1.2.14

Le foibe, l’esilio, la congiura del silenzio e simone cristicchi

 approfondimenti   (    dei  miei precedenti   post  con una buona  scorta  di link  )  


Proprio mentre inizia  queste  post  mi metto a canticchiare  questa  canzone di Cristicchi  di cui   ho  preferito ,  salvare il video   con  dowloadhelper ( opzione di  mozzila  firex  fox  )  visto :   la bellezza  delle immagini  ivi  riportate   ma  soprattutto  perché  a  volte  le immagini dicono  più di mile parole 


 canzone che  sta  facendo  (   e farà discutere )   come   come potete notare  nel  video  qua sotto  



Sbaglia   certo come dicono  questi storici http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2013/11/Fahrenheit-CRISTICCHI.mp3  ma   almeno  ne parla   e  fa  si che  tali eventi non cadano  nel dimenticatoio  e    nei commenti    al post sul sito canzoni contro la guerra ( in cui trovate  ulteriori  link  e news per  chi volesse  approfondire  tale  argomento  )  perchè la memoria   fiera  ed indigesta   tratta  da una vicenda  vera  quella del magazzino18

Quest'anno a  differenza  degli altri anni  , invece  d'annoiarvi  con il  soliti post  nozionistici , ma  soprattutto non avendo  
nè tempo  , nè forza   per  evitare  di farmi venire le lacrime  come   gli altri anni  voglio  ricordare  tali eventi lasciando  la parola  ai sopravvissuti  o  quanto meno   nel caso degli esuli  ai discendenti  .   attraverso queste pagine  http://digilander.libero.it/lefoibe/testimonianze.htm e  gli articoli sotto 

riporto qui   degli   articoli interessanti   il  primo è     tratto da  www.televideorai.it ( ora http://www.rainews.it ) del  10\2\2013

di Paola Scaramozzino
 
“Quanto imbarazzo quando facendo delle pratiche mi chiedevano dove ero nata. A Pola rispondevo e automaticamente compariva sul computer dell’impiegato una striscia rossa che evidenziava un errore. Pola, ora si chiama Pula ed è in Croazia, fa parte delle città che alla fine della II Guerra mondiale e dopo il trattato del 1947 sono state cedute alla ex Jugoslavia. E’ come dire che io non sono più italiana”.
Così ci racconta Anna Maria Mori,foto a sinistra, giornalista, scrittrice, figlia di esuli Istriani che a questo argomento aveva dedicato già nel 1993 un documentario, ”Istria 1943-1993: cinquant'anni di solitudine” e poi “Istria, il diritto alla memoria” del 1997, entrambi trasmessi su Raiuno. Ci ospita nella sua casa, a due passi dal centro di Roma.
“Per anni ho cercato di rimuovere quella che è stata una tragedia familiare che ci ha allontanato da Pola e dal posto dove era nata mia madre , Lussinpiccolo, una località oggi della Croazia, situata sull’Isola chiamata dei Capitani perché c’era una scuola per capitani di lungo corso della marina mercantile. Mio padre non era istriano ma di Firenze, eppure si sentiva di appartenere a quel posto. Dopo l’esodo mia madre non ha fatto che piangere, non si è mai rassegnata”. E come lei chissà quanti altri profughi si sono portati nel cuore il grande dolore della perdita non solo di una casa, di un territorio , ma di un’identità. Ci sono dolori che ti invadono il cuore ma anche la testa, il corpo e così deve esser accaduto alla madre dell’autrice che racconta la storia della sua famiglia nel libro “Nata in Istria”, pubblicato nel 2006 dalla Rizzoli e uscito in questi giorni nell’ edizione tascabile Bur.
Quando si è saputo delle Foibe? “ E’ accaduto come per i campi di concentramento nazisti, all’inizio gli ebrei stessi non ne parlavano . Dopo il trattato e con l’occupazione dei 45 giorni di Trieste, i titini nelle strade urlavano con gli imbuti perché non c’erano i megafoni, “Italiani fascisti andatevene” perché per loro tutti appartenevano a quell'ideologia e non era proprio così. Poi la gente scompariva di notte. Uomini, donne, bambini. All'inizio forse non si poteva neanche immaginare che le persone venissero gettate nelle foibe. E’ stata una pulizia etnica simile a quella perpetuata nei confronti degli ebrei anche se di dimensioni diverse.




Un orrore evidente con i ritrovamenti dei poveri resti nelle fosse Carsiche. Quante persone sono state trucidate? Si può fare solo una stima, 10 mila forse. Chissà. Ad un cero punto si è capito che era in pericolo la vita di tutti e solo da Pola sono partiti in 30 mila verso l’Italia che ha accolto i profughi malissimo.

La sinistra li considerava tutti fascisti e temeva che, testimoni del regime comunista di Tito, potessero raccontare che quello non era il “Paese avanzato” che i comunisti italiani tanto declamavano. Gli esuli sono stati abbandonati e criminalizzati. La destra li ha in qualche modo difesi e allora anche coloro che non erano fascisti, alla fine lo sono diventati. Una situazione imbarazzante anche per il governo di De Gasperi che non si espresse per non rompere gli equilibri con la Jugoslavia che aveva tagliato i rapporti con l’ Unione Sovietica. Una situazione davvero complessa ”.
Istituire la Giornata del Ricordo si può considerare un risarcimento morale per gli esuli e per le vittime delle foibe?“Diciamo di sì, viene riconosciuto un fatto negato per 50 anni. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha espresso parole durissime sul silenzio che c’è stato e che ha riguardato anche l’eccidio di Porzus, dove partigiani rossi uccisero partigiani bianchi. Fra questi Francesco de Gregori, zio e omonimo del cantautore e Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo. Diciamo che tutte le storie dell’Adriatico Orientale sono state in parte taciute”.
Che si prova a ritornare sui posti dove si è nati e cresciuti e sapere che non sono più tuoi?
“La tua Terra è un po’ come tua madre. C’è un’ appartenenza reciproca, profonda, la si sente dentro. Non è solo per il posto fisico, ma per tutto: odori, sapori, paesaggi. E poi per come sono fatte le case, i tetti a punta, l’architettura austroungarica. E c’è il mare. A Roma ci vivo da decenni , è una città bellissima, ma non è la mia. Mi sento fuori posto. Sempre”.
La Storia, le foibe: fra il 1943 e il 1947 sono fatti precipitare vivi e morti, quasi diecimila italiani.La tragedia delle foibe si svolge in due tempi. Una prima ondata di violenza esplode subito dopo la firma dell'armistizio dell’ 8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicano contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Torturano, massacrano e poi gettano nelle foibe, le cavità carsiche profonde anche 200 metri, circa un migliaio di persone. La seconda fase che è quella più cruenta avviene nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupa Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del Maresciallo Tito si scatenano contro gli italiani. A cadere dentro le foibe ci sono fascisti, cattolici, liberal democratici, socialisti, uomini di chiesa, oltre 40 sacerdoti, donne, anziani e bambini. È un massacro che testimonia l'odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta da Tito per eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti. La persecuzione prosegue fino alla primavera del 1947 quando viene fissato il confine fra l' Italia e la Jugoslavia. Ma il dramma degli istriani e dei dalmati non finisce.
Nel febbraio del 1947 l'Italia ratifica il trattato di pace che pone fine alla Seconda guerra mondiale: l' Istria e la Dalmazia vengono cedute alla Jugoslavia. Trecentocinquantamila persone si trasformano in esuli. Scappano dal terrore, non hanno nulla, sono bocche da sfamare che non trovano in Italia una grande accoglienza né dalla sinistra, né dalla destra e dallo stesso governo di De Gasperi.
I profughi
Le foto datate 1947 più che le parole possono descrivere la disperazione di uomini, donne, bambini, interi gruppi familiari e anziani costretti a lasciare quella che era la loro patria per un’altra Italia che provata dalla guerra, non desiderava altre bocche da sfamare. Al dottor Marino Micich , figlio di esuli dalmati, direttore dell’Archivio Museo storico di Fiume, Segretario generale della Società di Studi Fiumani, presidente dell’Associazione per la Cultura Fiumana Istriana e dalmata nel Lazio, chiediamo se c’è stato un risarcimento per tanto dolore. “Quando si parla di vite umane non ci può essere alcun risarcimento. Il riconoscimento della “Giornata del Ricordo” il 10 febbraio di ogni anno, è stato un passo avanti notevole dopo che per 50 anni si è negata la tragedia delle foibe e degli esuli”.
fermo  immagine del video  (  riportato  sopra  )  di https://www.youtube.com/user/fronterusso 

In Campidoglio è stato firmato proprio alcuni giorni fa un protocollo d’intesa per la nascita della “Casa del Ricordo”, a via San Teodoro a Roma.

 Sì, un altro riconoscimento per tutte quelle persone che hanno dovuto lasciare, case, attività, affetti, ricordi. L’esodo che fu di 350 mila persone iniziò nel 1945 e si può affermare che si concluse negli anni ’50. Nel 1947, subito dopo la firma del trattato di Parigi, ci fu il numero più massiccio di profughi. Partivano con le loro poche cose imbarcandosi sulle navi verso l’Italia che li accolse malissimo. Erano considerati cittadini di serie B e la loro tragedia imbarazzava sia la destra che la sinistra che l’allora governo democristiano di De Gasperi. Si è preferito ignorarli per decenni. Addirittura ci furono manifestazioni ostili al passaggio dei treni dei profughi come quello avvenuto alla stazione di Bologna il 17 febbraio 1947: Un treno che trasporta un folto gruppo di esuli sbarcati il giorno precedente ad Ancona rimase bloccato per ore sui binari da una protesta dei ferrovieri bolognesi, che non permettono lo svolgimento di nessuna operazione di soccorso e di approvvigionamento, costringendo così il convoglio a proseguire per Parma dove furono poi soccorsi”.
Sono stati 109 i campi profughi sparsi in tutta Italia e per il 70% situati al Nord che hanno accolto gli esuli che con il tempo si sono integrati nel tessuto sociale. Ma la ferita del loro passato è rimasta a lungo aperta proprio perché per decenni gli è stato negato il riconoscimento della tragedia vissuta. A Roma esiste ancora oggi il villaggio Giuliano-Dalmata nato da una vecchia fabbrica dismessa nella zona dell’ Eur. “E’ il quartiere 31 della Capitale – ci dice Micich- e comprende la zona della Cecchignola e Fonte Meravigliosa. Non dobbiamo dimenticare che gli esuli non erano tutti triestini, dalmati o fiumani. Fra di loro anche calabresi e siciliani che erano andati in quelle zone per lavorare. C’è poi un numero imprecisato di persone che non rientrarono proprio in Italia ed emigrarono in America e in Australia”.
C’è stato mai un compenso economico per gli esuli?“Un minimo di 7,8 mila euro che è davvero niente se si pensa che con tutto ciò che hanno lasciato nei territori diventati poi Jugoslavi si sono pagati i debiti di guerra. Comunque con il Giorno del Ricordo è stato restituito a molti almeno la dignità e soprattutto non si è dimenticata la grande tragedia delle foibe”.
Un silenzio durato quasi 50 anni. Ne parliamo con lo storico Giovanni Sabbatucci. Un silenzio ingombrante e pesante come un macigno quello che è calato per quasi 50 anni sulle foibe e sui profughi giuliano dalmata . “I motivi sono diversi – spiega il professore Sabbatucci - il primo è psicologico: si usciva dalla sconfitta di una guerra e si volevano lasciare alle spalle tutte le tragedie legate ad essa. Si guardava avanti. Poi il momento era difficile e altre bocche da sfamare, erano 350 mila i profughi dell’Istria e della Dalmazia, non erano certo ben accette. Inoltre c’erano ragioni i ideologiche e di Governo”.
Si può dire che le Foibe imbarazzavano sia la destra che la sinistra?“Sì, se per questo anche la stessa classe dirigente democristiana con a capo De Gasperi, preferì tacere sia sulle Foibe che sui profughi considerati cittadini di serie B. I comunisti temevano da parte loro che gli esuli potessero raccontare che il territorio da dove erano fuggiti non era assolutamente il “paradiso comunista” che tanto si declamava . I neofascisti, dall’altra parte, non erano particolarmente propensi a raccontare cosa avvenne alla fine della II Guerra mondiale nei territori istriani dato che fra il 1943 e il 1945 erano sotto l'occupazione nazista, in pratica annessi al Reich tedesco”.
“ È una ferita ancora aperta “perché è stata ignorata per molto tempo e solo da poco è iniziata l’elaborazione”, sostiene il professore Sabbatucci. L’addio dalle proprie case e dai loro paesi, la cattiva accoglienza in Patria, i rifugi nelle caserme, in baracche, in villaggi nati in campi sportivi. Stanze divise con cartoni e coperte usate come tende. Uomini e donne separati in alloggi diversi, famiglie smembrate. I profughi hanno pagato più di altri la sconfitta della guerra. Con la legge del 2004, il Parlamento italiano decreta il 10 febbraio come “La giornata del ricordo” delle vittime delle foibe.


il secondo  da    (  dove  nel  player  a destra     trovate  anche degli extra )  http://www.ilgiornaleoff.it/audio-interview/le-foibe-una-pagina-strappata-ai-libri-di-storia/



( ... ) 


Sylos Labini: in questi ultimi anni stai raccogliendo il testimone di Giorgio Gaber, porti in tournée in tutta Italia i tuoi spettacoli di teatro-canzone. In questi giorni sei in scena con Magazzino 18, uno spettacolo sulla tragedia delle Foibe che è al centro di polemiche secondo me vergognose. Che cos’è il Magazzino 18 e che cosa ti ha spinto a raccontare questa pagina tragica della storia d’Italia?
Cristicchi: Magazzino 18 è un luogo realmente esistente che si trova nel Porto Vecchio di Trieste, un hangar dove venivano messe le merci delle navi in transito; in questo magazzino n. 18 si trovano invece le masserizie degli esuli istriani, fiumani e dalmati, che all’indomani della Seconda Guerra Mondiale furono costretti ad abbandonare le loro terre. Sono oggetti di vita quotidiana – letti, armadi, cassapanche, foto, ritratti – che ci raccontano una tragedia cancellata per tanti anni dalla storia e dalla memoria, io la chiamo “una pagina strappata dai libri di storia”. Ogni oggetto racconta la storia di una famiglia, di un vissuto, di un tessuto sociale strappato e mai più ricomposto. Con questo spettacolo ho cercato di ricomporre la loro storia dimenticata e di raccontarla a chi, come me fino a pochi anni fa, non ne era assolutamente a conoscenza.
Sylos Labini: è una pagina nascosta per 50 anni dai libri di storia, una cosa vergognosa. Come ti spieghi questo dividere ancora i morti in ‘morti di serie A’ e ‘morti di serie B? È vero che hai ricevuto delle minacce perché metti in scena uno spettacolo sulle Foibe?
Cristicchi: lo spettacolo in realtà non è soltanto sulle Foibe, che sono un piccolo capitolo di una storia più complicata. Le persone che mi hanno criticato sono di estrema destra e di estrema sinistra, nessuno si è sottratto alla lapidazione di chi cerca di fare giustizia, di dare voce a chi non l’ha avuta per tanti anni; tutte queste critiche sono arrivate da persone che non hanno nemmeno avuto il buon gusto di vedere lo spettacolo, quindi mi scivolano addosso.

Sylos Labini: non capisco perché ti attacchino sia da destra che da sinistra…
Cristicchi: da sinistra perché è uno spettacolo “da fascisti”, da destra perché probabilmente avrei dovuto essere più incisivo in alcuni particolari di questa storia, quando invece il mio spettacolo vuole tendere a una pacificazione tra le parti e forse invece alcuni esponenti dell’estrema destra non cercano il dialogo. Ancora oggi, a distanza di tanti anni, non accettano alcune cose e cercano sempre lo scontro. Non ho scritto questo spettacolo con Ian Bernas per creare ulteriori scontri e offese a questa gente.
Sylos Labini: la tua è sempre stata una musica di denuncia, ho sempre i brividi quando ascolto Ti regalerò una rosa. Tornando a un tema che hai affrontato anche in un tuo spettacolo, chi sono oggi i veri pazzi della nostra società?
Cristicchi: probabilmente i veri pazzi sono i sognatori, quelli che credono che oggi si possa rifare una nuova Italia e cambiare un po’ il mondo, con una partecipazione attiva alla vita politica e sociale. I veri pazzi sono quelli che continuano a sognare e che non si lasciano soffocare da tutto quello che sta accadendo in questo momento.
Sylos Labini: che cosa pensi della protesta dei Forconi, che proprio in queste ore stanno paralizzando molte piazze per protestare contro la linea del Governo?
Cristicchi: non ho seguito bene la questione perché in questo momento sono in tournée in Croazia, posso dire che a volte sono delle valvole di sfogo difficili da gestire, ma che ci si deve aspettare… quando le persone sono soffocate a un certo punto esplodono in qualche modo. La mia paura è che questo tipo di manifestazioni possano portare a delle violenze, e quando c’è la violenza si passa sempre dalla parte del torto.
Sylos Labini: tu sei sempre rimasto OFF, anche dopo il successo hai sempre imposto una tua linea artistica e autorale precisa fregandotene del mercato ufficiale, sei perfettamente in linea con il nostro magazine. Che consiglio ti senti di dare ai giovani artisti che cominciano questa carriera e che ci leggono su ilgiornaleOFF ?
Cristicchi: il consiglio che posso dare è quello di coltivare una curiosità per il mondo senza avere delle ideologie preconcette, di affidarsi all’istinto perché molto spesso ci guida verso mete a cui non avremmo mai pensato, come è successo a me: sono passato dal fumetto alla canzone, poi dalla canzone al teatro e alla scrittura, il 4 febbraio uscirà anche il libro di Magazzino 18, con tutti i racconti che ho raccolto in questi anni. Bisogna mantenere le antenne puntate e presentarsi al grande pubblico con una maturità quasi già acquisita, non arrivare da debuttanti e sentirsi però debuttanti sempre, per tutto il proprio percorso.


l'ultimo , sempre  un altra intervista  a  Simone  Cristicchi     di http://www.lavocedinewyork.com/



C'è voluto un cantante per ridare la parola all'indicibile della nostra storia

di Elisabetta De Dominis


[3 Nov 2013 | 0 Comments | 5534 views]

Simone Cristicchi porta in scena Magazzino 18, la tragedia dell'esodo di 350 mila italiani dall'Istria e la Dalmazia. Lo abbiamo intervistato: "Mi piacerebbe arrivare in America"
La nostra origine indicibile ha trovato parola. Indicibile per noi che ne siamo stati privati, indicibile per chi ci ha scacciato e per chi ci ha accolto. Indicibile infine perché questi soggetti agenti hanno fatto di noi oggetti, merce di scambio, guadagno.Dopo 70 lunghi anni, e quante generazioni, finalmente qualcuno ha visto, ha capito, ha parlato. Un cantante, Simone Cristicchi si è fatto cantore, ha errato nel nostro èthos e ha portato in scena la tragedia dell’esodo di 350 mila italiani dell’Istria e della Dalmazia. Il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia Politeama Rossetti ha inaugurato la stagione con la produzione del Magazzino 18.Diretto da Antonio Calenda, questo ‘musical-civile’, di cui sono autori Simone Cristicchi e lo storico Jan Bernas, racconta quello che è avvenuto al confine orientale alla fine della Seconda guerra mondiale. Lo scopre uno sprovveduto archivista romano, inviato dal ministero a redigere un inventario del magazzino 18 del Porto Vecchio di Trieste, dove gli esuli, destinati ad essere accolti in angusti campi profughi in Italia o in procinto di partire per l’America, lasciavano in deposito i loro mobili e oggetti, sperando di rientrarne in possesso nel futuro. Poco a poco, rinchiuso lì dentro, percepirà lo ‘spirito delle masserizie’ che gli narrerà fatti pubblici e sofferenze private.
Ma com’è venuta a Cristicchi questa idea?
“Stavo girando per l’Italia - ci spiega Simone Cristicchi - per una ricerca sulla memoria degli anziani, che poi è diventato un libro: Mio nonno è morto in guerra (Mondadori), quando a Trieste ho incontrato Piero Del Bello, direttore dell’IRCI (Istituto regionale per la cultura istriana), e grazie a lui sono potuto entrare nel magazzino 18 inaccessibile al pubblico. Ho percepito immediatamente la grandezza di questa storia e mi ha stupito che non fosse conosciuta in Italia, che questo magazzino non fosse un museo.  Quando sono uscito, ho sentito che tutti quei mobili mi avevano parlato. Ecco, mi è stata regalata questa sedia, guardi sotto la seduta c’è il nome del proprietario: Ferdinando Biasiol e io ho promesso di raccontare. Da quel momento ho iniziato la ricerca sull’esodo insieme a Jan Bernas, che ha scritto Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani  (Ugo Mursia editore). Ho letto una trentina di testi, sono andato a parlare con tanti esuli e in Istria con i rimasti. Ho lavorato un anno e mezzo sul testo e la stesura delle canzoni. Quella che si chiama proprio Magazzino 18 è visionabile su You Tube”.
Quante pressioni politiche ha avuto?
Simone Cristicchi in una scena di "Magazzino 18"

“Ho avuto
suggerimenti da schieramenti diversi, non pressioni politiche. Fino all’ultimo giorno mi sono sentito libero di tagliare, ritoccare. Ho fatto leggere ad alcuni il testo in anteprima, non per accontentare tutti, ma per ricevere consigli. Mi pare di essere riuscito nell’intento: è un testo equilibrato che dà voce all’emotività della memoria. Avevo già fatto quattro spettacoli teatrali, ma non mi era mai capitato di interpretare personaggi in maniera così viscerale, forse perché il teatro italiano è un teatro di parola. Per me è stato un onore poter lavorare con una persona di sensibilità come il regista Antonio Calenda che ha ideato questo nuova forma di teatro: il musical mescolato al teatro civile. Vorrei utilizzare questo format per altre storie”.
E’ vero che questo spettacolo è stato rifiutato dai più grandi teatri di prosa italiani: da Milano a Torino, da Firenze a Napoli…?
“Sì, temevano che fosse un testo fascista, poi quando hanno saputo che la rappresentazione è imparziale e di grande impatto emotivo, hanno capito che vuole superare i conflitti. Mi piacerebbe portarla in giro per l’Italia anche l’anno prossimo. Magari arrivare in America… Intanto a dicembre sarò in Istria (Croazia). Vorrei ascoltare e dare più spazio anche ad altre storie, quelle dei rimasti.  Un giorno a Montona d’Istria ho visto alla finestra una signora anziana e ancora bellissima. Ha sentito che parlavo l’italiano e mi ha chiesto: “Siete dei nostri?” Mi sono avvicinato e le ho fatto delle domande: si è chiusa nel silenzio e le sono venute le lacrime agli occhi”.
I vecchi di là hanno ancora paura. Come se ci fosse ancora il comunismo che si serviva dei delatori per prelevare e infoibare anche i civili, anche i vecchi, le donne, i bambini. Ora ci sono moltissimi italiani in Croazia, allora sembrava non ne fosse rimasto neppure uno. Certo qualcuno si è mimetizzato: è rimasto nella sua terra rinnegando la sua origine. Soprattutto gli anziani non ce la facevano a lasciare la loro vita: sono morti pochi anni dopo di inedia, di stenti, di dispiacere. Eppure dal 1991, con l’indipendenza, in Croazia l’Italia s’è desta. Nei cuori o nelle tasche dei rimasti? Per 9 milioni di euro l’anno si può dire di essere pure italiani…Si può andare indietro negli anni e cercare di capire come tutto questo odio etnico sia iniziato. L’Austria è stata la grande responsabile della nascita dell’odio razziale per paura dell’autodeterminazione dei popoli dell’impero. Ha fatto la riforma agraria, ha dato le terre a slavi importati sulle coste dall’interno, poi – curiosamente - si è dissolta per mano slava. L’Italia è stata trascinata nella Prima guerra mondiale con la promessa di annettersi le italianissime Istria e Dalmazia. Ha vinto ma non ha saputo negoziare quanto le spettava. Il nuovo regno di Serbi, Croati e Sloveni si è preso quasi tutto, a parte un po’ d’Istria e Zara, ha chiuso le scuole italiane, ha fatto la riforma agraria e ha depauperato i proprietari terrieri. I fascisti in Italia hanno iniziato a italianizzare i nomi della minoranza slava e a privarla delle terre che coltivava. Ma questo non può giustificare le foibe del secondo dopoguerra. Nel frattempo i croati e sloveni hanno scoperto di pagare tasse doppie rispetto ai serbi. Vi risparmio la storia complicatissima del regno di Jugoslavia, dove tutti erano contro tutti armati… Arriviamo verso la fine della Seconda guerra mondiale. E’ l’estate del ’41: gli ustascia, fascisti croati, hanno un grande campo di concentramento a Jasenovac , a sud est di Zagabria, un altro sull’isola di Pago dove fanno esecuzioni di massa per tutta l’estate. Ma oggi sloveni e croati ricordano solo quello di Arbe (Rab), allestito nel ’42 dagli italiani in riva al mare, che era un campo di raccolta di famiglie di partigiani sloveni e di ebrei. Purtroppo avvenne un’esondazione e parecchi detenuti morirono: erano denutriti, malati e non sapevano nuotare. Cristicchi ha portato in scena una bambina che legge una lettera e dice che gli italiani non le davano da mangiare. Nessuno gli ha detto che morivano di fame anche i civili: non c’era da mangiare sull’isola nel ’42. E come si può scordare il campo di concentramento comunista di Goli Otok dove, dopo la guerra, finivano tutti prigionieri politici ai lavori forzati?Ognuno può raccontare la sua storia come vuole, come gli piace apparire, ma la verità è una sola: l’odio etnico è stato solo un comodo movente, quello che ha mosso ad uccidere e depredare  - a guerra finita -  però è stato l’odio di classe. E’ stata la grande occasione di diventare ricchi e sistemarsi senza fatica. Migliaia di persone sono state trucidate e infoibate per impadronirsi delle loro proprietà. Anche l’ultima guerra, che ha portato alla dissoluzione della Jugoslavia, è stata solo una guerra economica, perché Belgrado gestiva la ricchezza di tutta la federazione.Le colpe sono da ambo le parti, vuole dire questo spettacolo, certo, ma la reazione comunista slava non è stata proporzionata all’offesa fascista italiana. Calenda ha detto che bisogna superare. Sono d’accordo. Ma finora questo è stato chiesto solo agli esuli dell’Istria e ai profughi dalla Dalmazia, quest’ultimi non hanno neppure un magazzino 18 perché sono scappati con i soli vestiti che avevano addosso… Però il sindaco di Arbe qualche anno fa mi disse che ha un magazzino colmo di bei mobili antichi e che vorrebbe fare un museo. Lì andarono per le spicce: impiccarono indifferentemente i possidenti italiani e croati ai pali della luce lungo il porto e saccheggiarono le loro case.Eppure la vergogna di chi ha agito è diventata la vergogna di chi ha subito, a cui è stata ascritta la colpa di aver lasciato la propria terra, non perché in quella terra si moriva, ma perché erano fascisti. Non per salvare la propria cultura, la propria etica, i propri valori, ma perché indegni di vivere in una terra liberata da veri comunisti, che avrebbero fatto una società socialmente giusta. Si è visto. Ancora oggi in Croazia l’ufficio delle confische discrimina se sei di origine italiana o croata, salvo poi non restituirti niente neppure se sei croato perché lì – stranamente - il possesso equivale alla proprietà. Li abbiamo accolti in Europa prima di assicurarci che rispettassero le norme comuni, che ci fosse certezza del diritto.Cristicchi in questo spettacolo è stato esule, ha sentito dentro di sé la sofferenza e l’ha fatta emergere in un racconto accorato ed empatico. Ha legato il suo pubblico con il pathos e il logos, emozione e parola, e - come dicevo all’inizio - ha attraversato il nostro èthos. Che ha un significato più profondo della parola ‘etica’ come regola di comportamento, la quale ne è solo una conseguenza. Nell’antica Grecia significava dimora, patria, terra dell’uomo, il posto da vivere dove tornare dopo aver conosciuto se stesso. Un’esperienza spirituale indicibile che conduceva alla consapevolezza. Un arrivo che era un ritorno nella terra dei padri, le cui norme di vita erano la tua etica e la tua casa, dovunque fossi.Gli esuli e i profughi fisicamente non sono tornati, ma il loro èthos l’hanno portato con sé e non tornerà se non saranno riaccolti.Casa, patria è dove sei accolto. Altri costumi e abitudini di vita albergano di là. La consapevolezza dell’esodo è ancora indicibile, non perché non sia stata narrata da Cristicchi, ma perché a noi non è dato tornare: rappresentiamo la colpa vivente di una grande ingiustizia che essi vogliono dimenticare di aver commesso. Basterebbe aprire le braccia, ma temono la forza del nostro èthos.




31.1.14

L'UOMO PIÙ VELOCE DI ROMA IL CAMPIONE PARTIGIANO la storia di Manlio Gelsomini ( 1907-1944 )


 musica  consigliata  sonata per pianoforte Die Sonate vom guten Menschen   di Bethoveen 





L'UOMO PIÙ VELOCE DI ROMA





Un libro di Valerio Piccioni racconta la tragica storia di un medico, campione sportivo e simbolo littorio che decise di aderire alla Resistenza Finì torturato in via Tasso e fu ucciso alle Ardeatine.
Tutto vestito di bianco correva, volava. Undici secondi netti sui cento metri. Era il più veloce di Roma. Lo vedevano allenarsi ogni giorno sulla pista della Farnesina, scatti, allunghi, ripetute e poi ancora scatti. La
tessera del partito fascista l'aveva presa nel '21, a quattordici anni. Poi quel ragazzo diventò un uomo, poi ancora un altro uomo, alla fine un uomo morto. Tradito da una spia, un collaborazionista delle Ss. Chi gli stava accanto non lo chiamava più con il suo nome, solo con quello di battaglia: Fiamma, comandante Ruggero Fiamma.Sono quattro le lapidi che lo ricordano nella sua città. E a lui è dedicata anche una grande strada che da piazza Albania arriva in via Marmorata, al Testaccio. In pochi però conoscono la sua vita, anzi le sue tante vite.Chi era quel giovanissimo atleta che abitava a un passo dalla casa del Duce, che nel '27 ebbe l'onore di parlare davanti a Sua Eccellenza Augusto Turati - il segretario del Pnf che sostituì Farinacci dopo il delitto Matteotti - e che poi fu giustiziato il 24 marzo del 1944 alle Fosse Ardeatine? 






Chi era Manlio Gelsomini, il più veloce di Roma? Indagando fra le pieghe della sua esistenza e raccogliendone ogni piccolo e grande segno, c'è chi ha scoperto quasi tutto su un italiano che ha cambiato se stesso nel cuore della guerra. Ricordo dopo ricordo, con lo sport che in ogni pagina si confonde con la storia, è nato questo libro -Manlio Gelsomini. Campione partigiano (Edizioni Gruppo Abele, pagg. 174, euro 14,00) - firmato da Valerio Piccioni, tanti Giri d'Italia e tanti Tour de France seguiti per La Gazzetta dello Sporte un'ultima passione che l'ha portato a ricostruire «il percorso personale e politico di un giovane che, come altri della sua generazione, le circostanze e gli ideali trasformarono suo malgrado in un eroe».Dai trionfi con la maglia della Nazionale a Basilea del 1930 a una laurea in medicina, dal palcoscenico degli stadi all'arruolamento come capitano nel 79° Battaglione Camicie nere. Sembrava tutta dritta la strada di Manlio Gelsomini. Fino a quando, un giorno, qualcuno lo sospese «precauzionalmente dal grado». Non ci fu nulla di inatteso. Prima Gelsomini aveva prestato la sua opera di medico al Policlinico Umberto I, poi in un ambulatorio in piazza dell'Immacolata, a San Lorenzo. Come assistente tirocinante aveva Giorgio Piperno, un ebreo in quell'Italia dove Mussolini aveva appena fatto pubblicare «Il Manifesto della Razza».
Era già dentro un'altra vita Manlio Gelsomini.E un'altra ancora stavaper cominciare.Il suo nome, che da qualche anno non compariva più sulle cronache dei quotidiani sportivi, ora non c'era neanche nell'elenco dei medici chirurghi della Guida Monaci. Cancellato. È il 1942, il «dottor Manlio Gelsomini » non è più un fascista. «Non sono nato per una vita facile, io. Amo l'imprevisto e nell'assurdo trovo spesso la ragione filosofica del mio pensiero... Vado verso l'ignoto con la sete di voler sapere. Rischio il tutto per tutto», scrive nel suo diario custodito al Museo storico della Liberazione di Roma.Dopo l'8 settembre, il giorno dell'armistizio, è già nata la «banda Gelsomini». La prima volta si riunisce a Castel Sant'Elia, in provincia di Viterbo. Fra ipartigiani c'è anche don Domenico Antonazzi, uno dei preti della Resistenza, c'è un romagnolo - Pasini - di Cervia, c'è Maria Teresa Anselmi, la figlia di un vecchio socialista.Sabotaggi, attacchi contro colonne militari naziste, la raccolta d'informazioni da passare agli Alleati, il comandante Fiamma che spadroneggia sul monte Soratte e il professor Mario Buratti che ha il suo quartiere generale alle pendici del Cimino. Sono giorni, mesi travolgenti. E Gelsomini che corre dalle montagne a Roma e da Roma alle montagne, corre più veloce di tutti come quando scendeva in pista.Poi una cena fra l'11 e il 12 dicembre del 1943, tanti partigiani insieme, c'è Gelsomini, c'è Buratti, c'è anche Mario Pistolini, romano ma residente a Rio DeJaneiro, sedicente produttore cinematografico a Londra, ricercato a Parigi per una truffa ai danni di una ricca dama milanese, in contatto con i partigiani ma al soldo delle Ss. Di lui si fidano e lui fa cadere in trappola prima il professore poi il medico amico degli ebrei. Valerio Piccioni scava nel passato di Pistolini e svela la sua attività di doppiogiochista collegandolo ad altri personaggi - uno per esempio è Mauro De Mauro, il giornalista de L'Orafatto scomparire dalla mafia nelsettembre del 1970 a Palermo, fascista convinto nella Decima Mas del principe Junio Valerio Borghese e assolto «per insufficienza di prove» dall'accusa di collaborazionismo con i nazisti - fino a raccontare la cattura di Manlio Gelsomini il 13 gennaio 1944. È sempre quel delatore, Pistolini, che lo vende ai tedeschi.Viene rinchiuso nel carcere di via Tasso. È stremato, continua a scrivere sul suo diario: «Anche il mio fisico soffre molto. Il cibo è insufficiente e sono denutrito estanco. Ho fame, sempre fame. Non ho quasi più la facoltà di pensare». Riempie pagine dove gli stati d'animo mutano rapidamente, come i pensieri. Lì dentro affiora la sua tempra e affiorano le sue fragilità, le sue incertezze ideologiche, anche la sua paura.Da via Tasso Manlio Gelsomini uscirà soltanto settantasei giorni dopo, qualche ora prima c'era stata l'azione partigiana di via Rasella contro il Polizei-Regiment Bozen. Il 24 marzo, la furia di Berlino e la rappresaglia delle Fosse Ardeatine, 
335 civili e militari italiani massacrati. Fra loro anche il più veloce di Roma. Solo alla fine della guerra una sua foto comparirà ancora una volta su un giornale per rendergli onore. Lui sui blocchi, in posizione di partenza allo stadio dei Marmi.

Articolo di Attilio Bolzoni su Repubblica | 31 gennaio 2014


30.1.14

sensi di colpa , rimorsi , rimpianti , , utili o inutili ? eliminarli o conviverci ? II puntata

 canzoni   in sottofondo  
Zucchero - Alleluja.
 "              -Senza Rimorso

http://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2014/01/sensi-di-colpa-rimorso-rimpianto-utili.html

Dopo  aver riordinato le  idee    riecco  che  riprendo  quel discorso intrerrotto  (  trovate  nell'url  sopra    la prima parte  )  sui sensi  di colpa  , rimorsi  , rimpianti
 Prima  d'iniziare  la  discussione  bisogna chiedersi Non è per  fare il sapiente o  il so  tutto io , ma  è  il fatto    che molti  o  fanno  finta  di sapere    cdi cosa  si parla  o non (  ma  sono pochissimi )    il significato dei termini in questione ma  cosa  significano  i termini rimorso   e  rimpianto  .

rimorso [ri-mòr-so] s.m.
• Sentimento di dolore e di tormento che nasce dalla consapevolezza dei mali commessi SIN pentimento: essere assillato dai r.; non ho alcun r. per quello che ho fatto
rimpianto [rim-piàn-to] s.m.
• Ricordo nostalgico e doloroso di qlco. o di qlcu.: me ne vado senza alcun r.
Source:
da     http://dizionari.corriere.it/

 A mio avviso, poi ciascuno di voi  valuterà    quello che meglio crede , in base  alla  mia esperienza  fin qui  svolta  , posso dire  che  sono  entrambi  effetti , nel bene   o nel male   di tutto  quello che facciamo   , di ogni nostra  azione    e  fanno si  che  andiamo avanti  . Posso dire che se dovesse  scegliere ,  ma  esercito il diritto di non scegliere 



 forse e meglio avere rimorsi che rimpianti. Entrambe le cose sono spiacevoli certo, ma chi ha rimorsi li prova per aver fatto qualcosa sbagliando, quindi ha comunque agito. Chi ha rimpianti ha sognato soltanto di fare qualcosa ma non l'ha mai realizzata alla fine. Il rimorso è in parole povere suscitato dai sensi di colpa, il rimpianto dalla frustrazione. Infatti  c'è  molta differenza tra rimorsi e rimpianti..I rimorsi è qnd si hanno i senzi di colpa x qualcosa che è stato fatto male o qualche offesa fatta ecc ecc i rimpianti e quando stai male per non aver fatto una determinata cosa o perche hai la consapevolezza di poterla fare meglio . Se  volete  altre  definizioni eccovene alcune  trovate  su  http://it.answers.yahoo.com/
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  • Fla84 con risposta 5 anni fa
    rimorso è qualcosa che hai fatto e poi ti sei pentito alla grande, rimpianto è qualcosa che NON hai fatto e poi ti sei pentito di non averlo fatto!

    cmq è meglio vivere di rimorsi che di rimpianti, fidati.
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  • Allora hanno stesso significato cioè ti fanno stare male comunque...ma cmq è meglio vivere di rimorsi che di rimpianti.
    Il rimpianto è quando una cosa vorresti farla ma non la fai per paura di quello che potrebbe succedere.
    Il rimorso pensa come se dovessi mordere te stesso nel senso hai fatto una cosa che purtroppo è andata male...ma cmq che hai fatto...hai scoperto il fatto tragico almeno!!
    spero di averti aiutata!
    Baci
    Aby!!
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  • CammeloSpareddaGOD con risposta 5 anni fa
    Il RIMORSO e un sentimento di dolore che si prova per le colpe commesse.. Il RIMPIANTO e il ricordare con desiderio e rammarico cose o persone che non si hanno più,, Il RIMORSO e un sostantivo maschile mentre il RIMPIANTO e un verbo (rimpiangere).. RIMORSI e di 7 lettere.. RIMPIANTI di 9 lettere..
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  • pupettina con risposta 5 anni fa
    Pratikamente...evere un rimorso significa pentirsi di NON AVER fatto qualkosa...mentre avere un rimpianto significa pentirsi di AVER fatto qualkosa...fine ;)
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  • stellina con risposta 5 anni fa
    Il rimorso è un'emozione sperimentata da chi ritiene di aver tenuto azioni o comportamenti contrari al proprio codice morale. Il rimorso produce il senso di colpa.

    Il Rimpianto, invece, è il sentimento che nasce da qualcosa che in passato avresti voluto fare – senza però mai farlo. Il non aver colto occasioni, opportunità.

    A parer mio sia il rimorso che il rimpianto sono comunque legati al ricordo. E non c’è peggio che ricordare qualcosa che nn è successo.. rimpiangere di non aver fatto, di non essersi fidati del cuore, di aver affidato tutto alla mente razionale.
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Io  posso solo  dire   che   cerco   di scacciarli  entrambi  perchè dopo  che  ha  capito   come gli  hai  originati   non ti servono più  ed  finiscono per  appesantire  e  ti obbligano a


 ricercarla di  nuovo 

  



28.1.14

la guerra vista dagli indiani . gli indiani raccontano la famosa battaglia di little bing

da  la   domenica   di repubblica del 26.1.2014

N,b 
Raccolti in A Lakota War Book
from The Little Bighorn 
(Peabody Museum Press) 
i disegni qui pubblicati
sono stati ritrovati nella tomba 
di un capo indiano sepolto
a Little Bighorn . 
E qui  gli ho   riportati tramite  il cattura immagine  \ Png      se  ai puristi non dovesse piacere come gli ho riportasti    può andare  all'articolo  originale dell'inserto 



Battaglie, libere cavalcate e battute di caccia. Riemergono dopo quasi un secolo di oblio  
le imprese dei nativi americani negli anni di Little Bighorn 
Stavolta non raccontate dalla propaganda dei film americani 
ma disegnate su taccuini rubati ai “visi pallidi” da guerrieri Sioux e Cheyenne

SIEGMUND GINZBERG

Il giornalista ci ricamò  una storia. Mischiò notizie  vere ad altre di sua invenzione. Scrisse che  l’album era stato rinvenuto  in una sepoltura indiana
a Little Bighorn, il sito della battaglia  in cui i Sioux avevano annientato Custer  e il suo Settimo Cavalleggeri. Ed era  vero. Che i disegni erano stati eseguiti sulle pagine di un libro mastro sottratto a un viaggiatore bianco ucciso su uno dei più famosi sentieri per il West, il Bozeman trail. Ed era vero. Che la serie di settantasette disegni rappresentava le
gesta, era l’autobiografia, di un capo di nome Mezza Luna. Era solo verosimile.
Ledger books vengono chiamati gli  album disegnati dagli “indiani” di metà Ottocento sulle pagine già  usate di quaderni e registri contabili (ledger appunto), o addirittura sui
fogli dei ruolini dell’esercito  Usa, spesso sovrapponendoli a quanto vi potesse  già essere scritto. Il “supporto” artistico era preda di guerra,  e ciò ne aumentava enormemente  il valore agli occhi dei possessori. 
Esattamente come per gli indiani delle  praterie i cavalli sottratti ai bianchi, o meglio ancora acquisiti in combattimento, valevano molto più di quelli domati da un branco selvaggio. Era una  questione di status, anzi di logo, di marca, verrebbe da dire. Al punto che, in  mancanza di prede con marchi autentici,i giovani guerrieri solevano dipingere il marchio “US Army” sui propri cavalli.
È il western per una volta raccontato dagli invasi (i nativi) e non dagli invasori (i coloni europei difesi dall’esercito),la guerra raccontata dagli sconfitti e non dai vincitori. Dipingere o farsi dipingere le proprie imprese di guerra e i propri fatti di coraggio, su quaderni e registri sottratti ai bianchi, non era  solo un must, lo status symbol per eccellenza. Era anche possesso  di un oggetto magico,propiziatorio.


Anche se a un certo punto  divenne scomodo, perché gli album  cominciarono a essere usati nei processi come prova di partecipazione a banda armata.
Tra i molti album del genere che si sono conservati,questo le cui immagini qui pubblichiamo è ancora più speciale.
Perché non è opera di un unico autore. È uno scambio di cortesie cerimoniali a più mani. Gli 
artisti, Sioux e Cheyenne, che raccontano le proprie imprese o quelle dei propri amici, in questa raccolta sono almeno sei. E uno di loro potrebbe essere niente meno che il leggendario capo guerriero Nuvola Rossa. Così almeno sostiene l’antropologo Castle McLaughlin  nel suo dotto commento alla riproduzione a stampa dell’album, col titolo A Lakota War Book from The Little Bighorn pubblicato dalla Peabody Museum Press e dalla Houghton Library dell’Università di Harvard che ne detiene l’originale. Il sottotitolo: The Pictographic“Autobiography of Half Moon”,si riferisce al titolo che alla raccolta era stato dato da un reporter del Chicago Tribune, inviato (oggi si direbbe embedded)
al seguito delle truppe dell’esercito impegnate contro le tribù di indiani, che l’aveva fatta rilegare elegantemente,aggiungendovi una sua introduzione in bella calligrafia. Phocion
Howard - questo lo pseudonimo con cui il giornalista firmava dal fronte - sosteneva di aver avuto i disegni da un sergente del Secondo Cavalleria, uno dei reparti arrivati sul campo della battaglia di Little Bighorn in soccorso di Custer quando ormai il generale e il suo reparto erano stati annientati, il 28 giugno 1876. Il quaderno da contabile a righine
con le pagine dipinte faceva parte del corredo funerario di un capo indiano,rimasto ucciso probabilmente in un altro scontro, di appena qualche giorno prima.
Era frequente che i soldati blu recuperassero come souvenir dai cadaveri e dai monumenti funerari degli indiani uccisi album di disegni tipo questo.
Talvolta venivano venduti ai turisti, altre volte considerati carta straccia con scarabocchi. Questo si salvò, anzi fu curato con un eccesso di attenzioni.
Howard lo fece smembrare e ricomporre in modo che sembrasse un’unica narrazione autobiografica.
E si inventò un personaggio  
inesistente. Per sbaglio, perché aveva equivocato come nome proprio un simbolo di mezza luna su uno dei dipinti. 
Oppure perché riteneva che potesse interessare maggiormente se rispondeva ai gusti di una narrazione all’europea.
Oppure forse perché sperava
che potesse riscuotere un successo di pubblico simile a quello di un’altra “biografia per immagini” che fece furore sulla stampa americana proprio nei giorni successivi allo shock per la fine di Custer e dei suoi soldati: quella di Toro Seduto. Era stato il New York Herald a
pubblicare il 9 luglio 1876, giusto pochi giorni dopo Little Bighorn, alcuni dei disegni di «fatti di sangue, crudeltà, ruberie, disumanità,barbarie» tratti dall'autobiografia disegnata di suo pugno del gran capo Sioux. Era un modo per incitare all’odio nei confronti dei “pellerossa” e a farla finita una volta per tutte con quei “selvaggi”, responsabili di tali atrocità. E in effetti l’essersi poi arreso,anzi integrato fino al punto di esibirsi nel circo
di Buffalo Bill, non aveva evitato al vecchio e moderato Toro Seduto di fare la fine di Osama bin Laden. Esattamente come finì ammazzato,quando si era già consegnato,l’irriducibile “testa calda” Cavalo Pazzo.Non a caso era stato lo stesso giornale a condurre una campagna contro la “politica di pace” di Washington nei confronti dei “ribelli”, denunciando —con l’aiuto di Custer, che quasi ci rimise la carriera per l’indiscrezione — lo scandalo di un traffico di licenze sulle riserve indiane in cui era implicato lo stesso fratello del presidente Grant.
L’album, il ledger book di Howard,aveva invece il difetto di evocare al pubblicopiù l’eroismo romantico dell’Ultimo mohicano di Fenimore Cooper che l’orrore per la barbarie del selvaggio.

Illustra le imprese compiute negli  anni delle “guerre di Nuvola Rossa”, nel  corso del decennio precedente i fatti di  Little Bighorn. Fatti militari, certo, ma  anche imprese di caccia, dove l’elemento  principale non è affatto la crudeltà  o la truculenza ma il coraggio. Scorre sangue, vengono uccisi soldati e ufficiali in divisa, anche civili e donne, e soprattutto altri indiani: le odiate guide  Shoshone che accompagnavano la cavalleria  Usa, o membri di tribù avversarie  dei Sioux. Ma l’accento è immancabilmente  sul coraggio, sul cavalcare in  mezzo a nugoli di frecce e proiettili, sul
rubare sotto il fuoco i cavalli e i muli dell’esercito, sull'aiutare i compagni che hanno perso la cavalcatura, sulla pratica del “contare i colpi” sul nemico, semplicemente toccandolo, mentre è ancora vivo o impugna un’arma, con la punta della lancia o dell’arco. Per questi cavalieri della prateria la guerra è un gioco, un rito, una questione di faccia e di onore, un po’ come i romanzi europei ci avevano fatto immaginare dovesse  esserlo per i cavalieri erranti del medioevo.  C’è anche una storia d’amore,
di rapimento della donzella da parte  dell’innamorato, ma solo in un disegno  su settantasette. Ma non è neppure solo un romanzo,  una graphic novel. Il curatore insiste
con dovizia di argomenti, attenzione meticolosa ai particolari (dalle armi al  vestiario, alle finiture dei cavalli e ai colori di guerra) a trattarlo come un eccezionale documento storico, legato a  fatti e protagonisti storici. Eppure nel  suo secolo ebbe notorietà brevissima. Passò di mano in mano prima di arrivare nel 1930 alla biblioteca dell’Università di Harvard. E lì fu dimenticato per  quasi un secolo. Malgrado l’America
avesse nel frattempo riscoperto una nostalgia struggente per la civiltà sottoposta a sterminio etnico dei suoi cavalieri della prateria.


                                L’alfabeto delle grandi pianure                                                               VITTORIO ZUCCONI                                              

In principio era l’immagine. Non erano la parola, il verbo, ma le immagini che accendevano l’universo materiale e spirituale dei popoli delle grandi pianure, che segnavano la loro identità di Piccole Lune, Grandi Alci, Cavalli Pazzi, Volpe Macchiata, che marcavano il tempo e il gelo degli inverni, che ricordavano ai bambini gli eventi straordinari, come “la notte in cui cadde il cielo”, quando centinaia di meteoriti illuminarono il buio della prateria nel 1870. E, naturalmente,le guerre.
Per la nazione che noi chiamiamo, da una storpiatura francofona, Sioux, per i Lakota, come loro si chiamano, per i loro alleati Cheyenne e Arapaho, il 25 giugno del 1876 fu una sequenza di immagini, da narrare per generazioni sulle pelli di bisonte e di daino e da leggere come ai nostri scolari si leggono le imprese di Giulio Cesare o le Guerre d’Indipendenza. Quando i primi distaccamenti del Settimo Cavalleria attaccarono il grande campo estivo nel territorio del Montana, scatenando due giorni di massacri per proteggere dallo sterminio i cinquemila fra bambini,vecchi e donne raccolti là, non c’erano storici con papiri e tavolette di cera per registrare l’ultima vittoria del popolo della prateria e lo sterminio della colonna del colonnello George Armstrong Custer. C’erano uomini, stranamente sempre e soltanto uomini, incaricati d’imprimersi nella memoria quello che avrebbero poi trascritto nei pittogrammi sulle pelli e sulla carta.L’alfabeto dei nativi del Nord America, che non avevano lingua scritta, era quello. In attesa di traslitterare nei caratteri latini degli invasori le loro parole, l’immagine era la storia, il video,la sequenza, a volte lineare, altre volte chiusa nei cerchi concentrici dei calendari, per dare il senso del tempo come nei tronchi d’albero. Segnalavano le rotte, i percorsi, le transumanze dei bisonti, graffiati in permanenza sulle rocce. Avvertivano dei pericoli, di possibili agguati dei “dragoni” in blu, dipinti su pelli fermate da sassi, che gli altri Lakota — ma non i bianchi — sapevano leggere e interpretare, misurando l’imminenza del rischio dalla freschezza delle pelli e dei segni. Non c’è neppure bisogno di essere un Lakota, un Oglala, un Cheyenne per capire la potenza immemore delle immagini. Sulle rive del contorto Little Bighorn, oltre le fila di lapidi bianche che segnalano le tombe dei 263 soldati condotti alla morte da Custer (ma non la sua, che è all'Accademia di West Point), c’è una fossa di terra, come una trincea improvvisata. Fu in quella buca, scavata nella terra soffice dell’estate, che il distaccamento di rinforzo del colonnello Reno, prudentemente rimasto indietro, resistette per due giorni alla furia degli indiani. Sui bordi della buca, nel lato rivolto verso il fiume del sangue, ancora oggi, un secolo e mezzo più tardi, si vedono bene le fossette scavate dai soldati per usarle come cavalletti naturali, per poggiare le loro carabine e mirare meglio, risparmiando le scarse munizioni. Neppure l’erba, che nel gelo del grande nord cresce avara, le ha nascoste. Guardandole, si sentono gli spari, le grida dei feriti,gli ordini, le urla terrorizzanti — e terrorizzate — dei guerrieri lanciati sulla collina. Perché avevano ragione loro, i figli delle grandi pianure. Sono le immagini che ci sanno parlare più forte delle parole.

un altro musicista se ne va Pete Seeger ( 1920-2014)

 e'  morto all'età di 94   il cantore  dei diritti  civili  e  dell'ambiente   Pete  Seeger (   se  non vi dovesse bastare  l'articolo sotto    eccovi  maggiori dettagli  http://it.wikipedia.org/wiki/Pete_Seeger  )  e  sotto  una sua  recente  foto   tratta   da  quest'articolo  da  repubblica  d'oggi


NEW YORK - Pete Seeger, l'autore di "Turn, turn, turn" e "If i had a hammer" è morto all'età di 94 anni. Il cantautore americano, assieme a Woody Guthrie uno dei maggiori esponenti del folk americano, è deceduto in un ospedale di New York dopo una breve malattia. 
Attivista politico, sostenitore dell'area più radicale della sinistra americana, era uno dei massimi autori della canzone di protesta degli anni Cinquanta e Sessanta. Dopo aver conquistato la fama assieme al gruppo The Weavers, fondato nel 1948, continuò come solista nel corso di una carriera lunga sei decenni. Ecologista, fu anche un paladino inarrestabile di tante battaglie in difesa dell'ambiente.
Pete (vero nome Peter) Seeger era nato a New York il 3 maggio del 1919, figlio del musicologo Charles Seeger, uno dei primi ricercatori nel campo della musica orientale. Cresciuto in una famiglia di artisti (anche i suoi fratelli Mike e Peggy erano musicisti e cantanti), nella seconda metà degli anni Trenta lascia l'università (aveva iniziato a studiare a Harvard) e inizia a suonare in maniera professionale abbracciando la strada del folk singer, influenzato sopratutto dal pioniere della riscoperta del blues e della musica popolare americana, Alan Lomax. Ma soprattutto, alla fine degli anni Trenta, incontra Woody Guthrie, con il quale intraprende un lungo viaggio attraverso l'America e durante il quale si confronta con l'anima più popolare della musica americana. 
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, Seeger partecipa alla nascita di un'organizzazione chiamata People's Song Inc. (PSI), nata con lo scopo di diffondere le canzoni dei propri associati. Per trovare fondi, il PSI organizza spettacoli folk chiamati "hootenanny", che diventano poi molto celebri nei primi anni 60, in coincidenza con il grande revival del folk. La costante attività politica e la sua dichiarata fede comunista causano a Seeger numerosi problemi nell'epoca del maccartismo (viene anche condannato a un anno di prigione, ma trascorre solo pochi giorni in galera) senza peraltro frenarne l'attività. 
Il successo arriva con il debutto dei Weavers, nel 1949, che diventano un elemento decisivo per il fenomeno del folk revival. Le sue canzoni si trasfromano in autentici inni pacifisti, spesso ripresi da altri artisti: a parte "We shall overcome", la vera colonna sonora delle marce per la pace per tutti gli anni 60, vanno ricordate "Where have all the flowers gone?", portata al successo nel 1962 dal Kingston Trio, e "Turn turn turn", che alla fine del 1965 trascina i Byrds ai primi posti delle classifiche. Rimane celebre il suo attacco al presidente Lyndon Johnson e alla sua politica militare durante il programma tv "Smothers Brothers Show" dove Seeger canta anche quella che è una delle prime canzoni contro la guerra nel Vietnam, “Waist deep in the big muddy“ ("Giù fino al collo nel grande pantano"). 
Le canzoni e l'impegno di Seeger hanno esercitato una grande influenza su molti artisti, da Bob Dylan e Joan Baez fina Bruce Springsteen. Proprio il Boss, nel 2006, ha inciso l'album "We shall overcome. The Seeger sessions", interamente dedicato alle canzoni del grande folksinger. Nel 1996, Seeger era stato inserito nella Rock and Roll Hall of Fame, mentre nel 1997 si era aggiudicato un Grammy. Nel 2009, in occasione del suo novantesimo compleanno, il Madison Square Garden ospitò un grande concerto in suo onore cui presero parte, tra gli altri, Eddie Vedder, Dave Matthews, Ani DiFranco e Bruce Springsteen. Sempre nel 2009, Seeger partecipò al Lincoln Memorial Obama Inaugural Celebration Concert, ancora una volta insieme a Bruce Springsteen





scometto  che sui  giornali  embed   gli faranno due  righe  , scommetto che   se  muore   qualche  cantante   neo melodico    e polpettone  \  melenso  italiano ( ogni riferimento  a  persone realmente  esistenti  :_-)  è puramente  casuale  ed  involontario  )   gli faranno pagine su  pagine e speciali su speciali  
 io  voglio ricordarlo con  l due pezzi celebri  





al prossimo necrologio


Diagnosi preimpianto La contestata legge 40 torna alla Consulta Il tribunale di Roma solleva la questione di costituzionalità Il caso di una donna portatrice sana di distrofia muscolare

  ci sarà da  ridere  se  dovesse risultare incostituzionale  e magari  casi simili  non ripetono 



Gia'  se  ne parlava  ieri su repubblica  




Procreazione assistita, legge 40 alla Consulta
anche per il divieto per le coppie fertili
Il tribunale di Roma ha sollevato la questione di costituzionalità sul ricorso di una coppia in cui la donna, pur portatrice sana di distrofia muscolare di Becker, si era vista negare l'accesso sia alla Pma che alla diagnosi preimpianto. I giudici: "Il diritto ad avere un figlio sano è inviolabile e costituzionalmente tutelato"




ROMA - Torna davanti alla Consulta la legge 40 sulla procreazione assistita. Il tribunale di Roma ha sollevato la questione di costituzionalità sul divieto per le coppie fertili di accedere alla procreazione assistita e alla diagnosi preimpianto, anche se portatrici di malattie trasmissibili geneticamente.



E' la prima volta che questa specifica questione arriva alla Consulta. In passato se ne era occupata invece la Corte europea di Strasburgo che nel 2012 aveva condannato l'Italia per violazione di due norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. E aveva sottolineato l'"incoerenza" del nostro sistema che da un lato vieta alla coppia fertile ma portatrice di una malattia geneticamente trasmissibile di ricorrere alla diagnosi preimpianto, e dall'altro, con la legge 194 sull'aborto, le permette l'aborto terapeutico nel caso il feto sia affetto dalla stessa patologia.
Alla prima sezione civile del tribunale di Roma, che ha sollevato la questione, si era rivolta una donna, portatrice sana di distrofia muscolare Becker (malattia genetica ereditata dal padre) e il marito, che si erano visti negare dal Centro per la tutela della Salute della donna e del bambino "Sant'Anna" sia l'accesso alla procreazione assistita, sia la diagnosi preimpianto, sulla base del presupposto che il divieto non è stato cancellato dalla legge.
L'ordinanza del tribunale riconosce il diritto della coppia ad "avere un figlio sano" e afferma che il diritto di autodeterminazione nelle scelte procreative è "inviolabile" e "costituzionalmente tutelato". "Il diritto alla procreazione - si legge nell'ordinanza - sarebbe irrimediabilmente leso dalla limitazione del ricorso alle tecniche di procreazione assistita da parte di coppie che, pur non sterili o infertili, rischiano però concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie, a causa di patologie geneticamente trasmissibili, di cui sono portatori. Il limite rappresenta un'ingerenza indebita nella vita di coppia".
L'accesso per le coppie fertili alla procreazione assistita e alla diagnosi preimpianto, anche se portatrici di malattie trasmissibili geneticamente, sottolinea Filomena Gallo, legale, insieme ad Angelo Calandrini, della coppia che ha promosso il ricorso, è "l'ultimo divieto, che arriva ora all'esame della Consulta, ancora contenuto nella legge 40 sulla procreazione assistita". "Se la sentenza della Consulta sarà favorevole - rileva Gallo, segretario dell'associazione Luca Coscioni - la legge 40 sarà stata definitivamente cancellata. Confidiamo nei giudici della Corte, visto che il Parlamento è incapace di legiferare nel rispetto dei diritti di tutti i cittadini".
 

  se   ne ha  ulteriore  conferma oggi su la  nuova sardegna  


ROMA Nuovo dubbio di costituzionalità sulla legge 40. Torna, infatti, davanti alla Consulta la normativa sulla procreazione medicalmente assistita dopo che il tribunale di Roma ha sollevato la questione di costituzionalità sul divieto per le coppie fertili di accedere alla procreazione assistita e alla diagnosi preimpianto, anche se portatrici di malattie trasmissibili geneticamente. È la prima volta che questa specifica questione arriva alla Consulta. In passato se ne era occupata invece la Corte europea di Strasburgo che nel 2012 aveva condannato l’Italia per violazione di due norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Alla prima sezione civile del tribunale di Roma, che ha sollevato la questione, si è rivolta una donna, portatrice sana di distrofia muscolare Becker e il marito, che si erano visti negare dal Centro per la tutela della Salute della donna e del bambino «Sant’Anna» sia l’accesso alla procreazione assistita, sia la diagnosi preimpianto, sulla base del presupposto che il divieto non è stato cancellato dalla legge. Chiare le motivazioni del tribunale di Roma: il diritto della coppia ad «avere un figlio sano» e il diritto di autodeterminazione nelle scelte procreative sono «inviolabili» e «costituzionalmente tutelati», si legge in uno dei passaggi dell’ordinanza con la quale la prima sezione civile ha sollevato la questione di costituzionalità. Proprio l’accesso per le coppie fertili alla procreazione assistita e alla diagnosi preimpianto è «l’ultimo divieto, che arriva ora all’esame della Consulta, ancora contenuto nella legge 40», spiega Filomena Gallo, legale, insieme ad Angelo Calandrini, della coppia che ha promosso il ricorso. All’indomani della decisione della Consulta, «se favorevole - rileva Gallo, segretario dell’Associazione Coscioni - la legge 40 sarà stata definitivamente cancellata». Ora, commenta, «confidiamo nei giudici della Corte, visto che il Parlamento è incapace di legiferare nel rispetto dei diritti di tutti i cittadini». Quanto ai tempi, «speriamo che i termini tecnici ci facciano rientrare nell’udienza dell’8 aprile». Questa decisione del tribunale di Roma, chiarisce Gallo, «non solo va a confermare le summenzionate decisioni evidenziando anche il contrasto della legge 40 con la Carta costituzionale» ma, «se l’8 aprile la Consulta dovrà pronunciarsi sui dubbi di legittimità costituzionale sul divieto di eterologa e sul divieto delle donazioni degli embrioni alla ricerca, ora dovrà calendarizzare anche una udienza per questo ulteriore dubbio di legittimità costituzionale che, rispetto alle decisioni del tribunale di Salerno e della Cedu, avrebbe portata generale, ovvero estendibile a tutte le coppie». Per Gallo sarebbe «come chiudere un cerchio: l’intera legge 40 è costituzionalmente dubbia»

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