11.2.14

inno sardo bistrattato dall'italia

la storia  

Inno dell'Indipendentismo Sardo venne composto all'indomani dei moti rivoluzionari del 1794 da Francesco Ignazio Mannu, nobiluomo di Ozieri e magistrato a Cagliari, con il titolo Su patriottu sardu a sos feudatarios.
Il testo originale, articolato in 47 ottave logudoresi, ben 375 versi totali, è vero canto d'amore per la propria terra e fiera rivendicazione d'identità, ma anche circostanziato decalogo sulla sacrosanta lotta per la libertà contro la secolare oppressione dei dispotici e arroganti proprietari terrieri che sfruttavano avidamente l'isola con la complicità del regime sabaudo.
La versione italiana quì sotto riportata testimonia più d'ogni altra parola quanto il brano si sia preservato attuale, ad onta dell'età, 
e universale, nonostante il peculiare contesto storico, sociale, geografico e letterario. 
Uguale istanza repressa sembra esprimere la danza dal passo cadenzato dei Mamuthones di Mamoiada, figuranti di un arcaico carnevale pagano, la schiena curva sotto il peso dei campanacci, 
il volto coperto dalla lignea maschera totemica, guidati come gregge d'armenti dagli Issohadores.
Eppure dal loro grave portamento traspare riflesso l'ancestrale orgoglio, già forse perchè la dignità di un popolo, al contrario dell'infamia dei suoi governanti indigeni o stranieri, non si misura 
con il metro della storia scritta con il sangue dei vinti, né tanto meno si logora con il passare del tempo.


Cinque domande al Re, poi la rivolta

di Anthony Muroni
Gran parte dei sardi si dichiara non in grado - non per colpa, ma a causa di un'antica opera di azzeramento culturale - di leggere o capire le 47 strofe che compongono l'innode su patriotu sardu a sos feudatarios . E, tra quelli che conoscono l'antica lingua logudorese, sono certo che sono pochi quelli che lo sanno esattamente collocare sul quadrante del tempo. A conoscere la storia della Sardegna, dobbiamo essere sinceri, è una ristretta e coraggiosa minoranza. E altrettanto sparuta è la pattuglia di appassionati che ha approfondito il periodo dei moti antifeudali di fine '700.Dell'inno di ribellione pubblicato in clandestinità dal magistrato ozierese Francesco Ignazio Mannu qualcuno in più conosce la prima strofa («Procurade 'e moderare, barones sa tirannia»), resa popolare da qualche coro a tenore e da una piccola pattuglia di musicisti etnici.È un vero peccato. La mancanza di consapevolezza, l'assenza di memoria storica, il "reset" imposto dalla Repubblica italiana a tutto quel che è sardo (dalla mancata tutela della lingua alla sostanziale e colpevole assenza della storia locale dai programmi scolastici), è indiscutibilmente alla base dell'assenza di una coscienza condivisa. Della mancanza di uno spirito identitario che riemerge in episodiche manifestazioni e con propositi che spesso hanno la stessa intensità (e durata) del fuoco scoppiato in un pagliaio.Manca lo spirito identitario.E mancano, di conseguenza, gli strumenti pe affrontare in maniera matura e consapevole problemi e crisi imposte da un sistema globalizzato, che tende ad annullare le differenze e a sradicare le storie, le caratteristiche di un popolo e di una nazione.Francesco Ignazio Mannu non era un bandito e nemmeno un rivoluzionario che tramava nell'ombra. Era, invece, un fiero ideologo della lotta antifeudale che ha caratterizzato il periodo compreso tra l'agosto 1795 e il giugno 1796. I mesi che erano seguiti alla piattaforma politica delle "cinque domande", attraverso la quale, nel 1793, un gruppo di sardi illuminati era riuscito a imporre al Regno sabaudo un'agenda di rivendicazioni, rimasta puntualmente senza risposta.Quel mancato accoglimento aveva dato origine alla rivolta passata alla storia come quella dello "scommiato", ossia la cacciata di tutti i funzionari piemontesi. Una ribellione provocata dall'insofferenza di una coraggiosa (e purtroppo numericamente esigua) classe dirigente isolana verso la politica assolutistica del governo piemontese. Una rivoluzione, per non sfuggire alla tradizione, rimasta incompiuta.La fuga dalla Sardegna di Giovanni Maria Angioj rappresentò il punto più alto (o basso, a seconda dei punti di vista) della resa dei conti tra patrioti sardi e feudatari. È in quel quadro - mi scuseranno quelli che non vogliono sentire parlare di storia sarda - che va inquadrata l'opera di denuncia che Francesco Ignazio Mannu venne costretto a pubblicare clandestinamente in Corsica, nel 1796.L'inno "a sos feudatarios" venne immediatamente battezzato come la "Marsigliese sarda", e a esso vennero attribuiti significati e valenze di carattere democratico e giacobino storicamente improbabili e sotto il profilo dell'analisi testuale del tutto improponibili.Cos'era in realtà? Un manifesto politico della fase moderata del movimento antifeudale, avviata con le aperture del governo Viceregio e dei feudatari del Capo meridionale nell'estate del 1795. L'inno si proponeva come riformatore, sebbene i toni di alcune strofe denotassero una convinta e robusta denuncia dei mali indotti dal sistema feudale nella società sarda.Aveva e ha il merito di denunciare, con un approccio decisamente polemico, il tradimento della "sarda rivoluzione" da parte di coloro che, per interesse personale e di parte, ne avevano abbandonato l'originaria ispirazione autonomistica. E avevano, così, vanificato il progetto di riforma politica e sociale, da realizzare all'interno dell'istituto monarchico, del tutto alieno da propositi di carattere democratico e giacobino.In molti, leggendo quest'articolo, diranno che non è poi così decisivo conoscere la genesi di quest'opera. Ma, se avranno avuto la pazienza di arrivare fino alla fine, da oggi sapranno una cosa in più. Rifletterci e tenerne conto non farà male a nessuno.

  il testo in sardo  è in italiano 

"Procurade 'e moderare" Un'esortazione ribelle che sapeva di denuncia



Ecco le prime otto strofe (con la metrica de s'ottava ) del componimento "Innu de su patriota sardu a sos feudatarios", publicato dall'esule Francesco Ignazio Mannu nel 1794 .
Procurade e moderare, barones, sa tirannia, chi si no, pro vida mia, torrades a pe' in terra! Declarada est già sa gherra contra de sa prepotenzia, e cominzat sa passienzia in su populu a mancare.
Mirade ch'est azzendende contra de ois su fogu; mirade chi non est giogu, chi sa cosa andat a veras; mirade chi sas aeras minettana temporale; zente cunsizzada male, iscultade sa 'oghe mia.
No apprettedas s 'isprone a su poveru ronzinu, si no in mesu caminu s'arrempellat appuradu; mizzi ch'es tantu cansadu e non 'nde podet piusu; finalmente a fundu in susu s'imbastu 'nd 'hat a bettare.
Su populu chi in profundu letargu fit sepultadu finalmente despertadu, s'abbizzat ch 'est in cadena, ch'istat suffrende sa pena de s'indolenzia antiga: feudu, legge inimiga a bona filosofia!
Che ch'esseret una inza, una tanca, unu cunzadu, sas biddas hana donadu de regalu o a bendissione; comente unu cumone de bestias berveghinas, sos homines et feminas han bendidu cun sa cria.
Pro pagas mizzas de liras, et tale olta pro niente, isclavas eternamente, tantas pobulassiones, e migliares de persones servint a unu tirannu. Poveru genere humanu, povera sarda zenia!
Deghe o doighi familias s'han partidu sa Sardigna, de una menera indigna, si 'nde sunt fattas pobiddas; divididu s'han sas biddas in sa zega antichidade, però sa presente edade lu pensat rimediare.
Naschet su Sardu soggettu a milli cumandamentos, tributos e pagamentos chi faghet a su segnore, in bestiamen et laore, in dinari e in natura, e pagat pro sa pastura, e pagat pro laorare.
Ed ecco, per completezza, la traduzione in lingua italiana, a cura di Pepe Corongiu.
Fate attenzione a moderare, baroni, la tirannia, perché altrimenti, per la mia vita, tornerete con i piedi per terra. La guerra contro la prepotenza è già dichiarata, e nel popolo la pazienza sta finendo.
Attenti che il fuoco si sta alzando contro di voi; attenti non è un gioco, la cosa è veramente così; attenti che l'aria minaccia un temporale; gente mal consigliata ascoltate la mia voce.
Non spronate con forza il povero ronzino altrimenti si ribellerà a metà strada esacerbato. Ehi, guardate che è tanto provato e non ne può più. Alla fine rovescerà il basto (la sella) da sotto in su.
Il popolo che fu sepolto in un profondo letargo, finalmente avvertito si accorge di essere alla catena e che sta scontando la pena della sua antica indolenza: il feudo, regola nemica della filosofia (del progresso).
Come se si trattasse di una vigna, di una tanca o di piccolo terreno, i paesi hanno dato tutto in regalo o in vendita; hanno venduto tutto come un gregge di pecore insieme ai figli.
Per poche migliaia di lire, e a volte per niente, tante popolazioni si sono fatte schiave eternamente. E migliaia di persone si piegano a un tiranno, povero genere umano, povera genia (comunità) sarda.
Dieci o dodici famiglie si sono divise la Sardegna, se ne sono appropriate in maniera indegna. Si sono spartite i villaggi nell'età antica oscura. Però l'età contemporanea pensa di porvi rimedio.
Il sardo nasce soggetto a mille obbligazioni, tasse e pagamenti che deve al signore, in bestiame, cereali, denaro e natura. E paga per il pascolo e paga per lavorare.

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