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20.9.17

quando si muore si muore soli ed altre storie

  in sottofondo

Francesco De Gregori - Adelante Adelante


la prima non è solo , come può sembrare dal titolo , dramma della solitudine ma anche di non curanza da parte dei familiari e estrema discrezione ( io sento odori strani , di cadaveere , provenienti dagli appartamenti vicini m'insospettisco e chiamo chi di dovere non aspetto una settomana o poi facciamo il meravigliato quando si scopre cosa è ) da parte dei vicini . Cio'  vuol dire , come ho scritto commento il fatto sul mo fb , che l'unico che le volesse bene doveva essere il cane 



ABANO TERME. Muore e viene vegliata per quasi una settimana sul suo letto dal suo “Principe”, un volpino di sei anni che le faceva compagnia nel suo appartamento di via Petrarca, ad Abano. Se n’è andata così, colpita da un infarto, Maria Teresa Martin, 62 anni, ex moglie del noto tassista di Abano Francesco Migliolaro.

IL corpo senza vita della donna a un settimana dal decesso è stato scoperto dai figli, Nicola di 40 anni e Omar di 25. Proprio quest’ultimo, lunedì, al ritorno dalle vacanze aveva provato a contattare per telefono la madre, senza però ricevere risposta.
Insospettito e preoccupato, ha allora avvertito il fratello maggiore, così verso le 22.30 si sono presentati insieme in via Petrarca all’abitazione della madre per scoprire cosa fosse successo. Invano hanno suonato il campanello dell’abitazione senza anche in questo caso ricevere risposta. «Così i miei figli sono saliti fino al balcone, forzandolo», racconta il padre dei due uomini ed ex marito della donna Francesco Migliolaro. «Hanno subito sentito un odore forte e notato Maria Teresa a letto, che non si muoveva, con la luce e la tv accese. Accanto a lei c’era il cane, che la vegliava».
I due figli, capita la situazione, hanno contattato immediatamente i carabinieri, giunti sul posto con i vigili del fuoco del distaccamento di Abano e la guardia medica. Una volta forzato l’ingresso è stata constata da parte dei medici la morte della donna, con il cadavere già in avanzato stato di decomposizione. «Era purtroppo già morta da circa una settimana», spiega ancora l’ex marito, che ora abita in via Tito Livio. «Ci eravamo separati tre anni fa e ci sentivamo poco ultimamente. Maria Teresa era una persona molto riservata, che faceva la casalinga, e che quindi rimaneva spesso in casa». Difficile quindi che i vicini si possano essere insospettiti che qualcosa potesse essere successo.
«Mi sono accorta di quanto era successo lunedì sera, quando sono rientrata e ho visto movimenti strani sotto casa», racconta una vicina. «Ieri mattina un’amica mi ha informato che Maria Teresa era morta. Dispiace molto. Era una donna molto buona, ma altrettanto riservata.

Usciva poco e non avevamo un rapporto stretto. Parlava raramente con i vicini, come succede tuttavia tra tutti gli abitanti della zona. Viveva da sola, ma non era in uno stato di abbandono, in quanto spesso vedevo i figli arrivare per andarla a trovare»

  La  seconda  

da http://nuovavenezia.gelocal.it/venezia/cronaca/2017/09/20


Nel telefono foto e filmati hard dell'allenatore di nuoto
I genitori di una nuotatrice di 15 anni scoprono gli scatti proibiti nel cellulare e denunciano l'allenatore in procura

di Marco Filippi

Quei mal di pancia prima degli allenamenti di nuoto avevano iniziato a preoccupare i genitori tanto da spingerli a sottoporla ad esami e visite mediche. Ma il responso era stato negativo: sana come un pesce. 

Nel maggio scorso, però, dopo quasi un anno di dubbi e perplessità, il padre e la madre, non vedendoci chiaro, hanno cercato nel cellulare della figlia una risposta alle loro apprensioni. E, analizzando di nascosto il telefonino, l'hanno trovata: nel cellulare c'erano oltre un migliaio di file e foto scambiate tra la ragazza ed il suo allenatore



Nulla di male, se non fosse che in quei file c'erano le foto della figlia nuda, numerose immagini che immortalavano l'organo genitale maschile e soprattutto dei filmati che immortalavano l'allenatore mentre si masturbava. Ora, grazie a quelle foto, è partita un'indagine della magistratura, innescata da un querela che i genitori hanno depositato in procura a Venezia, che vuole fare luce sul rapporto, maturato in una piscina della provincia, tra la giovane promessa del nuoto, una ragazza di 15 anni, ed il suo allenatore, un uomo di oltre 40.
Il sospetto lacerante dei genitori, denunciato alla magistratura, è che tra l'allenatore e la figlia non vi sia stato soltanto uno scambio di immagini "senza veli" (attestato dal materiale allegato alla querela) ed ancor peggio di filmati che l'allenatore avrebbe inviato alla minorenne mentre compie atti di autoerotismo, fatti già di per sè gravi, ma che tra i due vi siano stati anche rapporti sessuali. Consenzienti. Ma che diventano reato se la ragazza è minore di 16 anni. 
Da cosa trae origine questo sospetto? Da una foto, trovata sempre nel cellulare della ragazza, che immortala l'allenatore sorridente mentre, in auto, mostra lo stick di un test di gravidanza con, in evidenza, la scritta "negativo". E da alcuni messaggi, scambiato tra la ragazzina ed una sua coetanea, nel quale manifesta il timore di essere incinta e delle reazioni che l'allenatore potrebbe avere avuto.  
Dubbi laceranti che hanno arrovellato i due genitori fino ad indurli, dopo aver superato un comprensibile momento di smarrimento, a chiedere chiarezza alla magistratura. L'inchiesta parte da un dato concreto: gli oltre mille file intercorsi nelle conversazioni telefoniche tra l'allenatore e la nuotatrice minorenne. Il sospetto è che la vicenda non sia recente ma si trascini da oltre un anno. Lo attesterebbero anche le date delle foto trovate sul cellulare. Tutti file che sono stati salvati e consegnati agli inquirenti. Gli inquirenti li stanno analizzando e la ragazza è già stata sentita in udienza protetta. 
Oltre alla giovane promessa del nuoto, sono state sentite anche altre nuotatrici ma chiaramente il contenuto è top-secret. Già un anno e mezzo fa, la ragazzina aveva riferito alla madre di aver ricevuto un messaggio dall'allenatore in cui lui diceva a lei "ti voglio bene". Ma a quel messaggio la madre, avvertita dalla figlia, non aveva dato troppa importanza. «Non rispondergli e vedrai che non te ne arriveranno più», le aveva detto, pensando più che altro ad un messaggio dal contenuto paterno, senza malizia. Poi, però, lo scambio di messaggi tra allenatore e allieva dal social network Whatsapp si è spostato a Telegram, una chat criptata, accessibile tramite una password a conoscenza cui si può anche impostare un sistema che permette di programmare l'auto-distruzione dei messaggi dopo un determinato intervallo di tempo. Tutto materiale ora oggetto d'indagine della magistratura.

l'ultima un po' più allegra  

leggi anche  



dalla stessa  fonte  del 20\9\2017 

"Alla tesi come trans, ecco la mia vittoria per la libertà di tutti"

Era Mauro, è Cecilia: l'Ateneo la riconosce con questo nome. "Normale per famiglia e amici, ora anche per la burocrazia"



PAVIA. Sui documenti d'identità è ancora registrata come Mauro, ma quello è un nome che non sente suo. Ora per gli amici e la famiglia lei è Cecilia:

 una studentessa di 26 anni compiuti da poco. Dopo tre anni di attesa è arrivato per lei uno dei regali più desiderati: la possibilità di presentarsi agli esami essendo riconosciuta da professori e colleghi con la sua vera identità, quella percepita, in modo che anche nell'ambiente universitario tutti si rivolgano a lei al femminile.Questo sarà possibile perchè lunedì il Senato accademico ha approvato l'introduzione del "doppio libretto": si tratta della possibilità per gli studenti transessuali di richiedere un tesserino con un nuovo numero di matricola dove siano registrati i dati "alias": cioè il nome scelto per il sesso opposto a quello di nascita. «Poter essere riconosciuta nella mia identità elettiva è un traguardo fondamentale, un grande passo di apertura e tutela delle persone LGBT» ha affermato. Questo traguardo, però, arriva tardi, Cecilia è infatti prossima alla laurea, sta elaborando una tesi sulla concezione della donna in Thomas Hardy per la facoltà di Lingue e letterature straniere.Come è iniziata la battaglia per il riconoscimento della nuova identità?

Università, il libretto "alias": cos'è e come funziona

"A ottobre 2014, mi sono rivolta all'Arcigay per ottenere un documento di identità elettiva. A quel punto Arcigay aveva iniziato le pratiche facendo domanda al Rettore, sembrava che l'obiettivo sarebbe stato raggiunto di lì a poco, poi mi hanno detto che c'erano stati dei problemi. All'epoca c'erano già università italiane che davano la possibilità di richiedere un documento alternativo con le coordinate alias, io volevo ottenere questo diritto anche nel mio ateneo."

Come ha vissuto da studentessa in questi tre anni di attesa?

"Il problema più grosso era che ogni volta prima di un esame dovevo contattare il professore per segnalargli la mia situazione e chiedergli di rivolgersi a me con un nome diverso da quello del libretto. Era una situazione emotivamente pesante, dovevo tirare fuori ogni volta informazioni sulla mia vita privata, dichiarare di essere transessuale; senza contare la preoccupazione che tutto questo influisse sulla valutazione finale didattica e personale da parte del docente, nel caso venisse elaborata qualche forma di pregiudizio".

Ha avuto problemi nella carriera universitaria?

"Per fortuna non ho incontrato grossi ostacoli, quasi tutti i professori hanno rispettato la mia volontà e le mie richieste. Il problema era solo l'impegno di doverli avvisare ogni volta prima dell'appello, certe volte questo mi portava a pensare di lasciar perdere l'esame perchè non avevo voglia di giustificarmi. In un caso mi è capitato che il professore si rivolgesse a me al maschile nonostante fosse informato della mia identità, questo ha creato un po' di fastidio, ma non ho mai avuto problemi per quanto riguarda la didattica: il voto finale è sempre stato adeguato alla mia preparazione".

Ma ora i problemi sono finiti.

"Pare di sì, ma rimane un'unica perplessità: la proclamazione della laurea. Per una questione burocratica il titolo mi verrà conferito con il nome anagrafico, quello maschile, ma vorrei limitarlo alla sola firma. Per la proclamazione davanti ad amici e parenti vorrei essere chiamata col nome che sento mio. Sono abbastanza convinta che comunque verrà rispettata la mia volontà dai professori in commissione".

Che rapporto ha con i compagni di corso?

"Non ci sono mai stati episodi di violenza fisica o verbale, anzi, le mie colleghe mi hanno sempre supportato. All'inizio della transizione, mi sono stati destinati commenti sgradevoli o sguardi ostili, ma oggi la situazione è cambiata, addirittura ci sono reazioni di sorpresa quando apprendono la mia identità anagrafica, a parte dalla voce, in molti non si aspettano di avere davanti un maschio di nascita".

A proposito di voce, ha intenzione di intervenire chirurgicamente nel suo percorso di transizione al sesso femminile?

"Forse l'unica operazione che farei è proprio quella alle corde vocali, ma mi spaventa perchè è un intervento piuttosto invasivo. A volte le persone si rivolgono a me usando il maschile proprio a causa della voce, e questo crea disagio. Per il resto per ora non ho nessuna intenzione di intervenire per la costruzione del seno e per la vaginoplastica, mi sento a mio agio con i miei genitali maschili. Ad oggi l'unica strada che ho preso è stata quella farmacologica con l'assunzione di ormoni per limitare le manifestazioni fisiche maschili".

Come ha reagito la sua famiglia alle sue scelte?

"A casa ho dato la notizia un anno prima di iniziare la terapia ormonale, all'inizio c'era scetticismo da parte dei miei genitori, ma mai ostilità. Col tempo è arrivato il supporto da parte di mia madre, mio padre invece è rimasto più distaccato. Con mia madre è cambiato proprio il modo di comunicare, si è creata una complicità nuova. Anche mia sorella mi ha sostenuto in questo percorso".

Qual è l'obiettivo finale di questa transizione?

"La meta da raggiungere è ottenere documenti che attestino la mia identità di genere: il mio nome elettivo deve diventare il mio nome anagrafico. Per farlo ho contattato un avvocato, per fortuna non è una pratica costosa perchè posso usufruire del gratuito patrocinio. Il mio legale richiederà ai giudici la modifica dei documenti, ci vorranno almeno sette o otto mesi. Il giudice potrà richiedere un colloquio con gli psicologi del tribunale per confermare la fondatezza della mia volontà. Per rivolgermi all'avvocato ho dovuto ottenere un documento dallo psichiatra, potevo presentare la richiesta solo con quel foglio".

Quali sono le sue aspirazioni per il futuro?

"Dopo la laurea mi piacerebbe insegnare inglese o tedesco, ma ho in progetto anche di fare un'esperienza all'estero".

Come ha festeggiato alla notizia dell'approvazione del doppio libretto?

"Ho fatto i salti di gioia, poi la sera sono rimasta a casa, ero provata dopo una giornata di studio e impegni. Con gli amici la festa è in programma stasera, ai martedì sera LGBT organizzati da Arcigay alla Respvblica".


Parlare o non Parlare di stupro e di femminicido ? si ma bene non in modo sessista e strumentale


  • https://it.wikipedia.org/wiki/Processo_per_stupro film del 1979 diretto da Loredana Dordi Fu il primo documentario su un processo per stupro mandato in onda dalla RAI. Ebbe una vastissima eco nell'opinione pubblica relativamente al dibattito sulla legge contro la violenza sessuale.
  • https://it.wikipedia.org/wiki/Il_branco_(film_1994)  è un film del 1994, diretto da Marco Risi, tratto dall'omonimo romanzo di Andrea Carraro che ha partecipato alla sceneggiatura, presentato in concorso alla 51ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
  • https://www.youtube.com/watch?v=zzh7FmmNDAM
    monologo sul suo stupro di Franca Rame uno dei monologhi più drammatici chje ho sentiti.



Come  da  titolomi  chiedo Parlare  o non Parlare di stupro e di  femminicido ? Secondo un  mia  amica fb , intervengto che ha  ispirato il mio post    domanda  e  risposta

Rosa Di Carlo
16 hVorrei che fosse chiaro a tutti, visto che abbocchiamo con enorme facilità, che gli stupri non sono affatto aumentati, e nemmeno le denunce. Solo che i media hanno strumentalizzato la cosa per creare allarmismo, quindi destare attenzione, quindi vendere o indurre il telespettatore a seguire tg e programmi che trattano l'argomento in questione.
Ciclicamente c'è sempre qualche evento atto a creare psicosi collettive, in quanto il sensazionalismo è l'arma vincente del giornalismo. C'è tutta una regia per catturare l'attenzione del fruitore, che viene indirizzato a sentire e pensare ciò che è stato deciso a priori. Statisticamente gli stupri sono addirittura diminuiti rispetto agli anni precedenti; solo che adesso se ne parla in continuazione.

c'è  , come non biasimala  , c'è   un terrorismo  mediatico  in ambito  a questo  triste  e doloroso   , e  per  giunta  , come dicevo dal titolo  se  ne parla male   e in maiera  strumentale  i e  maschilista  . Infatti   sempre  rosa  dice  che  






Rosa Di Carlo Non se ne parla nel modo giusto : comunque si punta l'attenzione sullo stupratore per strumentalizzare la cosa, e quando si parla di donne dobbiamo assistere agli squallidi consigli del maschilismo più becero di alcuni giornali e esponenti politici.

ecco una interessnte discussione   all'interno   del post  di Rosa  

Giovanni Platania
Giovanni Platania
Oggi è più difficile "fare notizia". Quando ero un giovanissimo fotoreporter bastava un incidente con più di un ferito, col morto ce n'era d'avanzo. Fai bene Rosa a sottolineare la nostra condizione di fruitori di un'informazione pilotata, perché ci siamo abituati; mettiamo a riposo il senso critico e percepiamo una realtà fittizia. Comunque, pur essendo vero che violenze e stupri sono diminuiti, è interessante che se ne parli e che se ne cerchino le ragioni con un'attenzione maggiore di quella del passato.


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Gestire

Rosa Di Carlo Bravissimo, ma non se ne parla nel modo giusto, però. Sono addirittura offensivi per le donne i vari vademecum di giornali di bassa lega, come non mi aspettavo fosse IL MESSAGGERO.

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3 hModificato


Giovanni Platania Si faceva un cambio d'iniziale per il Messaggero.... F al posto di M...
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Marco Leonardi pur essendo d'accordo con voi e soprattutto aborrendo in ogni caso l'idea che delle circostanze invitanti possano dare il diritto ad un uomo di compiere violenza su una donna, ho notato a volte cose che ho ritenuto quanto meno pericolose; ad esempio lungo le strade romagnole delle discoteche, tra le 3 e le 4 del mattino, mentre io passavo di li per lavoro, incorciavo delle ragazzine molto poco vestite che facevano autostop. Ebbe ne avevano pienamente diritto, però coglievo anche un esporsi al pericolo di brutti incontri. In questo senso anch'io sostengo che dovrebbero stare un pochino più attente, visto che in giro ci sono troppi maschi incivili e violenti. Almeno finchè quest'ultimi non vengano spazzati via dalla società.


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Evi Caldarola Quegli ovvi inviti alla prudenza hanno un valore generale, valgono per uomini e donne. Ma i decaloghi antistupro come quello del Messaggero non solo non servono a nessuno ma sono un contributo ad una cultura sessista ed indirettamente proprio alla cultura dello stupro.
Cerco di spiegare perché lo penso.
La giornalista parla apertamente di "delirio di onnipotenza" delle donne che "credono di poterfar tutto", e come messaggio discriminatorio mi sembra significativo.
Inoltre il suo decalogo è sotteso da un'idea di come effettivamente avvengano gli stupri lontana dalla realtà.
O meglio, i giornalisti e la maggior parte delle persone immagina lo stupratore sconosciuto per strada di notte con bella ragazza discinta.
Ma gli aggressori estranei, e in genere senza allegra donnina discinta, sono pochissimi, sono quelli che hanno probabilità di essere innalzati agli onori delle cronache.
La gran parte invece avviene in ben altri contesti, tra conoscenti e in situazioni che la vittima ritiene sicure.
Sono quelli che compongono in larga misura l'enorme sommerso mai denunciato


 fenomeno   che  crea problemi a chi lo ha  subito  

20/09/2017

“Io, stuprata dal mio fidanzato non riesco più a innamorarmi”Il dramma di Marianna: “Avevo 22 anni, mi fidavo di quel ragazzo. Ho ricominciato a vivere quando ne ho parlato con le mie amiche”



Manifestanti in corteo  per manifestare contro la violenza  e per i diritti delle donne
Manifestanti in corteo per manifestare contro la violenza e per i diritti delle donne
                                           

 


                                            




LINDA LAURA SABBADINI





ROMA
È difficile per una donna parlare di violenze subite, soprattutto se stupri. Marianna mi ha chiesto di farlo, vuole parlarne perchè la sua esperienza possa aiutare altre donne. Marianna ha subito uno stupro dal suo fidanzato. Aveva 22 anni, era felice, solare come tante ragazze della sua età. Studiava all’Università, amava molto l’architettura.  
Conosce un ragazzo, si fida di lui, comincia una storia d’amore, almeno così lei credeva. All’inizio tutto sembra andare per il meglio, ma con il passar del tempo la situazione peggiora. «Non voleva che mi vestissi con le gonne corte. Poi mi vietava di frequentare alcuni amici». Tu sei mia diceva. La storia degenera un giorno, quando Marianna si rifiuta di avere un rapporto sessuale, e con sua terribile sorpresa viene stuprata dal suo fidanzato. Una esperienza dolorosissima. «Non sono riuscita a reagire in quel momento. E non potete capire quanta rabbia ho ancora dentro per questo. Ero senza forze, senza energie. E dopo non volevo parlarne con nessuno». Qualche giorno dopo succede di nuovo. E allora, completamente svuotata, distrutta, riesce a trovare la forza di scappare dai suoi fratelli.  


La fuga  
«Ma non me la sentivo di denunciarlo, troppo doloroso raccontare, troppo pesante spiegare tutto,dimostrare che non ero consenziente». Chiede ai fratelli di tenere lontano il fidanzato, «Lo lascio per telefono, lui urla, strepita, piange, si dispera, ma io non accetto l’ultimo appuntamento e dopo pochi giorni me ne vado distrutta in un’altra città, ospite di una mia lontana parente, per evitare di incontrarlo. Ma non ero più la stessa». Violata nel profondo,violata nell’anima, nel cuore, violata nella più profonda intimità. Si sentiva annullata. «L’ansia mi assaliva continuamente, pianti disperati, incubi la notte, l’insonnia, la nausea permanente, la rabbia dentro di me, i tremori , avevo paura di tutto e poi, non mi fidavo più di nessuno. Sembra non ti interessi più nulla della vita... Tu sei il nulla». Lei, con un carattere sempre aperto al mondo, si rinchiude in se stessa, diventa timorosa, fragile. Non si apre con nessuno, chiusa nel suo guscio. «Volevo dimenticare. All’inizio pensavo che fosse la cosa migliore, ma più stavo in silenzio, più stavo male, il silenzio mi isolava dagli altri. Ho incontrato anche ragazzi carini, gentili, ma non riuscivo più a fidarmi di loro. E ancora non riesco a innamorarmi. Ho paura». A un certo punto decide di tornare nella sua città, si sentiva troppo sola, e di raccontare tutto alle sue amiche con cui non aveva più avuto contatti.  
La rinascita  
«E’ stato l’inizio della mia rinascita. Trovare loro così vicine, così comprensive, così piene di complicità e di umanità, è stata la cosa più bella della mia vita. Mi ha dato tanta forza per ricominciare. Loro mi hanno convinto ad andare da una psicologa, con loro ho cominciato a rivivere momenti spensierati, anche se lo stupro ti lascia un segno indelebile di morte nel cuore». La vicinanza di altre donne è fondamentale dopo uno stupro. Ridà la forza di vivere quando tutto sembra finito, Per questo i Centri antiviolenza tengono molto a questo aspetto. Marianna non ha denunciato il suo ex fidanzato. «Non ce l’ho fatta, mi sono risparmiata il doloroso iter delle denunce, delle pressioni che una donna subisce anche dalla famiglia per ritirarle, dei processi. Lo so, così il mio fidanzato non è stato né denunciato, né condannato. Ma non potevo soffrire ulteriormente». E mi racconta di Adele, che lei ha conosciuto dalla psicologa ed è diventata sua amica: «Quando si è recata al commissariato del suo paese per denunciare gli stupri ripetuti di suo marito non è stato facile per lei. La sua famiglia la pressava per non denunciare, per rimettersi insieme a lui. L’appuntato le chiedeva se era proprio sicura di quello che diceva, che in fondo era il marito. Adele si sentiva sola contro tutti. E il processo… i dettagli, le domande indiscrete, gli ammiccamenti… le pressioni a ritirare la denuncia... un vero incubo. Ecco perché io non ho denunciato. Perché si riaprono continuamente le tue gravi ferite. Nessuno può capire realmente quanto tu possa soffrire».  
Parlare, parlarne, in continuazione, fra donne, con gli uomini, tanto con i figli e con le figlie, senza paure, senza vergogna, parlare anche se non e’ toccato a te, né alla tua famiglia, ma ad una che non conosci. Tessere una rete di solidarietà femminile, di valori condivisi, di stigmatizzazione sociale inappellabile, di ogni per quanto piccolo atto di sopraffazione del bimbo sulla bimba, del ragazzo sulla ragazza, dell’uomo sulla donna. Dai piccoli atti di prevaricazione, di non rispetto dell’altra, quelli su cui in genere si soprassiede germina e si ramifica la subcultura della pretesa superiorità maschile, e della donna come sua proprietà, quella che porta molti ad oltrepassare la soglia della violenza, e alcuni dello stupro. Su questo terreno siamo indietro uomini e donne, ed è ora che a partire dalle donne il nostro sguardo esprima con chiarezza la nostra collera. Marianna e le donne colpite ce lo chiedono. 


ma anche difficoltà a parlarne   sopratutto  in un processo  , ecco perchè  molte donne  non lo  denunciano 


Marta Serafini
10 settembre alle ore 23:27 ·




Tina Lagostena Bassi, 1978, Processo per stupro
"Presidente, Giudici, credo che innanzitutto io debba spiegare una cosa: perché noi donne siamo presenti a questo processo Per donne intendo prima di tutto Fiorella, poi le compagne presenti in aula, ed io, che sono qui prima di tutto come donna e poi come avvocato. Che significa questa nostra presenza? Ecco, noi chiediamo giustizia. Non vi chiediamo una condanna severa, pesante, esemplare, non c’interessa la condanna. Noi vogliamo che in questa aula ci sia resa giustizia, ed è una cosa diversa. […] Vi assicuro, questo è l’ennesimo processo che io faccio, ed è come al solito la solita difesa che io sento: vi diranno gli imputati, svolgeranno quella difesa che a grandi linee già abbiamo capito. Io mi auguro di avere la forza di sentirli, non sempre ce l’ho, lo confesso, la forza di sentirli, e di non dovermi vergognare, come donna e come avvocato, per la toga che tutti insieme portiamo. Perché la difesa è sacra, ed inviolabile, è vero. Ma nessuno di noi avvocati—e qui parlo come avvocato—si sognerebbe d’impostare una difesa per rapina come s’imposta un processo per violenza carnale. Nessuno degli avvocati direbbe nel caso di quattro rapinatori che con la violenza entrano in una gioielleria e portano via le gioie, i beni patrimoniali da difendere, ebbene nessun avvocato si sognerebbe di cominciare la difesa, che comincia attraverso i primi suggerimenti dati agli imputati, di dire ai rapinatori «Vabbè, dite che però il gioielliere ha un passato poco chiaro, dite che il gioielliere in fondo ha ricettato, ha commesso reati di ricettazione, dite che il gioielliere è un usuraio, che specula, che guadagna, che evade le tasse!» Ecco, nessuno si sognerebbe di fare una difesa di questo genere, infangando la parte lesa soltanto. […] Ed allora io mi chiedo, perché se invece che quattro oggetti d’oro, l’oggetto del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza? E questa è una prassi costante: il processo alla donna. La vera imputata è la donna. E scusatemi la franchezza, se si fa così, è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata, solo così si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale. Io non voglio parlare di Fiorella, secondo me è umiliare venire qui a dire «non è una puttana». Una donna ha il diritto di essere quello che vuole, senza bisogno di difensori. Io non sono il difensore della donna Fiorella. Io sono l’accusatore di un certo modo di fare processi per violenza.”
Via Cecilia Dalla Negra



Esse   sono  violentate  due volte. La prima da uomini che definere tali è già troppo, in quanto sono il peggio che l'umanità abbia creato. La seconda dall'ignoranza, dal  il maschilismo ,dalla stupidità .Ecco  perchè dico  che  bisogna   parlarne  


Un Averroè nella fabbrica dei jihadisti Ha visto cambiare i giovani in trent’anni di scuola a Molenbeek. Parla Abderraouf Znagui, professore musulmano

per  approfondire 
  • https://www.youtube.com/watch?v=8IcCC0fGkAU   dialogo  al meeting di rimini  il 23 ago 2017  con Abderraouf Znagui, Insegnante di Religione a Molenbeek (Bruxelles); Luna El Maataui, Studentessa dell’Istituto “Carlo Emilio Gadda” di Fornovo di Taro.


  dal post  sulla  nostra pagina   facebook   di Daniela  Tiscano   questo articolo interessante   di  
@LeoneGrotti
Tempi.it 15/9/2017





Quando un giovane musulmano si è presentato in classe con un foglio, il decalogo di tutto quello che le donne non potevano e non avrebbero dovuto fare, tra cui guidare, Abderraouf Znagui  (  foto  a  destra estratta  dal video citato all'inizio  del post   )   ha capito che qualcosa stava cambiando radicalmente. Il docente musulmano belga di origini marocchine insegnava religione islamica in una scuola pubblica di Molenbeek, il quartiere della capitale Bruxelles diventato tristemente famoso come “fabbrica di jihadisti”, nonché “hub internazionale del terrorismo islamico internazionale”. Gli attentati dell’Isis che hanno sconvolto Parigi, Nizza, Berlino e Bruxelles erano ancora di là da venire. Eppure, in quel decalogo di divieti, c’era già tutto.

Molenbeek ansa
Per Znagui non era certo la prima volta. Aveva cominciato a insegnare nelle scuole pubbliche di Molenbeek nel 1980, quando i musulmani erano una piccola minoranza. In vent’anni le proporzioni si sono invertite: negli anni Novanta i musulmani sono diventati il 50 per cento e prima del 2000 costituivano il 97 per cento degli studenti. Per le strade del quartiere, le donne senza velo sono rapidamente sparite, così come i rivenditori di alcol.Parlando con Tempi tra i padiglioni del Meeting di Rimini, dove ha portato la sua testimonianza di insegnante, ricorda quando i casi di radicalismo erano isolati: «Ogni tanto capitava che una ragazza non volesse seguire il resto della classe in piscina, perché c’erano i maschi. Altre volte qualcuna diceva di non voler partecipare alle gite scolastiche. Allora noi professori facevamo da mediatori, andavamo a parlare con le famiglie e cercavamo di spiegare che l’islam non vietava niente di tutto ciò. Poi però il caso isolato è diventato la norma, la maggioranza e infine la regola».Znagui parla in modo pacato, gesticolando, mettendo spesso in mostra il suo bellissimo sorriso sospeso tra due guance ben rasate. Il dettaglio non è di poco conto: «Se negli anni Novanta sempre più studenti mi venivano a dire che non si possono stringere le mani alle donne o che la musica è peccato, a cavallo del Duemila dai divieti si è passati all’odio. Molti dicevano che i cristiani o gli ebrei andavano uccisi. Non solo loro, anche gli sciiti e i musulmani moderati. Li chiamavano “revisionisti” e io ero nella lista nera perché ad esempio non mi facevo crescere la barba».Erano i primi segnali della diffusione sempre più capillare del verbo wahabita, la versione saudita dell’islam che aveva mosso i primi passi in Belgio nel lontano 1967, quando re Baldovino consegnò in cambio di ricchi contratti petroliferi le chiavi dell’islam belga al re saudita Faysal. Ma c’erano altri campanelli d’allarme: «Spuntavano come funghi scuole parallele nel quartiere. Lo Stato lasciava grande libertà, non controllava, credeva che all’interno venisse solo insegnato l’arabo. Invece si diffondeva il fanatismo religioso e i miei alunni al mercoledì o al venerdì all’uscita della scuola erano costretti a frequentarle», continua il professore. «La conseguenza è che si diceva alle bambine che non potevano giocare con le bambole o che le feste di compleanno erano haram, proibite».L’insegnamento di conseguenza diventava sempre più faticoso, perché prima di occuparci delle materie dovevamo «contrastare un discorso religioso malato». Ma Znagui non considera “difficile” l’insegnamento del Corano ai tempi del jihad: «Quando la radicalizzazione è diventata un problema evidente, è stato più facile affrontare il problema perché ormai era sotto gli occhi di tutti. Dopo gli attentati i ragazzi hanno cominciato a farsi delle domande: ma l’islam dice davvero che si possono uccidere le persone? Le domande erano diventate più impellenti». E non basta rispondere con un semplice “no” o con una lezioncina di Corano, perché «il discorso fanatico ha trovato orecchie molto attente a Molenbeek e ragazzi in forte difficoltà con se stessi, stanchi e annoiati della vita. La promessa del Paradiso, che si può raggiungere uccidendo gli infedeli che opprimono e perseguitano i musulmani, è un discorso forte e affascinante, anche se non capisco fino in fondo perché. Soprattutto per chi, pur essendo musulmano, non sa nulla della sua religione». «Karim, cosa fai di buono?» Znagui non si è mai limitato a rispondere a un discorso con un altro discorso, ma ha sempre provato ad appellarsi alla ragione. «Le atrocità che compie l’Isis sono innanzitutto irragionevoli. La ragione umana non può permettere queste atrocità, non le può permettere. Tutto quello che fanno è disumano e la ragione non può accettare qualcosa che va contro l’uomo, a prescindere dalla religione. Ecco perché ho sempre detto che tornare alla ragione è fondamentale per l’islam». Non solo, anche lo studio della storia è importante: «Ci sono parti violente nel Corano», ammette il professore, «ma vanno inserite nel loro contesto. Riguardano il periodo in cui Maometto, cacciato dalla Mecca e perseguitato, si è rifugiato a Medina dove si è dovuto difendere. Un conto è uccidere per autodifesa, un altro è attaccare: il musulmano non può mai offendere e bisogna spiegare ai giovani che non è vero che oggi i musulmani sono in guerra. Siamo in pace. Questa è la verità».Ma «non basta dire che i jihadisti sono stupidi: bisogna dimostrarlo. E non è facile, soprattutto quando l’Arabia Saudita spende miliardi per diffondere il suo verbo estremista. Non solo qui: anche in Africa, in Bosnia, nel resto dell’Europa. Lo Stato belga potrebbe dire loro di smettere in ogni momento, ma dovrebbe rinunciare ai soldi: questo è il problema. Però dobbiamo essere consapevoli che le leggi propugnate dall’Isis sono le stesse dei sauditi. Non c’è alcuna differenza».Oggi il professore di religione musulmana è in pensione e non vive più a Molenbeek, ma continua a recarsi nel quartiere ogni giorno per aiutare i giovani, «per non lasciarli soli». Per lui l’insegnamento è una vocazione e può «salvare vite». Come quella di un suo ex alunno incontrato per strada quasi per caso e finito in un brutto giro di amicizie. Avendolo riconosciuto si è fermato a salutarlo e gli ha chiesto: «Karim, che cosa fai di buono?». Quelle parole, chissà perché, hanno smosso qualcosa: «Non si aspettava che mi ricordassi di lui. Solo dopo ho scoperto che era appena uscito di prigione. Sta di fatto che ha abbandonato la strada intrapresa, si è messo a lavorare e ho anche avuto suo figlio a scuola. Un giorno che li ho incontrati entrambi, lui ha detto al figlio: “Fai sempre quello che ti dice il professor Znagui”. Il lavoro dell’insegnante è davvero importante: se lo facciamo con il cuore, possiamo cambiare le persone. Non solo a scuola però: i miei figli sono musulmani, ma usano la ragione, sono aperti. Sono fiero di loro».All’indomani degli attentati a Bruxelles, qualcosa sta cambiando a Molenbeek. Gli insegnanti, e anche molti residenti, hanno chiesto con forza al Comune di fare qualcosa. «Sono state chiuse molte scuole e anche diverse moschee, dove si predicava l’odio. Ma bisogna fare di più e in fretta», conclude il professore. «Io vedo tante famiglie normali che cominciano a ribellarsi contro i discorsi estremisti e quindi penso che ci sia speranza. E se c’è speranza a Molenbeek, francamente, vuol dire che c’è in tutto il mondo».


19.9.17

il parlamento ha paura di leggigerare su una realtà giàesiste come lo Ius soli . Il caso Analisa Paris insegna nella scuola Parco di Veio dove il 70% degli alunni di altre nazionalità è nato in Italia e il caso Scuola, classe prima da record: tutti stranieri All’elementare Rosmini di Padova

Storie  che  riporto oggi     dimostrano  come  , nonostante  i rigurgiti  identitari   populistici (  nella  forma  ,  perchè tutti noi  siamo identitari  , chiusa  ed  isolazionistica   ovverro   quella  più retrograda   di lontana  menoria  e più vicino   alle  vecchie  ideologie   dei XIX e XX secolo  )  della  destra  extraparlamentare  e parlamnentare     ma non  solo  ,   di come  il paese   reale  sia  più avanti   della nostra  classe polica  e dei nostri populisti  \  malpancisti  .

La  prima     viene  da    repubblica     del 19\9\2017

Annalisa Paris: "Io, maestra dei bimbi stranieri dico che lo Ius soli è già realtà"

La docente insegna nella scuola Parco di Veio dove il 70% degli alunni di altre nazionalità è nato in Italia: "I cinesi sono così integrati che non hanno neanche più il problema della erre. Qui non si fanno differenze, il problema è forse quando i piccoli tornano a casa"






ROMA - "I miei alunni cinesi? Sono così italiani che non hanno più nemmeno il problema della erre. Nella mia scuola ci sono 700 alunni di cui 200 stranieri. E su 200 stranieri 135 sono nati in Italia. Se non è Ius soli questo... ". Annalisa Paris, maestra con l'aria da ragazza e la determinazione di chi crede nel futuro dei bambini, dal 1995 le ondate migratorie le ha viste tutte. I primi, racconta Annalisa, "erano rumeni, poi arrivarono (in tanti) i filippini, i latinoamericani, i nord africani, gli africani, i piccoli di Bangladesh e Sri Lanka, oggi nelle prime classi i nuovi iscritti sono cinesi di terza generazione, per noi l'integrazione non è soltanto una scelta ma una necessità". Immaginate ettari di verde in un parco alla periferia di Roma Nord, sulla via Cassia, un edificio di mattoni rossi progettato negli anni Settanta quando la scuola rivoluzionò se stessa, scivoli e aule ampie pensate per i più fragili e centinaia di bambini di almeno tre religioni e dieci etnie diverse che giocano insieme sui prati, l'orto e i campetti. Ossia la normalità, come dice Annalisa Paris, 51 anni, due figlie, maestra primaria, un diploma di insegnamento dell'italiano agli stranieri, ma soprattutto referente per l'intercultura dell'Istituto comprensivo "Parco di Veio", simbolo della Roma che accoglie.

Annalisa, ma i bambini cosa sanno della cittadinanza?
"Nella mia classe tutto. Ogni giorno ripeto loro che sono uguali davanti alla legge, davanti allo Stato e naturalmente davanti alla maestra".

Una cittadinanza di fatto...
"La mia quinta è formata da ventidue bambini, di cui undici stranieri e di questi undici, sette sono nati in Italia. Come si può pensare di fare differenze? Il problema è quando tornano a casa".

Tornano a sentirsi immigrati?
"Sì. Lo sentono dai loro genitori che combattono con i permessi di soggiorno, lo vedono quando entrano in un ufficio ad occhi bassi. Questa è una scuola mista, gli stranieri che la frequentano sono figli delle colf, delle badanti, dei guardiani che lavorano nell'area ricca del quartiere, delle famiglie cinesi che qui hanno i negozi. Per loro la scuola è tutto. Sa qual è il mio allievo migliore?".

È straniero?
"Filippino e si chiama Gerico. Una mente straordinaria. Si capisce che a casa è seguito. Mi ha portato un modellino che aveva costruito con il padre che fa il custode. E soltanto quel giorno mi ha raccontato che il papà nelle Filippine era ingegnere. Poi c'è Serena".

Da dove viene?
"Nigeriana. Bravissima. E come loro naturalmente ci sono tanti bambini italiani. Ma racconto questi casi per spiegare che questi piccoli che lo Stato si ostina a chiamare "stranieri" saranno le nostre risorse del domani. Perché non cittadini allora? ".

Lei però ha citato due eccellenze. E gli altri?
"Il grande problema per i non nativi è l'italiano. Servono più docenti specializzati nell'insegnarlo agli stranieri. E poi c'è l'integrazione sociale".

I figli degli immigrati non partecipano alla vita dei compagni italiani?
"All'inizio è così. È difficile magari che pur invitati partecipino ai compleanni. Perché i genitori lavorano tutto il giorno e non possono accompagnarli. O perché la mamma cinese non si sente a suo agio con le altre mamme...".

Come si spezza l'isolamento?
"Con noi, con le insegnanti. Capite quanto è preziosa la scuola? Nella mia classe mi ero resa conto che al di là dei latinoamericani, che non rinuncerebbero ad una fiesta per nulla al mondo, gli altri restavano chiusi nelle loro comunità. Ho cominciato a suggerire alle mamme italiane di telefonare, di creare un contatto con le mamme straniere...Ha funzionato ".

Secondo le statistiche i bambini immigrati hanno più disturbi dell'apprendimento.
"È vero. Alcuni parlano italiano soltanto a scuola. Ci vogliono mediatori culturali che riescano anche a fare da ponte con genitori. A volte delle loro vite non sappiamo nulla ".

E il razzismo?
"Tra i bambini non c'è. E i genitori più diffidenti quando capiscono che qui la scuola è uguale per tutti si adeguano".

Dopo tanti anni di "frontiera" non preferirebbe una scuola meno multietnica?
Annalisa Paris sorride. "La stanchezza c'è,
ma questo è un lavoro vivo. Noi siamo il laboratorio del futuro, cosa faccio abbandono i miei bambini? No. Un giorno cambierò, sì, ma per andare a insegnare l'italiano nei centri di accoglienza. Siamo pochi, ma io nell'integrazione credo davvero..."






Scuola, classe prima da record: tutti stranieri

All’elementare Rosmini non c’è un italiano, la preside: «Nessun problema, parlano tutti la nostra lingua»



Nell’unica prima classe della scuola elementare Antonio Rosmini, che fa parte del Quarto Istituto Comprensivo, guidato, dal primo settembre, dalla nuova reggente Maria Mapelli, dirigente titolare del Sesto IC di Mortise-Torre, tutti i 24 alunni sono figli d’immigrati. Tra di loro cinesi, bengalesi, pachistani, nigeriani, ma anche moldavi e rumeni. È la prima volta, in città, Arcella compresa, che una classe di una scuola primaria sia formata da alunni tutti figli d’immigrati. In passato situazioni simili erano capitate, sempre all’Arcella, ma solo nelle scuole materne. Ad esempio, tre anni fa, alla materna statale Quadrifoglio, che si trova in via Bach, a fianco della scuola elementare Salvo D’Acquisto, mentre quest’anno anche alla materna Joan Mirò, in via Bramante, a San Bellino, su 34 nuovi iscritti solo 2 sono italiani.
Scontate le polemiche già scoppiate dopo l’inizio dell’anno scolastico. Sono arrabbiati sia i docenti che i genitori, stranieri compresi. «Ho due figli in età scolare» osserva un papà immigrato dall’Egitto, che lavora in una pizzeria per asporto. «La più grande frequenta la quarta classe alla primaria Muratori, nel rione Santissima Trinità, dove ci sono metà bambini figli d’italiani e metà figli di stranieri. Chissà perché, alla Rosmini, sia stata formata una classe intera con tutti alunni figli d’immigrati. Così non va bene. Che tipo d’integrazione, sia linguistica che culturale, ci può essere quando non c’è nessun bambino figlio d’italiani?».
Una mamma padovana sostiene che il “caso Rosmini” è il risultato del fatto che negli ultimi due anni, molti genitori italiani avrebbero rifiutato d’iscrivere i propri figli alla Rosmini, perché ritenuta, una scuola frequentata da troppi stranieri, quindi, avrebbero iscritto i propri bambini in altre scuole del territorio. Anche la nuova preside reggente del Quarto Ic parla della situazione che ha trovato alla Rosmini. «Sono arrivata solo due settimane fa», sottolinea Maria Mapelli, laureata in fiosofia e nata e cresciuta all’Arcella. «Quindi la formazione delle classi era stata già fatta. Non dico questo per scaricare eventuali responsabilità sul mio predecessore, che, a quanto mi hanno riferito le docenti e rappresentanti di classe dei genitori, ha lavorato bene ed ha sempre tenuto un buon dialogo con tutti. Tuttavia quasi tutti i bambini della classe prima in questione sono nati in Italia e parlano bene l’italiano, visto che hanno frequentato, per tre anni, le scuole materne del territorio. Vorrà dire a quest’anno anche alla Rosmini faremo di più per l’integrazione. Non a caso come scuola abbiamo già aderito al progetto del Miur, denominato Fami, che tra le altre cose, prevede l’insegnamento della “Lingua Italiana 2” da parte di docenti assunti esclusivamente per tale funzione, intesi come mediatori per l’intercultura e la coesione sociale in Europa». 
Un progetto analogo ce l’ha anche la nuova Giunta Giordani, dove la neo-assessora alle scuole Cristina Piva ha già iniziato a contattare i dirigenti delle scuole dell’obbligo della città con la finalità di creare un coordinamento tra i presidi appunto per evitare la formazione di classi-ghetto e la distribuzione degli alunni “stranieri” in più scuole del territorio

 concluido  con una provocazione  sarcastica  😀🤔😁 lanciata  sul mio  facebok    ai 😁    :


 salvinisti e e company ( Amici a cui piace Matteo Salvini , Matteo Salvini , CasaPound Italia , ) perchè non proponente , visto che v'ispirate al fasscismo, , la sua stessa politica d'incremento demografico . cosi s'evitereanno fenomen come questo


18.9.17

La ragazzina dalla Romania a Palmanova per un progetto scolastico internazionale ha ritrovato per caso il sepolcro del fratello del bisnonno, mosto sul Fronte del Carso durante la Grande GuerraLa giovanissima studentessa romena posa i fiori sulla lapide del prozio (foto Petrussi)



Mi sa che faro anch'io cosi magari , mi succederà anche ame di trovare , la tomba di mio prozio ( fratello di mia nonna morto a caporetto o zone limitrofe durante la ritirata sul piave nel lontano 1917 , saltando su una mina .




da http://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2017/09/17/news/




LA STORIA

Pulisce le tombe dei soldati e scopre le spoglie dell’avo caduto 100 anni fa
La ragazzina dalla Romania a Palmanova per un progetto scolastico internazionale ha ritrovato per caso il sepolcro del fratello del bisnonno, mosto sul Fronte del Carso durante la Grande Guerra

di Stefano Bizzi





PALMANOVA. Arriva in Italia dalla Romania per partecipare a un progetto scolastico internazionale sulla Grande guerra. E finisce per scoprire casualmente la tomba di un proprio avo caduto sul Fronte dell’Isonzo, le cui tracce si erano perdute ormai da un secolo


La giovanissima studentessa romena posa i fiori sulla lapide del prozio (foto Petrussi)

I protagonisti di questa storia sono Julika, una tredicenne giunta da Oradea, cittadina della Transilvania situata al confine con l’Ungheria; e Franz Messaros, fante del 37° Reggimento Honved, morto a 26 anni il 7 maggio del 1917 sul Carso.vanissima studentessa romena posa i fiori sulla lapide La vicenda è accaduta al cimitero austro-ungarico di Palmanova. Di fatto, con le decine di migliaia di caduti (noti e ignoti) seppelliti nei diversi sacrari militari sparsi tra Italia e Slovenia, le probabilità che la ragazzina potesse imbattersi proprio nella tomba del fratello del bisnonno erano infinitesimali. Destino, caso, coincidenza, poco conta. A contare è il fatto che Julika ha fatto quello che nessuno dei suoi familiari aveva potuto ancora fare: ha deposto un fiore sulla tomba del lontano parente a nome dell’intera famiglia.




La possibilità è arrivata grazie al progetto “Sentiero della Pace” promosso dalla sezione storica del Gruppo speleologico carsico di San Martino del Carso e dall’associazione civile ungherese “Honved es Tarsadalom Barati Kor” di Szekesfehervar, progetto mirato ad accompagnare studenti di Italia, Slovenia, Ungheria e Romania sui luoghi della Grande Guerra dove cent’anni fa i loro trisavoli combatterono gli uni contro gli altri. Il programma, dipanato su cinque giorni, ha portato i ragazzi a incontrarsi e a visitare i campi di battaglia del Monte San Gabriele e del Monte Santo, oltre a quelli di San Martino del Carso e di altre località dell’altopiano di Doberdò, al Sacrario di Redipuglia e a vari cimiteri militari.
La storia di Julika ha però messo in secondo piano il resto delle iniziative e ha commosso tutti. «Prima che partisse, le è stato raccontato che il fratello del bisnonno era caduto sul fronte dell'inferno di Doberdò e che non si era mai saputo dove fosse stato sepolto, né tantomeno se ci fosse una lapide che lo ricordava o se riposasse all'interno di una fossa comune», racconta Gianfranco Simonit, anima del Gruppo speleologico carsico. Definendo «meraviglioso» quanto accaduto a PalmanovaSimonit aggiunge: «La cosa più incredibile è che ci sono nella vicenda molte coincidenze e casi fortunati. Sembra che una mano abbia guidato la ragazzina verso quella tomba».



La scelta di pulire quel cimitero, anziché altri - visitati solo per deporre una corona - è stata presa dagli organizzatori perché il cimitero di Palmanova è sempre stato ai margini delle visite da parte dei turisti ungheresi, tradizionalmente interessati soprattutto a Fogliano e al Carso. A causa di un guasto, poi, il pullman su cui viaggiavano gli studenti ungheresi e rumeni è arrivato in ritardo. Alle scolaresche di Szedesfehervar e di Oradea è stata così lasciata da pulire l’ultima parte del cimitero.«Lì ci sono quattromila caduti con nominativo, mentre altri 15mila circa sono i soldati ignoti divisi in tre fosse comuni, per la maggior parte provenienti dai cimiteri del fronte del Carso, zona Gorizia e verso il San Michele», ricorda Simonit sottolineando così quanto le probabilità di ritrovare il parente disperso fossero comunque ridotte anche in un’area così circoscritta. Il cimitero era stato diviso in quattro settori, a loro volta frazionati in dieci sottosettori. Ciascun sottosettore è stato quindi affidato a due ragazzi.«Nel tempo a loro disposizione avevano la possibilità di eseguire la pulizia di non più di 20 tombe. E a Julika è capitato di ripulire proprio il sottosettore in cui riposa il suo lontano parente. È come se la stesse aspettando, a cent’anni esatti dalla sua morte».Nel precisare che le lapidi non sono disposte in ordine alfabetico e che la ragazza non è andata a cercare l’avo di cui le avevano parlato i genitori, Simonit ricorda che all’improvviso il silenzio del cimitero è stato spezzato Palmanova. Una volta di fronte alla tomba di Franz, ha potuto deporre un mazzo di fiori: tre rose bianche.
da un grido e da un pianto. Inizialmente tutti hanno pensato a un malore. Invece, «siamo corsi a vedere cosa fosse successo e abbiamo trovato la ragazza in lacrime. In ginocchio sulla tomba, stava cercando di telefonare alla famiglia. L’emozione era tale che armeggiava con il cellulare senza riuscirci. Alla fine è stata un’amica a telefonare per lei. Ecco, quel momento da solo è bastato a ripagarci di tutti gli sforzi fatti per organizzare questo progetto».Proprio a sottolineare quanto eccezionale sia stato l’«incontro», ieri pomeriggio Julika è stata riaccompagnata al cimitero austro-ungarico di 




Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti

   Dopo  la  morte  nei  giorno scorsi  all'età  di  80 anni   di  Maurizio Fercioni ( foto sotto  a  sinistra )  considerato il primo t...