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11.8.25

Le foto dai set ci stanno rovinando tutti i film più attesi del momento

da https://www.rivistastudio.com/

di Elisa Giudici 05 Agosto 2025

Da Il diavolo veste Prada 2 al nuovo Spider-Man con Tom Holland, nessun outfit o ragnatela sono al riparo dal vizio contemporaneo di sapere tutto di film che ancora nemmeno esistono.

L’estate è la stagione dei set, ovvero quella in cui quasi a ogni latitudine i professionisti del mondo del cinema e della televisione lavorano incessantemente per girare i film e le serie che vedremo nella prossima annata. Il motivo è presto detto: bel tempo nell’emisfero settentrionale, città svuotate per chi ha bisogno di girare in esterna nei grandi centri, ma soprattutto dieci cruciali settimane tra fine giugno e fine settembre in cui si esce dalla sbornia degli appuntamenti di settore di primavera e ci si preparata all’inizio della stagione dei premi, che con settembre vede il mondo della Tv sulle barricate per gli Emmy Awards e quello del cinema ai blocchi di partenza con la Mostra del cinema di Venezia e il Toronto International Film Festival. Da lì inizia un incessante tour de force di attività promozionali per i titoli in arrivo in autunno e per le hit di Natale, proseguendo senza sosta fino a marzo, quando con la notte degli Oscar si chiude un’altra annata del carrozzone dell’intrattenimento mainstream.

Chi conta davvero insomma in queste ore è sul set a girare qualcosa. In Italia come all’estero. Pavia è paralizzata dalle riprese di Nord Sud Ovest Est (la seconda stagione della serie Sky sugli 883), mentre in Piemonte aspettano l’arrivo di Luca Guadagnino con Andrew Garfield e Yura Borisov per le riprese di Artificial, divise tra Stati Uniti e Italia. Girando a piedi o in bicicletta per Roma e Milano ogni cinque interruzioni al traffico, una è un set dove di gira qualcosa (le altre quattro sono cantieri stradali, in una ratio da ovetto Kinder anni ‘90). A Londra, nella zona di Barbican, hanno appena tirato il fiato dalle riprese della sesta stagione di Slow Horses, passando il testimone a Glasgow dove Tom Holland si aggira in costume da Uomo Ragno firmando autografi e rimanendo appeso a gru blu oltremare che poi verranno cancellate in postproduzione. Dall’altra parte dell’oceano, nella vera New York, proseguono le riprese de Il Diavolo veste Prada 2. L’elenco sarebbe infinitamente più lungo, ma è estate anche per i commentatori del dietro le quinte del mondo dello spettacolo, anche per quelli che sono in redazione a battere pezzi di commento sulla tastiera invece che starsene in spiaggia a godersi il sole.
Le foto dai set sono spoiler? Tendenzialmente uno dovrebbe evitare gli articoli di lamentatio pura, perciò ho ritenuto necessario darvi una panoramica informativa di una qualche utilità prima di tracciare la mia linea dell’esaurimento, il momento in cui ho sussurato «basta», il dietro le quinte che ha travalicato la linea del Rubicone: mi riferisco a questo fine settimana in cui, lontana dai lidi e dai monti, non solo sono stata investita del dettagliatissimo reportage delle sequenze del finto MET Gala che vedremo ne Il Diavolo veste Prada 2, ma per giunta ho intravisto già classifiche dei migliori outfit indossati dai protagonisti del film, a partire da Miranda / Meryl Streep.
Non è che le “foto rubate” dai set siano una novità. Non sarò mai io a inneggiare “ai bei tempi” in cui per scegliere che film andare a vedere in sala avevi a disposizione un trailer, qualche cartellone pubblicitario e (per i più ossessivi o sistematici), la pagina delle recensioni sui quotidiani, su Ciak, su Duellanti o gli sproloqui di qualche oscuro blog dell’età della pietra di Internet, giusto per coprire tutto lo spettro. Ovviamente il successo del franchise di Spider-Man e del primo film de Il Diavolo veste Prada rende i sequel che si stanno girando sulle due sponde dell’Atlantico oggetto di una curiosità trasversale, che va oltre l’interesse che all’epoca riguardava le lettrici del romanzo di Lauren Weisberger, degli spillatini Marvel o dei cinefili a cui veniva promessa una Meryl Streep o di un Sam Raimi in film più pop del solito.
L’odioso meccanismo dell’hype
La situazione attuale però è degenerata in una sorta di visione frammentaria, quotidiana, sgranata, tremolante (e ovviamente in verticale) di film ancora sul set. Insomma, il sogno di quanti pensano che gli spezzoni dei lungometraggi e delle serie verticalizzati e “riempiti” dall’intelligenza artificiale per diventare pratici TikTok sia la sintesi perfetta e ideale del cinema del passato e del presente. L’unico conforto in questo diluvio di dietro le quinte, foto e video non richieste è l’ironia dei meme, lo scudo sarcastico con cui affrontiamo uno scenario talvolta disarmante, in cui abbiamo tutti torto. Non potrei mai puntare il dito contro il passante o il fan che scatta una foto degli interpreti sul set: sarebbe l’equivalente d’indicarmi allo specchio. Ci sta che gli appassionati pubblichino i selfie con la star in piena modalità PR che a fine riprese si fermano a chiacchierare, autografare, commentare le riprese, farsi autoscatti.C’è però davvero bisogno di condividere ogni singolo dettaglio rubato dal set che uno ha avuto la fortuna di vedere sotto casa? Forse no. Set forse non così blindati come un tempo, perché da quando il cinema ha perso centralità nella cultura contemporanea, si è innescato questo odioso meccanismo della macchina dell’hype. Allora ecco che è meglio mostrarceli tutti prima e subito gli outfit di Emily, Andy e Miranda, la nuova tuta di Spider-Man, perché il pubblico va messo sotto la pressione psicologica di dover andare al cinema per avere un’opinione in merito a ciò che il larga parte ha già visto.
Non sappiamo più aspettare
Basta un link mandato da un’amica o un’esitazione nel caricare il successivo reel che ecco che l’algoritmo ci proporrà tutto lo scibile sul dato film, finché non alzeremo bandiera bianca, rivolgendoci per una volta a giornali, siti e canali all news. Non fosse che i social sono una delle risorse principali delle testate e la logica dei click e il funzionamento dei motori di ricerca li assoggetta alla diabolica contenutistica algoritmica, personalistica e ansiogena dei social e di Internet.
Ed è così che si finisce in un pomeriggio agostano a chiedersi se quando uscirà Il diavolo veste Prada 2 ci sarà un outfit rimasto inedito a sorprenderci, se un qualche dettaglio del nuovo Spider-Man sfuggirà alla ragnatela del web. Con l’ultimo, nerissimo pensiero che questo J’accuse, stanco e accaldato, è una parte del tutto integrante di questo circolo vizioso di un mondo bulimico e ossessivo che non sa più aspettare e ancor meno gustare le cose belle.

Un furto trasformato in un caso giudiziario dal sapore paradossale. A Caerano di San Marco, in provincia di Treviso il derubato pubblica il video ma il ladro lo denuncia: "Mi hai diffamato"

Leggendo la notizia cita nel titolo La mia domanda è: perchè ad un malvivente viene permesso di sporgere denuncia contro la sua vittima ? ma la legge sulla privacy tutela i delinquenti ma no i semplici cittadini . ma allora perchè mettere le telecamere? cosa da pazzi, il ladro che denuncia. è vero che è uno stato di diritto, ma se prima rispetti le regole del dovere. non si capisce più niente, alla fine solo le brave persone ci rimettono.

Ma ora basta polemiche e lasciamo parlare l'articolo


 da  tgcom24  tramite  msn.it 

Un furto trasformato in un caso giudiziario dal sapore paradossale. A Caerano di San Marco, in provincia di Treviso, Cristian ha visto sparire la sua bicicletta elettrica dal cortile di casa, sotto gli occhi delle telecamere di sorveglianza. Convinto di poter incastrare il responsabile, ha pubblicato il video sui social per chiedere aiuto e segnalare l'accaduto. Ma il ladro, già identificato e denunciato, ha reagito

minacciando a sua volta di sporgere querela per diffamazione contro chiunque avesse diffuso quelle immagini. Peraltro non è la prima volta che succede e sempre nel Trevigiano: un commerciante che aveva diffuso il video del furto subito si era visto minacciare di querela da parte del malvivente. Il furto e le immagini delle telecamere Secondo quanto ricostruito dal Gazzettino che ha pubblicato la notizia, il furto è avvenuto nel pomeriggio, intorno alle 16:02, mentre in casa si trovavano la moglie e i figli della vittima. Secondo il racconto di Cristian, non si è trattato di un'occasione casuale: "Quella bicicletta non resta mai fuori, sapeva di trovarla lì". Il ladro ha approfittato del cancello aperto, è entrato nel cortile e, senza esitazioni, è salito in sella per allontanarsi. Il valore dell'e-bike, una Lancia Genio, supera i 1.500 euro. Le telecamere di videosorveglianza hanno ripreso l'intera scena, fornendo elementi chiari per l'identificazione.
La pubblicazione online e la reazione del ladro Ritenendo di dover avvisare la comunità e spinto dalla rabbia per il furto subito, il proprietario ha deciso di pubblicare il filmato sui social network. Nel post, accompagnato dal video, l'uomo chiedeva agli utenti se conoscessero la persona ripresa, descrivendo il modello della bicicletta — una Lancia Genio, non comune a Caerano — e fornendo dettagli fisici, compreso un tatuaggio sul polso sinistro. Il contenuto ha iniziato a circolare rapidamente, generando numerosi commenti e condivisioni. Tra reazioni indignate e messaggi di solidarietà, il video è arrivato anche all'attenzione del ladro, che ha visto la propria immagine diffusa pubblicamente. È a questo punto che la vicenda ha preso una piega inattesa.
La pubblicazione online e il post su Facebook Dopo aver sporto denuncia ai carabinieri di Montebelluna, inizialmente contro ignoti, Cristian è tornato poche ore dopo con un nome: si trattava di una persona nota in paese. Per ampliare la ricerca della bici, ha pubblicato il video sui social, accompagnandolo da un testo in cui chiedeva se qualcuno riconoscesse l'uomo ripreso. Nel post, oltre a descrivere il modello della bici, indicava il nome, l'origine straniera e alcuni dettagli fisici, come un tatuaggio sul polso sinistro, aggiungendo che era stato visto poco prima in un bar della zona. Il video è stato condiviso centinaia di volte, scatenando commenti e segnalazioni. L'incontro con il ladro e le minacce di querela Venuto a sapere dove si trovava il responsabile, Cristian ha deciso di affrontarlo di persona. L'uomo ha ammesso il furto e chiesto scusa, sostenendo di aver abbandonato la bici da qualche parte a Caerano dopo aver visto il video circolare sui social. Ma la bicicletta non è mai stata ritrovata. Alla sera, quando la sua immagine era ormai diffusa in diversi gruppi online, il ladro ha reagito minacciando di denunciare per diffamazione chi continuava a condividere il filmato. Secondo quanto raccontato dalla vittima, anche la famiglia dell'autore del furto avrebbe chiesto di rimuovere almeno il cognome dai post. Un caso che divide l'opinione pubblica La vicenda è ora nelle mani dell'autorità giudiziaria, chiamata a valutare sia il reato di furto sia le eventuali conseguenze legate alla diffusione delle immagini. L'episodio ha acceso il dibattito a Caerano e sui social: da un lato chi difende il diritto della vittima di denunciare pubblicamente il reato subito, dall'altro chi ricorda i rischi legali legati alla pubblicazione di volti e dati personali senza autorizzazione. Cristian, intanto, ribadisce di non essersi pentito: "È venuto a casa mia e ha spaventato la mia famiglia. E la bici non l'ho più rivista".

10.8.25

diario di bordo n 140 anno III Benedetto XVI, lettera inedita su dimissioni: “mia rinuncia valida” ., Un incrocio col pomodoro ha dato vita alle patate: i capolavori dell’evoluzione-------


E' proprio  vero che  il tempo è galantuomo .Strano che  che  choi diceva   che non era  vero che  s'era  dimesso   e  che l'elezione di Bergoglio \  papa   fracesco      fosse illeggittima  e  il  vero papa    pontefice  fosse benedetto XVI , stiano zitti  e  muti  
 Infattti è  notizia  di questi  giorni    che  è  stata  trovato  un  documento inedito    una  lettera inedita (del 2014) di Benedetto XVI che spiega il perché delle dimissioni: piena validità di rinuncia e Conclave successivo. 

Pubblicato 8 Agosto 2025

Benedetto XVI, lettera inedita su dimissioni: “mia rinuncia valida”/ Papa Ratzinger: “ci pensò anche Wojtyla”

                        Papa Benedetto XVI nel 2016 in Vaticano (ANSA, Osservatore Romano)






Da quel 11 febbraio 2013 il mondo intero, non solo la Chiesa Cattolica, si sono interrogati sul perché delle dimissioni dal Pontefice di Benedetto XVI: i suoi quasi 10 anni di ritiro dopo la storica rinuncia del ministero petrino nel ruolo di “Papa Emerito” ne hanno come acuito un senso di mistero, dando adito anche a diverse teorie sulle possibili cause
È però una lettera inedita comparsa in questi giorni, autografata da Papa Benedetto XVI nel 2014, a ribadire con orza che la sua scelta non sarebbe dipesa da alcun caos interno alla Chiesa dell’epoca, ma solo per le sue condizioni di animo e corpo. Non solo, nello scritto pubblicato da Nicola Bux nel suo ultimo saggio – e datato 21 agosto 2014 – Joseph Ratzinger sottolineava che la sua è stata una rinuncia «piena e valida».La lettera inedita di Benedetto XVI tenderebbe così a confermare ancora una volta che le sue dimissioni dal Ministero petrino furono valide e che dunque il Conclave successivo, dove venne eletto Papa Francesco, fu del tutto regolare. Lo scritto è stato all’epoca indirizzato a monsignor Nicola Bus che ora nel suo ultimo libro appena pubblicato riporta integralmente quella lettera scritta dopo che lo stesso sacerdote aveva scritto al Pontefice per esprimere tutti i propri dubbi sulla liceità ed effettiva validità della rinuncia avvenuta con la “Declaratio” di Ratzinger durante il Concistoro del febbraio 2013.«Dire che nella mia rinuncia avrei lasciato “solo l’esercizio del ministero e non anche il munus” è contrario alla chiara dottrina dogmatica-canonica»: Benedetto XVI ribadisce che nelle sue dimissioni vi la piena rinuncia tanto al “ministerium”, quanto al “munus” di Pietro, ovvero che con quella rinuncia è stato lasciato sia l’esercizio pratico che il suo ufficio da Pontefice di Santa Romana Chiesa. Addirittura
Ratzinger in quella lettera chiarisce come siano assurde le speculazioni avanzate da “storici e altri teologici”, che «secondo me non sono veri storici e neppure teologi».
LA LETTERA DI BENEDETTO XVI E IL “PENSIERO” DI SAN GIOVANNI PAOLO II AD UNA POSSIBILE RINUNCIA
Nel corso degli anni dopo le storiche dimissioni di Benedetto XVI venne ripercorso più volte l’effettiva validità di quella scelta dal punto di vista canonico, con il Papa Emerito che già in più occasioni spiegò di aver lasciato per l’incapacità di tenere il vigore di cuore e animo nel gestire l’ingente Ministero affidato dal Conclave dopo la morte di San Giovanni Paolo II. In questa lettera datata 2014, dunque un anno dopo l’ingresso nel Monastero interno ai giardini vaticani, viene spiegato dal Santo Padre tedesco che è canonicamente e dogmaticamente possibile che il Papa «rinunci liberamente» e che tale «valga pienamente, lasciando l’ufficio e tutto quanto connesso ad esso».Le dimissioni di Papa Benedetto XVI l’11 febbraio 2013  frame  dal   video RaiPlay  i cui annunciava  le  sue dimmissioni )


Nel corso della lettera pubblicata dal libro di Bud integralmente si ripercorre anche il fondato “parallelismo” che intercorre tra le dimissioni di un Vescovo diocesano e quelle del Vescovo di Roma, ovvero il Pontefice: la scelta della rinuncia è legittima, tanto che – rivela Benedetto XVI – anche Papa Wojtyla prese in considerazione l’idea delle dimissioni avvicinandosi al suo 75esimo compleanno e con le sue condizioni di salute molto precarie. «Ha seriamente riflettuto se non sarebbe corretto ritirarsi dal suo ministero petrino», si legge nella lettera oggi presente su molti dei quotidiani italiani, a cominciare dal “Corriere della Sera”.
Sebbene Ratzinger riconosca – come all’epoca fece San Giovanni Paolo II – che vi è una lettera differenza pastorale tra i due tipi di vescovi, è anche doveroso che il Santo Padre ne tenga sempre conto davanti a Dio e alla Chiesa. Nel libro viene indicata oltre alla lettera anche la fotocopia dell’invio ufficiale dal Vaticano, per confermare non si tratti di un falso o di uno scritto fake: come spiega “La Nuova Bussola Quotidiana”, la scelta di Bux di pubblicare tale lettera ora, 2 anni dopo la morte di Ratzinger, è per non alimentare con il Ponte il Pontefice ancora in vita ulteriori polemiche, divenendo “strumento di inutili e feroci critiche”.


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Allla faccia  di chi dice  che nonesistono gli incroci ed  ancora  coltiva    la  purezza    .  Essi esistono  in  natura   vedere  notiza   riportata  sotto   e quindi   anche nell'uomo  

da https://www.geopop.it/ tramite msn.it 





Vi siete mai chiesti da dove arrivano le patate? Penserete che non sia una domanda da perderci il sonno, eppure la misteriosa origine di questi tuberi ha affascinato (ed è proprio il caso di dirlo, tenuto svegli) moltissimi ricercatori. La risposta arriva dallo studio del dott. Zhiyang Zhang e il suo team dell’Accademia Cinese delle Scienze Agrarie a Shenzhen, pubblicato su Cell il 31 Luglio. Non ci sono dubbi: la patata discende dal pomodoro! La ricerca ha decretato che l’antenato delle patate moderne (chiamato Petota) è un ibrido nato 9 milioni di anni fa dall’incrocio tra gli antenati dei pomodori (Tomato) e un gruppo di piante chiamate Etuberosum. Questo affair tra le due piante ha portato allo sviluppo di una caratteristica fondamentale, il tubero, una sorta di magazzino di nutrienti e acqua che ha permesso alla Petota di sopravvivere e proliferare fino a creare una propria linea di discendenti: le moderne patate.


Come mai ci si è chiesto da dove vengono le patate?

Tutto è partito da un’osservazione: la pianta di patate (Solanum tuberosum) assomiglia fisicamente a un gruppo di piante dell’America Latina, in particolare in Cile, conosciute con il nome di Etuberosum. Entrambe sono piante geofite,
cioè fanno crescere organi sotterranei necessari a far germogliare una nuova pianta, permettendogli così di riprodursi senza bisogno di semi: stoloni per le patate, rizomi per le Etuberosum. Queste ultime però non producono tuberi.
Secondo analisi filogenetiche, che ricostruiscono le parentele tra piante e confrontano i loro alberi genealogici, le patate sembrerebbero però più imparentate con i pomodori, nonostante la somiglianza fisica con l’Etuberosum. Questa incongruenza ha insospettito i ricercatori. In realtà, potevamo immaginare che fossero tutte e tre parenti dal fatto che appartengono alla stessa famiglia, le Solanaceae, ma nessuno si sarebbe aspettato che addirittura discendessero l’una dall’altra.


Come hanno capito che la patata discende dal pomodoro

Analizzando il genoma di 450 patate coltivate e 56 specie selvatiche, i ricercatori hanno scoperto che tutte condividono la stessa struttura genetica a mosaico, composta da una miscela stabile e bilanciata di geni provenienti dall’Etuberosum e dal pomodoro, suggerendo appunto che queste due piante siano i genitori della Petota. Circa il 60% del patrimonio genetico della patata arriva dall’Etuberosum, e circa il 40% deriva dal pomodoro.



Un incrocio col pomodoro ha dato vita alle patate: i capolavori dell’evoluzione

Ecco l’inghippo: perché c’è più DNA dell’Etuberosum, ma le analisi filogenetiche dicono che patate e pomodori sono parenti più stretti? Si tratta di guardare non solo alla quantità di patrimonio genetico, ma anche all’architettura del genoma, all’ordine e sequenza in cui sono messi i vari geni e quanti e quali sono funzionali: in questo, patate e pomodori sono molto più simili di patate ed Etuberosum. È una questione di qualità e di come viene usato il DNA, non solo di quantità.
Come si è formato il tubero
La domanda successiva è: come è nato il tubero, un organo del tutto nuovo che le piante genitrici non hanno? Grazie all’interazione e combinazione di geni specifici si sono formate nuove interazioni genetiche che hanno permesso la formazione dei tuberi. I geni fondamentali che hanno portato alla formazione del tubero come rigonfiamento degli stoloni arrivano da entrambe le piante genitrici.
Dai pomodori arriva il gene SP6A, una sorta di interruttore che indica alla pianta quando iniziare a produrre il tubero. Dall’Etuberosum arriva invece il gene IT1 che coordina la crescita degli stoloni da cui si formeranno i tuberi. La cosa interessante è che presi singolarmente non bastano: senza uno dei due, il tubero non si sarebbe formato, non sarebbe nata la nuova specie Petota e in definitiva non avremmo le patate che conosciamo oggi.
La “killer application” delle patate: tubero e tempismo perfetto
Come molti ibridi tra specie molto diverse e lontane tra loro, la Petota era poco fertile, con scarse probabilità di sopravvivenza. Ma il tubero, con la sua possibilità di immagazzinare nutrienti e acqua e la capacità di far germogliare nuove piante tramite riproduzione asessuata (cioè senza semi), gli ha permesso di sopravvivere e proliferare. Infatti, se dimenticate le patate nella dispensa, dopo un po’ di tempo, vedrete nascere dei germogli.



La fortuna della Petota è legata anche a un altro fondamentale evento geologico: la formazione della catena montuosa delle Ande. Questo ha portato alla comparsa di nuovi ambienti, nuove nicchie ecologiche che la patata ha potuto colonizzare con poca concorrenza. La formazione delle Ande e la specializzazione della patata a sopravvivere in un ambiente “ostile”, ha anche permesso una separazione fisica tra la Petota e le sue piante d’origine, impedendo così una nuova ibridazione all'indietro (backcrossing) con una di loro e favorendo invece la specializzazione di una nuova linea genetica, con le centinaia di patate discendenti che conosciamo oggi.
I vantaggi dell’ibridazione tra due specie diverse tra loro
La ricerca ha anche identificato un antenato comune tra i pomodori e l’Etuberosum, da cui però le due specie si sarebbero differenziate circa 14 milioni di anni fa. Dopo ben 5 milioni di anni, ormai diventate specie completamente differenti, sono però riuscite a reincrociarsi e creare l’ibrido Petota, tramite un’ibridazione interspecifica.





Questo processo di incrocio tra specie molto diverse e lontane tra loro, ribadiscono gli autori dello studio, può talvolta agire come catalizzatore evolutivo, scatenando quella che viene chiamata radiazione evolutiva, ossia la rapida espansione e diversificazione di una nuova specie, come nel caso delle patate. L’ibridazione e la formazione del tubero ha agito come una sorta di turbo che ha permesso alla Petota,l’antenato delle patate moderne, di espandersi e differenziarsi in una specie tutta sua.

Dichiarazione del giornalista Anas Zayed Fteha: "Nel disperato tentativo di distorcere la verità, il quotidiano tedesco Bild ha pubblicato false accuse contro di me, un fotoreporter palestinese di Gaza, sostenendo che sto "inventando scene di sofferenza palestinese" a fini propagandistici.

solo ora ho scoperto grazie al post sotto che l'articolo Le foto artefatte di Gaza e la nostra indignazione selettiva di Lettera43 riportasto da me nel precedentre post fosse un mezzo falso . capita in questa guerra dell'informazione di prendere delle catonate ed avere dubbi .
Ma quello ch ti da più fastidio che invece come hanno fatto alcuni invece di fartelo notare altri ti rimuovono senza neppure un messaggio di critica perchè ho preso una fake news   .
Dopo questa intro ecco il post citato

Dichiarazione del giornalista Anas Zayed Fteha:
"Nel disperato tentativo di distorcere la verità, il quotidiano tedesco Bild ha pubblicato false accuse contro di me, un fotoreporter palestinese di Gaza, sostenendo che sto "inventando scene di sofferenza palestinese" a fini propagandistici.
1. Non creo la sofferenza, la documento.
L'assedio, la fame, i bombardamenti e la distruzione che la popolazione di Gaza sta vivendo non richiedono invenzioni o drammatizzazioni, ma piuttosto una coscienza viva che osa trasmettere la verità al mondo. Le mie foto riflettono la dura realtà vissuta da oltre due milioni di persone, la maggior parte delle quali sono donne e bambini.
2. Le accuse di Bild sono un'estensione del suo noto approccio a pregiudizi e disinformazione.
Questo quotidiano è il mezzo di informazione più condannato dal Consiglio della Stampa Tedesco per le sue ripetute violazioni dell'etica professionale, tra cui falso sensazionalismo, disinformazione, istigazione e violazione della dignità umana.
3. L'immagine che hanno pubblicato per screditare la mia immagine è del tutto reale.
È stata scattata durante le riprese di un documentario sulla carestia a Gaza, mentre i bambini si affannavano per procurarsi cibo o acqua. Tutto ciò che vedevo era reale, non era stato messo in scena o diretto. Stavo svolgendo il mio lavoro giornalistico con integrità e onore, e non ho diretto alcuna scena né ho chiesto nulla a nessuno.
4. L'accusa secondo cui il mio lavoro serva alla "propaganda di Hamas" è un'incriminazione del giornalismo stesso.
Questa accusa assurda non offende solo me, ma anche ogni giornalista libero del mondo che si rifiuta di tacere su crimini e violazioni e crede nel diritto delle persone a far sentire la propria voce.
5. Il mio messaggio alle organizzazioni mediatiche internazionali:
È facile scrivere i propri reportage basandosi sulle proprie ideologie, ma è difficile oscurare la verità trasmessa dall'obiettivo di un fotografo che ha vissuto la sofferenza della gente, ha ascoltato il pianto dei bambini, ha fotografato le macerie e ha sentito il dolore delle madri.
6. Il mio messaggio al pubblico:
Non lasciatevi ingannare dai media di parte. Osservate attentamente le immagini, i dettagli, il sangue versato, i bambini che muoiono di fame. La fame non è una finzione, né la paura è una finzione.
Lavoro come fotoreporter per l'agenzia turca Anadolu. Non sono affiliato ad altre organizzazioni e non lavoro per nessuno se non per la verità.
Se volete saperne di più su di me, cercate il mio nome su Google: Anas Zayed Fteha.
La verità è là fuori, basta aprire gli occhi.


9.8.25

vai a saperlo quandi uno\a ancora vivo o morto .Donazione degli organi, Danella si sveglia dal coma poco prima dell'espianto: ha sbattuto le palpebre e pianto. «Ci è mancato pochissimo»


da  msn.it





Donazione degli organi, Danella si sveglia dal coma poco prima dell'espianto: ha sbattuto le palpebre e pianto. «Ci è mancato pochissimo»© Anthology

Ricoverata in coma e data per spacciata dai medici, una donna si è risvegliata pochi istanti prima che avesse inizio il prelievo dei suoi organi. È accaduto nel 2022 all’ospedale Presbyterian di Albuquerque, dove Danella Gallegos, 38 anni, senzatetto, era stata ricoverata in condizioni critiche. I familiari, di fronte a una diagnosi considerata senza speranza, avevano acconsentito alla donazione.
Ma mentre si preparava l’intervento chirurgico per l’espianto, qualcosa è cambiato. In sala operatoria, Gallegos ha aperto gli occhi. Ha pianto. E, alla richiesta di battere le palpebre, ha risposto. I medici, sorpresi, hanno bloccato immediatamente la procedura.
Secondo le testimonianze raccolte dallo staff ospedaliero, i coordinatori del New Mexico Donor Services avrebbero spinto per proseguire comunque, sostenendo che si trattasse di semplici riflessi. Ma l’équipe medica si è opposta e ha interrotto tutto. La donna è sopravvissuta.
Oggi Gallegos è viva e ha presentato un reclamo formale al Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani (HHS). In un’intervista al New York Times, che ha pubblicato una dettagliata inchiesta sul caso, ha dichiarato: «Mi sento fortunata, ma è assurdo pensare quanto poco ci sia mancato perché tutto finisse diversamente».
Il caso Gallegos, sebbene eccezionale, non sarebbe isolato. L’inchiesta del New York Times mette in luce le criticità del sistema americano dei trapianti, in particolare il ruolo delle Organ Procurement Organizations (OPO), le organizzazioni responsabili del reperimento degli organi.
La donazione dopo morte circolatoria
Negli ultimi anni è aumentato il ricorso alla cosiddetta donazione dopo morte circolatoria (DCD): in questi casi, i pazienti non sono cerebralmente morti, ma in coma e tenuti in vita da macchinari. Se non mostrano segni di ripresa, viene sospeso il supporto vitale. Se il cuore si ferma entro due ore, gli organi vengono considerati idonei all’espianto.
Questa procedura rappresenta oggi circa un terzo di tutte le donazioni negli Stati Uniti. Ma i margini d’errore sono sottilissimi. Lo dimostrerebbe anche il caso di Misty Hawkins, un altro episodio controverso citato nell’inchiesta.Al centro della questione c’è la tempistica: il tempo tra la morte e il prelievo deve essere minimo per garantire la qualità degli organi. Questo spinge le organizzazioni a muoversi con estrema rapidità, talvolta, secondo le accuse, a discapito della prudenza.
Le polemiche
Medici e infermieri, tutelati dall’anonimato, raccontano di pressioni e telefonate insistenti da parte dei coordinatori delle OPO, desiderosi di ottenere il consenso alla donazione il prima possibile. Talvolta prima ancora che sia formalizzata la decisione clinica di interrompere il supporto vitale. «A loro interessa solo ottenere organi», ha dichiarato un’infermiera del Presbyterian Hospital.
Il New Mexico Donor Services ha respinto ogni accusa, sostenendo che i propri operatori non interferiscono con le decisioni cliniche. Anche l’HHS, interpellato dai giornalisti, ha scelto di non commentare. Negli Stati Uniti, oltre 103.000 persone sono in attesa di un trapianto. Ogni giorno ne muoiono 13. Un solo donatore può salvare fino a otto vite e migliorare quella di altre 75. Di fronte a questi numeri, la pressione sul sistema è altissima.

Giappone: dopo Hiroshima Nagasaki commemora 80 anni ( 9 agost 1945 - 9 gosto 2025 ) da orrore atomico

Dopo  Hiroshima , il bombardamento più noto , il Giappone commemora   l'altro bombardamento quello di  Nagasaki  
 

 (ANSA) - TOKYO, 09 AGO -
A tre giorni dalla commemorazione degli 80 anni dall'orrore nucleare di Hiroshima, la città di Nagasaki rievoca la analoga sorte, a seguito della seconda bomba atomica sganciata il 9 agosto del 1945 dagli Stati Uniti; una catastrofe che costò la vita ad oltre 70mila persone, prevalentemente civili, decretando di fatto la fine della Seconda guerra mondiale con la resa incondizionata del Giappone sei giorni dopo. Un minuto di silenzio è stato osservato alle 11:02 ore locali (le 4:02 in Italia) all'interno del Parco della Pace, nella città situata a sud ovest dell'arcipelago. All'evento commemorativo hanno partecipato 94 paesi e regioni, dopo le polemiche dello scorso anno per la scelta della municipalità di non invitare Israele a causa del conflitto nella Striscia di Gaza, spingendo gli ambasciatori degli Stati Uniti e di altri membri del Gruppo dei Sette a snobbare la cerimonia. Nella Dichiarazione di Pace letta durante la cerimonia commemorativa, il sindaco Shiro Suzuki ha invitato i leader mondiali a delineare un piano d'azione specifico per l'abolizione delle arminucleari, sottolineando come l'organizzazione giapponese di sopravvissuti alla bomba atomica, 'Nihon Hidankyo', insignita del Premio Nobel per la Pace lo scorso anno, abbia messo in evidenza "la capacità di una maggiore collaborazione della società civile". Nel suo discorso il premier nipponico Shigeru Ishiba ha invece promesso di mantenere l'impegno decennale del Giappone di non possedere, produrre o consentire l'uso di armi nucleari. Il governo di Tokyo "lavorerà con costanza per guidare gli sforzi globali volti a realizzare un mondo senza guerre nucleari e un mondo senza armi atomiche", ha affermato Ishiba, senza tuttavia fare riferimento al trattato delle Nazioni Unite sul divieto delle armi nucleari entrato in vigore nel 2021, nonostante le rinnovate richieste da parte di Hiroshima e Nagasaki affinché il Giappone vi aderisca. Dello stesso avviso la dichiarazione del sottosegretario generale delle Nazioni Unite e alto rappresentante per gli affari esteri, Izumi Nakamitsu, nella sua dichiarazione letta in occasione: "Dobbiamo rinnovare il nostro impegno nei confronti degli strumenti di disarmo che hanno dato prova della loro efficacia: dialogo, diplomazia, rafforzamento della fiducia, trasparenza, controllo e riduzione degli armamenti". In base alle ultime stime governative il numero complessivo dei sopravvissuti ufficialmente riconosciuti dei due attacchi nucleari, noti come 'hibakusha', era pari a 99.
130 a marzo di quest'anno, scendendo per la prima volta sotto quota 100mila, con un'età media di poco superiore agli 86 anni. (ANSA).

La rivoluzione silenziosa delle donne senza figli né marito Il nuovo racconto dell'autonomia femminile . voi che ne pensate ?

 sfogliando la  home mozzilla  firex  fox  ho  trovato     qiuest  articolo  di  https://www.nssgclub.com/it/lifestyle/

Fino a qualche decennio fa sarebbe stato impensabile e inaccettabile. Una donna sola, senza figli, magari oltre i 35 anni, veniva guardata con sospetto. C’era qualcosa che non andava. Doveva esserci, per forza, almeno in Italia. Oggi, invece, quel sospetto sta cedendo il passo a un nuovo racconto: quello dell’autonomia, della libertà, della possibilità reale di scegliere. E i numeri lo confermano. Secondo previsioni pubblicate da Morgan Stanley nel 2020, entro il 2030 il 45% delle donne americane tra i 25 e i 44 anni sarà single e senza figli. A distanza di anni, queste stime sembrano diventare realtà. Anche in Europa e in Italia si assiste a una trasformazione radicale, silenziosa ma potente. Negli ultimi vent’anni, la percentuale di persone single in Italia è passata dal 20% al 38%. E tra le donne under 45, il 13,5% si dichiara single per scelta. Una scelta che, nella maggior parte dei casi, non è dettata da un rifiuto dell’amore o della genitorialità, ma da un sistema che ha cambiato profondamente le sue regole. Si rimanda sempre più in là l’età del matrimonio, aumentano i divorzi, le aspettative si alzano e si fa strada un desiderio legittimo (e finalmente socialmente accettato) di priorità diverse: carriera, stabilità economica, benessere mentale. Molte donne dichiarano di essere più felici da single che in una relazione. Dati che sembrano suggerire che questa "solo life" sia, in realtà, un nuovo modo di abitare la propria libertà. Ma questa libertà è davvero per tutte?

Scegliere o rinunciare: le donne e la maternità nel contemporaneo

La domanda sorge spontanea: siamo di fronte a una reale possibilità di scelta o a una nuova forma di costrizione, più sottile e meno visibile? Se da una parte cresce la consapevolezza femminile e il desiderio di autodeterminazione, dall’altra non si può ignorare il peso dei vincoli materiali: la precarietà lavorativa, i salari stagnanti, la difficoltà di trovare una casa autonoma, le disparità ancora forti tra uomini e donne sul lavoro. L’ingresso nell’età adulta è sempre più in ritardo perché richiede tempo, risorse, una stabilità che per molti è ancora un miraggio. E anche nelle coppie, la cura familiare continua a gravare prevalentemente sulle spalle delle donne. In assenza di un welfare realmente efficace, di servizi pubblici capillari e di una cultura del lavoro che valorizzi la genitorialità senza punirla, molte donne finiscono per rinunciare alla maternità non per scelta, ma per mancanza di alternative. In Italia, ad esempio, per una persona single è quasi impossibile adottare e il carico mentale ed economico della genitorialità resta ancora altissimo, soprattutto se affrontato da sole. Non a caso, anche tra le coppie che decidono di avere figli, spesso si opta per uno solo e in età sempre più avanzata.

Una questione culturale, non solo demografica

Questo scenario non racconta solo un mutamento nei numeri, ma soprattutto nei valori. Cresce l’idea che la realizzazione personale possa passare anche da strade ancora ritenute "non convenzionali". Le donne non vogliono più sentirsi incompiute solo perché non sono madri o mogli. Il modello del "per sempre" vacilla, sostituito da relazioni più fluide, convivenze non ufficializzate, identità affettive in continua trasformazione. Ma questo non significa che l’amore o il desiderio di costruire relazioni stabili sia sparito. Al contrario, la nuova sfida sembra essere quella di trovare un modo per far convivere l’indipendenza con il desiderio di connessione. Costruire una vita adulta senza dover sacrificare la libertà o, all’opposto, rassegnarsi alla solitudine. Per molte donne, il bivio si presenta così: o carriera o famiglia, o libertà o relazioni. Ma forse, la vera rivoluzione sta proprio nel sottrarsi a questa logica binaria. Immaginare un futuro in cui l’autonomia non sia sinonimo di isolamento. In cui una donna possa scegliere entrambe le strade, senza sentirsi sbagliata o fuori tempo massimo.

Oltre il mito della super-donna

Quello che ancora manca, forse, è un racconto collettivo più onesto e meno performativo. Siamo passate dall’ideale della donna-madre angelo del focolare a quello della donna realizzata, ambiziosa, multitasking. Ma in entrambi i casi, la pressione è altissima. La donna perfetta di oggi è indipendente, in forma, soddisfatta, piena di hobby, viaggi, passioni, progetti. E se decide di non avere figli, deve anche saper spiegare perché, giustificarsi, dimostrare di "valere" lo stesso. Il rischio è quello di passare da una gabbia all’altra. E di perdere, ancora una volta, la possibilità più importante: quella di scegliere con leggerezza, con autenticità, senza dover essere costantemente all’altezza di un modello, qualunque esso sia.

Il futuro che (forse) ci aspetta

Che sia una nuova tappa della rivoluzione femminile o una risposta forzata a un contesto ancora troppo diseguale, è chiaro che il profilo delle donne del futuro sarà molto diverso da quello del passato. Più autonome, più consapevoli, più esigenti. Forse anche più sole e più stanche. La sfida, per le prossime generazioni, sarà costruire un modello sostenibile di felicità e relazione. Un modo nuovo di vivere l’amore, la genitorialità, il lavoro, senza dover rinunciare per forza a una parte di sé. Dove le scelte siano davvero libere, e non l’effetto collaterale di un sistema che ancora non funziona.

Il Comune di Barzago ha introdotto le "multe morali", un’ammonizione simbolica per contrastare la sosta selvaggia e promuovere il rispetto delle regole. Solo in caso di recidiva scatteranno le sanzioni vere e proprie.

da , mi pare il giorno.it tramite google news leggo   che 

A Barzago, in provincia di Lecco, l’amministrazione comunale ha lanciato un’iniziativa originale per contrastare la sosta selvaggia: le cosiddette "multe morali". Avvisi, simili a vere contravvenzioni, vengono posizionati dalla polizia locale sui parabrezza delle auto parcheggiate in modo scorretto, ma senza richiedere un esborso immediato. L’obiettivo? Sensibilizzare gli automobilisti al rispetto delle regole stradali, promuovendo un senso di responsabilità civica.Una scelta particolare o meglio una via di mezzo , tra severità senza eccessiva e " buonismo "quella del comune di Barzago che detiene il singolare primato di essere un Comune dove non è mai stata fatta nemmeno una multa all’anno per quanto riguarda il codice stradale, ma l’amministrazione ritiene necessario introdurre almeno qualche richiamo per educare e far capire come si vive in comunità. Non si tratta di fare cassa, ma di insegnare il
rispetto delle regole, soprattutto in risposta a molte segnalazioni di inciviltà e pericoli per la circolazione urbana.Infatti la sosta selvaggia sta creando disagi seri, soprattutto per i pedoni, che spesso 
sono costretti a scendere dai marciapiedi perché occupati dalle auto. Anche mamme con passeggini e bambini si trovano in difficoltà a causa della mancanza di spazi liberi sui marciapiedi. Oltre a questo, a Barzago ci sono altre situazioni di inciviltà, come danni a strutture pubbliche, che l’amministrazione vuole contrastare con interventi mirati e una maggiore attenzione alla sicurezza e al rispetto degli spazi comuni da quel che riporta www.laprovinciaunicatv.it Il Comune ha in programma di migliorare la segnaletica e la sicurezza in alcune aree, come il campo sportivo, con l’installazione di nuove recinzioni e serrature per evitare intrusioni notturne e danni alla proprietà pubblica. Inoltre, invita i cittadini a segnalare tempestivamente situazioni anomale per facilitare interventi rapidi da parte delle forze dell’ordine locali In sintesi, le "multe morali" rappresentano un primo passo non punitivo ma educativo per combattere la sosta selvaggia e l’inciviltà a Barzago, sperando di indurre un cambiamento nel comportamento degli automobilisti prima di procedere con sanzioni reali e più severe.





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8.8.25

stilista precoce . il caso Edoardo Melis ha appena 18 anni. di Pabillonis sud sardegna



Negli ultimi tre giorni è stato impegnato nel suo paese natale con una mostra dedicata ai suoi bellissimi abiti, che taglia e cuce da solo.Al centro della sala spicca uno splendido abito da sera rosso che parrebbe disegnato da Valentino, invece è del nostro giovane talento sardo.Che spazia da abiti inspirati al Settecento sino ai tailleur delle donne d'affari 2.0. Fa piacere vedere questi giovani talenti sardi realizzare i propri sogni.Auguriamo ad Edoardo una brillante carriera.










Foto Melis di Stefano Cruccas, foto abiti Francesca Casula,

morte di Berengo Gardin un grande fotografo

Ho piantato  e i sono   commosso  per  la morte  di Berengo Gardina  . Lo scopri,quando ci regalano il libro fotografico Berengo Gardin  reportage  in sardegna  1968-2006  Imago  edizioni Raccolta ufficiale dei suoi scatti nell’isola, include immagini di paesaggi, vita rurale, tradizioni e architetture. Oltre  al suo modo di  fotografare   , la   scoperta più  grande     fu lo scoprire         che  fotografo        anche  mia  madre,allora  giovanissima    insegnante  di  prima nomina,nelle   scuole  di  elementari della  frazione  di  Rudalza   . 
 Da  tale  libro  seguito   poi  dalla  visione  dialre  sue  foto   e     dalla storia    dei  fotografi  e dele tecniche   appresa   alle  lezioni  di fotografia  per  l'ex associazione  la  sardegna  vista  da  vicino posso dire   che   nelle  sue   foto non solo quellle  sarde   c'è  <<  [...] l’artista impegnato, un uomo e una persona dall’umanità straripante e garbata in un momento storico in cui l’umanità è stata ufficialmente criminalizzata e il garbo è un motivo di sospetto  .[...]  Lorenzo Tosa - È morto Gianni Berengo Gardin. È morto un Maestro....>> 




 N,b   mi  scuso   per le pessime  foto  con il cellulare  .   per   vedere  meglio  andate  alle pagine  40-41  del  libro citato 

 Infatti Attraverso il suo sguardo ha immortalato una Sardegna sospesa tra passato e presente, mettendo in evidenza i tanti contrasti nel difficile processo di sviluppo . La sua attenzione è rivolta alla  gente comune, alla vita quotidiana, all’attività nelle campagne, ai ritmi del contesto rurale. Quadri sempre molto equilibrati e rispettosi. Andava alla ricerca di scenari nascosti e segreti a bordo di una piccola auto con la quale ha raggiunto molti paesi per incontrare le persone e dialogare con loro. Voleva conoscere nuovi mondi, lo slancio che lo ha sempre ispirato e accompagnato. Uno sguardo curioso. Anche i nuraghi hanno richiamato il suo interesse. “Segrete corrispondenze suscitano le foto di Gianni Berengo Gardin: i tre pastori della Marmilla piantati nella terra fin dalla preistoria rimandano ai bétili mammelluti di “Tamuli”, come la circolarità della Tomba dei giganti di “Coddu Ecciu” parla la stessa lingua del “ballu tundu” campestre a Lula”, ha scritto il giornalista Pasquale Chessa. Tanti viaggi e mostre in Sardegna: al Teatro Lirico e nella sede della Fondazione di Sardegna a Cagliari. Le sue fotografie sono memorie vive della sua vita e della sua straordinaria avventura professionale.  Ha raccontato la Sardegna e il mondo dimostrando che la fotografia è una grandissima e preziosa forma d’arte .  Allo  stesso  modo      ha  : <<  Coi suoi scatti, ha raccontato l’Italia in frenetica trasformazione, con le sue miserie e le sue bellezze dolenti. L’Italia “assassinata dalle crociere e dal cemento” >>   sempre  secondo  Tosa  <<  Lui che è stato il più acerrimo nemico delle maxi-navi che deturpavano la sua Venezia.Il sindaco Brugnaro a un certo punto lo aveva anche censurato per quegli scatti, perché mostravano ciò che loro volevano nascondere. Questo fanno gli artisti: mostrano, urticano, denunciano, sempre e orgogliosamente contro il potere. GBG ha raccontato l’Italia delle fabbriche, delle periferie, dei rom, dell’emarginazione, in cui lui indovinava per istinto la dignità, sapendo sempre dove trovarla.Non mancherà, Berengo Gardin, perché a 94 anni ha lasciato tutto quello che aveva da dire e da dirci. Ed è moltissimo. Un patrimonio non stimabile.Conserviamolo, in questi tempi miserabili.>>. Avendoi iniziato a dedicarsi alla fotografia agli inizi degli anni Cinquanta accumulando un archivio fotografico considerevole e documentando l’evoluzione del paesaggio e della società italiana fin dal dopoguerra. Fin dall’inizio focalizza la sua attenzione su una varietà di tematiche, spaziando dal sociale, alla vita quotidiana, al mondo del lavoro fino all’architettura e al paesaggio. Considerato un fotografo eclettico e apprezzato a livello internazionale, viene spesso accostato a Henri Cartier-Bresson per il lirismo della sua fotografia.Il suo modo caratteristico di fotografare e il suo occhio attento al mondo e alle sue diverse realtà gli permettono di spaziare dal reportage umanista all’architettura e al paesaggio, dall’indagine sociale alla foto industriale.Le fotografie di Berengo Gardin non si limitano a una semplice documentazione, ma cercano di cogliere l'essenza della Sardegna ( e  non solo  ) , la sua gente e le sue tradizioni, offrendo uno sguardo profondo e riflessivo sulla sua identità. Attraverso il suo sguardo ha immortalato una Sardegna e  un italia   sospesa tra passato e presente, mettendo in evidenza i tanti contrasti nel difficile processo di sviluppo

La sua attenzione è rivolta alla  gente comune, alla vita quotidiana, all’attività nelle campagne, ai ritmi del contesto rurale. Quadri sempre molto equilibrati e rispettosi. Andava alla ricerca di scenari nascosti e segreti a bordo di una piccola auto con la quale ha raggiunto molti paesi per incontrare le persone e dialogare con loro. Voleva conoscere nuovi mondi, lo slancio che lo ha sempre ispirato e accompagnato. Uno sguardo curioso. Anche i nuraghi hanno richiamato il suo interesse. “Segrete corrispondenze suscitano le foto di Gianni Berengo Gardin: i tre pastori della
Marmilla piantati nella terra fin dalla preistoria rimandano ai bétili mammelluti di “Tamuli”, come la circolarità della Tomba dei giganti di “Coddu Ecciu” parla la stessa lingua del “ballu tundu” campestre a Lula”, ha scritto il giornalista Pasquale Chessa. Tanti viaggi e mostre in Sardegna: al Teatro Lirico e nella sede della Fondazione di Sardegna a Cagliari. Le sue fotografie (  vedere   foto a  destra  )  sono memorie vive della sua vita e della sua straordinaria avventura professionale.  Ha raccontato la Sardegna e il mondo dimostrando che la fotografia è una grandissima e preziosa forma d’arte


Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti

   Dopo  la  morte  nei  giorno scorsi  all'età  di  80 anni   di  Maurizio Fercioni ( foto al  centro    )  considerato il primo tatuat...