3.6.22

La solitudine delle donne vittime di stalking: 250 denunce e zero provvedimenti

Leggendo quest'articolo di repubblica  capisco cosa    provano le  donne vittime di  violenze  ed  è un motivo in più per lottare contro il mio maschio alfa 

Waima, Marta e tutte le altre donne vittime di uomini violenti che continuano a chiedere aiuto e ricevono, in molti casi, risposte inadeguate dallo Stato. A Roma, nel solo III Municipio, ci sono 250 donne che negli ultimi 14 mesi hanno denunciato maltrattamenti, minacce e persecuzioni di mariti e compagni all'associazione Lucha Y Siesta. Ma, tra queste, in molte si sono ritrovate con l'ex sotto casa o che è stato sottoposto a una misura cautelare troppo blanda. "Un uomo che ti scrive "Ti ammazzo" prima
o poi lo fa se non viene fermato. Dallo Stato ci aspettiamo risposte più grintose", dice Bo Guerreschi, presidentessa di "bon't worry". Il clamore per il processo di Hollywood, in cui Johnny Depp ha ottenuto un risarcimento milionario dall'ex moglie Amber Hard, ci dice che il "Me too" non sempre è scontato. Ma è anche vero che le armi contro la violenza sulle donne sono ancora spuntate. Il Codice rosso da un lato ha accelerato i tempi di risposta alle vittime subito dopo la querela, dall'altro, come denunciano le associazioni che si occupano di violenze sulle donne, "non viene sempre rispettato soprattutto nei tempi dei processi". E le donne restano schiacciate da un meccanismo che le rende ancora più vulnerabili. Duecento metri Maria è una vittima di stalking, ha deciso di denunciare il suo ex che era diventato violento dopo un anno di relazione e si è affidata a "bon't worry". Abita a Roma. "Ti picchio", ha iniziato a scrivergli lui su Whatsapp. Poi è passato ai pedinamenti, alle diffamazioni sui social, alle telefonate una dopo l'altra, alle minacce di morte. La denuncia e le sue integrazioni hanno avuto una risposta dopo sei mesi. Maria ha ottenuto finalmente il divieto di avvicinamento per il suo ex. Peccato che la distanza è veramente irrisoria: 200 metri. Il Codice rosso prevede anche l'applicazione del braccialetto elettronico. Ma per lo stalker di Maria il tribunale non lo ha disposto. "C'è una sottovalutazione dei fatti denunciati dalle donne - dice Teresa Manente, avvocata di Differenza Donna - e anche se la misura cautelare arriva in tempi brevi, magari prevede una distanza di 100 metri da una donna che rischia la vita". Tempi lunghi Da Differenza Donna arriva un altro dato, seppur non numerico. "Le misure cautelari decise dal tribunale sono in numero inferiore rispetto alle richieste che presentiamo", spiega Teresa Manente. Ma c'è di più. I tempi dei processi non sempre seguono quella corsia prioritaria stabilita dalla legge del Codice rosso. "La beffa - aggiunge l'avvocata Manente di Differenza donna - è che durante alcuni processi scadono i termini delle misure cautelari. E così l'uomo imputato non ha una libertà limitata mentre la salute della vittima viene sottovalutata". Non sono stati brevi nemmeno i tempi di risposta per Waima Vitullo, la pornostar che ha denunciato dalle pagine di Repubblica la persecuzione dell'ex con 600 messaggi al giorno. Nei vocali l'ex le ha detto chiaramente che la ucciderà anche se lei ha denunciato. Waima ha atteso due mesi per vedere i poliziotti varcare la soglia della casa di lui e imporgli un allontanamento di due chilometri da lei, anche qui senza braccialetto. La risposta dello stalker? In un vocale a Waima dopo la notifica: "Tanto ti uccido lo stesso". Vittime dello Stato Se è vero che le donne vengono sentite dai magistrati a tre giorni dalla denuncia per effetto del Codice Rosso, è anche vero che spesso non vengono ascoltate le loro denunce. Come Giulia, residente nel III Municipio. "L'abbiamo accompagnata per tre volte a sporgere querela contro il compagno violento che le ha fratturato il naso - racconta Simona Ammerata di Lucha Y Siesta - e per tutta risposta le è stato detto che lui aveva la residenza nella sua stessa casa e non potevano mandarlo via. Una follia. Le donne sono vittime di uno Stato che per primo lascia inascoltate le loro grida d'aiuto".

Firenze, contro il caro-vita i condomini si uniscono per fare la spesa collettiva al Mercato delle opportunità di Novoli

 

Il presidente Mercafir: "Gli acquisti di gruppo sono la novità: il flusso è cresciuto, abbiamo mille accessi giornalieri per frutta e verdura scontata". E chi è in difficoltà per il rialzo dei prezzi si orienta anche sui discount: "Vado dove ci sono offerte"




Arrivano ogni settimana con i suv all'ingrosso di Novoli e caricano cassette su cassette di frutta, verdura, anche pesce a un terzo dei prezzi di negozi e supermercati. La scorta di cibo per tutto il condominio o da spartirsi tra vicini. "Le spese di gruppo sono la novità degli ultimi mesi. Per una famiglia tutta quella merce invenduta, ancora fresca e ottima ma per qualche giorno, sarebbe troppa - racconta Giacomo Lucibello, presidente di Mercafir e del Mercato delle opportunità gestito dalla Misercordia -. Tocchiamo i mille ingressi giornalieri, un flusso cresciuto. Di clienti fissi, con grandi auto".

Fila all'Europsin
Fila all'Europsin 

C'è un via vai di studenti e famiglie, oltre che di associazioni e mense. Gli sconti del Mercato dell'ortofrutta, aperto ai cittadini il martedì e il venerdì pomeriggio, sono una via d'uscita all'inflazione al 6,9% registrata a maggio dall'Istat (+7,5% sui prodotti alimentari). Un'altra exit alla morsa è la spesa nei discount della città: chi ha un affitto, come Silvia Lepri, 66 anni e operaia, anche con un contratto regolare e stabile sta "attenta ai 20, 30 centesimi". "Non sembra ma tutto alla fine pesa. La busta paga copre la casa, la benzina, altre spese essenziali. Restano i risparmi", calcola mentre accompagna all'Eurospin di via Pistoiese l'amica Graziella Festino, pensionata. Che a 79 anni, vedova, non nasconde "di aver riscosso oggi la pensione ed esser corsa a far la spesa. 400 euro di gas, più telefono e luce: cosa ti resta? Vivo da sola in una casa popolare. Questa nuova crisi non ci voleva, anche mio figlio soffre per il caro affitti".

Silvia Lepri
Silvia Lepri 

La coperta è sempre più corta, la spesa uno slalom per accaparrarsi le occasioni. Ormai si centellina tutto, anche a inizio mese. "I dolci per i bambini al discount, la frutta la mercato. Il resto a seconda dei volantini. Serve più tempo, oltre che più denaro - spiega Daniel, operatore sanitario 50enne con tre figli - altrimenti pagherei circa il 45% in più. L'olio di girasole a 3-4 euro è l'emblema di questa guerra. Non bastava la pandemia, quanto abbiamo rischiato negli ospedali". Con lo stipendio Daniel non coprirebbe le spese da padre di famiglia, arrotonda con dei lavoretti. Elisabetta, 57 anni, separata con 300 euro di assegno dall'ex marito, è arrivata a "comprare di meno, anche per mangiare. Mia figlia ha interrotto gli studi all'università per trovarsi un impiego. Non c'era alternativa", commenta mentre carica in auto una busta di spesa.

Alessandro Galli
Alessandro Galli 

I carrelli sono mezzi vuoti, prodotti di catene come Esselunga, Coop, Conad, nonostante gli sconti, sono considerati cari da chi "conta il centesimo". "Ma rincari ne abbiamo anche noi. Gli ingressi sono in aumento ma capita che i clienti si lamentino alle casse", notano gli addetti dei punti vendita di Lidl ed Eurospin. Unicoop Firenze in questo periodo dà 5 euro di buono spesa per ogni 15 euro di acquisti "il 33% di sconto. L'inflazione è molto forte, la difficoltà collettiva. Teniamo il più possibile i prezzi bloccati, ma mancano diverse materie prime - precisa il responsabile Relazioni esterne Claudio Vanni - e su alcuni articoli il rialzo è inevitabile".

Si controlla il costo di frutta e verdura al chilo. Si valuta. Poi semmai si acquista. Lavorare per mangiare non è più una questione di classe. "Per la spesa mi aggiorno sempre anche su Internet, soprattutto sui social media per un consumo responsabile e sostenibile - racconta Alessandro Galli, rappresentante 34enne a caccia di offerte tra gli scaffali della Lidl di via Baracca - per lavoro so bene che tutto ora costa di più. Noi giovani d'altronde, con l'acqua alla gola da sempre, sappiamo risparmiare". Anche Elena, 46 anni, "misurava tutto prima e ora più che mai. Faccio il giro dei supermarket come dei benzinai. L'ultima sorpresa- chiosa mentre imbraccia il carrello - è una crema all'aloe schizzata da 6 a più di 9 euro".

I pugili di Auschwitz, veri e improvvisati: costretti a battersi nei lager per sopravvivere


  repubblica  online  

La storia di Noah Klieger, che sarebbe poi diventato scrittore, giornalista e dirigente sportivo in Israele, ha ispirato José Ignacio Perez a scrivere ''K.O. Auschwitz". Atleti nell'inferno dei campi di concentramento 


Noah Klieger ha avuto un vita lunga, dal 1925 al 2018. E’ stato scrittore, dirigente sportivo, giornalista: ha raccontato il basket in dieci mondiali e

cinque olimpiadi. Tutto o quasi passa però in secondo piano rispetto ad anni maledetti, a un maledetto: 1944, 1945, Auschwitz. “Sai fare la boxe?”. In quella miriade di porte che il destino apre e chiude, la sua vita può ruotare anche intorno  a una banale domanda. No, la boxe Noah non la sa fare, ma coglie la sfumatura, capisce che può essere una via di scampo. “Sì”, nonostante non abbia mai messo un paio di guantoni e sul ring non sia ammessa improvvisazione, perché su quel quadrato ci salgono non solo kapo fisicamente molto più in forma di lui, ma anche gente che prima di entrare nell’inferno la boxe l’ha fatta davvero.

Quel ‘Sì’ potrebbe trasformarsi in una condanna se non fosse per Jacko Razon: campione di Grecia, poi militare e fatto prigioniero dai nazisti, che lì sono intervenuti dopo l'impantanamento delle truppe italiane. Jacko, che deve affrontare Noah, ci mette poco a capire che il suo avversario di boxe sa poco. E allora gli insegna i rudimenti, come stare sul ring, la fase difensiva. Di fatto il loro incontro è una sorta di recita, ma tanto basta a Noah per prendere tempo, imparare, combattere (lo farà una ventina di volte), per salvarsi con la classica forza della disperazione. Una storia raccontata nell’ultimo anno della sua vita a José Ignacio Perez, che ne ha tratto ispirazione per scrivere ‘’K.O. Auschwitz”. E’ un libro in cui si ripercorrono le vicende di alcuni pugili, veri o improvvisati, nei campi di concentramento.

Match organizzati usando violenza allo spirito nobile della boxe, degradata a senso della sopraffazione, privata di qualsiasi significato sportivo. Eppure, sembra impossibile, anche un contesto di follia presenta delle eccezioni. Come quella di Walter Durning, un kapo meno spietato del solito: affronta Tadeusz Pietrzykowski, pugile forte e molto popolare in Polonia. Ne esce demolito, ma riconosce la grande bravura dell'avversario al punto da fargli aumentare le razioni di cibo e alleggerirgli i carichi di lavoro. Tadeusz è fortunato, non come Victor Young Perez, che invece non sopravvive alle tante marce della morte.

Un libro che ci dà lo spunto anche per ricordare tante altre storie. Quella sinti Johann Trolmann ad esempio, un ballerino del ring, forte al punto da diventare campione di Germania in anni difficilissimi per la sua etnia. Purtroppo lui sulla sua strada non trova Walter Durning, ma Emil Cornelius: è uno che non accetta di essere distrutto sul ring da un avversario che neanche riesce più a stare in piedi e si vendica a colpi di piccone.

Quella di Harry Haft: il nome è l’americanizzazione di Hertzko. Lui è un pugile vero, lo dimostrerà nel dopoguerra, quando riuscirà addirittura a ottenere una chance mondiale per il titolo dei pesi massimi contro l’immenso Rocky Marciano.  Si chiama ancora Hertzko quando mette nei suoi combattimenti ad Auschwitz una tale ferocia da venire chiamata la ‘belva giudea’. Le cicatrici nell’anima gli rimarranno, ma la sua storia è di quelle in cui tante sensazioni si confondono. Una storia diversa da quella del romano Leone ‘Lelletto’ Efrati, uno dei parecchi idoli dei ring romani degli anni Trenta. Va forte, abbatte i confini, va all’estero: in Francia e poi in America, dove arriva a battersi per il titolo mondiale fallendo di poco l’impresa. Potrebbe restarsene al di là dell’oceano, ma torna per stare vicino alla famiglia. Caduto in una retata della Gestapo, vincerà tante volte nonostante – peso piuma – venga spesso costretto a battersi contro gente fisicamente molto più grande. Non potrà farlo quando, intervenuto per difendere il fratello, la furia dei guardiani si accanirà contro di lui.

2.6.22

Prima unione civile tra due donne a Paternò. I genitori: "Fottetevene di quel che dice la gente"

leggendo un po' i mie follower su facebook ho trovato fra quelli di Lorenzo tosa questo  suo post 

Credetemi, questo video di TeleSud è commovente per bellezza, spontaneità, normalità, amore. C’è un passaggio in cui il padre di una delle spose racconta così la sua emozione. “La felicità di mia figlia è la mia felicità. I genitori debbono voler bene ai loro figli, e basta. Quello che dice la gente se ne debbono fottere.” È tutto qui. Aspettando il giorno in cui questo matrimonio, e queste parole, non saranno più una notizia.

 

Ed questo    suo sagace  commento 
Non avrei pubblicato questo video, come non pubblicherei mai il post di alcun matrimonio di persone a me totalmente sconosciute. Poi ho visto la sequela sconvolgente di commenti omofobi, di insulti e minacce nei post in cui questo video è circolato. E ho capito che questa normalità ha ancora bisogno di essere mostrata, ribadita, urlata.



Esso   all'inizio  pur  sembrare (  anche  se   ed  lo dico  da meridionale ,  c'è un fondo  di verità  )   il  solito stereotipo e  luogo comune  su noi meridionali  .  Ma   poi  se     si rilegge  con attenzione  e  si osserva  il video   sotto riportato  nell'articolo    e  si sente  \  presta  attenzione  a quanto dichiara  il padre     di una delle due   serve  per  descrivere  il fatto che  anche  il Sud , anche  se  ancora  di strada  ne dev'essere  fatta   (  vedere  scambio   di battute  sotto  ) 

  sta iniziando  ad  aprirsi  all'amore  non   etero  . E  che  gli omofobi o i pregiudizi  su  un  amore  che  non  sia  quello  classico   si trovano   sia  al nord  sia  al  sud  . 




L'articolo in questione con ammesso video è di https://catania.liveuniversity.it/2022/05/31/unione-civile-paterno/


A Paternò prima unione civile tra donne: “Omosessualità non dev’essere un problema”
31 Maggio 2022


Credits: Giuseppe Trovato Fotografo
Prima unione civile tra due donne a Paternò (CT). Un passo importante per due giovani donne, ma anche per un'intera comunità in Sicilia.
Prima unione civile tra due donne a Paternò. L’unione, tra Maria Rita Bellaprima e Vicky Caruso, si è celebrata giovedì 19 maggio a Palazzo Alessi. La festa e il rito ufficiale sono stati celebrati il 26 maggio a San Giovanni La Punta.
La notizia è stata diffusa da Ciak Telesud, che ha intervistato telefonicamente una delle due donne: “Sono felice – ha dichiarato Maria Rita –. L’omosessualità non deve essere vista come un problema. Il nostro gesto spero possa servire a tante altre coppie che vogliono vivere alla luce del sole il loro amore”.
Si tratta di un passo importante, non solo per la storia personale di queste due giovani donne, ma anche per la storia di una intera collettività, che deve trovare nell’inclusività e nel rispetto dell’altro uno dei suoi valori fondanti.








Maria Rita e Vicky, due spose unite civilmente dopo la cerimonia della scorsa settimana a #Paternò. 👉 I genitori: "Fottetevene di quel che dice la gente"



Il campeggio a scuola per diventare adulti , Raccontiamo la città con una Polaroid , L'auto del Presidente: a bordo della Flaminia 335

Anche in italia sta prendendo piede un esperimento simile a quello dell'Adulting School fondata nel
2016 in Massachusset di Rachel Weinstein qui e qui maggiori news . A Catania



 un progetto di cittadinanza ha trasformato gli spazi verdi dell'istituto in un villaggio. Per insegnare le regole della convivenza e la gestione di una comunità

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dopo  l'esperimento    di Gianluca  Vasallo   fatto  a Milano  ( Una Polaroid per raccontare Milano: il fotoprogetto su Instagram - la Repubblica ,  adesso anche  Savona   


Una staffetta social che utilizza strumenti d'altri tempi: è l'idea per realizzare una guida alternativa di Savona. Nata da una donna che è tornata nella sua terra

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Riappare ogni 2 giugno e nelle cerimonie di insediamento al Quirinale: un gioiello della tecnica italiana costruito nel 1961 per la visita della regina Elisabetta

2 giugno 1948: il processo ai dottori dei campi di concentramento

 

1.6.22

La storia rimossa della schiavitù dei rom Delia Grigore, DoR, Romania

 

da https://www.internazionale.it/notizie/ 30 maggio 2022

(Traduzione di Elena Di Lernia)

Questo articolo è stato pubblicato da DoR ed è stato scritto in collaborazione con Magda Matache, direttrice del programma di studio sui rom ad Harvard e attivista per i diritti dei rom.

Negli anni novanta volevo scrivere la mia tesi di dottorato sulla cultura tradizionale rom, dei quali aspiravo a riaffermare l’identità etnica dal punto di vista di un’attivista alle prime armi, ma non sapevo quasi nulla della loro storia di schiavitù.Avevo sentito solo qualche storia raccontata da anziani rom, come “lavoravamo per i boiardi” o qualche racconto del folclore rom che recitava “mamma e papà non sono più schiavi”, ma non avevo un’idea chiara su cosa avesse rappresentato la schiavitù nella storia dei rom di Romania e nella storia di questo stesso paese, per quanti secoli si fosse protratta e tanto meno sulle conseguenze della schiavitù sul piano giuridico, sociale, economico e, soprattutto, morale.In realtà, sapevo proprio poco della schiavitù dei rom quando ho varcato timidamente la soglia del dipartimento che si occupava delle minoranze nazionali del ministero della cultura. 



                 Rom a Bucarest negli anni trenta. (General Photographic Agency/Getty Images

“Sono zingara, mi sono laureata in lettere e vorrei fare il dottorato sui costumi tradizionali dei calderash”, così rispondevo alla domanda su cosa ci facessi nel suo studio che mi aveva rivolto Vasile Ionescu, anche lui rom e consulente per la questione dei rom. “Non lavoriamo con gli zingari, ma solo con i rom”, mi ha risposto seccamente. Mi era sembrato molto duro e ingiusto.Ma ho capito, allora, che la storia del razzismo nei confronti dei rom nella cultura romena comincia con il falso nome che gli viene attribuito: țigani (zingaro). Nella lingua rom la parola țigani non esiste. Il termine proviene dal greco medievale athinganos o athinganoi, che significava “pagano”, “intoccabile” o “impuro”. La parola fu utilizzata per la prima volta nel 1068 in un monastero dell’attuale Georgia da un monaco durante la sua spiegazione su cosa fosse l’eresia degli athinganoi, considerati nomadi, indovini e stregoni, e che consigliò ai suoi parrocchiani cristiani ortodossi di evitare quegli eretici.

L’attuale identità dei rom di Romania si è strutturata intorno a una storia di esclusione sociale e razzismo istituzionalizzato

Nel medioevo, la parola romena țigani indicava lo status giuridico di servo o schiavo, e non un gruppo etnico. Ed ecco già due significati della parola: prima eresia, poi status giuridico fuori del sistema gerarchico della società. Lo schiavo/țigani non faceva parte della struttura sociale, si situava al di fuori di essa, era semplicemente merce di scambio ed era di proprietà del principe, dei boiardi o dei monasteri. In seguito la parola țigani è rimasta nella memoria collettiva romena ed è oggi usata nella lingua corrente con accezione dispregiativa.Leggendo i pochissimi libri di storia che hanno osato affrontare il difficile argomento della schiavitù dei rom, ma ancor di più studiando i documenti conservati negli archivi, ho capito che l’attuale identità dei rom di Romania si è strutturata intorno a una storia di esclusione sociale e razzismo istituzionalizzato: dalla prima attestazione dei rom in territorio romeno, nel 1385 (quando ai rom viene dato lo status di schiavo), passando per l’olocausto romeno (che si è proposto ed è riuscito a sterminare decine di migliaia di rom), per l’integrazione forzata o il genocidio culturale del periodo socialista, agli omicidi e agli incendi appiccati alle case dei rom negli anni tra il 1994 e il 2000 e ancora agli abusi, le persecuzioni e la violenza usati dalla polizia contro le comunità dei rom dagli anni novanta fino a oggi, quando questi episodi sono aumentati con la pandemia.Esclusi dalla condizione di esseri umani dalle leggi del paese e dal “diritto consuetudinario” e trovandosi in uno stato di dipendenza non solo economica ma ancora di più personale e giuridica, gli schiavi rom erano considerati una merce, poiché venivano scambiati, venduti, donati, ereditati e sottoposti ad abusi e violenze, vittime perfino di stupri, torture e omicidi commessi dai loro “padroni”.Una famiglia rom non era riconosciuta come parte di una comunità, ma era intesa come un mezzo per produrre nuovi schiavi, una sorta di generatore di domestici. La schiavitù ha colpito profondamente anche i bambini rom, allontanati dalle loro famiglie per volontà dei padroni, scambiati, donati o venduti, a volte a prezzi inferiori a quelli degli animali, poiché considerati non abbastanza bravi per il lavoro.
Un’emancipazione incompleta
Sotto la pressione dell’abolizionismo in corso in occidente, che nel diciannovesimo secolo provava a liberarsi di un’istituzione retrograda e disumana come la schiavitù , e nel contesto degli sforzi della Romania dell’epoca (allora Țărilor Române, Terra Romena, ossia Moldavia e Valacchia ) di guadagnarsi la simpatia dell’occidente, la liberazione dei rom dalla schiavitù del 1856 è stata la conclusione di un processo difficile e relativamente lungo, ostacolato da una forte opposizione da parte della chiesa ortodossa e dalla maggior parte dei boiardi.Tuttavia l’emancipazione giuridica non ha portato a una trasformazione radicale dello status dei rom nella società. Il programma riformista dei rivoluzionari del 1848 e la politica dei governi che si sono avvicendati hanno trascurato la problematica economica – in particolare il diritto di possedere la terra – e gli aspetti di ordine morale, limitandosi all’emancipazione giuridica e alla sedentarietà, a volte forzata, dei rom. Non sono esistite politiche di inclusione dei rom, cosa che ha portato alla loro ricaduta nello stato precedente e alla stigmatizzazione della loro appartenenza etnica.Le conseguenze della schiavitù sono ben visibili ancora oggi nella mentalità collettiva ereditata dal passato, piena di stereotipi e pregiudizi. Lo studio di una parte significativa del folclore romeno, in particolar modo di proverbi, aneddoti e fiabe, dimostra un sentimento marcato di ironia e disprezzo nei confronti dei rom. I rom sono visti, sempre più spesso, come cattivi, perfidi, ladri, criminali, sporchi, esseri non umani.Questa eredità negativa, l’assenza di istituti di formazione e rappresentanza del modello culturale rom, con la notevole eccezione del centro nazionale di cultura dei rom Romano kher, e la mancanza nell’ambito dei programmi scolastici e dello spazio pubblico di informazioni corrette, portano alla stigmatizzazione dell’identità rom, all’interiorizzazione di questa cicatrice e al rifiuto, spesso da parte degli stessi rom, della loro identità.Ecco una nuova forma di schiavitù: la schiavitù morale che neanche una legge può abolire senza il contributo fermo e unanime di tutti gli strati della società, dalle autorità pubbliche agli intellettuali.
Un nuovo modello educativo
Scoprendo tutte queste cose, l’associazione Amare Rromentza ha cercato di contribuire alla diffusione della conoscenza e alla promozione della comprensione della storia e della cultura dei rom, soprattutto tra i giovani, rom e non rom, attraverso la realizzazione e la presentazione, negli anni 2007 e 2008, della pièce Rromanipen, realizzata insieme agli studenti della sezione rom della facoltà di lingue straniere dell’università di Bucarest e agli studenti rom delle altre facoltà.La prima reazione dei giovani è stata quella di stupore. Alcuni non rom hanno espresso un rifiuto, scettici di fronte alle storie di antenati padroni di schiavi. Ho portato loro argomenti a sostegno della verità storica. Ci sono state anche reazioni di rabbia da parte dei giovani rom, che si chiedevano perché i loro antenati schiavi non si fossero ribellati alla schiavitù. A questi giovani ho raccontato della lotta per la libertà portata avanti da un punto di vista giuridico da alcuni schiavi rom liberi ma trattenuti abusivamente dai loro padroni.La reazione della comunità scientifica, soprattutto degli storici romeni, è stata quella di sminuire la gravità della schiavitù dei rom, definendola “servitù” che, sebbene sinonimo di “schiavitù”, era descritta come meno grave e più simile a un regime feudale, sebbene ci siano differenze fondamentali: con la prima si intende una dipendenza solo economica, con la seconda una dipendenza personale.Nel rapporto Direcții strategice de incluziune etno-educațională a rromilor (Linee strategiche di inclusione etno-educativa dei rom) ho proposto una serie di misure volte alla conoscenza e alla comprensione della verità storica, per valorizzare l’identità etnica rom e per promuovere un’immagine corretta dei rom. Così Amare Rromentza ha creato il concetto di inclusione etno-educativa, un approccio in cui il sistema educativo include ufficialmente i rom riconoscendo, promuovendo, garantendo e coltivando la loro identità etnica a tutti i livelli di scolarizzazione e nella formazione permanente degli adulti. È una nuova strategia educativa che può essere applicata a qualsiasi gruppo etnico o a qualunque minoranza nazionale.Perché anche uno studente rom con elevate prestazioni scolastiche, che studia in una scuola con dotazioni eccellenti e professori altamente qualificati, se non recupera la componente identitaria,nonbeneficerà di una formazione completa.
Dopo una tale storia tragica, la società romena ha un enorme debito sia morale sia materiale nei confronti dei rom, e quindi è doveroso prima di tutto il riconoscimento della schiavitù e la ricostruzione della memoria collettiva rom e romena, il che presuppone molto più che l’istituzione di una giornata dedicata alla liberazione dalla schiavitù (il 20 febbraio), così come accade oggi.
Servono programmi nazionali di ricerca, programmi in campo editoriale, la presenza completa e corretta della storia e della cultura dei rom nei programmi, nei manuali e nelle biblioteche scolastiche, nei mezzi di comunicazione, in qualsiasi tipo di formazione rivolta agli adulti, la realizzazione di monumenti pubblici, di istituti di ricerca e promozione della memoria culturale rom e del patrimonio culturale rom (istituti di ricerca, musei, teatri, centri culturali provinciali e locali, collezioni di libri rom nelle biblioteche pubbliche eccetera.).
La riconciliazione tra rom e società, in altre parole tra ex schiavi ed ex proprietari di schiavi, non si può realizzare se non, da una parte, attraverso il riconoscimento e l’accettazione della storia da parte della società e delle istituzioni statali e, dall’altra, attraverso la ricostruzione istituzionale dell’identità rom per ritrovare la dignità. Questo nella speranza che i figli dei rom siano considerati, alla fine, cittadini a pieno titolo e mai più schiavi di fantasmi sulla loro diversità.


"Tre anni fa sequestrata e massacrata dal mio ex, oggi ho ritrovato me stessa e il vero amore" ed altre storie

  canzoni  consigliate
la  donna  cannone  - francesco e  gregori
 Caruso - Lucio Dalla 

 Esattamente tre anni fa Beatrice, che oggi ha 29 anni, era irriconoscibile.



Fuori e dentro. Completamente succube dell'ex partner, aveva sopportato ogni forma di violenza, fino a rischiare la morte: a giugno del 2019 l'allora fidanzato l'aveva sequestrata e massacrata di botte. Riuscita a fuggire per coraggio e fortuna, Beatrice ha lottato per riprendersi in mano la sua vita e oggi sposa un uomo che la ama davvero.

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Giusto per ricordare che il problema del lavoro non riguarda solo i giovani (che purtroppo non trovano lavoro e quando lo trovano devono sperare che non sia uno schifo dove ti maltrattano, ti fanno lavorare più ore del dovuto, sottopagati e in nero), ma riguarda anche le generazioni più mature, quello del lavoro è un problema grave che riguarda tutti.. tranne a chi ha la coscienza sporca. Ed èqiuesta la storia di Marina ha 50 anni ed è tornata a vivere con la madre. Essa  ha   lavorato da quando ha 18 anni, si è laureata in sociologia e da quasi 3 anni è ritornata a vivere con la madre per esigenze familiari e lavorative. Ha iniziato la sua carriera come giornalista, poi come addetto stampa e infine si è trasferita a Londra dove è stata Manager di un ristorante e segretaria di un'importante studio di architettura. Tornata in Italia


ha trovato lavoro come "Tester dei ristoranti" ma a causa della pandemia si è fermato tutto. Oggi Marina vorrebbe poter continuare a fare il suo lavoro di copywriter, in Italia, ma le aziende - racconta - dopo alcuni colloqui fanno "ghosting", spariscono senza più nessuna risposta. Ma prima che ciò accada, le aziende, tra cui anche importanti brand, chiedono idee, analisi e script e poi non danno seguito alle proposte


Bimbo di 20 mesi muore, funerali senza i genitori: "Nessuno ci ha avvertito" Il piccolo, ospite di un centro specializzato, a causa di una difficile situazione famigliare stava per essere adottato ed altre storie

 di Cristina Palazzo repubblica 

Bimbo di 20 mesi muore, funerali senza i genitori: "Nessuno ci ha avvertito" Il piccolo, ospite di un centro specializzato, a causa di una difficile situazione famigliare stava per essere adottato


 
A 20 mesi muore per una crisi respiratoria, dopo aver combattuto contro una grave malattia sin dalla nascita, ma ai funerali non ci sono i genitori, che non sarebbero stati informati. Una storia difficile quella che arriva da Asti.
I genitori del bimbo, Mario Domenico, non erano stati considerati adatti ad accudirlo, stando ai servizi sociali comunali, ed erano state avviate le pratiche per l'adozione. Così il bimbo era stato affidato a una
famiglia e poi trasferito in un centro specializzato.
I genitori naturali avevano continuato a vederlo ogni due settimane, finché è stato loro consentito. Poi il permesso è stato revocato. Nei giorni scorsi il piccolo è morto a causa di una crisi respiratoria. I servizi sociali hanno organizzato il funerale ma, secondo l'accusa dei genitori, non hanno avvertito il padre e la madre naturale che hanno appreso delle esequie da altre fonti, dopo una settimana.
"È una storia nata male e finita male. Non ci sono state violazioni giuridiche da parte del Comune di Asti e del tribunale per i minorenni di Torino ma sul lato umano si poteva fare diversamente” commenta l’avvocato Claudia Malabaila, che con Roberto Caranzano assiste il padre di Mario Domenico.
Secondo quanto riferiscono dal Comune di Asti un decreto del tribunale per i minori di Torino imponeva di non far sapere ai genitori dove fosse il figlio, neanche da morto.
Già a pochi mesi dalla nascita Mario Domenico era stato seguito da una famiglia astigiana che lo aveva avuto in affidamento. Lo aveva portato da diversi specialisti per cercare di curare una rara forma di malattia infantile che provoca crisi respiratorie. Il bambino era stato ricoverato più volte ad Alessandria, dove veniva seguito da un'operatrice sanitaria dedicata, pagata dai servizi sociali del Comune di Asti. Negli ultimi mesi il piccolo si era aggravato ed era stato trasferito a Tortona in un una casa di cura per bimbi gravemente malati. Il 14 maggio, a 20 mesi dalla nascita, Mario Domenico è morto. Ma nessuno ha avvisato i suoi genitori.


un altra  storia   con  un finale   diverso , ma   sempre  triste   è questaa


Firenze, resta solo in classe: i suo compagni vanno in gita, lui no perché non c'è il bus con la pedana per la sua carrozzina
E' successo a un bambino di 9 anni di una scuola elementare


Desiderava andare in gita con i compagni, ma è stato escluso ed è rimasto in classe con l'insegnante di sostegno perché la scuola non ha trovato un pulmino attrezzato con la pedana per far salire i disabili. E' quel che racconta il padre di un bambino di 9 anni che frequenta una scuola elementare di Firenze e che assieme ai compagni avrebbe dovuto andare a visitare un istituto alberghiero. Il bambino è in carrozzina
per una disabilità motoria a causa della sindrome fibrosa poliostosica. La storia è stata raccontata oggi dalle cronache locali di alcuni quotidiani fiorentini, La Nazione e Il Tirreno: "Venerdì scorso la maestra ha detto a mia moglie che avremmo dovuto portare noi famiglia il bambino alla struttura di destinazione, perché la scuola non aveva trovato il pulmino adibito anche alla carrozzina" ha riferito il genitore. Ma siccome mamma e babbo lavorano, non potevano occuparsi di questo accompagnamento. Il presidente dell'istituto comprensivo ha spiegato che Autolinee Toscane aveva garantito il bus con la pedana, ma che poi lo sciopero della scuola ha costretto a un cambio di data e per quella data il pullmino con la pedana non era più disponibile. Cosa che Autolinee Toscane smentisce: "Tutti i nostri bus urbani a Firenze hanno la pedana. Ci risulta una prenotazione da parte della scuola per il 30 di maggio sulla linea 24, poi saltata per via dello sciopero".
La scuola aveva contattato la famiglia ricevendo una disponibilità di massima ad occuparsi del trasporto del figlio. Ma probabilmente c'è stato a quel punto un frainteso, scuola e genitori non si sono capiti e la famiglia sostiene di non essersi resa disponibile all'accompagnamento.
Da Forza Italia, Marco Stella chiede un intervento da parte del Miur, il ministero dell'Istruzione che faccia chiarezza sulla vicenda.