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13.1.25

L’ultimo bambino di Auschwitz: Filippo Boni incontra Mandić, che il 2 marzo 1945 chiuse i cancelli del lager

 




Roma, 13 gennaio 2025

  da   https://www.msn.com/it-it/channel/source/Quotidiano.Net

L’autostrada sfila all’ora del tramonto e nell’aria c’è puzza di bruciato. Qualcuno ha incendiato sterpaglie al confine tra l’Italia e la Slovenia, dove finisce Trieste e un tempo iniziava il mondo non allineato del maresciallo Tito, prima della caduta del muro di Berlino e della fine del comunismo. (...) Il cielo è pallido, in una pausa di questo lungo viaggio verso Opatija, in Croazia, dove vive Oleg Mandić, il bambino sopravvissuto ad Auschwitz che il 2 marzo 1945, insieme all’Armata Rossa, chiuse i cancelli del lager. Ci sta aspettando. Mia figlia dorme profondamente sul sedile posteriore, mia moglie è vicino a lei. Osservo il suo profilo delicato, ascolto il suo respiro; in questo parcheggio dell’Italia orientale, in un crepuscolo di fine estate, ha il potere di trasformare tutto in una nevicata indefinita e senza tempo, che ogni cosa seppellisce di tenerezza. Già. In fondo è questo il potere dei bambini. Seppellire tutto di tenerezza, salvare da ogni male l’uomo adulto e qualsiasi sua pulsione verso l’abisso. I bambini sono la nostra salvezza. Poco fa, quando ho chiesto a un tizio di questo autogrill se sapesse quanti chilometri mancassero ad Abbazia, lui mi ha risposto preciso, in un italiano macchiato di slavo, e poi un po’ incuriosito mi ha chiesto cosa cercassi laggiù. Gli ho spiegato che presto avrei dato voce all’ultimo bambino sopravvissuto ad Auschwitz, che vive là. Lui si è accigliato e perplesso mi ha risposto: “L’ultimo bambino di Auschwitz? Ancora? Dopo ottant’ anni, si parla ancora dei bambini di Auschwitz?”. Ho finto di non sentire. Ho abbassato gli occhi, mi è venuto un conato di vomito e mi sono allontanato, ferito, più che indignato. Non è l’unico a cui ho sentito fare riflessioni di questo tipo nel tempo, dimostrazione che lo spettro del male assoluto è tutt’altro che sconfitto.Sul sedile della mia auto, vicino a mia figlia che dorme, un quotidiano accartocciato dal vento scrive che anche ieri, a Gaza, sono morti dieci bambini e altrettanti sono sotto le macerie, e molto probabilmente non usciranno vivi. Nell’attacco terroristico di Hamas contro Israele lo scorso 7 ottobre 2023 vennero uccisi, insieme a 1400 persone innocenti, decine e decine di bambini inermi. Tra l’ottobre 2023 e il 31 agosto 2024 tra i circa 34.000 nomi di vittime presenti nell’elenco del ministero della Salute di Gaza, 11.300 sono bambini, il 30% dei quali aveva meno di cinque anni. Di questi, circa 710 avevano meno di dodici mesi, il 20% di loro sono nati e morti durante la guerra. Altri 2800 piccoli uccisi ancora non sono stati riconosciuti. Ma non è solo a Gaza, oggi, nell’autunno del 2024, che i bambini vengono massacrati. In Ucraina, su oltre un milione di vittime, 575 sono bambini. Poi c’è la Siria, lo Yemen, l’Afghanistan, la Repubblica Democratica del Congo, Haiti, l’Ecuador, la Nigeria, il Mozambico, il Burkina Faso, il Benin, il Sudan, il Mali, il Pakistan, l’Honduras, Puerto Rico e altri ancora. Un bambino su cinque, nel 2024, sulla terra, vive in aree interessate da un conflitto. Molti sono nati sotto le bombe e non sanno cosa significhi vivere in pace. I bambini non iniziano mai nessuna guerra e non hanno mai il potere di decretarne la fine. I bambini le subiscono e basta, le guerre.Eppure, di fronte a tutto questo, molti oggi si chiedono se ha ancora senso parlare di Auschwitz, del male assoluto, degli adulti e dei bambini finiti nel vento attraverso i camini. Durante la Seconda guerra mondiale, i nazisti massacrarono un milione e mezzo di bambini circa. Molti di loro bruciati nei campi di sterminio, nel punto più profondo dell’orrore assoluto. I più ottimisti si illusero che dopo Auschwitz il mondo sarebbe cambiato. È stato così solo in piccolissima parte, purtroppo. È forse scomparso l’abominio dei campi di sterminio, ma l’esecro dell’uomo sull’uomo, le atrocità, le violenze, le discriminazioni e i genocidi non sono mai finiti. Per questo motivo ho trascorso mesi e mesi nel doloroso e complesso tentativo di calarmi nell’animo e nel cuore di Oleg Mandić e di interpretarne la vita, il sentire, la voce; scrivere di un bambino e di una madre del passato, soprattutto di quel passato, per i bambini e le madri del futuro. È così che ha preso vita questo libro. Per un atto d’amore e d’umanità. E perché credo sia più difficile rinunciare all’amore che alla vita.
Ho scritto questo libro per tutti i derelitti della terra. L’ho scritto per i dimenticati, per i soli, per i perseguitati, per quelli che hanno perso l’ultimo treno. L’ho scritto per chi non ha più voce e per chi voce non l’ha mai avuta, oppure gli è stata tolta. Ho scritto questo libro per tutte le vittime di tutti i genocidi e di tutte le guerre della storia. Tutte. Nessuna esclusa. Quelle di ieri e quelle di oggi. Soprattutto per i bambini. (...) Ho scritto questo libro per Oleg Mandić, l’ultimo bambino uscito vivo da Auschwitz, per i suoi occhi azzurri, per la sua esistenza straordinaria, per come ama sua moglie; per il modo in cui riesce ancora a guardare il mare dalla terrazza del suo studio, a novantun anni compiuti, nonostante tutto. Ho scritto questo libro perché il bambino che lui fu siamo tutti noi. Ho scritto questo libro per parlarti della grandezza di tutte le madri della terra, nel cui grembo si rigenera la speranza. Già. È soprattutto di speranza che dovrebbe esser fatto, il futuro. Ho scritto questo libro perché è il più grande inno all’amore e alla pace che potessi mai scrivere per mia figlia. (...) Dorme sul sedile posteriore, accanto a un giornale accartocciato che parla di guerre, in questo viaggio che profuma di salvezza. E respira. Respira. Respira.

12.1.25

Quella debordante solidarietà filo-palestinese che ha resuscitato l’antisemitismo in Ue e Usa di Giuliano Cazzola + mio commento


da  Ilriformista   

Tra poche settimane, il 27 di gennaio, ricorrerà l’80° anniversario della liberazione, da parte dell’Armata rossa, del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau (in Polonia ma vicino ai confini con la Germania). In quella data si svolgerà la Giornata internazionale della memoria delle vittime dell’Olocausto promossa dall’Onu, nel 2005, con l’invito agli i Stati Membri a sviluppare programmi educativi per infondere la memoria della tragedia nelle generazioni future e impedire che si ripeta.
Il presidente Sergio Mattarella parteciperà alla cerimonia di commemorazione che si svolgerà in quel campo che dell’Olocausto è divenuto il simbolo. Negli anni scorsi, la commemorazione della Giornata del 27 gennaio (il Parlamento italiano assunse un ruolo di avanguardia a partire dal 2000) ha unito le opinioni pubbliche europee, ben al di là del loro atteggiamento nei confronti di Israele, lo Stato che alla fine del Secondo dopoguerra fu costituito con un voto dell’Onu per dare una patria comune alla popolazione della diaspora dove vivere e progredire in libertà e pace. Uno Stato sovrano è chiamato a compiere scelte ed azioni politiche nell’area in cui è insediato e sul piano dei rapporti internazionali.
È normale che quelle iniziative politiche incontrino approvazione o dissenso. Ma non era mai successo (almeno da molti decenni) che un intero popolo unito da una stessa fede, ma articolato in contrapposte convinzioni politiche dei singoli e delle diverse comunità, nonché perfettamente integrato nella storia e nella vita delle nazioni in cui le generazioni passate avevano trovato accoglienza, fosse ritenuto r
esponsabile in toto delle alleanze e delle politiche adottate ed effettuate dai governi di volta in volta in carica nello Stato di Israele.
Anche gli alleati e i prosseneti dei nemici dello Stato ebraico hanno manifestato nel tempo, verso gli ebrei sterminati a milioni dai nazisti, quella pietà che non hanno mai sentito nei confronti degli ebrei vivi, nostri contemporanei. In fondo, quanto era avvenuto in quella fredda giornata del 1945 costituiva un titolo d’onore per la gloriosa Armata rossa. Dopo i massacri del 7 ottobre 2023, e la reazione dell’esercito israeliano deciso a venire a capo una volta per tutte dei nemici dislocati sui confini (peraltro con risultati effettivi dopo decenni trascorsi invano nel ricercare invano, attraverso i negoziati, situazioni di pacifica convivenza), quella capacità di distinguere l’ebreo e l’israeliano sembra venuta meno in tutto quel mondo civile che, fino a pochi mesi addietro, rivendicava le sue radici ebraico-cristiane.
Purtroppo una debordante solidarietà filo-palestinese, anch’essa priva di riscontri nella storia recente, ha recuperato dall’immondezzaio della storia la pianta carnivora dell’antisemitismo, resuscitando in Europa e in Usa vere e proprie campagne di persecuzione delle comunità ebraiche. E sono proprio gli Istituti di eccellenza come le università a distinguersi in queste insensate manifestazioni. Già l’anno scorso la giornata del 27 gennaio venne turbata dai Propal al punto di impedire agli ebrei di sviluppare, per ragioni di sicurezza, le loro commemorazioni.  Nulla può essere definito aberrante se non il risorgente antisemitismo camuffato da un moto di solidarietà con i palestinesi, magari agitando le stesse parole d’ordine di Hamas.
Ma così è stato. Vigileremo su quanto accadrà il 27, chiedendo al governo di usare la massimo fermezza e pretendendo che le Autorità accademiche si dimostrino all’altezza della loro funzione. Davanti all’università statale di Milano, lo scorso anno, un gruppo di studenti (che alle successive elezioni per eleggere le loro rappresentanze negli organismi accademici si rivelarono una netta minoranza) affissero un manifesto dal titolo “L’indifferenza è peggiore della violenza” nel giorno in cui l’ateneo conferiva la laurea honoris causa in Scienze storiche alla senatrice a vita, Liliana Segre.
Nel manifesto non si metteva in discussione l’onorificenza per la senatrice, vittima della Shoah, ma si criticava l’ipocrisia di un’istituzione accademica che ricordava gli orrori del passato, voltandosi dall’altra parte di fronte agli orrori del presente. Fino a collaborare alla ricerca bellica su nuovi strumenti con cui uccidere in tutto il mondo e negando il genocidio in Palestina. Le università – concludeva il manifesto – hanno il dovere di fare memoria, e di farla vivere nell’oggi, di fronte ai genocidi del presente. Se non lo fanno, sono complici. Un vero e proprio furto di memoria incistato in un insieme di falsificazioni dei fatti che poi sono dilagate in migliaia di manifestazioni nel corso di tutto l’anno.


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E'   vero   come  fa   anche    notare     l'articolo  riportato  sotto  di  Cazzola    che  molti  all'interno  dei movimento  pro palestina    hano resuscitato  l'atisemitismo  . IL cognome del giornalista ,  di cui  ho  riportato l'articolo    ,indurrebbe a giochi di parole che l'algoritmo bloccherebbe, ma il livello d'analisi è appunto quello: c'è un genocidio, un crimine orribile contro l'umanità, che giustamente un Tribunale internazionale ha definito come tale (quindi non un organismo schierato, ma un organo imparziale) e lui ancora cerca di difendere questo sterminio facendo passere i criminali per povere vittime ?   dicendo  che  tutti  i critici   e  i  movimenti  pro  palestina   sianoi     solo  Hamas   . Quindi basta usare, vigliaccamente, il tema dell'olocausto  anzi della  Shoia  in  questo  caso   per giustificare il GENOCIDIO di Gaza. E ugualmente le manifestazioni contro le politiche di Israele NULLA hanno a che fare con l'antisemitismo. Questa identificazione Israele = Ebraismo e' mistificatoria, fa' comodo a Netaniahu, e ai veri fascisti, quelli che sostengono le politiche imperialiste e guerresche dell'attuale Israele.

E' vero che    c'è  , è da   disonesti non ammetterlo  ,  un  atisemitismo   di  sinistra   che  si  differenzia  da quello di  destra . Infatti L'antisemitismo, purtroppo, può manifestarsi in diverse forme e provenire da vari contesti politici. L'antisemitismo di destra spesso si basa su teorie del complotto, come l'idea di un "complotto ebraico" per controllare il mondo. Questo tipo di antisemitismo può essere legato a ideologie nazionaliste e xenofobe.D'altra parte, l'antisemitismo di sinistra può emergere in contesti di critica verso Israele e le sue politiche. Sebbene la critica verso uno stato non sia di per sé antisemitica, può diventarlo quando si generalizza e si attribuiscono caratteristiche negative a tutti gli ebrei, o quando si nega il diritto di Israele di esistere.Entrambi i tipi di antisemitismo sono pericolosi e inaccettabili. È importante riconoscerli e combatterli in tutte le loro forme. Soprattutto  quando  fra i due  antisemitismi c'è una    distinzione  sfumata  . Infatti  L'antisemitismo, un odio profondo e irrazionale verso gli ebrei, si è manifestato in diverse forme nel corso della storia e ha trovato terreno fertile in ambito politico, sia a destra che a sinistra. Sebbene le espressioni e le giustificazioni possano differire, entrambe le ideologie hanno contribuito alla diffusione di pregiudizi e discriminazioni verso gli ebrei.

  da   Gemini   IA    di   google  

Antisemitismo di Destra

L'antisemitismo di destra è storicamente più noto e associato a ideologie come il nazismo e il fascismo. Le sue radici affondano in teorie razziali che considerano gli ebrei una razza inferiore, responsabile di tutti i mali della società. Le caratteristiche tipiche dell'antisemitismo di destra includono:

  • Superiorità razziale: La convinzione che una determinata razza sia intrinsecamente superiore alle altre.
  • Complottismo: L'idea che gli ebrei stiano orchestrando un complotto globale per dominare il mondo.
  • Odio viscerale: Un'avversione profonda e irrazionale verso gli ebrei, spesso accompagnata da violenza fisica e psicologica.

Antisemitismo di Sinistra

L'antisemitismo di sinistra, sebbene meno evidente, è altrettanto pericoloso e può assumere forme più sottili. Spesso si nasconde dietro critiche politiche allo Stato di Israele, presentate come legittime, ma che in realtà sfociano in stereotipi e pregiudizi antisemiti. Le caratteristiche tipiche dell'antisemitismo di sinistra includono:

  • Antisionismo radicale: Un'opposizione viscerale allo Stato di Israele, spesso accompagnata da accuse di colonialismo e apartheid.
  • Doppio standard: L'applicazione di standard morali diversi a Israele rispetto ad altri Paesi.
  • Delegittimazione dell'identità ebraica: La negazione del diritto degli ebrei di autodeterminarsi e l'accusa di sfruttare l'Olocausto per giustificare ogni azione.

Somiglianze e Differenze

  • Odio per gli ebrei: Entrambi gli estremismi condividono l'odio per gli ebrei, sebbene le motivazioni e le espressioni possano differire.
  • Stereotipi: Entrambi utilizzano stereotipi negativi sugli ebrei per giustificare l'odio.
  • Violenza: Entrambi possono sfociare in atti di violenza contro gli ebrei.

Tuttavia, esistono anche delle differenze significative:

  • Giustificazioni: L'antisemitismo di destra si basa su teorie razziali, mentre quello di sinistra si nasconde spesso dietro critiche politiche.
  • Obiettivi: L'antisemitismo di destra mira all'eliminazione fisica degli ebrei, mentre quello di sinistra mira alla delegittimazione dello Stato di Israele e dell'identità ebraica.

Perché è importante distinguerli?

Distinguere tra antisemitismo di destra e di sinistra è fondamentale per combattere efficacemente questo odio. Ignorare o minimizzare l'antisemitismo di sinistra, ad esempio, significa permettere che si diffonda indisturbato. Inoltre, permette agli antisemiti di sinistra di nascondere il loro odio dietro una facciata di legittimità.

In conclusione, sia l'antisemitismo di destra che quello di sinistra sono pericoli reali e minacciano la convivenza pacifica. Combattere l'antisemitismo richiede una comprensione profonda delle sue diverse manifestazioni e un impegno costante a promuovere il rispetto e la tolleranza.

Vuoi approfondire un aspetto specifico dell'antisemitismo?

Possibili argomenti:

  • Esempi storici di antisemitismo di sinistra e di destra
  • Il ruolo dei media nell'alimentare l'antisemitismo
  • Le strategie per combattere l'antisemitismo
  • L'impatto dell'antisemitismo sulla società


'Non la violenta nessuno', orrendo commento sessista contro Elly Schlein: deputata di FI Stefania Bruschi, accende la bufera

stronza  come  un  uomo  - roberto  vecchioni


 La consigliera comunale di Fratelli d’Italia, Stefania Bruschi, ha scatenato una bufera mediatica con un commento sessista rivolto alla segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein. Il commento, pubblicato su Facebook, è stato definito "sessista e vergognoso" dal segretario dem milanese Alessandro Cappelli. . L'attacco di Bruschi è arrivato in seguito al silenzio di Schlein sui fatti di Piazza Duomo, dove un gruppo di oltre 30 persone avrebbe accerchiato e molestato alcuni turisti e passanti. Bruschi ha commentato con parole offensive, sminuendo la figura di Schlein e banalizzando il fenomeno delle violenze sessuali: "Perché lei anche nuda non la violenta nessuno! Anzi, sarebbe contenta di vedere un volatile o una passerotta", si legge nell'articolo condiviso da Luce!
Le sue dichiarazioni hanno suscitato indignazione, con Cappelli che ha chiesto pubbliche scuse e una

condanna esplicita da parte di Fratelli d'Italia. . Ora  mi  chiedo  a che punto simo arrivat se una donna   si mette a  fare  battute    sessiste  come   quelle  di certi  uomini  ?   è questa  la parità    rivendicata    dai movimenti femministi ?  .  Posso  capire      l'antipatia   per  la  S   e  le  critiche  per  il suo silezio    suui  fatti di Milano  . Ma  c'è modo  e modo  di criticare   . Infatti   con l'intelligenza che ha questa signora credo sia impossibile sia avvicinata da un essere pensante , anche se lei pensa di essere un fenomeno , probabilmente , da quello che mostra  come sua cultura di base , non ha studiato mentre la controparte lo ha fatto , non è civile mentre la controparte lo è e poi cittadini è ora che non sopportiamo più sti personaggi , io mi sono stancato di questi  soprattutto di destra , (giornalisti compresi) , non hanno cultura (una volta c'era ad esempio Montanelli solo  per  citare  il caso più  noto   ) , fanno le loro esternazione per una base di dementi ,   hatrs    \  odiatori  , analfabeiti funzionali . Il il livello d'incultura  e   di stupidita' fa passi da gigante in alcune persone purtroppo .  

Muore e lascia 10milioni di euro in eredità a un piccolo comune che si chiama come lui

 

 


Non c’era mai stato e a malapena sapeva dove si trovasse, tuttavia ha deciso di devolvere la sua corposa eredità – circa dieci milioni di euro – a quella cittadina normanna di appena 1.700 abitanti, perché portava il suo stesso nome. È la bizzarra storia di Roger Thiberville, meteorologo parigino discendente di una famiglia di proprietari terrieri, che non avendo figli né nipoti ha deciso di destinare l’intera sua fortuna a Thiberville,

piccolissimo comune situato nel dipartimento dell’Eure nella regione della Normandia. Malgrado non avesse nessun legame personale con Thiberville, Roger ha scelto di lasciare tutto il suo patrimonio alla località chiedendo una sola cosa in cambio: che le sue ceneri fossero deposte in un memoriale nel cimitero del paese. Roger Thiberville, che viveva modestamente a Parigi e possedeva quattro case nel quindicesimo arrondissement, è morto nell’agosto scorso all’età di 91 anni senza avere eredi. Non sapendo a chi lasciare i suoi risparmi ha dunque pensato di darli alla cittadina normanna, che con lui condivideva solo il nome. Quando Guy Paris, sindaco di Thiberville, ha saputo della generosa donazione ha confessato di essere rimasto sbalordito: “È una somma di denaro eccezionale. Al di là di ogni immaginazione. Non sappiamo ancora cosa ne faremo”, ha commentato a una radio locale. Quei dieci milioni di euro infatti sono pari a cinque volte il bilancio annuale comunale, un vero e proprio tesoro da valorizzare al massimo. Tra le prime iniziative che l’amministrazione municipale intende finanziare potrebbe esserci l’estinzione di un prestito bancario di oltre 400mila euro contratto per costruire una nuova scuola elementare, ma il sindaco ha già in mente altre idee: “Abbiamo dei progetti: un giardino pubblico con un’area giochi, un campo da bocce con pannelli solari che serviranno da ombra, un campo da calcio sintetico…”, ha spiegato Guy Paris. Quel che è certo, ha assicurato il primo cittadino, è che la gestione dell’eredità sarà improntata alla massima responsabilità. “Non spenderemo tutto in una volta. Gestiremo questa dote come abbiamo sempre fatto con il nostro bilancio comunale”

anche il corpo piò essere forma d'arte . oltre ai tatuaggi il caso di , la prima body painter sarda , Sonia Floris

 

dall'unione  sarda     12\1\2024      e    da  (  per  le  foto   del  post  )   https://www.castedduonline.it/

«Lavorare non mi ha mai spaventata, ho fatto di tutto nella mia vita, oggi lo dico con orgoglio: sono stata la prima body painter sarda». Le parole di Sonia Floris risuonano con la stessa intensità dei colori


che da anni porta sulla pelle dei suoi “modelli viventi”. A sessant'anni, questa artista italo-tedesca, stampacina doc - come ama definirsi - ha trasformato una passione in un'arte pionieristica per l'isola. Arricchita da esperienze oltreoceano, dagli Stati Uniti alla Nuova Zelanda, prima di tornare a casa e fare
della Sardegna la sua tela preferita.
Gli inizi
La passione per l'arte scorre nelle vene di Sonia, plasmata dal peculiare intreccio tra il rigore materno tedesco e l'eclettica creatività del papà, antiquario, gallerista e battitore d'aste. Fu lui a dare vita alla prima galleria d'arte di Cagliari, “La Piccola Barcaccia”. «Ricordo alcune trasferte per accompagnare mio padre a cercare antiquariato, le avventure a Porta Portese a Roma, e quel viaggio in macchina fino in Germania» racconta con emozione. «L'arte era di casa, sono cresciuta respirando bellezza».
Nel Colorado
Il destino ha spesso modi imprevedibili di aprire nuove strade. Per Sonia, la svolta arriva dopo il diploma all'istituto tecnico femminile - una scelta apparentemente distante dal suo futuro artistico. A diciannove anni, l'amore la porta a seguire quello che sarebbe diventato suo marito fino a Denver, Colorado. «Fu un salto nel vuoto - racconta - per un anno intero, bloccata dal visto turistico, non potevo né studiare né lavorare. Ma ciò che sembrava una limitazione si è trasformato in un'opportunità: mi sono immersa completamente nello studio dell'inglese. Una volta ammessi a San Diego ho trovato la mia strada: mi sono diplomata in grafica e comunicazione visiva e ho frequentato un'accademia di aerografia. Tre anni intensi che hanno plasmato non solo la mia tecnica, ma anche la mia visione del mondo: la voglia di libertà, l'indipendenza, i popoli che ho conosciuto, i colori dei tramonti».
Il rientro
Il ritorno a casa non è mai semplice, soprattutto quando si porta nel cuore il sogno americano. «Negli anni '90 sono tornata nella mia Cagliari, volevo fare grafica, giravo con il portfolio sotto braccio, ma gli studi ai tempi erano solo tre, nessuno mi prese». Un rifiuto che, invece di abbatterla, la spinge a creare il suo spazio. «Aprii il mio Gap Studio in Via Napoli, facevo grafiche pubblicitarie, magliette, collaboravo con alcune associazioni d'arte. Nel '95 mi sono trasferita a Poggio dei Pini e ho spostato la mia attività qui».

La svolta
A Capoterra una nuova vita per Sonia Floris. «È stata una sorta di illuminazione. Nel 2000 mi sono resa conto che avevo dipinto su tutto, tranne che sui corpi umani. Lì è iniziato tutto. È un'arte veloce, basta una doccia e svanisce».L'inizio è stato intimo, personale: il suo stesso corpo diventa la prima tela vivente. Le collaborazioni con i fotografi l’hanno portata a esporre le sue "tele umane" in tutta Italia, a partecipare a numerosi concorsi. «Inizialmente dipingevo solo su corpi femminili, c'era scetticismo. Si parla di lavori di tre o quattro ore, non tutti sono disposti a posare».La svolta arriva grazie a Tamara Soro, la prima modella a concedersi a questa forma d'arte ancora poco conosciuta nell'isola. «Per tre estati ho dipinto lo staff di animazione del Lagoon di Villassimius, poi le cubiste di tutta l'Isola. Sono stata pioniera in Sardegna del body painting».I maori
I viaggi continuano a ispirarla. «Sono stata diversi giorni in Nuova Zelanda, ho incontrato tatuatori che mi hanno trasmesso l’antico stile maori. Mi porto dentro i loro insegnamenti e i colori contrastanti di paesaggi naturali mozzafiato».E il futuro? «È sempre una domanda difficile: vedo l’insegnamento. Sto lavorando a un progetto ancora in fase di sviluppo, ma l’idea è chiara: voglio restituire qualcosa di ciò che ho appreso in tutti questi anni, condividere la mia esperienza e ispirare chi vuole intraprendere un cammino artistico in questo campo».


Poi      colendo  cercare  altri  lavori  oltre  il  suo fb  principale e   quell'altro  ormai  in  disiuso      ho    trovato  questa interessantissima     intervista  sullla  nuova  sardegna  del      20 ottobre 2023 18:31

L’intervista
Sonia Floris, la prima body painter in Sardegna: «Il corpo nudo è la mia tela»
di Matteo Porru


Cagliaritana, si è formata negli Stati Uniti, da Denver a San Diego, ed è tornata a casa per dedicarsi alla sua arte

Sonia Floris è l’unica che riesce a fare il saluto vulcaniano di Star Trek a casa. Ha provato a insegnarlo ai figli, ma non ci è mai riuscita. Le scene della sua vita coloratissima le scorrono a scatti davanti agli occhi mentre prova a riassumerle. Scandisce le parole più importanti con l’accento di Cagliari, di Stampace, che non ha mai perso, anche se ha girato il mondo per diventare prima grafica e poi aerografa, pittrice e body painter, la prima in Sardegna. Ora è tempo di decisioni, di anniversari e di ricordi.
Immagino lei abbia fatto il liceo artistico.
«Avrei voluto, ma i miei genitori mi consigliarono un’altra strada. Dopo due mesi di studi classici, mi sono iscritta all’allora Istituto Tecnico femminile Grazia Deledda. A Cagliari accadeva di tutto, in quegli anni. Soprattutto in casa mia».
In che senso?
«Mio padre era un antiquario, un battitore d’asta, un gallerista. Nei weekend, da quando avevo 11 anni, facevo il possibile per seguirlo nei suoi viaggi. Quante volte siamo stati a Porta Portese a comprare quadri! Era una magia. Grazie al suo lavoro, da noi hanno alloggiato anche diversi attori, Ugo Tognazzi su tutti. Sono cresciuta con due culture diversissime, padre italiano, madre tedesca: questo connubio mi ha arricchito molto».
Dopo la maturità, però, attraversa l’oceano.
«Sì: un anno e mezzo a Denver. Ho imparato l’inglese sul campo. Ma soprattutto ho imparato a vivere. Ho capito cosa volessero dire l’indipendenza, la libertà, l’altruismo. La lezione più grande di quegli anni è stata dividere quello che avevo: ho aiutato tanti senza tetto, lì ho visto la povertà».
E poi ha continuato gli studi.
«Tre anni all’Ucsd di San Diego. Diploma in Grafica e comunicazione visiva. E l’Accademia di Aerografia. Vivevo davanti alle onde che ora sfidano i surfisti. Mi servivano il mare e la luce, sono fondamentali per me. E infatti a casa non ho tende».
Perché è tornata?
«Per il lavoro di mio marito. La mia idea era quella di fare illustrazione. C’erano poche possibilità a Cagliari ma nessuna faceva al mio caso. Ho incominciato collaborando con studi d’arte, dipingevo a mano magliette. Poi divento mamma e apro il GAP Studio in via Napoli. Dopo qualche anno chiudo e mi trasferisco fuori città. Metto su un B&B e continuo a sperimentare la pittura su tutti i materiali. Poi cambia tutto».

Perché?
«Nel 2000 avevo dipinto sopra qualunque cosa tranne il corpo umano. È l’arte più veloce ed effimera di questo mondo: una doccia e va via. La collaborazione con la fotografia è fondamentale. Serve un modo per mantenere tutto».
Come sono state le prime esperienze?
«All’inizio dipingevo corpi femminili. Non è stato facile, c’era diffidenza. L’unica persona che mi aveva risposto per fare un primo progetto era Tamara Soro. Abbiamo fatto la prima competizione a Roma di pittura sul corpo. Di gare ne ho fatto tante: a Roma, a Modena, sul lago di Garda, alla prima manifestazione di Italian Body Painting Festival. La prima persona che mi ha dato fiducia nell’animazione è stata Mariano Pintus del Lagoon di Villasimius. Ho dipinto una volta al mese il suo staff nel locale, per diverse estati. Ho imparato il mestiere».
Ma non ha smesso di viaggiare.

«Mai: porto nel cuore i quindici giorni in Nuova Zelanda, un viaggio su strada dove ho approfondito la cultura tribale maori. Quello è l’unico paese anglosassone che non ha messo recinti alla civiltà natia».
Che cos’è un quadro?
«Uno specchio che non riflette un’immagine, ma un pensiero».
A cosa pensa se pensa al futuro?
«Mi fa paura non vedere che ne sarà di ciò che abbiamo e che abitiamo. Sono un’amante dell’analogica ma la tecnologia è straordinaria. Resisto cercando di rimanere una bambina di quasi 60 anni: quello sguardo non l’ho perso mai».

11.1.25

Lucio Nardi, l'ex giudice che dirige l'orchestra di avvocati e cancellieri (fondata da lui): via la toga, star al dal Verme

Per oltre quarant’anni ha indossato la toga, servendo la giustizia come magistrato. Oggi, Lucio Nardi, 74 anni, da novembre 2020 in pensione, continua a coltivare la sua seconda grande passione: la musica. Un amore che lo porta ancora oggi a indossare il frac, come accadrà lunedì 20 (alle ore 21) al teatro Dal Verme di Milano, dove dirigerà la «sua» Corale Polifonica Nazariana, in occasione del concerto di apertura dell’Anno giudiziario.


Un evento che è diventato ormai una tradizione che continua da ben 22 anni e che vede protagonista un coro composto da oltre 60 membri, tra magistrati, avvocati e cancellieri.
Nardi racconta che la musica è una costante che lo accompagna fin dalla nascita: «Mia madre diceva che quando era incinta di me andava a prendere lezioni di pianoforte dalle suore». Un ricordo che sembra aver segnato il suo destino: «A 13 anni ho iniziato, perché vedere un pianoforte a coda mi emozionava. Avrei voluto fare il musicista» — dice il giudice che a Milano si è sempre occupato di diritto di famiglia. Tuttavia, il sogno musicale si scontrò con gli impegni accademici e professionali: «Nel frattempo avevo iniziato gli studi e il sogno svanì — ricorda Lucio Nardi —. Solo quando arrivai a Milano nel 1979, a 29 anni, mi venne voglia di riprendere quello che avevo lasciato. Chiesi un consiglio a un maestro di musica di Napoli, Vincenzo Vitale, e così iniziai a studiare con una sua allieva a Milano. Così nel 1983, a 33 anni, superai l’esame di pianoforte a Venezia». Trasferirsi da Napoli a Milano non fu semplice per Nardi, che ammette di aver vissuto momenti complicati: «La musica riuscì a farmi lottare anche contro la solitudine che in quegli anni era molto forte. Mi mancava Napoli, così decisi di fondare la Corale».
Fu proprio dalla sua passione per la musica e dalla voglia di costruire legami che nacque, nel 1988, la Corale Polifonica Nazariana, una realtà che ha visto il suo debutto davanti al pubblico proprio all’interno del Palazzo di Giustizia nel 2002, in occasione di un evento commemorativo dedicato ai giudici Emilio Alessandrini e Guido Galli, uccisi per mano dei terroristi di Prima Linea durante gli anni di piombo. Da allora, l’ensemble è diventato un simbolo di connessione tra il mondo giuridico e quello artistico. «Nel 2003 ci fu il primo concerto per l’Anno giudiziario, ma è stato nel 2002 il primo vero evento per il ricordo dei giudici Emilio Alessandrini e Guido Galli», spiega Nardi.
Tra i tanti ricordi legati alla Corale, c’è anche quello di Francesco Saverio Borrelli, storico capo del pool di Mani Pulite, che si cimentò nel coro per un anno e mezzo. Per Nardi, arte e giustizia non sono mondi distanti: «Il giudice e il direttore artistico forse non hanno tante cose in comune; ma è possibile mettere insieme arte e giustizia. Si può fare giustizia con arte, se fatta con il cuore. La musica è un modo per avvicinare le persone al nostro mondo». Il sogno per il giudice-direttore Nardi ora è di trasformare la Corale Polifonica Nazariana in uno dei simboli del Tribunale di Milano. «Non nascondo che dopo 37 anni di attività, il desiderio di portare la musica all’interno del Tribunale è ancora più forte di prima. Per questo vorrei trasformare la Corale nel simbolo del Palazzo di Giustizia di Milano e far passare il messaggio che in Tribunale non ci sono solo giudici che condannano, ma anche cultura e gioia».

Dopo 31 anni a subire violenza, la fuga dalla città per rinascere ed altre storie sarde

 fonti  la nuova  sardegna  , cronache nuoresi ,  sassari notizie  

Nuoro
«Cosa è stato toccare il fondo? Non riuscire a pensare al domani. Non avere una speranza, essere

talmente abituata a quello schema di violenza subìta, che la deviazione, anche per uscirne, non era contemplata. E in più, la paura di diventare come lui. Mi dava uno schiaffo? Lo restituivo. Prendeva il coltello in mano? Lo prendevo anche io. Stavo diventando una bestia come lui».
Cinzia Seddone ha 62 anni e 31 di questi li ha passati in balìa di un fidanzato violento. Dentro meccanismi avvolgenti e subdoli in cui la demolizione dell’autostima è passata attraverso violenze psicologiche: non sai niente, non sai fare niente, non vali niente. Quindi: «Te le meriti, le botte». E se in un perverso immaginario che i violenti utilizzano per giustificare l’ingiustificabile, queste botte erano inserite in un contesto preciso «Mi colpiva soprattutto quando era ubriaco: pugni, calci, schiaffi, minacce. Mi ha rotto il naso», alla fine si arriva alla svolta: «Botte anche quando non beveva». Dentro Cinzia scatta qualcosa: «Un giorno mi sono svegliata e ho pensato: se mi picchia, prendo il volo»

Le botte sono arrivate, puntuali. Le ultime: lei è scappata, letteralmente. In un giorno, sostenuta dalla sua famiglia, ha fatto i bagagli e ha lasciato Nuoro. Aveva 47 anni, è stato 15 anni fa. È approdata in Abruzzo, dove lavora. Dove soprattutto ha abbandonato la contabilità del terrore e vive una vita serena.
Cinzia Seddone la sua storia l’ha raccontate nel libro “Come una fenice”, editore Masciulli. Lo presenterà oggi, alle 18, alla Biblioteca Satta. Con lei ci saranno Marina Piano, responsabile dell’area di servizio sociale dell’Ufficio esecuzione penale esterna, in un convegno organizzato dal comitato Pari opportunità dell’Ordine degli avvocati di Nuoro, dall’Unione avvocati della Sardegna e dal Consorzio per la pubblica lettura Sebastiano Satta. I lavori saranno introdotti dal presidente Unas, Priamo Siotto. Il dibattito sarà moderato da Maria Concetta Sirca, presidente del comitato Pari opportunità dell’Ordine degli avvocati di Nuoro.
«Ho portato avanti questa storia di violenza senza far uscire nulla. Per paura di lui, ma anche per vergogna. Per me, per la mia famiglia», racconta Cinzia. Una famiglia lontanissima dagli stereotipi del disagio, a riprova che certe situazioni non siano il frutto di ambienti disastrati: «Non c’è nulla di più trasversale della violenza», ammette. E così il silenzio e la vergogna lavorano a favore del violento. «A casa non si accorgevano. Sono stata bravissima a evitare che potessero spaventarsi. Un pugno in faccia, con i segni e i lividi? Avevo spiegato che ero caduta e avevo sbattuto alla ringhiera».
Intanto il meccanismo di allontanamento dagli affetti familiari che i violenti mettono in atto, funzionava, in questo caso, quasi in automatico. «Ero io che mi isolavo dai miei familiari. C’era un compleanno di un nipotino da festeggiare? Accampavo una scusa e non ci andavo. Mi sembrava fosse più importanti proteggere loro, quasi più che proteggere me stessa», racconta Cinzia.
Violenze fisiche e psicologiche. Addirittura a Cinzia Seddone viene diagnosticato un principio di Alzheimer. «Pazzesco, avevo 40 anni. Dimenticavo tutto». Anche a questa diagnosi Cinzia mette un argine. «Quando sono scappata e sono arrivata in Abruzzo, ho ripreso a fare la cosa che mi riusciva meglio: mi sono rimessa a studiare. Biologia. C on i primi due esami, due 30, sono andata dalla neurologa: “Le sembrano i risultati di una con l’Alzheimer?”».


Con il suo libro “Come una fenice”, la scrittrice nuorese ha di rompere il silenzio e denunciare una realtà troppo spesso nascosta: la violenza domestica. La sua storia, apparentemente ordinaria, si trasforma in un drammatico racconto di sopraffazione e paura. Un amore che si rivela essere un incubo, un crescendo di maltrattamenti psicologici e fisici che ha segnato profondamente la vita dell’autrice del libro – denuncia.UNA DONNA COME TUTTE – Cinzia è una donna che sin dall’adolescenza si innamora di un uomo all’apparenza meraviglioso, ma che ad un certo punto inizia a mostrare il suo vero volto. Prima gli insulti, poi il primo schiaffo che in breve diventa un pugno, calci e umiliazioni, secondo una sequenza ben nota. E inizialmente, come tutte le vittime, anche Cinzia tende a giustificare il gesto, a sottovalutare il comportamento, fenomeno che invece non deve mai essere ridimensionato. Da quel momento inizia la spirale di violenza che diviene una costante del rapporto. Un incubo nel quale la donna rimane intrappolata per lunghi 30 anni. Quella appena descritta non è la trama di un romanzo noir ma una storia vera e la protagonista è una donna nuorese che 15 anni fa è letteralmente scappata dalla città per sottrarsi a una vita fatta di violenze e minacce.
Quando il nemico è in casa, tra le mura domestiche, lo si intuisce dai primi segnali ma si fa fatica a crederlo e poi ad accettarlo. Quello che ha vissuto sulla sua pelle non è amore, si può definire in un modo solo: violenza.
Una brutalità assurda, inspiegabile e gratuita, ancor più se a porla in essere è il partner, il compagno di vita che dovrebbe distinguersi per altri nobili sentimenti.
La storia di Cinzia è all’apparenza una storia come tante, ma a differenza di altre c’è il coraggio a dosi abbondanti e la consapevolezza che episodi come quelli da lei vissuti non devo più accadere, né a lei né tantomeno a nessun’ altra.
Un’escalation di maltrattamenti, drammatica e al tempo stesso tristemente frequente nella vita reale in una casistica che rimbalza da nord a sud con le stesse assurde dinamiche.
Cinzia è una donna che sin dall’adolescenza si innamora di un uomo all’apparenza meraviglioso, ma che ad un certo punto inizia a mostrare il suo vero volto.
Prima gli insulti, poi il primo schiaffo che in breve diventa un pugno, calci e umiliazioni, secondo una sequenza ben nota.
E inizialmente, come tutte le vittime, anche Cinzia tende a giustificare il gesto, a sottovalutare il comportamento, fenomeno che invece non deve mai essere ridimensionato.
Da quel momento inizia la spirale di violenza che diviene una costante del rapporto. Un incubo nel quale la donna rimane intrappolata per lunghi 30 anni.
Quella appena descritta non è la trama di un romanzo noir ma una storia vera e la protagonista è una donna nuorese che 15 anni fa è letteralmente scappata dalla città per sottrarsi a una vita fatta di violenze e minacce.
Quando si entra in quella bolla infernale ribellarsi non è semplice e lo è ancora meno in un contesto culturale e sociale della piccola provincia.
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L’intervista



Raoul Chiesa, l’ex hacker più famoso d’Italia ha scelto di vivere in Sardegna

di Paolo Ardovino


Poco più che ventenne era entrato nel sistema della Banca nazionale. Ora vive in Gallura, difende governi e imprese da frodi e attacchi informatici








Sassari Era poco più che un adolescente che passava i pomeriggi in camera davanti al computer quando, nel 1995, Raoul Chiesa ha «bucato» il sito della Banca d’Italia. Senza nemmeno troppi sforzi, riesce a entrare nel sistema economico più importante del Paese. «Ma non presi un euro, non era quello il mio interesse. Volevo solo provarci e mostrare quanto fosse facile». Viene arrestato, sconta tre mesi chiuso in casa senza apparecchi elettronici. «Ricordo ancora le parole del procuratore: “Ti rendi conto che avresti potuto abbassare o alzare i tassi di sconto della lira sui tassi mondiali?”».
Ne è passata di acqua sotto i ponti, o flussi di dati nella rete, e Chiesa, torinese, classe 1973, da diversi anni è passato dall’essere il più famoso pirata informatico italiano al fornire servizi di cybersicurezza. Recuperare dati rubati, navigare nella parte oscura del web per sventare azioni illegali, difendere i database da attacchi esterni.
La sua Sardegna 
L’informatico ha sempre lo zaino in spalla, il suo lo definisce un modo di lavorare atipico: i clienti sono «Governi, enti, forze dell’ordine, multinazionali o singoli privati». Capita che voli a Sydney, Stoccolma o Singapore ma senza nemmeno il piacere di godersi del tempo libero. Il relax lo trova in Sardegna. Che è diventata il suo rifugio. «La mia storia con l’isola inizia nel 2020, un amico mi invitò a passare settembre in Gallura, ed ero ben felice di scappare dal caos di Roma, dove vivevo al tempo». Ora vive di fronte al mare, in una località vicino a Olbia. «Adoro il cibo, il vino, l’accento delle persone, l’apparente leggerezza, i panorami mozzafiato, le passeggiate con il mio cane, Lupo, e le letture in spiaggia». Ecco, appunto, e Raoul Chiesa fa un grande sorriso quando parla di Piergiorgio Pulixi. «Uno scrittore che adoro. L’ho scoperto attraverso Massimo Carlotto», e di Pulixi attende impaziente l’uscita di ogni libro. Ma è anche un’ispirazione: «Mi piacerebbe prendermi un anno sabbatico, vorrei scrivere un romanzo, una sorta di cyber-thriller».
La vita in uno smartphone Sole, mare e libri. Tregue da una vita che lo porta a passare gran parte delle giornate davanti allo schermo. «I casi di cui mi occupo più spesso? Incidenti informatici, violenze, truffe, frodi, furti di dati e informazioni personali». Raoul Chiesa, che ormai è un hacker etico, cioè che agisce per la sicurezza, parla di «formazione». Lo ripete spesso, ed è per lui il più grande anti-virus possibile. «Mi preoccupano molto i giovani che non capiscono un concetto che sta alla base di tutto: e cioè che internet non dimentica. Le foto osé o da ubriachi, scattate senza pensarci troppo durante una festa di compleanno o l’uscita al sabato sera con gli amici, saranno ancora presenti tra vent'anni. E potrebbero andare a rovinare un colloquio di lavoro, dato che oggi i responsabili delle Risorse umane verificano, ancor prima che il curriculum della persona, i suoi social». Lo smartphone che abbiamo in tasca «è la cosa più intima che indossiamo – spiega Chiesa –. Si tratta dell’entità che ci conosce meglio, che sa di noi più dei nostri genitori e della nostra fidanzata. Perché a Google chiediamo di tutto: le nostre curiosità più intime e personali».
Nemico pubblico Gli hacker di oggi, in qualche modo, sono figli suoi. Nel senso che la sua storia negli anni Novanta è divenuta celebre. «Ma lo stereotipo dell'hacker 15enne, con la felpa ed il cappuccio, chiuso in una cameretta buia, è ormai superato». Ora sono professionisti che lo fanno di mestiere.
Nel ’95 Chiesa è riuscito a entrare nel sito della Banca d’Italia ma con interessi puramente informatici. Non sposta una virgola dai conti. Viene arrestato. «Il Pubblico ministero, Pietro Saviotti, qualche giorno dopo mi richiamò a Roma per dirmi che dagli Stati Uniti era stata richiesta la mia estradizione: avevo violato At&T, la più grande azienda di telecomunicazioni al mondo, ma anche Gte, Mci, Sprint. A poco più di vent’anni avevo il mondo in mano, osservavo cose, dati, analizzavo informazioni, passando da una base brasiliana di lancio dei satelliti a centrali nucleari o sistemi militari internazionali per il lancio di missili», lo ricorda divertito. «Mi condannarono a tre mesi e mezzo di arresti domiciliari, senza computer, telefoni e modem, per me fu una tragedia».
La decisione In quel momento si redime, come Lodovico che diventa Fra Cristoforo, l’hacker nemico pubblico diventa hacker etico. Maurizio Costanzo lo chiama al suo famoso show però poi lui nel 1996, ancora molto giovane, decide di aprire la prima azienda sulla cybersicurezza. Ora si occupa di contrastare le attività del deep e del dark web, «dati e informazioni rubati che vengono messi in vendita in una sorta di suk digitale del crimine organizzato, all’insaputa di aziende e persone». Poi il digital forensics, «cioè raccogliere e analizzare tracce informatiche da e-mail, siti web, server e computer portatili, hard disk, cellulari, dispositivi. Dopodiché anche la sicurezza preventiva, la scienza da cui ho iniziato alla fine degli anni ’90: attuo delle simulazioni di attacchi hacker». E questa assistenza può salvare intere carriere. «Ho visto aziende chiudere per un ransomware, quando cioè tutti i computer e i dati sono bloccati e non recuperabili, viene chiesto un riscatto per sbloccarli, oppure viene tutto pubblicizzato sulla rete», spiega l’hacker buono.
Uso consapevole «Adesso è il periodo in cui va di moda l’Intelligenza artificiale, i big data e le criptovalute, tutti i convegni nell’ultimo periodo trattano questi temi, spesso a sproposito». Dal canto suo, Raoul punta sulla formazione, «per insegnare i comportamenti corretti e l’approccio al web». Che piaccia o no, l’informatica in senso ampio oggi gestisce la routine quotidiana, «il bancomat è un computer, l’automobile è una smart-car e tutto questo ha un prezzo». Gli Stati sono sempre più impegnati nella creazione di leggi che ridefiniscano i perimetri giuridici sull’uso del digitale. Chiesa era nel team di esperti che si è occupato del caso di Tiziana Cantone, la ragazza che nel 2016 si tolse la vita dopo che un suo video intimo era stato diffuso online. Da lì il revenge porn è entrato nel codice penale.Sul nostro uso del web ogni giorno c’è molto da rivedere: «Se smettessimo di cliccare ovunque, di credere alle fortune cadute dal cielo, ai post ossessivi-compulsivi, di pubblicare sui social qualunque cosa facciamo e dovunque andiamo, utilizzare password banali, potremmo allora evitare di esporci a determinati rischi».

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Il fotografo dei re e degli emiri è il sardo Antonio Saba

di Salvatore Santoni

Partito da Cagliari, adesso vive a Dubai e lavora per la famiglia reale. Scatta per grandi marchi e la sua ultima antologia è stata curata da Sgarbi


Sassari C’è un fotografo sardo – che in realtà ai suoi livelli bisognerebbe definire artista – che viaggia da un capo all’altro del mondo e ha piantato la bandiera dei Quattro Mori negli ambienti più altolocati del globo. Si chiama Antonio Saba, è nato a Cagliari ed è tra i
professionisti più apprezzati soprattutto in Arabia. Vive a Dubai ma è difficile che dorma nello stesso letto per troppo tempo. La sua vita è dappertutto, tra famiglie reali, marchi globali della ristorazione e della ricettività extra lusso, personaggi di caratura internazionale, campagne pubblicitarie e progetti artistici ai massimi livelli.

Maestro, parliamo subito dei suoi clienti più illustri: le famiglie reali. Ci può dire chi sono e che tipo di lavori le hanno commissionato?

«Ho un rapporto di amicizia e collaborazione da diversi anni con una delle persone più importanti della famiglia reale di Dubai. Sono persone straordinarie e di grande cultura. Le mie collaborazioni con loro sono riservate e non posso raccontarle nel dettaglio, posso comunque dire che si tratta di progetti artistici e fotografici ai massimi livelli».

Ci racconti un po’ il suo percorso artistico e professionale.

«Ho preso la mia prima reflex in mani a 15 anni, sottraendola a mio padre. Ho coltivato la passione come tanti altri stampando in casa in b/n etc… Ho poi avuto la fortuna che lo Ied aprisse a Cagliari proprio nell’anno del mio diploma. Questo mi ha permesso di studiare Fotografia Pubblicitaria a livello universitario e acquisire la forma mentis di un professionista della fotografia, e quindi iniziare a esserlo dai 21 anni in poi».

Quanti anni aveva quando ha cominciato a girare il mondo?

«Ho iniziato a viaggiare in maniera seria intorno ai 24 anni, andando spesso negli Stati Uniti. Nel 1995 ho lasciato la mia società in Sardegna per un’esperienza a Los Angeles, dal quel punto in poi ho iniziato a viaggiare in tutto il mondo per riviste di viaggio, di food e di interni. Queste esperienze mi hanno formato per approdare definitivamente al mercato del lusso, settore in cui svolgo ancora oggi la maggior parte della mia fotografia commerciale».

Annovera fra i suoi clienti alcune delle più importanti catene alberghiere a livello internazionale. Ci può parlare di qualche suo lavoro?

«Sono uno specialista raccomandato da Waldorf Astoria, Peninsula, Hilton e ho lavorato per tutte le più importanti catene incluso Marriot, Shangri-la, Intercontinental, tra le altre. Faccio in particolare tanti servizi per le aperture dei nuovi hotel, progetti in cui realizzo tutte le immagini pubblicitarie che vengono poi utilizzate dalle strutture per la promozione. Ho realizzato davvero tanti di questi servizi».

Il suo curriculum è sconfinato, ma se dovesse scegliere uno dei lavori della sua lunga carriera, qual è quello che ricorda con più emozione?

«Ci sono due lavori straordinari. Uno è del 2004, anno in cui sono stato un mese e mezzo in Costa Rica per realizzare le 10 fotografie per la campagna pubblicitaria mondiale del loro Paese. Da allora vado in Costa Rica quasi tutti gli anni, è senz’altro uno dei posti che chiamo casa. La seconda, invece, è l’ultimo lavoro realizzato quest’anno per una nuova apertura del Waldorf Astoria Platte Island, una remota isola selvaggia delle Seychelles, lavoro che ha preso quasi due mesi di lavoro con una crew di 12 persone».

Come funziona il suo lavoro: come sceglie i soggetti, come matura un’idea?

«Riguardo la fotografia commerciale ricevo un briefing dal cliente, si individuano i punti di forza e i selling points del prodotto, mi viene quindi chiesto di elaborare un progetto che visualizzi queste caratteristiche col tono di voce adatto alla tipologia di offerta. Segue un sopralluogo, definizione di luce e inquadrature per le foto di architettura. Invece nel lifestyle la preparazione è più complessa, con casting dei modelli, moodboard per i vestiti e il make up. Per le mie produzioni fine art invece in genere vengo ispirato dai luoghi che incontro in giro per il mondo, dove immagino possa accadere qualcosa di straniante. Il processo creativo dura qualche mese o qualche anno, sino alla definizione dell’idea e alla realizzazione vera e propria. Sono dei veri e propri film dal singolo fotogramma».

Qual è la richiesta più bizzarra che ha ricevuto per un lavoro fotografico?

«Qualsiasi richiesta di fotoritocco esagerato, a cui dico sempre di no». A cosa sta lavorando ultimamente? «Al momento sto completando la postproduzione del mio lavoro per Hilton Seychelles, inclusa una immagine hero che verrà utilizzata in pubblicità sui billboards. In questo caso ho realizzato un’immagine onirica e il cliente se ne è innamorato eleggendola come immagine simbolo della presenza Hilton in Seychelles. Sto anche curando un libro fotografico non mio per un importantissimo publisher di New York e come photoshoot ho avuto un’estate pienissima con lavori in Europa e a Dubai».

Anche lei ha pubblicato dei libri.

«In carriera ho pubblicato diversi libri monografici. L’ultimo in ordine di tempo è uscito qualche anno fa, è un’antologia personale degli ultimi 15 anni, curato da Vittorio Sgarbi e Cristina Mazzantini. Si intitola Chasing Beauty, distribuito da Mondadori. Il libro svolge un percorso: dalle immagini della memoria, agli anni dei viaggi sino alle produzioni oniriche degli ultimi anni che ho esposto con la mia mostra personale “Oneirism” a Bangkok, a Dubai e, spero l’anno prossimo, anche a Milano in versione complete».

Lei parla di “fotografia dei sogni” ci può spiegare cosa intende?

«Come dicevo prima il mio progetto Oneirism è composto da immagini stampate in grande formato che hanno come soggetto dei frammenti di sogno, o comunque di coscienza alterata, dalla Dea del fiume che nel suo patio fa il bagno in una vasca col suo amante pescegatto, alle Naiadi nel lago sotterraneo di Grotta Giusti, ai miei astronauti viaggiatori del tempo, sino ad un’immagine ispirata da Sergio Atzeni e ambientata in una grotta di Oliena 5000 anni fa. Invito tutti a dare uno sguardo a queste immagini nella sezione conceptual del mio sito www.antoniosaba.com»

Cosa ne pensa dei selfie, e dell’epoca della condivisione massiva di immagini sul web?

«Lo trovo un fenomeno divertente, tante persone hanno trovato il gusto di fotografare e fotografarsi perché il telefonino ha azzerato le difficoltà tecniche, tanti si esprimono concentrandosi solo su composizione e qualcuno fa anche delle immagini gradevoli. Ovviamente nei selfie Narciso la fa da padrone, ma non la trovo una cosa negativa, anzi…».


Ndrangheta, storie pericolose di trasporti eolici I rapporti tra la ditta molisana che esegue i viaggi per gli impianti di Villacidro e le cosche calabresi inchiesta di mario pili puntate 1 e 2

Lo si era capito da tempo. Almeno dalla prima notte torrida e umida nell’avamporto dello scalo marittimo di Oristano, una sorta di porto industriale mai decollato, ridotto a terminale eolico per multinazionali pronte alla scalata affaristica dell’Isola di Sardegna. Il piazzale è deserto, ieri come oggi, occupato solo da quei “ventilatori d’alta quota” riversi a terra, in attesa di prosceni da sfregiare in nome

e per conto dei signori del vento. “Grattacieli d’acciaio” da conficcare senza oneri nei promontori più esclusivi per far girare bonifici e conti corrente, affari e denari, una sorta di slot machine del vento, finanziata dallo Stato e dalle bollette dei poveri cittadini, per far guadagnare faccendieri e speculatori, lobby e multinazionali. Licenza di devastare Ciò che si era inizialmente solo percepito ora è tangibile: i signori del vento hanno licenza di fare quello che vogliono, chiudere strade, devastare rotonde, spianare cordoli stradali, sradicare cartelli, spostare di peso auto e persone sul loro tragitto. Per comprendere che le “protezioni” per questa operazione in terra sarda fossero altolocate non bisognava attendere lo schieramento senza precedenti di lampeggianti azzurri nel cielo nero della notte di Tharros. Battaglione di manganelli Alfonso Signorini « Mi Piace Così è caro ? Costa meno di un panino ! »AD Alfonso Signorini « Mi Piace Così è caro ? Costa meno di un panino ! » Mi Piace Così Sai perché le città antiche sono sepolte sotto metri di terra? Più che una pattuglia, un battaglione, schierato per giorni e giorni con tanto di alta uniforme, quella che l’ordinanza impone per fermare black block ed eversivi, delinquenti e criminali incalliti. Tenuta antisommossa, recita il codice d’azione. Da fermare ci sono famiglie e bambini, carrozzelle e indipendentisti non violenti, ragazzi e anziani. Un muro di “manganelli di Stato” pronti ad abbattersi senza contegno su gente inerme, colpevole solo di protestare, senza bombe e violenza, contro la devastazione della propria terra. La mattina prima di quella notte dei manganelli era stato un vertice in Prefettura a sancire a freddo lo schieramento da guerra civile: da proteggere ci sono i trasporti delle pale eoliche da Oristano a Villacidro. Balla di Stato Il verbo di Stato, nella terra di Eleonora, vergato su carta intestata della Prefettura non lascia dubbi: «La situazione è sotto controllo e attentamente monitorata». Come dire, per badare a famiglie e manifestanti siamo pronti ad intervenire senza risparmio di energie. La “balla” di Stato è sancita nello stesso comunicato a firma prefettizia: «Si tratta di manufatti destinati alla manutenzione straordinaria di installazioni autorizzate da tempo e che hanno superato positivamente ogni procedura amministrativa, inclusa la Valutazione di Impatto Ambientale della Regione». Tutto falso, ovviamente. Non si trattava di nessuna «manutenzione straordinaria», ma semmai della costruzione ex novo di uno scempio ambientale, davanti al proscenio del Monte Linas, la terra del “Paese d’Ombre”. Non un dettaglio di poco conto, visto che la Regione aveva approvato una fantomatica legge-moratoria che in linea di principio, e in punta di diritto, avrebbe dovuto bloccare «l'irreversibilità degli impatti sul territorio regionale derivanti dalle attività di realizzazione, installazione o avviamento di impianti di produzione». Il primo a ignorare la legge-moratoria era stato proprio il Prefetto che, anziché “spacciare” quei manufatti come destinati alla «manutenzione straordinaria», avrebbe dovuto semmai sincerarsi che quei trasporti fossero in realtà funzionali a violare una legge regionale. L’appello racchiuso nel comunicato della dependance di Stato suggellava grottescamente il via libera salomonico allo sbarco delle “cesoie” eoliche in terra sarda. Le parole sono da “Angelus" statale: «Invito quindi tutte le parti in gioco a mantenere i toni di una protesta civile, nel pieno rispetto sia del diritto alla libertà di espressione che dei diritti altrui, tra cui la libertà d’iniziativa economica». Già la definizione delle parti come fossero «in gioco» lascia comprendere l’approccio “sbarazzino” su un tema che, invece, stava indignando l’intera comunità sarda presa d’assalto da centinaia di strabordanti progetti di faccendieri e multinazionali piovuti in Sardegna da ogni dove. In quella prima notte di luglio si vide di tutto: un porto di granaglie trasformato in una “sopraffazione” degna del peggior “sobborgo eolico” per multinazionali e autotrasportatori venuti da molto lontano. I mezzi parlano “straniero”, tutti giunti sin dalle pendici estreme dell’Appennino, quello più a sud, con gli autisti infastiditi da questi “sardi” che non si piegano allo strapotere di chi vuole devastare l’Isola a colpi di pale eoliche. I viaggi eolici dell’estate passata hanno lasciato il segno: padri di famiglia denunciati, multati, sanzionati persino per aver lasciato “incustoditi” cesti di alimenti per trascorrere la notte in quel porto. Hanno controllato i documenti di tutti, mettendo in croce anche chi aveva scelto di esserci come testimonianza civile. Hanno sequestrato sdraio e ombrelloni, una sorta di “daspo” a protezione dei giganti del vento. La scena si è ripetuta la notte passata all’incrocio per la terra devastata di Villacidro: Anonymous, con il volto dei quattro mori compare d’improvviso in mezzo alla strada bloccando la marcia dei mezzi pesanti, lunghi quanto la corsa più veloce di Usain Bolt. Ovviamente hanno identificato tutti i “guerrieri” con la bandiera del Popolo Sardo sulle spalle, compresi i giornalisti in servizio all’ora delle rotative in marcia. Bisonti, nessun controllo AD Nuova Ford Puma® Hybrid. Vivi l’energia della città. E lascia il caos fuori. Ford AD Stile e comfort senza compromessi. Scopri le scarpe Velasca: eleganza per ogni passo Gli artigiani e le artigiane dei nostri laboratori hanno imparato il mestiere in famiglia e ne conoscono ogni segreto. Velasca Potevano controllare, per par condicio, anche i documenti di quei mezzi ciclopici. Verificare se fossero in regola, se avessero le autorizzazioni obbligatorie. Non lo hanno fatto, ovviamente. Se l’avessero fatto li avrebbero dovuti fermare e sequestrare per autorizzazioni “scandalosamente” scadute. L’Anas, più solerte a chiudere strade a favore dei signori del vento che rendere fruibili le strade “eterno-cantiere” dell’Isola, gli ha interdetto al traffico l’arteria da Samassi a Villacidro con un’ordinanza vergata alle otto di sera della previgilia di Natale, come se i dipendenti dell’Azienda di Stato fossero abituati a fare straordinario notturno. Per i signori del vento tutto è possibile. Compreso allegare all’ordinanza di chiusura del traffico dal 7 al 15 gennaio, dalle 23.29 alle 4 del mattino, pubblicata in un sito fuori dai radar di chiunque, i documenti di viaggio dei mezzi delle due società “prescelte” per questi trasbordi eolici. Peccato, però, che tutti i documenti dei mezzi allegati nell’atto autorizzativo fossero privi delle obbligatorie autorizzazioni multiple. Inesorabilmente tutte scadute. Vicende oscure Non le autorizzazioni di un’“apixedda”, ma quelle dei mezzi più invasivi mai circolati in Sardegna. Nessuno le ha controllate: scadenza il 12 dicembre 2024 per il primo mezzo, primo giugno 2024 per il secondo. Invocheranno chissà quale scusa, anche se gli atti pubblicati non ammettono repliche. Del resto, ai signori del vento, è tutto consentito, persino arrivare nell’Isola dopo pesantissimi processi con accuse penali da far accapponare la pelle. Vicende di mafia e ’ndrangheta di cui è vietato parlare. Sino alla prossima puntata, quella delle sentenze.





Le intercettazioni telefoniche distorcono il tono pesante dei messaggi in codice. Le trascrizioni in un attimo trasformano mugugni, mezze frasi, sussurri, ammiccamenti, pause e respiri profondi in prove indelebili, scolpite nelle bobine delle Procure antimafia. Nella terra delle ‘ndrine , nella profonda Calabria, le conversazioni “ hard ” tra capi cosca ed emissari si infrangono spesso in quella che il verbalizzante registra come «brevi cadute di segnale».
Frasi criptate
Il resto sono frasi criptate, tradotte in accuse e reati suffragati da riscontri oggettivi, versamenti urgenti, contratti strappati “volontariamente” al malcapitato per far spazio alle aziende “protette” dai vertici criminali. La vicenda è inquietante come poche. Tutto, in questa storia, ruota attorno agli affari del vento. Gli atti sono un’enciclopedia del crimine eolico, con centinaia di conversazioni, parole incomprensibili e intuite, trasposte in capi d’imputazione, dibattimenti e, infine, sentenze. L’inchiesta è colossale, come il nome con la quale i vertici dell’Antimafia l’affidano alla storia della criminalità organizzata più green dei tempi moderni: « Via col vento ».
Dalla Sila ai Nuraghi
Siamo, solo apparentemente, lontani dalla terra dei Nuraghi, nel cuore della Sila, l’infinito altopiano dell'Appennino calabro, tra anfratti criminali e storie da anonima sequestri. Promontori sventrati senza rispetto a colpi di pale eoliche, in un vortice di affari criminali e interessi miliardari, con una mappa del potere ripartito tra cosche e capi clan, una spartizione di “parchi” eolici con il bilancino dell’influenza della ‘ndrina di turno, con tanto di confini e numero di pale da issare nel cielo dello “Stivale” italiano. La storia che stiamo per raccontarvi è cronaca giudiziaria, segnata da sentenze di primo e secondo grado, in alcuni casi con il sigillo della Cassazione. Fatti cristallizzati, prove capaci di inchiodare anche il più scaltro dei malviventi del vento.
Punto di contatto
Nomi e aziende, rapporti e contratti, che riservano inquietanti punti di contatto con l’onda lunga dell’invasione eolica che si sta abbattendo sull’Isola di Sardegna. A segnare un capitolo inedito e sino ad oggi inesplorato è quel che ruota attorno al grande “circo” della realizzazione degli impianti eolici, a partire dai trasporti delle pale. Analogie che diventano cronaca quando i soggetti coinvolti sono gli stessi protagonisti di vicende giudiziarie pesantissime con accuse e condanne da far tremare le vene dei polsi. Abbiamo raccontato in questi mesi lo schieramento dello Stato in difesa di queste ciclopiche carovane di pale eoliche che hanno attraversato, e attraversano, in lungo e in largo mezza Sardegna.
Stato pro-carovana
Viaggi pianificati “sfasciando” ogni ostacolo che si frappone al passaggio dei giganti eolici, tutti mezzi su gomma venuti da molto lontano. Tir potenti in grado di distendersi per centinaia di metri, sino all’ultimo miglio, prima di issare quelle pale nel cielo che domina il Monte Linas di Villacidro.
Il dovere di informare
Non raccontare quel che abbiamo scoperto significherebbe omettere fatti di rilievo, eludendo il sacrosanto dovere di informare per “prevenire”. È tutto scritto negli atti giudiziari, fiscali e amministrativi di questa vicenda: la principale società incaricata di traghettare su gomma le gigantesche pale eoliche da Oristano a Villacidro è «La Molisana Trasporti».
Anagrafe fiscale
All’anagrafe fiscale è un’apparente modesta società a responsabilità limitata con appena diecimila e cinquecento euro versati. Il capannone, sede principale degli affari del vento, è mimetizzato in un sobborgo di Campobasso, nel comune di Guardaregia, Contrada Rio Lecine.
Specchio di pale
Lo specchio che si erge sull’intera facciata del quartier generale rifrange un parcheggio di pale eoliche riverse proprio nel piazzale lì davanti. Come sia stato possibile che “La Molisana” approdasse nella terra di Eleonora, partendo da un paese di 679 anime a sette/ottocento chilometri di distanza, oltre il Tirreno, è sino ad oggi mistero assoluto.
Catena giudiziaria
Quel che, invece, non può essere nascosto è quanto gli atti in nostro possesso attestano: una vera e propria “catena” giudiziaria fatta di “interdittive” antimafia, sequestri giudiziari, arresti, condanne e accuse pesantissime. L’uomo più esposto della società di Guardaregia è cifrato con tre lettere, R.D.P., Riccardo Di Palma nel registro dell’inchiesta “Via col vento”. È lui il “ deus ex machina ” della compagine, costretto a lasciare l’incarico di vertice della società in seguito alle vicende giudiziarie che lo hanno travolto.
Sequestri & antimafia
Nelle carte il primo pesantissimo colpo la società che sta movimentando le pale tra Santa Giusta e Santu Miali, in terra di Villacidro, lo incassa il quattro luglio del 2018: provvedimenti autorità giudiziaria. Ad agire è il Tribunale di Reggio Calabria - sezione dei Giudici per le Indagini Preliminari: « è disposto il sequestro preventivo della società con tutti gli elementi presenti nel patrimonio aziendale (i beni mobili ed immobili, i crediti, gli articoli risultanti dall'inventario, i beni strumentali, la denominazione aziendale, l'avviamento), le quote sociali, i conti correnti, nonché tutte le autorizzazioni all'esercizio ». Un colpo che poteva essere letale, ma non lo sarà. Passano appena due anni ed è la volta del Tribunale di Catanzaro - seconda sezione penale: il nuovo decreto è del 14 settembre 2020.
Controllo giudiziario
Il contenuto del provvedimento giudiziario è un vero e proprio commissariamento: « è disposto il controllo giudiziario della società "La Molisana Trasporti s.r.l.", per il periodo di due anni, ex art. 34 bis, d.lgs. 159/2011 »,ovvero il Codice antimafia. Siamo a novembre 2022 ad agire è ancora il Tribunale di Catanzaro: «è disposto il controllo giudiziario della società "La Molisana Trasporti s.r.l.", per un ulteriore anno», sempre per il «controllo giudiziario delle attività economiche e delle aziende, se sussistono circostanze di fatto da cui si possa desumere il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose idonee a condizionarne l'attività». Alla base di tutto c’è il rapporto tra cosche, quelle che si spartivano i trasporti eolici in terra di Calabria. E le intercettazioni tra i boss devono ancora svelare misteri pericolosi sugli affari del vento. Ora, però, “La Molisana” viaggia carica di pale eoliche sulle strade sarde, sempre scortata e protetta dallo Stato.

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