Arriva a quasi 90 anni in salute, ancora bellissima, sempre tanto bionda (ma mai troppo), elegante per antonomasia, non solo campionessa sportiva: scrittrice, conduttrice televisiva, #testimonial contro una malattia che non è riuscita a domarla, segno di speranza non solo per chi ne è preda. Muore il 4 ottobre, festa di San Francesco, coetanea di mio padre; ma l'ha superato di un anno.
Due giorni dopo la segue #sammybasso, che di anni ne ha solo 28, ma il cui fisico è già arrivato al
punto di Lea. La «bionda» di Sammy è la sua splendida madre. Lui è il più «vecchio» paziente al mondo affetto da #progeria, invecchiamento precoce e mente giovane. Due lauree summa cum laude, il sogno di lavorare al #CERN, fondatore dell'associazione per la ricerca su questo morbo raro e spietato. Ma Sammy è stato, soprattutto, uomo di #pace. «Se i grandi della terra capissero cosa significa lottare per la #vita - dice - credo non avrebbero il coraggio di fare la #guerra». La vita. L'unico valore che non s'insegna, e il solo per cui valga la pena morire.

6.10.24

diario di bordo n 80- anno II C’è una maestra alle Tremiti: “Io, pendolare e precaria riapro la scuola dopo 21 anni” , Toghe choc: vietato licenziare chi viola le norme di sicurezza , sicurezza sul lavoro non solo colpa dei padroni


la prima è una storia come Un mondo a parte, regia di Riccardo Milani (2024)

C’è una maestra alle Tremiti: “Io, pendolare e precaria riapro la scuola dopo 21 anni”





Foggia, 5 ottobre 2024 – Alle isole Tremiti il primo giorno di scuola è arrivato con due settimane di ritardo. Finalmente è sbarcata sull’isola un’intrepida insegnante di 64 anni, Michela Liuzzi, maestra ancora precaria nonostante sia ormai vicina alla pensione. Ma è grazie a lei, a questa volitiva docente di Apricena (Foggia), che quest’anno i sette bambini della primaria del piccolo arcipelago, a nord del promontorio del Gargano e

Comune più settentrionale della Puglia con 496 residenti, potranno sedere tra i banchi, come nel resto d’Italia. “Alcuni giorni fa, l’Ufficio scolastico regionale mi ha proposto di venire in questa sede. La scuola era chiusa dal 2003, perché non c’erano abbastanza bimbi, ma quest’anno, grazie all’arrivo di 7 studenti, si poteva riaprire.Tuttavia, due colleghe avevano rifiutato l’incarico. E così mi sono trovata di fronte a una scelta difficile. Non nego di averci pensato a lungo: accettare significava partire dal mio paese, attraversare il Gargano e affrontare la traversata ogni settimana. Ma alla fine, il pensiero di poter far rivivere questa scuola mi ha convinta”. Michela è stata accolta a San Nicola, ‘capitale’ delle Tremiti, come un’eroina. Grazie a lei i piccoli alunni potranno frequentare regolarmente l’aula scolastica e imparare i primi rudimenti della grammatica e della matematica. “Rifiutare significava essere cancellata dalle graduatorie e vedere sfumare le poche possibilità di continuare a insegnare. Ma…”

Ma?

“L’ho fatto soprattutto per passione. Amo insegnare, amo i bambini e il legame che si crea in aula. L’insegnamento è una missione che ho nel cuore da tutta la vita”.

La sindaca Annalisa Lisci, che ha alle spalle una lunga esperienza da ristoratrice, promette che l’inviterà a pranzo e cena ogni volta che lei vorrà. Quindi ha avuto un’accoglienza con il tappeto rosso?

“Quando sono arrivata al molo, c’era già un piccolo studente, Andrea, che mi aspettava con la sua mamma. È stato un momento speciale, ero emozionata, anche un po’ agitata, ma mi sono sentita subito la benvenuta. Ho capito che, nonostante tutto, ne sarebbe valsa la pena. E poi, l’accoglienza delle famiglie è stata meravigliosa. Mi hanno fatto sentire a casa”.

Dopo le feste di benvenuto, dovrà affrontare i problemi concreti di tutti gli isolani: la solitudine, l’isolamento, la distanza dalla terraferma. Non potrà fare la pendolare come molte sue colleghe precarie. Ci ha già pensato?

“Resterò sull’isola dal lunedì al venerdì, per dedicarmi interamente ai miei alunni. Ogni venerdì, “meteo permettendo”, prenderò il traghetto per tornare a casa, ad Apricena, dove mi aspetta mio marito. I nostri figli, ormai grandi, vivono a Roma. Loro mi hanno sostenuta molto in questa scelta. Sanno quanto l’insegnamento conti per me”.

Le auguro di avere sempre un buon meteo, allora.

“Lo so che posso rischiare di restare bloccata anche per giorni, ma credo di avere un compito: dare una istruzione di qualità a questi sette bambini”.


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la seconda storia riportata sotto si collega alla prima e alla vignetta del ruggito del coniglio cita in essa .
Inizialmente forse influenzato dai film di Checco Zalone Sole a catinelle (2013) , Quo vado?(2016) entrambi per la regia di Gennaro Nunziante pensavo visto il titolo che
era fregarsene e lavorare ., non capisco questa smania del posto fisso e di un lavoro che corrisponda a quello che hai studiato . Almeno all'inizio poi con la gavetta e sacrifici tiu metti in proprio e ti crei il lavoro per cui sei portato ) . Pensa ai in nostri nonni quando non emigravano , facevano mille lavori per portare a casa il pane e tirare avanti mica si lamentavano . Adesso si sceglie la scorciatoia d'andare all'estero . magari per fare glistessi lavori che ti offrono in italia oppure ci si lamenta e ci si sconforta \ piange addosso.Poi   mi  pare    ne  commenti  all'articolo su  mns    mi  hanno  risposto  che  la  realtà è un altra  .

Il problema non è il posto fisso. E' trovare un lavoro con continuità, perché se tra un posto e l'altro passano mesi o anni senza stipendio... Diventa un problema. Ai tempi dei nostri nonni era molto più facile trovare un posto, se si aveva voglia di lavorare. Adesso non lo è più, soprattutto quando sei giovane e non riesci ad entrare da nessuna parte. 
Se poi parliamo di estero... Non è facile trovare lavoro ad esempio nel Regno Unito, dopo la Brexit, anche se magari hai preso la laurea proprio lì.
   

   ecco la storia  a  voi ogni giudizio in merito 


«Ho un dottorato di ricerca ma a 38 anni non riesco a trovare un lavoro, vivo con impieghi part-time. Mi pento di tutto il percorso che ho fatto»

«Si, sono laureato, ma è un errore di gioventù del quale sono profondamente consapevole…ho inoltrato una richiesta per rinunciare al mio titolo accademico, tempo due settimane io ho praticamente la quinta elementare…». A dirlo è Pietro Sermonti in Smetto quando voglio, film di Sydney Sibilia che usciva ormai dieci anni fa. Nella pellicola, Sermonti è un antropologo iperqualificato che cerca lavoro come operaio, vista l'impossibilità di dare frutto ai suoi studi nel mondo lavorativo. Mentre fa un colloquio con il titolare dell'officina meccanica si lascia però scappare un «c’è stata un’aspra diatriba legale» che lo "smaschera" davanti al datore di lavoro che di laureati non ne vuole sentire nemmeno parlare.È una scena che sintetizza molto bene il mondo del precariato, da noi in Italia come in altre parti del mondo, come per esempio negli Usa, dove non sempre si raggiunge l'agognato "sogno americano". Lo sa bene A. Rasberry, che negli ultimi 10 anni ha dato un’enorme importanza all'istruzione. Oggi, però, si trova a pentirsene amaramente.Dopo aver conseguito una laurea triennale, un master e un dottorato in gestione aziendale presso la Saint Leo University in Florida, Rasberry si è trovata inaspettatamente in difficoltà. Da quattro anni, racconta a Business Insider, cerca disperatamente un lavoro nel suo settore, senza successo, e nel frattempo il suo debito universitario ha superato i 250.000 dollari.Dopo il dottorato, Rasberry ha iniziato a cercare ruoli nel management aziendale, ma con scarsi risultati. Questo l’ha portata a dover ampliare il raggio di ricerca e valutare una carriera alternativa, come quella infermieristica, per poter pagare le bollette. «Pensavo che l'istruzione fosse la strada per la libertà finanziaria - ammette con amarezza - ma mi sbagliavo».
Inizialmente la donna voleva lavorare come docente universitaria, ma ha scoperto che avrebbe dovuto tornare a studiare ancora per ottenere ulteriori crediti. Così ha deciso di abbandonare il sogno dell’insegnamento e cercare ruoli nel management aziendale, il settore in cui si è specializzata. Tuttavia, anche questa ricerca si è rivelata difficile: «Sono sovraqualificata per i ruoli di base e sottovalutata per quelli più importanti», ammette. Un paradosso che non le permette di collocarsi da nessuna parte. Rasberry consiglia a chi vuole proseguire gli studi di valutare bene i programmi di collocamento lavorativo e le partnership per gli stage. «Ho imparato che la maggior parte delle aziende preferisce l'esperienza all'istruzione», afferma con rammarico.
Una via d'uscita
Nel frattempo, la 38enne ha svolto molti lavori part-time per pagare le bollette fino ad avvicinarsi al mondo dell'infermieristica, lavorando anche 80 ore a settimana. «È praticamente impossibile coprire le spese in Virginia con un solo lavoro», spiega, aggiungendo che guadagna 21,50 dollari all’ora, ben al di sotto della media nazionale per le infermiere. Nonostante abbia trovato anche una certa soddisfazione nel settore, non lo considera un lavoro a lungo termine per via della bassa paga e delle limitate opportunità.Negli ultimi mesi, Rasberry ha finalmente avuto un piccolo colpo di fortuna. Ha ottenuto un ruolo da remoto come consulente per un piano nel settore infermieristico, con un salario annuale di circa 70.000 dollari, equivalenti a più di 30 dollari l’ora. Anche se questo rappresenta un passo avanti, non è ancora abbastanza per farle dimenticare il suo vero obiettivo. «Continuerò assolutamente a cercare ruoli meglio retribuiti nel mio campo di studio», conclude Rasberry.

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un po giustificazione e scaricabarile \  autoassoluttoria , ma  vero  in parte perchè capita anche s'è    un numero infinitesimale rispetto  alla  somma  totale ,capita     che   gli incidenti molto spesso  mortali   sul lavoro sia colpa dei lavoratori  stessi  . 




  per  concludere sempre  sul mono del  lavoro


da ILGiornale tramite mns.it




Niente imbragatura. I guanti infilati in tasca e il caschetto non allacciato. Il lavoratore era in un ambiente molto pericoloso, ma si era disfatto dei dispositivi di protezione. Il licenziamento - spiega però in modo sorprendente il giudice del lavoro - è una misura eccessiva e sproporzionata. Non era la prima volta che questo accadeva, ma il magistrato minimizza o comunque si schiera dalla parte dell'operaio e di quelli come lui. É stato a dir poco sciaguratamente superficiale, ha messo a repentaglio la propria vita e l'ha fatto a dispetto delle intimazioni ricevute dall'azienda in cui prestava servizio. Ma va bene così. Le
sentenze parlano chiaro: accade al tribunale di Venezia e a quello di Ascoli Piceno.Esiste nel nostro Paese una cultura perdonista che, gira e rigira, giustifica le mancanze, anche quelle ripetute, anche quelle che fatalmente portano all'incidente e talvolta alla morte.È la stessa mentalità che affiora in alcuni contratti collettivi del lavoro. D'accordo per la sanzione, quando il lavoratore trascura per sciatteria le precauzioni minime obbligatorie per legge e fornitegli dalla società da cui riceve la retribuzione, ma i sindacati non si spingono mai a sottoscrivere punizioni gravi per gli iscritti inadempienti.È davvero singolare che l'eterno, drammatico dibattito sulle morti del lavoro non tenga conto, anzi non faccia proprio emergere, questa grave lacuna. Si discute di appalti e subappalti, del lavoro nero e della mancanza di ispettori, da potenziare.Tutto vero. Ma i dati dell'Inail dicono che almeno il 50 per cento degli infortuni dipende dalla più elementare e sventurata dimenticanza: non aver messo quegli strumenti che potevano fare la differenza. L'imbragatura. Il caschetto ben allacciato. I guanti. Gli occhiali che in molte situazioni preservano da conseguenze potenzialmente devastanti.Parliamo, come si capisce, di accorgimenti minimi che richiedono un'attenzione di pochi secondi, ma tante volte é qui che ci si blocca. L' abitudine è una cattiva consigliera e qualche volta porta dritti al disastro.Ma il tribunale va per la sua strada. Il caso che si presenta in uno stabilimento di Marghera è clamoroso: «Se il lavoratore poteva in qualche modo giustificare l'assenza (imbragatura) o non utilizzo (guanti) o non corretto utilizzo (caschetto) dei DPI (dispositivi di protezione individuale) in dotazione, ciò che non può essere giustificato è il rifiuto ad utilizzarli e l'insistenza nel voler affermare di doverli utilizzare».Insomma, non si trattava di una dimenticanza, ma di una sorta di insubordinazione ad alto tasso di ideologia. Un rifiuto totale dei dispositivi di protezione. Licenziamento per giusta causa? Il non utilizzo c'è tutto ed è pure teorizzato. Ma il giudice ridimensiona il fatto e la disubbidienza: «Si trattava tuttavia di una condotta che non assurge a giusta causa, per il difetto di proporzionalità fra fatti e condotta. La giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali nel rapporto di lavoro». Evidentemente, per il magistrato la sicurezza sul luogo di lavoro non tocca la sfera degli elementi essenziali. Non è grave, anche se gravissime possono essere le ricadute di questo atteggiamento, addirittura rivendicato dal dipendente.Anche ad Ascoli Piceno va in scena un copione del genere: il dipendente va nel reparto stampaggio senza gli occhiali e viene sanzionato con la sospensione per un giorno; qualche tempo dopo, la storia si ripete e di nuovo scatta la sospensione. La terza volta l'azienda procede con il licenziamento per giusta causa, ma il giudice lo annulla.Il motivo? È vero che la recidiva può portare alla fine del rapporto di lavoro, ma la mancanza deve essere grave. E qui non c'è la prova: o meglio non c'è la certezza che in quel momento i macchinari fossero in moto. Dunque, il danno da incidente sarebbe stato lieve. Il licenziamento cade anche in questo caso.



Debuttare a cent’anni: i dipinti di Anna Maria Fabriani

 È la prima volta che le sue opere si offrono allo sguardo del pubblico. Un sicuro talento il

La pittrice Anna Maria Fabriani ha compiuto ieri 100 anni, il sindaco Mario Pardini e il consigliere comunale Gianni Giannini FONTE LA NAZIONE.IT

suo, affinatosi accanto a uno dei maggiori esponenti della Scuola Romana, Carlo Socrate, ma rimasto poi confinato nella dimensione domestica, per censura e autocensura, per quel non sentirsi all’altezza, perché per le donne non è mai stato facile (e in parte ancora
non lo è) ottenere la giusta considerazione e i relativi riconoscimenti, figurarsi nell’Italia patriarcale del secondo dopoguerra. E se una prima volta è sempre importante, questa è davvero speciale. Sì perché l’artista a cui è dedicata questa prima retrospettiva è Anna Maria Fabriani, nata a Roma nel 1924, e che lo scorso 28 giugno ha compiuto cento anni. La mostra Anna Maria Fabriani – Riverberi e trame della Scuola Romana, a cura di Sabina Ambrogi, figlia dell’artista, è allestita nei magnifici e prestigiosi spazi di Palazzo Merulana, a Roma, fino al 6 ottobre. E benché la pittrice ora viva a Lucca, all’inaugurazione, il 4 settembre, è stata presente, forse un po’ frastornata da attenzioni e complimenti ma sempre lucida e ironica, tanto da dire alla figlia Sabina artefice di tutto: "Ma cosa ti è venuto in mente?".
Ha sempre dipinto Anna Maria, figlia di un designer industriale, Raffaele Fabriani, e di Maria Magris, appartenente a una famiglia di illustratori, pittori, architetti. Nel dopoguerra, con i soldi guadagnati come impiegata al ministero degli Esteri, si paga gli studi all’Accademia di Belle Arti di via Ripetta, dove diventa allieva di Carlo Socrate. Nel 1960 sposa Silvano Ambrogi, scrittore e drammaturgo, autore tra l’altro de I Burosauri, commedia di successo, scelta anche da Roberto Benigni per il suo debutto come attore. Nascono Cecilia e Sabina, si dedica all’insegnamento e dalla fine degli anni ’60 smette di dipingere. "Non è assolutamente dipeso da mio padre, è stata una sua scelta", tiene a precisare Sabina.
Passano molti anni prima che riprenda i pennelli in mano. Accade pochi mesi dopo la morte del marito, scomparso nel ’96. Si ricorda di un ritratto che gli aveva fatto da giovane, mai completato e rimasto confinato in cantina. Da quel momento ricomincia a dipingere e continua, con quella passione, quasi un’ossessione, che la portava a non essere mai soddisfatta. "La notte cancellava con una lametta – racconta Sabina – quello che aveva dipinto durante il giorno. La mattina dopo riprendeva a dipingere su quella tela, per poi, la sera, tirare via di nuovo tutto". Dipingeva nella sua stanza da letto: nature morte, fiori, ritratti: soggetti che rispecchiano il suo orizzonte domestico e il bellissimo ritratto della figlia Cecilia ne è l’immagine simbolo sul manifesto della mostra. Nel 2018, dopo avere realizzato un centinaio di opere, si ferma perché non riesce più a stare in piedi davanti al cavalletto e non è pensabile per lei dipingere da seduta.
Nella mostra di Palazzo Merulana ci sono quadri del primo periodo della sua attività, dal ritratto di Rosetta e della madre, Maria Magris, del 1953, e quelli della seconda fase fino all’ultimo, Limoni e bottiglia di amaro. Ha impiegato anni Sabina Ambrogi a recuperare i quadri della madre, molti messi via senza nessuna attenzione così da avere bisogno di importanti restauri. Alcuni ritrovati per caso, macchiati di vernice, ammuffiti, nella cantina di un palazzo a Villa Fiorelli, a Roma, dove la pittrice aveva abitato dal 1934 al 1960. E altri ne mancano all’appello, come quelli spediti nel 1959 al fratello Maurizio, in Venezuela, scaricati al porto di Caracas e di cui si sono poi perse le tracce. La speranza è che questa mostra possa, in qualche modo, come lanciando “un messaggio in una bottiglia“, aiutare a ritrovarli.

4.10.24

IL NEO-ANTISEMITISMO PROVOCATO DA “BIBI”.benjamin netanyahu

 

.IL NEO-ANTISEMITISMO. .PROVOCATO DA “BIBI”.

IL CONFRONTO La violenza del 7 ottobre è stata il frutto della scelta terroristica di uccidere i civili. I morti di Gaza sono opera di uno Stato che si proclama democratico, ma colpisce anche i vecchi e i bambini

FOTO ANSA
L’uomo e la sua guerra Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu

La trasformazione di Israele in un Paese autoritario avanza, la polizia attacca ogni manifestazione di dissenso, le prigioni sono piene di cittadini arabo-israeliani e dei Territori detenuti senza processo, le dichiarazioni razziste dei ministri si moltiplicano.

Una parte non indifferente della società civile reagisce nonostante le crescenti difficoltà: chiede la cessazione delle ostilità, la liberazione degli ostaggi, le dimissioni del governo. Ci sono militari che rifiutano di andare a combattere a Gaza, preferendo la prigione. Si è formata addirittura un’organizzazione di genitori che invita i figli a rifiutare di combattere questa guerra. Basterà a rallentare o a fermare il suicidio di Israele? Come fermarlo se non attraverso una sollevazione della società? E come possono partecipare gli ebrei della diaspora? Quanto avviene si delinea infatti sempre più come una catastrofe non solo per lo Stato ma anche per il resto del mondo ebraico. L’antisemitismo non è mai morto del tutto nel mondo, nemmeno nell’europa i cui ebrei sono stati quasi completamente distrutti nella Shoah. Originariamente appannaggio dell’estrema destra neonazista, e fondato sul negazionismo della Shoah, si è saldato fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento con l’ostilità terzomondista verso Israele e con la posizione antisionista assunta dopo il 1954 dal blocco sovietico, in forme non sempre e non necessariamente antisemite, e fortemente dipendenti dalle vicende mediorientali, in particolare dopo la Guerra dei sei giorni e l’inizio dell’occupazione: “Dichiarazioni intempestive – scrive lo storico Eli Barnavi, ambasciatore israeliano in Francia dal 2000 al 2002 – insediamenti minuscoli e inutilmente provocatori, confische di terre arabe, peraltro spesso sconfessate dall’alta Corte di Giustizia, internamenti amministrativi, distruzione di case con la dinamite, espulsioni, repressione fondata sul principio della responsabilità collettiva: tutto questo forma la trama della vita di un’occupazione che si è voluta ‘liberale’, (...), ma che non per questo è meno odiosa, e danneggia l’immagine di Israele nel mondo” .

Come respingere l’assimilazione fra israeliani ed ebrei quando nella diaspora le voci contro Netanyahu sono flebili e accusate troppo spesso di antisemitismo? È necessario ricorrere a una definizione dell’antisemitismo che consenta di mettere dei paletti. Ma anche qui la situazione è complicata. Di definizioni ne abbiamo due recenti. Una è quella dell’international Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), del 2016, adottata da 43 Stati, Italia compresa, che pone un legame stretto tra antisionismo e antisemitismo. L’altra è quella di Gerusalemme del 2021, opera di ambienti accademici israeliani e americani preoccupati delle conseguenze che la definizione dell’ihra avrebbe avuto sul piano della delegittimazione delle critiche a Israele come antisemite. Il documento di Gerusalemme definisce l’antisemitismo come “la discriminazione, il pregiudizio, l’ostilità o la violenza contro gli ebrei in quanto ebrei (o le istituzioni ebraiche)”.

Tutto ciò è diventato ancora più importante oggi. Infatti, come possiamo limitarci a condannare l’antisemitismo che cresce, estendendo il termine “antisemitismo” a ogni condanna della guerra di Gaza? Paragonare il clima di oggi a quello che in Italia accompagnò le leggi razziali del 1938, come è stato fatto, mi sembra una forzatura. (...) Non è che a forza di estendere a dismisura la nozione di antisemitismo finiremo per perderne la specificità?

Che fare, ad esempio, quando gli studenti (...) si battono contro dei veri e propri massacri? Limitarci a denunciarli come antisemiti? Non riesco a non riconoscere in molte di queste loro parole d’ordine, sia pur confuse e inadeguate, che la Shoah debba essere un insegnamento e un monito per tutti i genocidi, che questo non debba succedere più. È vero che in molti casi siamo di fronte a movimenti che per attaccare la politica israeliana giungono anche ad attaccare gli ebrei in quanto tali.

È antisemitismo, certo, ma non un antisemitismo di Stato. È un antisemitismo con cui si può provare a discutere, a spiegare. Per questi movimenti, il sionismo è colonialismo, apartheid, razzismo. Considerando la guerra di Gaza tout court come un genocidio, la maggior parte degli studenti, credono di battersi contro il Sudafrica dell’apartheid, il razzismo dell’america degli anni Cinquanta, l’imperialismo americano in Vietnam. (...)

La questione se il termine genocidio si possa o meno applicare a Gaza è controversa, soprattutto per la condizione di intenzionalità, necessaria a definire il genocidio. Meno controverso dal punto di vista giuridico è però l’uso del termine “crimine contro l’umanità”. (...) Cosa cambia per chi muore sotto le bombe se definiamo la sua morte “massacro” o “genocidio”? Le distinzioni verranno dopo, nei processi, che speriamo ci siano, delle Corti internazionali.

Personalmente, non riesco a condividere l’allarme del mondo ebraico diasporico sull’antisemitismo. Uno degli aspetti che mi preoccupa è quello delle università che chiedono l’interruzione dei rapporti culturali con Israele. Il movimento Boycott, Divestment, Sanctions (BDS), nato nel 2005 all’università di Bir Zeit, nella West Bank, fino a qualche mese fa minoritario nella sinistra, è cresciuto dopo l’inizio della guerra di Gaza fino a diventare una presenza forte e influente. Il risultato però è quello di accrescere il senso di solitudine di Israele.

Non quello del governo, che si fa un vanto del suo isolamento, ma quello delle forze progressiste israeliane scoraggiandole nella loro battaglia contro il governo. È vero, c’è oggi un’ondata di antisemitismo nel mondo, (...) la parola sionismo sembra diventata una bestemmia, in Italia il movimento delle donne “dimentica” gli stupri del 7 ottobre e il pride emargina i movimenti LGBTQ+ ebraici, di nuovo “dimenticando” gli omosessuali impiccati da Hamas a Gaza. Tutto vero. Ma la colpa non è certo solo dell’antisemitismo, (...) ma del comportamento di Israele e del suo governo dopo il 7 ottobre, dei morti innocenti causati nella guerra di Gaza, dei proclami di pulizia etnica (...). D’altra parte, durante le manifestazioni anti-israeliane viene ripetuto lo slogan “dal fiume al mare, Palestina libera”. Si tratta o meno di uno slogan antisemita, nel senso che vorrebbe la scomparsa di Israele sostituito da una grande Palestina, proprio come per i sionisti religiosi a dover scomparire da Giudea e Samaria sono i palestinesi? So che è possibile interpretarlo anche come libertà per tutti e come immagine di uno Stato binazionale, come ha scritto recentemente uno studioso attento come Enzo Traverso. Ma chi lo grida nelle manifestazioni ha in mente questa interpretazione, (...) o si limita a gridare uno slogan contro l’esistenza stessa di Israele?

Percorrere la via stretta tra il governo di Netanyahu e Hamas è difficile, soprattutto nel mondo ebraico abituato a denunciare ogni crescita dell’antisemitismo e ormai convinto che si debba far un tutt’uno di antisemitismo e antisionismo. Intanto Israele è sempre più isolata, il mondo condanna la distruzione di Gaza. I più stretti alleati di Israele si distanziano dalla sua politica.

(...) Come possiamo celebrare la memoria della Shoah oggi, senza parlare del 7 ottobre e di Gaza? Ma è davvero possibile confrontarli, come fa Netanyahu, mettendo entrambi sotto lo stesso ombrello dell’antisemitismo? L’uno, il 7 ottobre, frutto dell’antisemitismo, l’altro, la distruzione di Gaza, come necessità di difendersi dall’antisemitismo? La violenza del 7 ottobre può anche essere apparsa come il desiderio di uccidere gli ebrei, (...) ma è stato il frutto di una scelta deliberata, e terroristica, di uccidere i civili e di esporre alla morte gli abitanti di Gaza per una battaglia che Hamas vuole fare apparire come una lotta di liberazione. Ma i morti di Gaza sono opera di uno Stato che si proclama democratico, ma che non esita a colpire vecchi e bambini per uccidere un solo capo di Hamas. Un capo che sarà sostituito da un altro dopo pochi giorni. E gli ebrei del mondo (...) come possono accettarlo senza reagire?

L’unico modo in cui possono farlo è se davvero credono che tutti gli arabi, che tutti i palestinesi, siano terroristi pronti a sgozzarli. Non voglio pensare che sia così, preferisco vedere in questo il volto terribile della vendetta.

Miracolo nel mare di Teulada: salvano un naufrago durante la regata e poi vincono. Il bel gesto dell’equipaggio di India: Tonino, 70 anni, era in acqua da ore aggrappato a una tanica di benzina

  chi  lo ha  detto  che  si  vinca  solo lottando  .

 la  nuova  sardegna  03 ottobre 2024

Miracolo nel mare di Teulada: salvano un naufrago durante la regata e poi vincono

                                       di Sergio Casano




Cagliari Sono felici i componenti dell'equipaggio di India non per la vittoria ottenuta alla "Teuladata" regata d'altura organizzata dall'Avas, che si svolta nell'ultimo weekend tra Cagliari e Teulada, ma soprattutto per aver salvato un naufrago a qualche miglio dall'arrivo: «L'abbiamo avvistato mentre era aggrappato a una tanica di benzina, che solitamente si usa per segnalare la presenza di una nassa - racconta Cristian "Kiki" Busu, coproprietario di India, G34 dello Sporting Center di Hidor Grassi –. Inizialmente ho pensato che fosse un sub che si sbracciava affinché facessimo attenzione mentre stavamo bordeggiando durante la bolina tra Capo Spartivento e Teulada. Invece, oltre che sbracciarsi, urlava chiedendo aiuto. Così ci siamo resi conto che era un uomo in difficoltà».Ammainato il fiocco, con una manovra da manuale, il timoniere dell'imbarcazione Antonello Ciabatti, è riuscito a portare su il naufrago, che ha detto di chiamarsi Tonino: una settantina d'anni,  si trovava in acqua da alcune ore in seguito al rovesciamento del suo barchino da pesca. Era ormai allo stremo, sfinito, con i primi segni evidenti di ipotermia. Fortunatamente, Eleonora Altea, anche lei componente dell'equipaggio di Indi*, è riuscita a riattivare la circolazione del naufrago, dopo averlo avvolto con una coperta e riscaldato.«Abbiamo avvisato la Capitaneria di porto - continua Kiki Busu - ma la motovedetta sarebbe arrivata forse dopo qualche ora. Così abbiamo deciso di far rotta verso il porto di Teulada, dove è arrivata un'ambulanza che ha preso in consegna il naufrago». Tonino grazie alle cure ricevute a bordo di India intanto si era già ripreso. Ma la storia non finisce qui. «Abbiamo avuto il tempo anche di ritornare sul campo di regata e concludere la regata, arrivando primi al traguardo - conclude Kiki Busu – ma la soddisfazione più grande è quella di aver salvato la vita al pescatore».

3.10.24

Israele ha distrutto la mia università, ma non il mio desiderio di istruzione


Israele ha distrutto la mia università, ma non il mio desiderio di istruzione
Per un anno ho cercato disperatamente di continuare i miei studi universitari a Gaza per darmi un senso.




           
    L'autore tra le macerie di Khan Younis  [Per gentile concessione di Aya Hellis]


tradottto automaticamente da Israele ha distrutto la mia università, ma non il mio desiderio di istruzione | Conflitto israelo-palestinese | Al Jazeera  


Le opinioni espresse in questo articolo sono dell'autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.



Aya Hellis
Una studentessa universitaria di Gaza



Ho iniziato la mia laurea triennale in ingegneria edile presso l'Università islamica di Gaza (IUG) nel 2021. Ero molto orgogliosa di me stessa per essere entrata nel campo di studi che avevo sempre voluto perseguire.
La mia vita sembrava pronta per i successivi cinque anni. Avrei studiato sodo, avrei cercato di superare gli esami con buoni voti, avrei fatto uno stage in un noto studio di ingegneria e poi avrei fatto domanda per un master.
Tutto stava andando secondo i piani fino al 7 ottobre dello scorso anno. Quel giorno avrei dovuto presentare un progetto universitario per il quale avevo perso molto sonno. I bombardamenti sono iniziati la mattina ma non ho prestato attenzione e ho continuato a lavorare al progetto. Ero abituato agli attacchi israeliani a Gaza. Ne avevo vissuti una mezza dozzina.
Poi ho ricevuto la notizia che le lezioni universitarie erano state sospese. Ancora una volta, pensavo che le cose sarebbero tornate presto alla normalità, quindi ho finito il progetto e l'ho inviato.
Il giorno dopo, l'8 ottobre, avrei dovuto discutere un compito di gruppo con altri tre compagni di classe. Doveva essere la nostra ultima discussione per concludere il progetto prima di presentarlo il 10 ottobre. Invece di parlare con i miei compagni di classe, ricevetti la notizia che uno di loro, il mio caro amico Alaa, era stato ucciso da un attacco aereo israeliano. Invece di finire il compito universitario, piansi il mio amico.
Il 14 ottobre ho detto addio alla mia casa a Gaza City mentre i miei genitori, i miei fratelli e io fuggivamo a Khan Younis, pensando che saremmo stati al sicuro lì. Ho lasciato il mio laptop, i progetti, i libri e tutto ciò che riguarda i miei studi.
A Khan Younis sognavo di tornare all'università. Alla fine l'ho fatto, ma non per studiare. All'inizio di dicembre, una moschea proprio di fronte al condominio in cui alloggiavamo è stata bombardata dall'esercito israeliano. Ci siamo spaventati e abbiamo cercato rifugio nella vicina Università di Al-Aqsa, senza portare quasi nulla con noi. Quella notte, l'edificio in cui avevamo alloggiato fu attaccato e distrutto. Dovevamo cercare tra le macerie ed estrarre tutto ciò che potevamo trovare.
Siamo rimasti un altro mese e mezzo a Khan Younis. Avevo paura di connettermi a Internet, figuriamoci di controllare compagni di classe e amici. Il solo controllo del mio WhatsApp è stato un incubo terrificante. Avevo paura di sapere della morte di persone che conoscevo. A dicembre ho ricevuto la notizia che un'altra compagna di classe, Fatima, era stata uccisa dall'esercito israeliano insieme a suo padre e ai suoi fratelli.
A gennaio, l'esercito israeliano ha intensificato i bombardamenti, massacrando centinaia di persone a Khan Younis, e poi ha fatto irruzione nell'ospedale Al-Khair vicino a noi. Siamo fuggiti a Rafah e ci siamo sistemati in una piccola tenda piantata in strada. La vita era davvero miserabile.
Ma la speranza a volte arriva come un visitatore a sorpresa, quando meno te lo aspetti. A marzo, si è sparsa la voce di un piano per consentire agli studenti di Gaza di iscriversi alle università della Cisgiordania e frequentare le lezioni a distanza. È stato un tale sollievo. Sentivo che non stavo più sprecando la mia vita. Mi sono iscritta al programma e ho aspettato di avere notizie da una delle università.
Quando l'Università di Birzeit (BZU) mi ha contattato, ho sentito che la fortuna mi aveva finalmente sorriso. Mi sono iscritto al numero massimo di corsi che mi era consentito e ho aspettato felicemente di ricominciare a studiare. Ma la mia gioia è stata di breve durata. Appena cinque giorni dopo l'inizio del semestre, il 7 maggio, io e la mia famiglia siamo dovuti fuggire di nuovo dall'avanzata dell'esercito israeliano. Rafah era sotto attacco, quindi abbiamo dovuto evacuare per tornare a Khan Younis.
L'assalto dell'esercito israeliano a Khan Younis l'aveva fatta sembrare una città fantasma. Non c'era più niente lì. Gli edifici e le infrastrutture sono stati completamente distrutti. Non era adatto alla vita, ma non avevamo scelta. Più di un milione di persone sono state evacuate con noi da Rafah e i campi profughi e altre aree come Deir el-Balah erano pieni fino all'orlo del baratro.
Questo spostamento ha significato che non ho potuto completare i miei studi alla BZU. Mentre la vita in una tenda per le strade di Rafah era dura, internet ha funzionato per la maggior parte del tempo. A Khan Younis non c'era affatto internet. Il punto più vicino da cui potevo collegarmi era ad al-Mawasi, a sette chilometri di distanza.
Ho dovuto percorrere quella distanza a piedi con il cuore pesante per inviare un'e-mail alla BZU per far sapere loro che stavo terminando la mia iscrizione.
A giugno, ho ricevuto la notizia che la mia università di origine, IUG, aveva escogitato un piano per consentire agli studenti di completare i loro studi a distanza attraverso una combinazione di autoapprendimento e istruzione.
Ha diviso in due il semestre che abbiamo iniziato lo scorso ottobre, dandoci un mese per studiare materiale che normalmente richiederebbe mesi prima di sostenere gli esami per la prima parte; Poi abbiamo dovuto fare lo stesso per la seconda parte.
Trovare istruttori per ogni corso è stata una sfida. Molti professori sono stati uccisi e molti altri sono stati sfollati e in situazioni precarie, lottando per fornire cibo e acqua alle loro famiglie. Di conseguenza, abbiamo avuto un istruttore assegnato all'intero corso di quasi 800 studenti.
Mi sono iscritta a due corsi e ogni giorno iniziavo a camminare per sette chilometri fino ad al-Mawasi sotto il sole cocente, passando tra cumuli di macerie, spazzatura e pozzanghere di acque reflue, per scaricare le lezioni e rimanere in contatto con la mia università.
Ne sono rimasto soddisfatto. Qualsiasi cosa era meglio che sedersi in una tenda calda e deperire nella disperazione.
Ma mantenere questo studio a distanza era estremamente difficile. Poco dopo aver iniziato a studiare, l'esercito israeliano ha effettuato un massiccio attacco ad al-Mawasi, sganciando otto enormi bombe sul campo, uccidendo almeno 90 persone e ferendone altre 300.C'era caos e paura ovunque. Io stesso avevo paura di avvicinarmi a quella che doveva essere una "zona sicura".
Non sono tornato online per una settimana. L'esercito israeliano aveva danneggiato l'infrastruttura delle comunicazioni. Quando finalmente sono riuscito a connettermi, il segnale era molto debole. Mi ci sono voluti due giorni per scaricare un libro.
Sono riuscito a riprendere gli studi solo per essere interrotto di nuovo. Nuovi ordini di evacuazione emessi dall'esercito israeliano hanno costretto migliaia di persone nell'area vuota in cui ci eravamo stabiliti. Era così sovraffollato e rumoroso che avevo difficoltà a concentrarmi per ore.
Anche caricare il telefono per studiare era un'altra fonte di sofferenza. Ogni due giorni dovevo inviarlo la mattina a un servizio di ricarica e aspettare il pomeriggio per riaverla, sprecando un'intera giornata.
La settimana degli esami è finalmente arrivata ad agosto. Ho dovuto affannarmi per trovare una buona connessione a Internet e, quando l'ho fatto, ho dovuto pagare un'enorme somma di denaro per usarla per un'ora. Ho fatto quello che potevo agli esami.
Tre settimane dopo, ho ricevuto i risultati: A+ in entrambi gli esami. Quel giorno non riuscivo a smettere di sorridere.
Poi ho iniziato a studiare per la seconda parte del semestre e gli altri tre esami, che ho sostenuto a settembre.
Ho terminato questo semestre improvvisato quasi un anno dopo l'inizio della guerra: un anno di sfollamenti, perdite, vita in tenda, incubi ed esplosioni incessanti. Mentre lottavo per studiare, mi sono resa conto di quanto mi mancassero i piccoli "lussi" della mia vita precedente: la mia scrivania, il mio letto, la mia stanza, le mie barrette di tè e cioccolato.
Questi due mesi di studio per gli esami sono stati una piccola distrazione dai travolgenti sentimenti di perdita e disperazione in mezzo a questo genocidio in corso. Sembrava un'iniezione di un anestetico per aiutarmi a dimenticare solo per un po' il dolore della mia vita miserabile.