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3.2.25

Paola Caridi Ricordare Gaza per raccontarla







Il testo è la trascrizione di una lectio tenuta da Paola Caridi all’Università per Stranieri di Siena il 22 gennaio 2025. Ringraziamo autrice e Ateneo.




Quasi nessun luogo al mondo viene chiamato con lo stesso nome da oltre 3500 anni. Gaza sì, e insieme al nome porta con sé un destino da cui non riesce a liberarsi: quello di terra eternamente contesa, scenario di troppe battaglie. Ricordarne la storia è l’unico modo per darle dignità, e auspicare un cambiamento
Non sono palestinese né voglio sostituirmi a uno sguardo palestinese. Conservo il mio sguardo altro, mediterraneo, che è forse la definizione che più mi assomiglia, e in cui più mi riconosco. E ringrazio il rettore dell’Università per Stranieri di Siena, professor Tomaso Montanari, per avermi fatto una richiesta che mi ha sorpreso e onorato. Tenere questa lezione inaugurale. Una lezione inaugurale che non può non essere dedicata, come chiede Suad Amiry che sarà qui il prossimo ottobre per ricevere la laurea honoris causa, a Gaza. Occorre ricordare Gaza, dice. Io andrei oltre, da mediterranea, italiana, europea. Occorre raccontare Gaza, luogo costretto, blindato, invisibile. E ora distrutto. Occorre, cioè, riempire un vuoto culturale la cui profondità è così chiara, palpabile – oggi – nell’incapacità di vedere, di comprendere cosa è accaduto in questi oltre quindici mesi.
Raccontare Gaza, dunque. Ma raccontarla come? Da quando? Da quando la più inimmaginabile delle guerre è cominciata, il 7 ottobre 2023? Iniziata con l’attacco, terroristico nei risultati, delle brigate Izzedin al Qassam (il braccio militare di Hamas) e delle brigate al Quds (legate al Jihad islamico) poco oltre il confine che aveva ristretto Gaza, nel 1948, in uno spazio inferiore ai 400 chilometri quadrati. E poi proseguita, la guerra su Gaza, con il bombardamento sistematico più imponente dai tempi della seconda guerra mondiale: decine di migliaia di tonnellate di esplosivo gettate dalle forze armate israeliane su quei meno di quattrocento chilometri quadrati per oltre un anno, costantemente. Per quindici mesi, per la precisione. Su una terra in cui erano costretti, sotto embargo, blindati, oltre due milioni di esseri umani. Palestinesi.
Le immagini delle distruzioni ci sono sempre state, sui social, grazie ai giornalisti palestinesi di Gaza. Una gran parte di loro, 205, ha sacrificato anche la vita per documentare ciò che sta avvenendo dentro il luogo più blindato del mondo. Ora, nella tregua più fragile del mondo, i droni – non i droni militari israeliani, ma i droni dei giornalisti palestinesi di Gaza – mostrano l’indescrivibile. La cancellazione di Jabalia, Beit Lahia, Beit Hanoun, dell’intero nord di Gaza, e di Rafah e di Khan Younis, e di quartieri interi di Gaza City, in un elenco infinito di azzeramento urbanistico, naturale, della memoria.
Potrei raccontarli, questi quindici mesi, dalla distanza in cui siamo tutti confinati. Come fossimo ancora durante il covid. Tutti dentro, mentre in un altro confino, dentro Gaza, si realizza quello che per molti – ora un elenco lunghissimo in cui anche io ho deciso di collocarmi – è un genocidio.
Vorrei, invece, dare a Gaza ciò che le è stato negato, da decenni. La sua storia. Una storia lunga, lunghissima. Sorprendentemente per molti, una delle più lunghe del Mediterraneo. Gaza è la città che da almeno 3500 anni porta lo stesso nome. Da sempre. Come gli alberi, le città fondano le loro radici. E quando vengono spostate – anche in questo caso dagli esseri umani – perdono i riferimenti, i punti cardinali, le prospettive. Gaza è sempre stata lì, ed è la stessa permanenza del nome a confermarlo.
La prima iscrizione con il nome di Gaza – dicono gli studiosi dell’Egitto antico – è addirittura di 1500 anni prima dell’era cristiana. Nuovo Regno, diciannovesima dinastia, in un tempio a Karnak, si parla di Gaza in una iscrizione dedicata al più grande faraone, Ramses II. Mai, o quasi, una città ha conservato il suo nome dalla sua creazione, oltre 3500 anni fa, sino a oggi.
Sembra incredibile, ne sono certa. Sembra così poco credibile che un luogo ignoto, dimenticato, invisibile com’era Gaza negli ultimi decenni, fino a 15 mesi fa, abbia così tanta storia, coperta oggi dalle macerie, dal cemento squarciato, frammentato dai bombardamenti.
È così, invece.
Anche allora, Gaza era al centro degli appetiti di chi dominava la regione. Basta aprire una mappa, di quelle antiche e di quelle di oggi, per comprenderne i motivi, almeno quelli cosiddetti politici e strategici. Di lì si doveva passare, sulla costa che per gli egizi era la via di Horus e poi, col tempo, divenne la Via Maris, la via costiera che dal Sinai passava – via Rafah, appunto – per Ashkelon e poi su a nord fino a Tiro. Il Mediterraneo orientale, tutto il Levante cominciava, sulla costa, da Gaza, e arrivava sino a Tiro e poi ancora più a nord. Fateci caso, sono tutti toponimi antichi, rimasti incistati nella terra sino alla storia contemporanea, sino alla cronaca di questi terribili, maledetti quindici mesi.
“Non sono palestinese né voglio sostituirmi a uno sguardo palestinese. Conservo il mio sguardo altro, mediterraneo, che è forse la definizione che più mi assomiglia, e in cui più mi riconosco”.
Dall’Egitto, le truppe agli ordini del sesto faraone della diciottesima dinastia, Tutmosis III, dovevano passare da Gaza per arrivare alla terra di Canaan. E quella terra, quella sabbia, quelle dune che dividevano la città di Gaza dal mar Mediterraneo, hanno visto nel tempo lungo della storia truppe di ogni tipo, eserciti sempre ben equipaggiati, sempre più equipaggiati, armati, sino ad arrivare agli ottomani e ai britannici che si son giocati anche a Gaza le sorti della prima guerra mondiale, in quello che – con definizione così coloniale e anacronistica – continuiamo a definire Medio Oriente. Medio rispetto a cosa? Rispetto all’impero britannico. Rispetto a Londra. A oriente medio di Londra. A oriente estremo rispetto a Londra.
Prima del 1948, e della reclusione di Gaza in una Striscia, in un nastro di 40 km da nord a sud, e di una manciata di km (dai 6 a un massimo di 13) da est a ovest, Gaza era stata dunque la terra delle tante battaglie. Così viene ancora definita. Eppure, nonostante questa sia la realtà, e cioè Gaza terra di passaggio per gli zoccoli delle cavallerie della lunga Storia, c’è qualcosa che manca e che non rende giustizia alla stessa complessità della storia. Rinchiudere – ancora una volta re-cludere – Gaza in un topos come la guerra, il bellicismo, il destino infame di una terra di conquista, dolore, e clangore di armi, non rende cioè giustizia alla Storia vera, quella inclusiva. La storia globale in tutti i sensi, la storia in cui umano e nonumano disegnano la loro relazione sulla terra.
C’è, ora più di ieri, il dovere di dare dignità e complessità al tempo lungo della Storia, e a tutti i suoi protagonisti. Non solo gli umani. Dare spessore e profondità, processo, cambiamento.
Edward Said, mai troppo nominato, mai troppo letto e studiato, lo spiegò in modo illuminante, in una intervista-documentario del 1998, diretta da Sut Jhally, a sua volta studioso di comunicazione, ora professore emerito all’università del Massachusetts – Amherst. Nato esattamente 90 anni fa a Gerusalemme, in perenne esilio tanto da dire che il posto dove si sentiva a casa era in volo su un aereo (il suo bellissimo Reflections on Exile ha Dante Alighieri sulla copertina), grande docente di letterature comparate all’università di Columbia (non è un caso che Columbia stata stata, nel 2024 e lo sarà anche ora, il centro delle manifestazioni contro il genocidio a Gaza), intellettuale tra i più coerenti e profondi, oppositore strenuo degli accordi di Oslo che considerava “la resa dei palestinesi” (e come dargli torto, oggi): questo era Edward Said, oltre a essere il padre della definizione di “orientalismo”, il nostro peccato originale. Ed è giusto ricordare Edward Said come un poliedro, come l’apeirogon, il poliedro a n-facce di cui scrive Colum McCann in uno dei più bei libri usciti sulla questione israeliano-palestinese.
Edward Said, dunque, parlava nella lunga intervista del 1998 di una “immagine senza tempo dell’Oriente”. “Come se – diceva – l’Oriente, a differenza dell’Occidente, non si fosse sviluppato, fosse rimasto sempre uguale”. Un oriente eterno, permanente, insomma, anche nei suoi topos. Come Gaza, appunto, terra di conquista, violenza, dolore, sangue, crudeltà. Ed è proprio questo, per Said, uno dei problemi dell’orientalismo: l’orientalismo “crea un’immagine al di fuori della storia, di qualcosa di tranquillo, immobile ed eterno, che è banalmente contraddetta dai fatti della storia. In un certo senso è una creazione, si potrebbe dire, di un Altro ideale per l’Europa”.
Un Altro, distante da noi, ideale per l’Europa proprio perché è costretto dentro una gabbia dell’immaginario, dentro una costruzione, culturale e politica. Come Gaza è stata costretta, dentro il topos della guerra, della violenza, e dentro una Striscia di 365 chilometri quadrati. Eppure Gaza, nella geografia culturale, economica, sociale dell’intera regione, è sempre stata – nel corso dei millenni – una delle città, dei centri più importanti. Nodali. Il crocevia dei percorsi commerciali, dei cammini, dei passaggi. L’esatto contrario del luogo recluso, blindato di cui è divenuta simbolo dal 1948 a oggi, da quando Gaza è stata rinchiusa nella Striscia. Prima della Striscia, prima del 1948, la regione di Gaza non era solo più grande ed estesa, ma incarnava una vivacità, un’apertura, una rilevanza culturale unica. Era il porto e la terra agricola alle spalle, un po’ com’era Jaffa, il porto da cui, nel 1948, i palestinesi dovettero scappare cacciati dall’embrione dell’esercito israeliano e dirigersi, in molti, proprio verso il porto di Gaza. Porto e terra, commercio e campi. A Gaza, poi, c’era acqua (difficile a crederlo, oggi), e grande produzione agricola, da sempre. C’erano i sicomori, e le palme. E gli ulivi, e le arance.
Gaza è nel meraviglioso tappeto di mosaico che riempie la chiesa bizantina di Santo Stefano, a Umm al Rasas, in Giordania, su un altro asse economico, commerciale, di relazioni nella regione. Terra di passaggi, terra di vie. Gaza è assieme a Gerusalemme e Cesarea, a Nablus e a Sebastia, tra le sette città palestinesi più importanti, assieme ai centri più a oriente, da Philadelphia a Madaba, in una mappa urbana imprescindibile per l’epoca. Gaza, nel mosaico meraviglioso, affascinante di Umm al Rasas, scoperto e curato da padre Michele Piccirillo, è raccontata attraverso i suoi edifici pubblici, ricchi di peso culturale, teologico, artistico. Il teatro, l’agorà. Patria del monachesimo dei primi secoli, di teologi (Procopio, la Scuola di Gaza) che hanno segnato la storia del cristianesimo tout court, e anche di quello orientale, Gaza è il passaggio, la cerniera, il crocevia. Non solo la terra da conquistare, o su cui passare in armi, calpestando la vita con gli zoccoli delle cavallerie.
Persino il cantore dell’anima palestinese, un poeta gigantesco come Mahmoud Darwish, mantiene – se si guarda con occhio superficiale – Gaza all’interno della fortezza, in attesa dell’ennesimo attacco, dell’ennesima guerra. Gaza “città del dolore e del valore”, scrive in uno dei suoi ultimi testi, “In presenza dell’assenza”, contenuto nella Trilogia palestinese pubblicata da Feltrinelli (traduzione di Elisabetta Bartuli). Testo complesso, una vera e propria autoelegia scritta nel 2006, due anni prima di morire. Morto ma mai dimenticato, Darwish racconta sé stesso, racconta di quando finalmente ha visto Gaza, “una fortezza circondata dal mare, dalle palme, dagli invasori, dai sicomori. Una fortezza che non s’arrende mai. Gaza è gloria orgogliosa del proprio nome, ininterrottamente aizzata dal silenzio del mondo davanti al proprio lungo assedio”.
Mahmoud Darwish ricorda il valore del nome, per Gaza, e inserisce, finalmente, dei protagonisti inattesi. O meglio, inattesi per il nostro sguardo, ma perfettamente all’interno della storia palestinese, una storia umana e nonumana assieme. Una storia, in questo senso, paradigmatica per una storia globale. Darwish inserisce le palme, e i sicomori. Le palme, il simbolo di Gaza, disegnate nell’intreccio di fili che compone il ricamo palestinese, tanto definito da essere esso stesso – il ricamo tradizionale, il tatreez – una vera e propria definizione geografica della terra palestinese. E inserisce i sicomori, altro nome antico, antichissimo, sacro perché persino i testi sacri ne riconoscono la presenza, il ruolo, il volume nel mondo.



Più di mille anni fa, per la precisione pochi anni prima dell’anno Mille, c’erano mille sicomori che segnavano, a destra e a sinistra, la strada che poco a nord di Rafah andava sempre verso settentrione, in direzione della città di Gaza. Mille fichi sicomori, enormi, i cui rami lunghi si toccavano. Ed erano talmente ampi, i sicomori, da segnare una strada lunga un paio di miglia.
Più di mille anni fa, come ci ricorda Muhallabi, ovvero Hasan ibn Ahmad al-Muhallabi, storico e viaggiatore, geografo arabo, esisteva una città che si chiamava Gaza. E un altro centro urbano, più piccolo, dal nome a noi, fino a 15 mesi fa, ancora più sconosciuto. Rafah.
I sicomori, che in arabo si chiamano jummaiz, non ci sono più sulla strada antica che da Rafah portava verso Gaza. Da molto tempo, da prima del 7 ottobre, da prima del 1948. I sicomori non ci sono più, e la loro assenza è parte integrante di una storia negata. Una storia in cui il pilastro sul quale costruire la narrazione lungo l’asse del tempo e quello dello spazio è la terra e le sue relazioni, il nonumano di cui l’umano è parte. Nella storia negata, i sicomori descrivono come pochi altri alberi – forse il carrubo, forse l’ulivo, forse, ma a un’altitudine maggiore di quella su cui era, è Gaza, il leccio – la relazione tra la terra e l’umano. Rompono, soprattutto, una narrazione dominante, considerata ormai paradigmatica. Non tanto la narrazione “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, costitutiva del sionismo. Quella narrazione ha avuto una sua egemonia, ma poi si è consumata sulla questione israeliano-palestinese, quando è stato evidente a tutti che i popoli erano due, e sulla stessa terra. E che i due nazionalismi non avrebbero fornito alcuna soluzione in dignità e rispetto ai due popoli, palestinese e israeliano.
Quella narrazione, la narrazione di “una terra senza popolo per un popolo senza terra” ne sottende invece un’altra, messa sempre da canto. Questa, sì, una storia negata. È la storia della terra, considerata a seconda dei tempi e delle circostanze il palcoscenico dei nazionalismi, la cartina su cui disegnare confini (vere e proprie ferite, coltellate inferte al suolo), la mappa catastale delle proprietà.
Negata, invece, è la storia della terra e delle sue relazioni. È qui, all’interno di questa storia, che gli umani agiscono in maniera diversa, nella relazione – appunto – con il nonumano. La questione israeliano-palestinese diventa, qui, la cartina di tornasole dei comportamenti, tutti incentrati su una differenza fondamentale. Appartenenza o possesso? Relazione o dominio? Dopo un quarto di secolo di vita trascorso a est e a sud del Mediterraneo, per me la differenza è chiara. I palestinesi dicono di appartenere, di essere parte. Gli israeliani declinano il loro rapporto con la terra come un rapporto di possesso, di proprietà. Omettendo cos’era quella terra, in cui a fiorire da secoli e secoli, prima della concettualizzazione e realizzazione del sionismo, erano nespoli e albicocchi, ulivi e sicomori, carrubi e lecci, e viti, mandorli, noci, e poi orzo e grano, e lenticchie e ceci. E gelsi, certo. Gelsi. Terra già fiorita, non deserto da far fiorire. Annullare questa storia lunga, di alberi e radici, significa possedere la terra e trasformarla perché diventi altro.
È qui, a mio parere, che si impantana anche la soluzione politica della questione israeliano-palestinese che considera la terra marginale, mero palcoscenico oppure, come si è visto a Gaza, su Gaza in questi 15 mesi, una lavagna su cui passare un cancellino per poter poi ridisegnare oggetti, case, villette, colonie, città, forse qualche albero come in un rendering.
I sicomori raccontano proprio la differenza tra appartenenza e possesso. I sicomori, per me il simbolo dell’albero-piazza, sono alberi comuni, pubblici, senza proprietari. Sono piazze, luoghi di raduno, di decisioni, di conversazioni. Sono alberi-ristoro, alberi-rifugio, alberi-ombrello contro il caldo, e alberi-dispensa per chi ha fame. I fichi dei sicomori, frutti che riempiono i rami spessi come tronchi durante tutto l’anno, sono frutti per tutti, ma solo se si mangiano sotto l’albero. Non si raccolgono, non si portano a casa, non si vendono al mercato, non diventano prodotti, commodity. Sono alberi per i viandanti, alberi anche per la preghiera, per la supplica, alberi su cui s’appendono pezzi di tela come ex voto o come fioretti. Sono gli alberi sacri accanto ai luoghi sacri costruiti dagli umani, oppure spesso sono gli edifici sacri a essere costruiti accanto a un sicomoro, che spesso – nella geografia palestinese – si trovava all’ingresso di un paese, di un villaggio.
È in parte così per gli ulivi, per i palestinesi: alberi che precedono gli esseri umani e la loro esistenza individuale, alberi che hanno vita nonumana così lunga da definire genealogie, generazioni, epoche storiche, vite di comunità. In questo contesto, gli esseri umani, come sono i palestinesi, nativi e indigeni, sono elementi che appartengono. Non al paesaggio, ma alla terra e al suo farsi e modificarsi. Gli esseri umani ne sono parte, parte del sistema, se si vuole dell’eco-sistema. La differenza tra appartenenza e proprietà è così profondamente politica da segnare la politica, o l’assenza della politica, di questi quasi 80 anni.
Appartenenza o possesso. La differenza la descrive Sarah Ali, scrittrice, studiosa di letteratura inglese, palestinese di Gaza, ora a Cambridge per il suo phd – appunto – in letteratura inglese, mentre la sua famiglia ha vissuto questi maledetti quindici mesi a Gaza. Alcuni anni fa, una decina di anni fa, tra una guerra e l’altra su Gaza, Sarah Ali ha partecipato a un’antologia di giovani scrittrici e scrittori palestinesi di Gaza, riuniti attorno a Refaat Alareer, poeta, studioso, docente universitario. Una figura iconica, per generazioni di studenti e poi studiosi. Refaat Alareer è stato ucciso nel dicembre del 2023 dalle forze armate israeliane, una delle centinaia di vittime tra docenti e studenti, all’interno di uno scolasticidio che ha completamente cancellato tutte le 11 università di Gaza.
Nel suo racconto Sarah Ali parla degli ulivi di suo padre.
“Che un soldato israeliano possa abbattere 189 alberi di ulivo sulla terra che egli sostiene essere parte della ‘Terra donata da Dio’ è una ‘cosa che non riuscirò mai a capire’. Non ha considerato la possibilità che Dio si possa arrabbiare? Non si è reso conto che quello che stava distruggendo era un albero? Se mai venisse inventato un bulldozer palestinese (lo so!) e mi fosse data la possibilità di trovarmi in un frutteto, ad esempio ad Haifa, non sradicherei mai un albero piantato da un israeliano. Nessun palestinese lo farebbe. Per i palestinesi l’albero è sacro, così come la terra che lo ospita”.
È un racconto costante, continuo, quello sull’appartenenza, ma solo se stimolato. “Non abbiamo bisogno di dirlo, di spiegarlo, è così”, mi hanno detto gli studenti del Master in cooperazione internazionale dell’università di Betlemme quando, qualche mese fa, ho incentrato una parte del mio corso sulla storia raccontata dagli alberi, e cioè su una storia globale di cui gli umani sono solo uno degli elementi. Di certo il più distruttivo e dominante. Ma uno solo degli elementi. L’idea di una storia raccontata dagli alberi, dalla terra, dal nonumano, è stata accolta – lì, a Betlemme – come una pratica normale, per nulla straniante. Anzi, come uno strumento per dare finalmente dignità a una storia biografica, familiare, comunitaria, perfino nazionale. Una storia di relazione continua, lungo gli assi del tempo e dello spazio.
Gli studenti dell’università di Betlemme mi hanno confermato che parlare di sicomori, alberi antichi che non suscitano più quasi memoria in ciascuno di noi, mentre è in corso quello che per molti – studiosi di genocidio, giuristi, associazioni di difesa dei diritti umani – è un genocidio, non è sviare l’attenzione dalla sofferenza indicibile verso qualcosa che è considerato appendice alla vita umana. Alla dimensione umana. E’ esattamente il contrario. Cercare di raccontare una storia lunga e inclusiva, globale non solo in senso geografico ma interspecie, è semmai il modo ormai necessario per riumanizzare ciò che è deumanizzato. Inserire l’umano in una dimensione globale, sistemica – come da sempre è – consente persino di riumanizzare quei pezzi della nostra storia e della nostra cronaca in cui disconosciamo l’umanità e la consideriamo una mera pedina sulla scacchiera del potere. La strada che gli umani hanno inserito tra i mille fichi sicomori, tra Rafah e la città portuale e commerciale di Gaza, testimonia di una storia sistemica e globale. Inserisce, per esempio, i palestinesi nel farsi di una terra ben oltre i miseri confini statuiti e imposti nel 1948. Traccia i percorsi, i raccordi tra terra e umani, tra regioni e mare, tra commerci e alberi. Allarga lo sguardo, e così facendo libera gli umani. Libera soprattutto Gaza da quei 365 chilometri quadrati in cui la storia recente ha rinchiuso una terra ampia, terra di passaggi e raccordi, e dà a oltre due milioni di palestinesi rinchiusi in una prigione a cielo aperto, completamente serrata, la dignità a cui hanno diritto.

Fulvio pischedda e la sua cucina arriva in asia e in nord africa

  uno chef  non mediatico  . Che  si èè fato  le  ossa  partendo    dal basso   cioè come aiuto  cuoco   e  con  umiltà  .  Ma  soprattutto  non  ha fatto    scuole alberghiere ma  un  semplice  liceo   di  ragioneria , poi  è andato all'estero   per  lavorare  


rapito di Bellocchio un film indigesto ai tradizionalisti cattolici

 In  una domenica  piovosa     ho  visto con  i  miei   con   rai  replay   Rapito   film del 2023 diretto da Marco Bellocchio, basato sul caso di Edgardo Mortara, un bambino ebreo di Bologna sottratto alla


famiglia dalle autorità ecclesiastiche nel 1858, al fine di essere convertito al cattolicesimo. e  morto da  prete  cattolico   .  Il film   andato   in onda   il   giorno  prima su Rai 3 .  <<  il  film ha suscitato un forte dibattito sulla sua rappresentazione della storia e il suo impatto sulla società contemporanea >> ciakmagazine.it
Un  film  che  ai David di Donatello 2024 il film ha ricevuto 11 candidature,aggiudicandosi cinque premi, fra cui quello per la miglior sceneggiatura adattata. Un  film fiero ed  indigesto  , coraggioso  .  Un esempio di  come  la religione   ,  in questo caso quella  cattolica  ,  se  imposta   e  forzata   ( senza contradditorio     direbbe    qualcuno )    può portare  a  delle conseguenze  drammatiche   sulla  psichè   dell'individuo   come  èsucesso al protagonista   della  vera storia     da  cui è  tratto il  film .  un buon  cast  fatto anche d'attori    soprattutto      nel ruolo  di  Edgardo Mortara   . Per    ulteriori   informazioni  e  approfondimenti 

https://it.wikipedia.org/wiki/Rapito_(film)
https://www.cinefilos.it/tutto-film/approfondimenti/rapito-storia-vera-dietro-film-marco-bellocchio-666840

https://it.wikipedia.org/wiki/Caso_Edgardo_Mortara


Caso Edgardo Mortara - Wikipedia

1.2.25

diario di bordo n 101 anno III . francesco lotoro e L’archivio è raccolto nella Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria di Barletta rqccoglie la musica dei lager nazisti ., Sebastiano Notarnicola rapito da una donna in un bar a 5 mesi, dopo 16 anni ritrova la famiglia: «Lei non poteva avere figli» ., La curerà Dio”, bimba di 8 anni muore di diabete: i genitori le avevano negato l’insulina .,La curerà Dio”, bimba di 8 anni muore di diabete: i genitori le avevano negato l’insulina

 da   ilfatto  quotidiano  del  28\1 \2025  


UN ARCHIVIO PER LE ARMONIE DELLA PRIGIONIA SI CHIAMA Fo n d a z i o n e Istituto di Letteratura Musicale C o n c e n t ra z i o n a r i a . Raccoglie manoscritti, partiture, materiali epistolari, ma ormai anche strumenti musicali. È frutto del lavoro del musicista e compositore Francesco Lotoro, che ha contattato sopravvissuti e famiglie di ex prigionieri in tutto il mondo. Il catalogo dei documenti raccolti è sul sito fondazioneilmc.it. Da quest ’esperienza nascerà una cittadella della musica concentrazionaria su un’area di 10 mila metri quadri a Barletta


Non solo i campi tedeschi, ma pure i gulag russi, le prigioni americane e degli altri alleati. L’archivio è raccolto nella Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria di Barletta. “Ho iniziato a 24 anni – racconta – oggi ne ho 60. Era un’altra epoca, non avevo i mezzi per un lavoro di ricerca scientifico, era tutto basato sui rapporti diretti con i superstiti. Non era solo incontrarli, ma diventare amici, entrare nelle loro case, nelle loro vite”.
Che genere di documenti ha catalogato?
Manoscritti, partiture, materiali epistolari, foto. Da qualche anno raccolgo anche strumenti musicali: ho cominciato tardi, ma ho capito che sono fondamentali per disegnare la geografia musicale del luogo da cui provengono.
Quali strumenti?
Abbiamo tre violini. Nel 2018 la CBS realizzò un servizio di 30 minuti sulla mia ricerche, la videro negli Stati Uniti e mi contattò un amico di John Stanislav Hillenbrand, che era stato violinista dell’orchestra di Auschwitz. La vedova ci donò lo strumento. L’altro violino è di un italiano, internato dopo la battaglia di Gondar in Etiopia del 1941. Il terzo è uno strumento di liuteria arrivato a brandelli da Dachau, restaurato da un bravissimo liutaio di Ruvo.
Li usa per suonare le musiche che ha riscoperto.
Deve sapere che i violini hanno memoria. Sono come una pianta: vedono, sentono e riconoscono. Sembra un pensiero immateriale, ma è provato scientificamente. Il legno ha respirato l’aria dei lager, il suono di questi violini non è uguale agli altri: ha una voce diversa.
Che musica suonavano nei campi di prigionia?
Ovviamente i classici: Beethoven, Mozart, Wagner. Ma c’è u n’enorme produzione musicale ex novo: valzer, intrattenimento, musica religiosa. Ci sono prigionieri che hanno lasciato segni profondi nella storia della letteratura musicale: penso a Jean Martinon, Leibu Levin, Vsevolod Zaderatzki. 
Ha raccolto anche opere di musicisti anonimi?
Certo. Arrivano documenti su cui non c’è scritto nulla, a volte solo le iniziali in calce. Altre musiche sono lavori collettivi: scritte a più mani, in camerata. C’era anche una forma, come dire, di solidarietà musicale: a Sachsenhausen le parole venivano tradotte in otto o nove lingue, perché tutti potessero cantarle. Una sorta di Unione europea artistica ante litteram.
 Si suonava anche per intrattenere i carcerieri? Sì. La banda poteva accompagnare l’uscita e il ritorno dei gruppi di lavoro, a volte anche i prigionieri all’esecuzione. Un uso perverso, ma era forse l’uno per cento. Per il resto era musica scritta per necessità e per un’esigenza testamentaria, una spinta letteraria. Mi viene in mente l’orchestra sul Titanic: il mondo affondava, spettava al musicista conservare e tramandare una forma di civiltà. Ma la libertà espressiva era clandestina o tollerata? C’era una forte controllo sui testi, ovviamente, ma la
musica non veniva proibita. A volte era favorita. Il campo toglie la libertà e la dignità umana, doveva dare qualcosa in cambio, altrimenti rischiava di esplodere. I tedeschi lo facevano per controllare meglio i lager. Le sarà capitato di suonare musica inedita, che era stata solo scritta. Ci sono opere che sono state portate alla luce perché finalmente il testo è stato decrittato. Una volta invece sono stato raggiunto da un americano di nome Jack Gaffain, venne a Barletta da New York per cantarmi questa canzoncina... una melodia che dura un paio di minuti: l’aveva ascoltata durante la prigionia e aveva conservato il ricordo per decenni. 
C’è un’opera, o una storia, che le è rimasta nel cuore più delle altre?
 La musica scritta sulla carta igienica da Rudolf Karel, prigioniero politico nel campo di Pankrac, Praga. Fu torturato, non parlò, ma si ammalò di dissenteria, quindi disponeva di quantità cospicue di carta igienica e carbonella, da cui ricavò una puntina a forma di matita. Scriveva nelle due ore al giorno che passava in infermeria, con una tensione cerebrale che non possiamo neanche immaginare. Stendeva prima la minuta, poi la bella copia, infine nascondeva le strisce di carta tra la biancheria sporca che consegnava alla famiglia. Così ha scritto un’intera opera in tre atti: Tre capelli di vecchio saggio. Quando suono questa musica, provo sensazioni fortissime



Essendo una storia importante ho deciso di non limitarmi ad un solo sito ma ho riportato anche un altra intervista trovata in rete più precisamente questa di https://musicabile.tgcom24.it/ del 27\1\201

Delle poche cose che mia madre ricordava, ragazzina in Friuli negli anni del secondo conflitto mondiale, a parte la fame, il nulla imposto dalla guerra, il terrore del rombo degli aerei che venivano a bombardare (trauma che l’ha convinta a non salire mai a bordo di un aereo e che si è portata sino alla morte), c’era il ricordo dei treni dei deportati diretti ai campi di concentramento, che facevano sosta nella stazione del paese dove viveva. Era un ricordo meticoloso, quasi un’imposizione per non dimenticare, così vivido da materializzarsi. 


L’ho immaginato tante volte, prima con la mente di un bimbo e poi con quella di un adulto, come se fossi lì anch’io. Ancora oggi che mia mamma non c’è più, rivedo quelle scene, le urla di richiamo e aiuto dei prigionieri rinchiusi nei carri bestiame, perché questo erano, le mani che si allungavano oltre le strette ferritoie poste in alto, mani affusolate, mani piccole, mani callose, mani che chiedevano cibo, acqua, o anche solo una carezza. E il paese si mobilitava con generi di conforto, quel poco che c’era nel niente assoluto.

Sono passati quasi 80 anni da quegli eventi, i sopravvissuti dei lager sono ormai pochissimi, il tempo fa il suo corso. L’orrore dell’olocausto è diventato un’ansia mentale intorpidita; il racconto serve a tenere vive le putrefazioni a cui l’uomo può arrivare, poiché ce ne dimentichiamo troppo spesso.

A questo serve la giornata della memoria. Almeno un giorno all’anno ci viene imposto di pensare che, nemmeno un secolo fa, sono state commesse atrocità senza fine, sono state cancellate milioni di vite, famiglie, amori, passioni, storie…

E arrivo al punto di oggi: sì, anche questa volta c’entra la musica. Anzi, la musica è la protagonista. Perché lo è stata nei campi di detenzione, di sterminio, di rieducazione – e non solo nazisti. C’è un musicista italiano, che certamente molti di voi conosceranno, che da oltre trent’anni sta dedicando la sua vita e la sua professione alla causa: raccogliere opere, canzoni, spartiti, brani, partiture scritte su fogli musicali, altre annotate su carta igienica o pezzi di tessuto, altre tramandate oralmente. Musica come resilienza, musica come anelito di libertà, musica come scansione delle attività giornaliere nei campi, anche quelle terribili, musica per salvare la propria mente e la vita.





Parigi. Wally Lowenthal Karveno e Francesco Lotoro con in mano l’autografo del “Concertino per pianoforte e orchestra da camera” scritto a Gurs – courtesy Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, Barletta



Ho trovato la “missione” di Francesco Lotoro, classe 1964, musicista di Barletta, pianista, compositore e direttore d’orchestra, docente di pianoforte presso il Conservatorio Niccolò Piccinni di Bari, un enorme atto d’amore, verso chi è stato privato della libertà, torturato e massacrato ma anche verso la musica stessa.Avere la possibilità di riascoltare quello che è stato scritto nei campi, una musica che potremmo definire sicuramente nuova, “concentrazionaria” come è stata battezzata, è una delle concrete possibilità per non dimenticare, testimonianza diretta e reale delle atrocità commesse. Francesco Lotoro lavora per questo, perché le prossime generazioni possano “ascoltare” la cruda realtà di quello che l’essere umano è riuscito a concepire ma anche cogliere la creatività e la necessità di vedere la propria esistenza oltre i confini di un lager nazista. Musica per evadere, per volare, per fissare momenti “resistenti”. Nel 2017 il regista franco-argentino Alexandre Valenti ha dedicato a Francesco un docufilmMaestro, una coproduzione italo-francese.

Gli ho scritto se potevo intervistarlo, mi ha risposto immediatamente. Ne è nata una lunga e intensa chiacchierata…

Francesco come è iniziato tutto ciò?
«Ho cominciato nel 1988, spinto da molti elementi giovanili, passioni, curiosità. Mi mancava la visione d’insieme di ciò a cui stavo andando incontro… I primi quattro anni cercavo solo musiche composte da musicisti ebrei. Mano a mano che contattavo persone, le incontravo, mi documentavo, lavoravo con l’aiuto di tutor perché trovavo manoscritti scritti in diverse lingue, catalogavo, suonano, eseguivo le partiture, sono passati gli anni e mi sono accorto che questa ricerca si era mangiata un po’ tutto della mia vita. Non era prevedibile. Sono arrivato a migliaia di opere catalogate e non è ancora finita…CI vogliono tante risorse ancora per finire il lungo lavoro».

Come musicista che idea ti sei fatto?
«Sono un pianista e ciò mi ha aiutato a cercare un repertorio pianistico denso di linguaggi molto avanzati, che andavano persino oltre Arnold Schönberg (il compositore austriaco naturalizzato americano, considerato dirimente per aver scritto musica al di fuori dalle regole del sistema tonale, ndr).


Charles Abeles, prima pagina del Valzer Rondo Felicità op.282 – courtesy Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, Barletta


Negli anni hai contribuito a creare un’orchestra, l’Orchestra di Musica Concentrationaria, con la quale hai inciso un’enciclopedia in 24 volumi CD KZ Musik, contenente 407 opere scritte da prigionieri civili e militari in quel periodo…

«L’ossigeno della ricerca e la sua bellezza estetica è suonare molta di questa musica. Sai, ho sempre pensato che eseguirla sia un gesto magico, liberarla dai campi, in una sorta di redenzione».

Quando pensiamo ai campi di concentramento spesso ci facciamo dei “film” errati…
«I campi di concentramento, internamento, sterminio erano realtà metropolitane zippate, con elementi di eterogeneità. L’elemento artistico ha fatto scattare connessioni tra gruppi sociali e linguistici. Nel campo di Birkenau (Auschwitz II), per esempio, è impossibile distinguere tra musica ebraica e musica rom. La promiscuità nel gergo artistico è illuminante, fertile. Capitava anche che i musicisti prestassero i loro strumenti ad altri musicisti, come è successo nel campo di Sandbostel quando i francesi che stavano nello Stalag XB dettero più volte il violoncello a Giuseppe Selmi, grande violoncellista, compositore e didatta italiano (Selmi ha scritto in prigionia molte partiture per violoncello e il meraviglioso Concerto Spirituale per violoncello e orchestra, ndr) che stava nell’attiguo Stalag XA» (Selmi, come scrive lo stesso Francesco, «si esibì per i prigionieri italiani in un intero concerto imbracciando un violino a mo’ di violoncello…»).

Ci sono stati anche sodalizi gloriosi e proficui nei campi, come quello di Giovannino Guareschi e Arturo Coppola…
«Sono nati brani bellissimi. Prendi La favola di Natale che Guareschi scrisse nel 1944 nel campo di Sandbostel e Coppola mise in musica, è un’opera straordinaria e così poco rappresentata oggi. Coppola scrisse molti altri brani, come Treviso (la città in cui passò maggior parte della sua vita, ndr) quando seppe del bombardamento sulla città, molti mesi dopo l’avvenimento. Da ricordare anche Dai Dai Bepin, un’esortazione a Stalin che si muovesse in fretta per liberarli dalla prigionia…».


Gerusalemme. Francesco Lotoro con il pianista e compositore Alex Tamir, sopravvissuto al Ghetto di Vilnius – courtesy Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, Barletta

Quanto ha influito la privazione della libertà sui musicisti e sulle partiture composte?
«Il musicista in prigionia componeva per esorcizzare il campo, l’ambiente non influiva, dunque, più del necessario sui criteri architettonici della composizione. Il campo c’è, attraversa la musica, ma il musicista è ancorato alle proprie visioni, alla propria storia. Il dramma esiste, ma in chiaroscuro, il musicista in questo modo vuole annichilire il campo. Spesso, sono stati gli stessi musicisti prigionieri a costringere i loro carcerieri ad acquistare strumenti musicali, fogli per scrivere partiture, a farsi esentare dal lavoro per dedicarsi alla composizione».

La musica faceva vedere la prigionia in un altro modo…
«Hai presente l’orchestra del Titanic che non smetteva di suonare mentre il transatlantico affondava? O Pau Casals il grande violoncellista catalano, che si esibiva anche durante il regime franchista perché mai come in quei momenti la gente aveva bisogno della musica? Così era nei campi. Ogni musicista ha portato nella prigionia la propria esperienza, che è rimasta patrimonio del luogo. L’elemento campo ha modificato, evoluto, deteriorato, agito da drenante, intaccato certe corde, certe sensibilità. Gli artisti sopravvissuti alla prigionia, una volta liberi, sono diventati fondamentalmente diversi, hanno voluto cancellare completamente la detenzione. Ci sono dolori che vengono redenti in maniera diversa. Di per sé nei campi abbiamo avuto lo sviluppo, l’estremizzazione, la radicalizzazione di certi linguaggi, forme brecktiane possibili solo perché, appunto, nate all’interno del campo».

Quindi la musica è stata tante cose: un atto di liberazione, una forma di rigore mentale e pure la summa di colonne sonore della vita quotidiana nei campi…
«A Buchenwald c’era un’orchestra di 80 elementi. Auschwitz, nelle sue tre declinazioni, il campo principale (I), Birchenau (II) e Monowitz (III) contava ben sette orchestre. D’opposto, Hans Gál (musicista viennese che fuggì dall’Austria nazista rifugiandosi in Gran Bretagna dove, per ironia della sorte venne recluso dagli inglesi che arrestarono gran parte dei profughi tedeschi scampati al regime, tra questi anche numerosi ebrei, ndr) nel campo di detenzione di Douglas, sull’isola di Man compose la Huyton Suite op.92 con gli strumenti che aveva a disposizione, un flauto e due violini».

Ma nella musica concentrazioanria c’era anche altro…
«È una musica sessista, divisa per genere. Orchestre maschili e orchestre femminili. Solo nel campo di Theresienstadt c’era un’orchestra mista. È stata poi usata per il più sublime e il più perverso degli scopi. Si suonava quando arrivavano i treni con i nuovi prigionieri e i nazisti facevano una selezione veloce delle persone: vecchi, malati, bambini venivano soppressi, gli altri in salute andavano ai lavori forzati. L’orchestra suonava quando il gruppo di deportati partiva e arrivava dal lavoro coatto. Suonava la domenica nei villaggi dei militari per rallegrare le passeggiate pomeridiane dei nazisti con le loro famiglie, ma suonava anche per i deportati…».


Berto Boccosi, prima pagina del quaderno di Saida (abbozzo dell’opera La Lettera Scarlatta) – courtesy Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, Barletta

La musica era dunque sempre concessa?
«Nei campi di detenzione dove c’erano ebrei si poteva scrivere musica, in quelli dove c’erano i prigionieri politici, no. In questo caso gli artisti memorizzavano ciò che componevano, o scrivevano le partiture sulla carta igienica o sui teli di juta, addirittura sulla terra, quando andavano a lavorare nei campi di patate. Ognuno dei detenuti imparava a memoria quattro battute e poi la sera venivano trascritte su mezzi di fortuna. Ma non dobbiamo pensare a gesti di magnanimità da parte dei carcerieri. Il polacco Artur Gold, per esempio, famosissimo musicista, una delle star del tempo, venne arrestato e deportato a Treblinka. Fu ricevuto dal comandante del campo con tutti gli onori, gli venne concessa un’orchestra con cui allietò i militari, poi venne messo a morte. La negazione di ogni logica. Al musicista non poteva che rimanere la sua musica, poteva contare solo su quella».

Venendo a oggi, dopo trent’anni di lavoro, qualcuno ti ha chiamato lo Sherlock Holmes della musica, che valore ha questo enorme patrimonio che stai raccogliendo?
«Sono convinto che questa sia una musica di portata universale. Per completare il quadro ci vorranno ancora 15, 20 anni. Siamo ben oltre gli ottomila brani raccolti e catalogati e ogni settimana arrivano partiture, segnalazioni, note all’ILMCl’Istituto di Letteratura Musicale Concentrationaria. Con il lockdown ho smesso di viaggiare ma presto spero di ritornare a intervistare, raccogliere, ascoltare. Dovrei andare in Francia dove c’è una testimone che mi aspetta, appena il virus lo permetterà volerò a Parigi. Questa musica è come se fosse stata chiusa in una capsula del tempo. Ti ricordi il film con Nicolas Cage Segnali dal Futuro? Ecco, la musica concentrazionaria è chiusa lì dentro, non si è mai interfacciata con la musica a lei contemporanea, è tanto simile quanto differente. Credo che abbia molto da darci. Però, ne usufruiranno con quotidianità le generazioni future, tra venti o trent’anni».

E la capsula del tempo dovrebbe trovare posto a Barletta in un’ex distilleria, giusto? Sono anni che se ne parla…
«Nel 2016 partecipammo a un bando per la riqualificazione delle periferie, indetto dal governo Renzi. Barletta si candidò e sposò in pieno il progetto di una cittadella della musica concetrazionaria. Considero questo genere di musica in un periodo che va dal 1933 al 1953 includendo anche i gulag sovietici, praticamente fino alla morte di Stalin. Il nostro progetto arrivò dodicesimo. I primi 24 avrebbero avuto una sovvenzione statale. Che però è stata insufficiente. Quindi abbiamo atteso ancora e, se tutto andrà per il meglio, dovremmo inaugurarla nel 2024. Sarà un campus con biblioteca, museo, libreria, teatro, ristorante, due laboratori, un polo di studio della musica ebraica… allora sì, potremo finire la ricerca, ci vogliono altri fondi, è un lavoro enorme, ma che dobbiamo portare a termine».


SI CHIAMA Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria. Raccoglie manoscritti, partiture, materiali epistolari, ma ormai anche strumenti musicali. È frutto del lavoro del musicista e compositore Francesco Lotoro, che ha contattato sopravvissuti e famiglie di ex prigionieri in tutto il mondo. Il catalogo dei documenti raccolti è sul sito fondazioneilmc.it. Da quest’esperienza nascerà una cittadella della musica concentrazionaria su un’area di 10 mila metri quadri a Barletta




Il dediserio smodato di avere un figlio e l'impossibilità di averne uno biologico, la folle idea di rapire un bambino e tenerlo nascosto al mondo pur di non vederselo portare via. La storia di Sebastiano Notarnicola assomiglia per alcuni versi a quella della piccola Sofia rapita a  qualche tempo fa  Cosenza, anche se il finale è del tutto diverso: lui aveva solo 5 mesi e mezzo

quando è stato portato via alla sua famiglia. Era il 20 aprile 1978. Dopo 16 anni è riuscito a ritrovare la sua famiglia biologica, oggi ha ripercorso la sua storia in un'intervista a Fanpage. L'infanzia di Sebastiano, che credeva di chiamarsi Hermann, è stata segnata dalla solitudine, senza documenti e senza la possibilità di frequentare la scuola. Dopo un incendio, il bambino fu messo in collegio. Una sua foto pubblicata su una rivista dell'istituto segnò l'inizio del suo ricongiungmento con la famiglia. 
Il rapimento
Sebastiano Notarnicola ricostruisce il suo passato a partire dal rapimento. Dopo la sua nascita, a Milano, nel 1977, sua madre Annamaria mise un annuncio su un quotidiano chiedendo abiti usati per il suo bambino. All'appello rispose una donna che, spacciandosi per un'assistente sociale, conquistò la fiducia della neomamma, tanto da riuscire con un inganno a restare da sola con il neonato mentre si trovavano in un bar di Milano: «Ha chiesto a mia madre se poteva lasciarmi con lei, che mi avrebbe comprato dei vestiti al negozio Chicco», spiega Sebastiano. Da quel momento, il bambino è cresciuto con quelli che credeva essere i suoi genitori.
L'infanzia nascosta
La donna aveva fornito un indirizzo falso e non fu possibile rintracciarla. «Lei non poteva avere figli, però desiderava averne, non tanto per sé ma per suo marito. Aveva avuto delle gravidanze isteriche e, dal momento che mi aveva portato a casa a cinque mesi e mezzo, a suo marito aveva detto che ero dovuto stare in ospedale perché non stavo bene, lui non sapeva niente e quando sono arrivato era molto felice», spiega Sebastiano, che nel frattempo era stato chiamato Hermann. Vivevano in Valsassina, in provincia di Lecco, ma il bambino non poteva frequentare la scuola poiché senza documenti. Un'infanzia «diversa dagli altri, ma non ho un ricordo brutto». Quello che credeva essere suo padre gli ha insegnato a leggere e scrivere, anche se non usciva mai di casa e non frequentava coetanei. 
Il collegio
La situazione è cambiata quando, in seguito a un incendio in casa, Sebastiano - che all'epoca aveva circa 10 anni - è stato messo in un collegio religioso. L'istituto ha pubblicato delle foto dei ragazzi su una rivista che girava gratuitamente nelle parrocchie di tutta Italia ed è stato così che quell'immagine è arrivata in Puglia, tra le mani di una cugina del padre biologico di Sebastiano, che ha notato la somiglianza tra quel ragazzino e suo nipote. Da lì sono partite le ricerche: «Dentro di me sapevo da sempre che mio figlio era ancora vivo e il dna ce ne ha dato la prova».
L'incontro con i genitori biologici
L'incontro di Sebastiano con la sua famiglia biologica è avvenuto quando aveva 16 anni. «Ho conosciuto prima mio padre e i miei fratelli, con cui finita la scuola ho iniziato a vivere. Mamma e papà si erano nel frattempo separati e mia madre l'ho incontrata solo tempo dopo, perché il giudice aveva disposto che stessi con l'unico dei due genitori che aveva un lavoro». Poi, il ricongiungimento con la madre: «Io ero seduto sul divano e quando lei mi ha visto è scoppiata a piangere». Il rapporto tra i due, però, non è stato idilliaco: «Purtroppo con mia madre non ho avuto un rapporto madre-figlio, ma io penso che non sia colpa sua, è colpa mia, perché sono cresciuto con una famiglia che ho sempre creduto che fosse la mia mentre non lo era, perciò mi è molto difficile oggi costruire legami». 


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Senza parole  davanti a tali forme di fanatismo religioso e fondamentalista 

Quattordici membri di un gruppo religioso australiano sono stati dichiarati colpevoli della morte di Elizabeth Struhs, una bimba diabetica di otto anni a cui era stata negata l’insulina per quasi una settimana. La piccola è deceduta nel 2022 nella sua casa di Toowoomba, nel Queensland, a causa di una grave chetoacidosi diabetica. Secondo la ricostruzione del tribunale, il gruppo noto come i “Saints” si opponeva alle cure mediche, nella convinzione che solo Dio potesse guarire Elizabeth. Anche il padre della bambina,

Jason Struhs, la madre e il fratello della bambina, oltre al leader della congregazione, Brendan Stevens, sono stati condannati per omicidio colposo. Nel pronunciare il verdetto di quasi 500 pagine, il giudice Martin Burns ha evidenziato che, sebbene Elizabeth fosse amata e accudita sotto molti aspetti, le sue condizioni di salute erano state ignorate a causa della fede cieca nel potere di guarigione divino. “Le è stata negata l’unica cosa che le avrebbe salvato la vita”, ha dichiarato il giudice.
La tragedia e il processo

Elizabeth, descritta come una bimba intelligente e vivace, ha trascorso gli ultimi giorni della sua vita tra sofferenze atroci. Secondo la testimonianza dell’accusa, la piccola era debole, parlava a fatica ed era incapace di camminare autonomamente. Mentre le sue condizioni peggioravano, i membri della setta si limitavano a pregare e cantare, convinti che la guarigione sarebbe arrivata per intervento di Dio. Nessun medico venne chiamato, e le autorità furono avvisate solo 36 ore dopo il decesso. Il processo, iniziato nel luglio scorso, ha visto la deposizione di 60 testimoni e ha svelato dettagli inquietanti sulla comunità religiosa, che conta circa due dozzine di membri provenienti da tre famiglie. Gli imputati, di età compresa tra i 22 e i 67 anni, hanno scelto di rappresentarsi da soli, rifiutando ogni assistenza legale e senza dichiararsi colpevoli. Il tribunale ha pertanto registrato automaticamente dichiarazioni di non colpevolezza.
Una lunga storia di negligenza

Il caso di Elizabeth non era il primo episodio di negligenza da parte della sua famiglia. Nel 2019, la bambina era stata ricoverata in ospedale in coma diabetico, pesando appena 15 chili. I medici le diagnosticarono il diabete di tipo 1 e spiegarono alla famiglia che avrebbe avuto bisogno di iniezioni quotidiane di insulina per sopravvivere. Tuttavia, il padre, inizialmente favorevole alle cure, cambiò posizione dopo il battesimo nella setta e, sotto la pressione degli altri membri, smise di somministrarle il farmaco salvavita. Durante il processo, Jason Struhs ha dichiarato tra le lacrime che lui ed Elizabeth avevano deciso insieme di interrompere l’insulina, convinto che la figlia sarebbe “risorta”. Stevens, leader della setta, ha difeso le azioni del gruppo, sostenendo che il processo fosse un atto di “persecuzione religiosa” e rivendicando il diritto della congregazione di credere unicamente nella parola di Dio. I “Saints”, una piccola congregazione separatasi dalla Revival Centres International di Brisbane, continuano a rimanere un gruppo chiuso e poco conosciuto. Fondato da Stevens dopo il suo fallimento nel diventare pastore, il gruppo tiene sermoni settimanali nella sua abitazione. La sentenza per gli altri imputati è attesa il mese prossimo. Il caso ha riacceso il dibattito in Australia sull’intervento dello Stato nei confronti di gruppi religiosi estremisti e sulla protezione dei minori in contesti di negligenza dovuta a credenze radicali.

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La voglia di essere abbronzati anche in inverno è molto comune, tanto che in molti cedono allo sfizio di farsi una lampada pur di vedersi più colorati allo specchio. A farla è stata anche una ragazza a cui, però, questa volta non è andata bene. Dopo una seduta di 20 minuti sotto il lettino abbronzante, infatti, ha iniziato a perdere pelle dal viso. A raccontare la disavventura è stata lei stessa sui social.

Cosa è successo

Natalia Armstrong ha mostrato su TikTok le orribili conseguenze di essersi sottoposta ad una lampada abbronzante "al contrario" per ben 20 minuti. Appena uscita ha riferito di sentirsi «bene», come sempre. Tutto è cambiato due giorni dopo la seduta. Da allora si è rivolta al social per sensibilizzare le altre ragazze all'utilizzo di queste apparecchiature.

La ragazza, che ha esortato gli altri a non commettere lo stesso errore che ha commesso lei, ha spiegato di aver messo il viso dove avrebbero dovuto esserci i piedi, e le dita dei piedi sotto i tubi abbronzanti. Natalia ha scoperto solo dopo, che le luci UV nella zona dei piedi sono «più forti di quelle della lampada abbronzante per il viso».

Le conseguenze e il messaggio

Sebbene all'inizio Natalia si sentisse benissimo e non avesse segni evidenti di alcuna scottatura, due giorni dopo la sua faccia ha iniziato a spellarsi. La ragazza ha spiegato sul social che la pelle del viso era talmente tesa da non riuscire neanche a sorridere correttamente. Tuttavia, il peggio doveva ancora arrivare, la ragazza, infatti, presentava anche alcune dita delle mani rosse e gonfie.

Dopo alcune visite mediche, a Natalia sono stati tagliati quattro anelli che indossava alle dita e che non riusciva più a togliere. Un suo dito ha anche sviluppato un'infezione. «Sono lesa, ma è riparabile», ha detto Natalia, spiegando che erano state delle sue amiche a parlarle del metodo di sdraiarsi a testa in giù nel lettino abbronzante. La ragazza, nonostante si dichiari «dipendente dalle lampade» ha voluto mandare un messaggio di avvertimento a chiunque, come lei, ne faccia uso: «Condividetelo, ripubblicatelo. Se conoscete qualcuno che lo fa, per favore ditegli di non farlo». 

Rischi dei lettini abbronzanti

I lettini abbronzanti sono da tempo ormai associati al cancro della pelle, sono stati addirittura vietati in alcuni paesi, come Brasile e Australia. Secondo l'International Agency for Research on Cancer (IARC) (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro), ci sono prove significative che dimostrano che l'uso dei lettini abbronzanti causino il melanoma. Secondo gli esperti, infatti, i lettini abbronzanti aumentano il rischio di cancro della pelle fino al 20 percento.«Siamo chiari sui lettini abbronzanti. Non sono solo “alcuni” esperti a dire che fanno male alla pelle. Sono quasi tutti - ha dichiarato la dottoressa Carol Cooper - I raggi UV danneggiano il DNA nelle cellule della pelle, quindi è più probabile che si trasformino in cancro. Non devi nemmeno scottarti perché ciò accada».

anche le donne sono stalker e commettono violenze sugli uomini .

Nb.
agli analfabeti  funzionali   e  ai maschi  alfa  non fermatevi al titolo ma  leggete  tutto l'articolo 

Caro Ulisse ,

 ignorare o sottovalutare la violenzadelle donne, oltre a determinare un vuoto nelle
riflessioni teoriche e nei dati empirici relativi a una struttura relazionale evidentemente diffusa,
comporta anche il rischio di sottovalutare la necessità di interventi preventivi e di trattamento per tutte le vittime,sia uomini che donne. Non ti pare?

                                    Antonio


Carissimo Antonio, mi trovi assolutamente d’accordo.Dobbiamo superare questo tabù che considera le donne angeli del focolare, creature delicate e dolci e quindi incapaci dicommettere violenze. Guarda ad esempio a copertina qui   a   sinistra   di “Giallo” di questa settimana: c’è Alessia Pifferi, donna e mamma, che ha lasciato morire di stenti la sua bambina. C’è Rosa Vespa, una signora di 51 anni che voleva un bambino, ha !nto una gravidanza e ha rapito quello di un’altra donna. C’è Amanda Knox, che pur di levarsi d’impiccio in un interrogatorio che la stava stancando, ha calunniato Patrick Lumumba, il suo datore di lavoro e amico,
accusandolo di omicidio. E non gli ha mai nemmeno chiesto scusa! E poi la scorsa settimana ci siamo occupati di Chiara Petrolini, 22 anni, capace di nascondere due gravidanze, di uccidere due neonati e di seppellirli nel cortile di casa. E della professoressa che molestava gli alunni in una “saletta” nel modo più subdolo e perverso possibile. Come si può negare che la cattiveria e la violenza siano anche nell’animo delle donne? C’è un grande equivoco, in questi anni. Gli uomini temono che l’attenzione per i femminicidi metta sotto accusa tutta la categoria maschile. Si sentono toccati tutti, ci tengono a dire che loro sono “bravi”. Come se l’immagine degli uomini fosse messa in pericolo dall’innegabile presenza del fenomeno.
Spesso ti rispondono: ma anche le donne uccidono gli uomini.Ecco, sì, può capitare, ma molto più raramente. Perché gli uomini sono più forti fisicamente, ma anche perché di solito levittime sottomesse sono più facilmente femmine. Nel femminicidio scattano meccanismi di possesso e di volontà di 
prevaricazione che affondano le loro ragioni in qualcosa che ci 
portiamo dietro dalla storia. Tieni conto che il delitto d’onore è stato abolito solo nel 1981! Il fatto che però i “maschicidi” siano rari, non signi!ca che allora le donne siano tutte stinchi di
santo. Abbiamo decine di madri assassine, abbiamo ragazze che hanno ucciso i genitori, o le amiche, e per!no qualche serial killer femmina. E anche senza arrivare a questi estremi,molte donne maltrattano i loro compagni, i loro figli, sfruttano le persone, rubano, truffano, mentono, sono vendicative,stalkerizzano e tutto il resto. Per questo diciamo che siamo tutti uguali, nel bene ma anche nel male.
Non è una gara a chi è più buonoo più cattivo , e loro : non siamo a scuola con le due liste sulla lavagna . Questa “guerra” tra uomini e donne non ha e non dovrebbe avere davvero senso. Siamo tutti sulla stessa barca, tutti interessati a che sia fatta giustizia e che ci sia   rispetto   da  ambo le parti . A prescindere 
da che sesso abbia chi commette violenza.

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata XVII In cui di violenza 0sicologia e alle prime avvisaglie di quella fisica ovvero ABUSI DOMESTICI, REGISTRATE E FOTOGRAFATE TUTTO



punta precedente e url alle altre



Anche se per il momento , a parte quello tentato qualche giorni fa a Malta , non si registrano casi femminicidi e di violenza ( dal punto di vista fisico ) di genere , la guida di autodifesa ripresa dal settimanale Giallo coninau a essere l'unica " arma " da usare in mancanza di una " politica " di prevenzione culturale \ antropologica uniforme ed unitaria , davanti una "politica " repressiva ed azzeccagarbugli " fatta di grida manzoniane . Dopo questo spiegone introduttivo veniamo alla puntata XVII del Manuale di autodifesa : I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco sul settimanale Giallo ormai diventata anche nostra



“OMAGGIO AD ILENIA” L’opera dello scultore Alessandro Galanti intitolata “Omaggio ad Ilenia”.
La scultura è stata realizzata in memoria della ventinovenne Ilenia Graziola uccisa il 23 novembre 2008 e di tutte le altre donne vittime di violenza




La violenza domestica è una piaga che purtroppo afliige molte persone, di gran lunga più di quanto si possa immaginare. Numeri ufficiali non ce ne sono, ma soltanto stime: del resto è un fenomeno difficile da tracciare perché non tutte le le vittime denunciano quello che subiscono.La violenza domestica porta con sé conseguenze devastanti, sia dal punto di vista fisico sia da quello psicologico, e richiede interventi su più livelli. Gestire lo stress, in questo tipo di contesto, soprattutto per chi vuole interrompere questi comportamenti di natura abusiva, può essere un passo importante non semplice da mettere in atto da soli. Una delle principali sfide per le vittime è superare lo stress cronico che si sviluppa in seguito all'esposizione costante a situazioni di abuso.La gestione di questo stress è fondamentale per riprendersi e intraprendere un percorso di guarigione. Vediamo ora alcune soluzioni efficaci per affrontare lo stress legato alla violenza domestica e come trovare una soluzione. Prima di tutto, è fondamentale riconoscere il problema ed elaborare come il comportamento abusivo non sia mai giustificabile e la consapevolezza che la violenza non è mai colpa della vittima. Tra le tecniche di gestione dello stress abbiamo l’attività fisica e il prendersi pause consapevoli per ritrovare la calma durante i conflitti. Ancora, poiché soprattutto con quella psicologica , Non sempre è facile dimostrare una violenza psicologica con prove valide. Per agire per vie legali può essere utile avere testimoni della violenza disposti a parlare ma anche registrazioni audio e video che dimostrino le violenze psicologiche subite.documentate sempre la violenza conservando le prove, che possono andare da fotografie di lesioni a e-mail o messaggi minacciosi, fino a certificati medici. Gestire lo stress è importante, ma il passo cruciale è rompere il ciclo della violenza, grazie anche a professionisti e a una rete di sicurezza. Presentate una denuncia, allontanatevi dal pericolo, chiamate il numero di emergenza o rivolgetevi ai centri antiviolenza e stalking chiamando il numero 1522.Ora come diceLo stesso Bianco L’abuso psicologico è molto comune. Questa forma di violenza comprende qualsiasi comportamento non fisico che indebolisca o sminuisca la vittima, oppure che permetta a chi compie tale violenza di controllare la vittima. L’abuso psicologico può comprendere linguaggio abusivo, isolamento sociale e controllo finanziario. L’aggressore degrada, umilia o minaccia la vittima ed , aggiungo io il passaggio dalle parole ai fatti può essere breve . Oltre ai metodi da lui indicati  in questo  articolo     che devono essere usati se dopo aver provare a difendersi senza : con i metodi non violenti , da soli , senza usare le mani ,  la  situazione  peggiora  .  Ecco alcuni consigli suggeriti da questo interessantissimo articolo Violenza psicologica: come difendersi di www.serenis.it

[....]

In un articolo dell'Osservatorio sulla Violenza si legge che possono essere utili, al fine di preservare la propria incolumità fisica e psicologica, le seguenti tecniche:Cercare di stabilire un rapporto verbale con l’aggressore;Calmare la rabbia dell’aggressore coinvolgendolo in una conversazione e rendendosi credibili ai suoi occhi.

oppure  riassumendo   e d  approfondendo  quanto  già  detto  nelle  puntate precedenti  da  lui e  da  noi  



1 Riconoscere il problema

Il primo passo per difendersi dall’abuso verbale sottolineato da ogni professionista è riconoscere che si è vittime di tale comportamento. Spesso, le persone possono minimizzare o giustificare le parole offensive o la situazione, ma è importante accettare che non è amore, non è qualcosa di normale, e soprattutto non è detto che passi. Il carnefice, molto probabilmente, insisterà se si trova di fronte a una vittima condiscendente.

2 Autostima

Ricorda che chi ti attacca o denigra cerca di metterti in testa una narrazione di sconfitta, di farti sentire debole, incapace o impotente. Devi essere consapevole che questa è, appunto, una narrazione, e che in realtà non c’entra nulla con le tue reali capacità e possibilità. In una parola: non farti condizionare. Chi ti aggredisce lo fa spesso per avere maggior controllo su di te e spingerti a rinunciare a fare qualcosa.

3 Stabilire confini chiari

Imparare a stabilire confini chiari e a fermare, dire alt, all’aggressore è vitale. Comunica apertamente e assertivamente che certi comportamenti o commenti sono inaccettabili. Sii deciso e fermo nei tuoi confini, senza lasciare spazio a interpretazioni ambigue.
Se possibile, fallo in un contesto sociale, dove tutti sentono. Il contesto deve essere ovviamente neutro o amico, e non composto dagli amici del tuo aggressore.
Se sei in pieno contesto nemico, meglio scappare, magari con una scusa, o rispondere con il silenzio in attesa di trovare una via di fuga. Non si può mai sapere cosa può succedere.

4 Mantenere la calma

L’abuso verbale spesso mira a provocare una reazione emotiva. Per questo motivo in molti viene perpetrato a sorpresa, in modo da cogliere la vittima impreparata. Come in tutte le forme di aggressione, mantenere la calma può essere una potente forma di difesa. Respira profondamente, focalizza la tua mente su pensieri positivi e cerca di rispondere in modo razionale piuttosto che emotivo.
Soprattutto se avviene in contesti dove sono presenti altre persone, mantenere la calma e il controllo può essere di grande aiuto, in quanto potrebbe essere visto dagli altri come una tua caratteristica positiva e crearti dunque del sostegno, se non attribuirti doti di leadership.

5 Non reagire

Rispondere a un insulto con un altro insulto non è detto che sia la scelta migliore, perché potrebbe generare un escalation dagli esiti imprevedibili. Ad esempio, l’aggressore potrebbe insultarci apposta per provocarci e poi accusarci di essere noi l’aggressore, o avere amici pronti a sostenerlo che escono fuori all’improvviso o peggio passare alle mani  e  ai coltelli .
Reagire vuol dire sovrastimare le proprie capacità di controllo di situazioni in cui è spesso impossibile avere informazioni chiavi sulle reali intenzioni e capacità del nostro avversario.

6 Imparare a rispondere

Sviluppa abilità nel rispondere all’abuso verbale in modo assertivo, ma senza ricorrere a tua volta alla violenza verbale. Usa frasi come “Non accetto essere trattato in questo modo” o “Non tollero linguaggio offensivo”. Mantieni la tua risposta chiara e concisa.
Un modo di rispondere può anche essere una semplice domanda: “Non capisco perché mi tratti in questo modo. Cosa ti ho fatto?” Questo può costringe l’aggressore a una risposta articolata e a riconoscere implicitamente l’aggressione.
Un altro modo spesso consigliato è l’ironia: “Hai ragione, ma posso fare peggio” “E pensa che oggi è uno di quei giorni che sono meno scemo del solito” e così via. Attenzione però, perché l’altra persona potrebbe irritarsi ancora di più o non avere il nostro senso dell’umorismo. A mio avviso, meglio una risposta neutra e secca, tipo: “Ti ho fatto qualcosa? Ne vuoi parlare?”

7 Cerca supporto

Non affrontare l’abuso verbale da solo. Parla con amici fidati, familiari o professionisti. Trovare un sostegno emotivo può essere fondamentale per affrontare la situazione e rafforzare la tua resistenza.
Se l’abuso verbale persiste, considera la possibilità di cercare consulenza professionale. Uno psicologo o uno psicoterapeuta possono fornire un ambiente sicuro in cui esplorare i problemi e sviluppare strategie più avanzate per affrontare l’abuso
Infine, ricordati che l’abuso verbale può essere un reato, e che in certi casi ricorrere a un avvocato può essere una buona idea.

8 Scappare

Se si può evitare una situazione di abuso verbale,o la  situazione  diventa  insostenibile  ,  la cosa migliore è la fuga. L’abuso verbale, infatti, nel tempo impatta seriamente sulla propria salute. Tuttavia, vi sono situazioni (lavoro, famiglia) in cui questa strategia non è possibile e purtroppo la situazione va affrontata.

9 Prendersi cura di sé

Concentrati sul tuo benessere generale. Mantieni uno stile di vita sano, fai esercizio fisico, dormi a sufficienza e dedica del tempo alle attività che ti portano gioia. Rafforzare il tuo benessere generale può aiutarti a essere più resilienti di fronte all’abuso verbale.
Il problema con l’abuso verbale è proprio l’effetto che cerca chi lo attua, renderti infelice e chiuso agli altri, in modo da farti non solo soffrire, ma anche di isolarti socialmente tagliandoti l’erba sotto i piedi. Cerca invece di mantenere e ampliare i tuoi legami sociali e sforzati di restare positivo, solare e aperto, contrastando ciò a cui chi attua l’abuso vuole portarti a fare o a essere.

In conclusione, difendersi dall’abuso verbale richiede consapevolezza, assertività e il coraggio di stabilire confini sani. Ricorda che nessuno ha il diritto di trattarti con mancanza di rispetto, e prendere misure per proteggerti è un passo fondamentale verso una vita più sana e appagante.




I GIUDICI GIUSTIFICANO UNO SPIETATO KILLER il caso di La condanna a 30 anni di Salvatore Montefusco per il brutale duplice omicidio della moglie e della "gliastra, Gabriella e Renata Trafandir

Sarà pure un personaggio mediatico  e  permaoso  ma  Robertàa  Bruzzone  stavolta    ha ragione 

La condanna a 30 anni di Salvatore Montefusco per il brutale duplice omicidio della moglie e della figliastra, Gabriella e Renata Trafandir, ha innescato una scia di polemiche condivisibili. A sconcertare è il punto di vista che sembra essere stato accolto dai giudici,cioè quello dell'assassino, che permea l'intero impianto motivazionale. Manca in maniera sorprendente una lettura critica dellaevidente asimmetria di




potere, soprattutto economico, tra l'assassino e le due vittime. Madre e figlia dipendevano economicamente dall'uomo che le ha uccise. L'omicida ha utilizzato quella dipendenza in una logica ritorsiva e rica!atoria, con intimidazioni continue, impedendo loro di lasciare la casa in tempo per salvarsi. E allora una domanda sorge spontanea: qual è il concetto di  libertà femminile che trova applicazione nei Tribunali italiani ? Dove viene posto il confine tra controllo e violenza?
  Infatti   secondo  l'analisi   di  Marilisa D’Amico  Ordinaria di diritto costituzionale all’Università Statale di Milano


IL MOVENTE   DELLA VIOLENZA  NON È MAI UNA GIUSTIFICAZIONE


Nella recente  sentenza per il  duplice femminicidio di Gabriela  Trafandir, e della figlia Renata si è parlato della ‘comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il reato’. Occorre però sottolineare che il movente di un delitto non può essere mai considerato ‘comprensibile’. La giustificazione di un omicidio è una visione pericolosa e inaccettabile che dà solo adito alla 
vittimizzazione secondaria, che si verifica quando la persona offesa viene ulteriormente danneggiata 
dal sistema giudiziario, dai  media o dalla società, attraverso atteggiamenti che minimizzano la gravità del crimine o giustificano l’azione di chi ha commesso il reato. Le cause che portano a un femminicidio, 
come la gelosia o il desiderio di controllo, sono spesso presentate come ‘motivi comprensibili’, ma queste non devono essere considerate delle giusti!cazioni per un qualsiasi atto di violenza (tanto meno per quelli che portano alla morte). Tali giustificazioni rischiano di normalizzare la violenza di genere e di creare un ambiente in cui le donne sono ulteriormente vulnerabili ad altre violenze”.

risposta a chi dice che L'ulisse di omero è portavoce di una mascolinità tossica

 

Sapete che nell’Odissea c’è una delle scene d’amore più belle e commoventi di tutta la letteratura? E no, non sto parlando di Penelope. So che oggi va di moda dire che Omero è il capostipite della <<mascolinita tossica >>, eppure quest’autore ci ha lasciato una delle scene d’amore più commoventi mai scritte! Vedete, la storia di Ulisse è una storia di viaggi, di avventure, ma soprattutto la storia di un uomo che desidera una cosa sopra tutte: tornare a casa! E finalmente dopo vent’anni Ulisse torna nella sua amata Itaca.
Questo è uno dei momenti, a mio avviso , più intessi di tutta l’Odissea: Ulisse vede la sua città, vede suo figlio Telemaco che ormai è diventato un uomo. E in quell’istante lo assale un moto di nostalgia, perché si accorge di quanto il tempo sia volato. Ulisse però si traveste da mendicante per non farsi riconoscere dal Proci che avevano usurpato il suo trono. E cosa accade? Che nessuno lo riconosce !Non lo riconosce suo figlio, non lo riconosce sua moglie, non lo riconosce la sua gente! Tutti vedono soltanto i suoi abiti laceri, i suoi capelli incolti e lo scambiano per un << vecchio mendicante>>. Soltanto uno tra tutta la gente di Itaca , lo conosce: Argo , il suo cane. Vedete, per un cane puoi essere un principe, un re o un mendicante , un cane ti ama a prescindere. Ad Argo non gli importa nulla dell’aspetto di Ulisse, non si cura di cosa indossa, di come appare, gli basta sentire la sua voce per riconoscerlo! E subito dopo muore. Ecco, io mi ricordo che quando lessi questa scena, ero alle scuole medie , per la prima volta mi commossi. Argo aveva conservato il suo ultimo respiro per Ulisse. E si, un’epoca di relazioni usa e getta, vi diranno che in fondo non c’è nulla di così straordinario in questa scena. Perché cose come l’amicizia la realtà e l’amore che sopravvive alla lontananza sono riconpensibili in una società che ha fatto dell’assenza dei legami una coda. Ecco perché in un mondo tanto cinico come quello di oggi vi auguro di avere qualcuno che vi ami non per ciò che siete, ma per chi siete, e che vi guardi negli occhi con la stessa dedizione che Argo ha avuto per Ulisse.

Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti

   dopo a  morte    di  Maurizio Fercioni ( foto   sotto  a  centro ) , fondatore del Teatro Parenti a Milano e primo tatuatore d’Italia Gia...