25.4.17

fare il partigiano e tenerlo nascosto Chi ha compiuto atti di sabotaggio, fornito informazioni militari sarà “acclamato come patriota”. Così c’è scritto nel “Certificato al patriota” firmato dal generale Alexander che Angela Gatti ha trovato in un cassetto qualche settimana fa

Mario Gatti, classe 1926, il partigiano Black
Mario Gatti, classe 1926, il partigiano Black
Grazie a una mail di Angela Gatti
Chi ha compiuto atti di sabotaggio, fornito informazioni militari sarà “acclamato come patriota”. Così c’è scritto nel “Certificato al patriota” firmato dal generale Alexander che Angela Gatti ha trovato in un cassetto qualche settimana fa. “Ho dovuto trasferire mia madre Carla, 90 anni, malata di Alzheimer, in una struttura protetta. Riordinando il suo appartamento ho trovato in un cassetto un grande vecchio bustone di carta blu, un po’ strappato, con su scritto ‘Mario partigiano’"."Mario era mio padre. E’ morto vent’anni fa, a settant’anni. Sapevo che era stato partigiano. Avevo ascoltato molte volte i suoi racconti: ma parlava sempre degli amici, mai di sé. Non sapevo niente di queste carte: che avesse avuto una medaglia dal Ministero della Difesa, che conservasse il Certificato al patriota del capo delle forze alleate”.Angela, figlia unica, è oggi in pensione. Nata come i suoi genitori a Sorbolo in provincia di Parma, al confine con Reggio Emilia. Mario, il padre, era ferroviere. Aveva conosciuto Carla a 15 anni (lei ne aveva 14) e si erano fidanzati. A 18 lui è andato a combattere con le brigate partigiane: nome di battaglia, Black. Quando è finita la guerra si sono sposati, nel ’53 è nata Angela.
Il Certificato al patriota firmato dal generale Alexander
Il Certificato al patriota firmato dal generale Alexander
“Raccontava sempre del suo amico del cuore, Gianni. Che era figlio di madre vedova e sua madre non voleva che combattesse coi partigiani, non voleva restare sola. Mia zia Giuseppina, che faceva la staffetta in bicicletta, gli portava notizie degli amici in clandestinità. Poi proprio il 25 aprile Gianni e sua madre stavano lasciando il paese, lei aveva dimenticato la borsa col portafogli in casa, gli ha detto vai a riprenderla. Gianni ha trovato un tedesco sulle scale, quello gli ha sparato: Gianni è morto così. Il destino, diceva mio padre, poi faceva silenzio. Quando ho trovato le sue carte, l’altro giorno, ho pianto a lungo. Vorrei dirgli: scusa papà se non ti ho dimostrato quanto fossi e quanto sia tuttora orgogliosa di te”.Il certificato (il numero 48764) firmato dal generale delle armate alleate in Italia Harold Alexander dice: “In nome dei governi e dei popoli delle nazioni unite si ringrazia Mario Gatti di aver combattuto il nemico sui campi di battaglia, militando nei ranghi dei patrioti tra quegli uomini che hanno portato le armi per il trionfo della libertà, svolgendo azioni offensive, compiendo atti di sabotaggio, fornendo informazioni militari. Col loro coraggio e la loro dedizione i patrioti italiani hanno contribuito validamente alla liberazione dell’Italia e alla grande causa di tutti gli uomini liberi. Nell’Italia rinata i possessori di questo attestato saranno acclamati come patrioti che hanno combattuto per l’onore e la libertà”. Nell’Italia rinata, saranno acclamati.

Bassano del Grappa, 1944. Vittorio 'Livio' Sandini aveva 12 anni e fu torturato dai fascisti, che lo appesero a testa in giù in un pozzo profondo 25 metri. Ma non rivelò mai dove si erano nascosti i tre fratelli Una storia rimasta sconosciuta per 70 anni



Non riesco , e quindi mi contraddico con quanto ho scritto precedentemente , a stare zitto e a non scrivere di tale argomento davanti a simili storie pèoco note e che avrebbero rischiato l'oblio

repubblica  25 aprile 2017

Livio Sandini: la storia dimenticata del bambino eroe che salvò la vita ai fratelli partigiani
Bassano del Grappa, 1944. Vittorio 'Livio' Sandini aveva 12 anni e fu torturato dai fascisti, che lo appesero a testa in giù in un pozzo profondo 

Lo storico: "Così i nazifascisti hanno commesso l'eccidio del Grappa"

25 metri. Ma non rivelò mai dove si erano nascosti i tre fratelli
Una storia rimasta sconosciuta per 70 anni e che ora Repubblica racconta per la prima volta



Storia di Livio: torturato dai fascisti, non tradì i fratelli partigiani


BASSANO DEL GRAPPA - Il pozzo è ancora lì, proprio come 73 anni fa. Il pozzo di casa Sandini, in contrada Rivana, riforniva di acqua tutti i vicini, gli abitanti di quelle quattro o cinque case che allora erano in aperta campagna e oggi si ritrovano inglobate nella periferia di Bassano del Grappa. Nuovi edifici sono stati costruiti, ma nel 1944 qui c'era solo una strada sterrata, alcune abitazioni e campi coltivati.
Il pozzo è ancora lì, ancora di proprietà dei Sandini, ma oggi è nascosto tra le nuove costruzioni. Quasi dimenticato, come la storia di cui è stato testimone.
Era l'estate del '44, gli alleati combattevano lungo la linea gotica, ma Bassano era ancora troppo a nord per sperare che la Liberazione potesse arrivare presto. In quei mesi il massiccio del Grappa era un incubo per i nazifascisti. Tre formazioni partigiane, per un totale di forse milleduecento uomini, facevano base e si nascondevano lì.
Erano le settimane che precedevano l'Eccidio di Monte Grappa (la scheda). Una strage che cambiò - come in altre parti d'Italia - l'atteggiamento della popolazione civile, terrorizzata dalla ferocia nazifascista. Ma fino a quel momento tra partigiani e civili c'era stata quasi una comunanza di intenti. L'antifascismo era diffuso, i soprusi dei tedeschi e dei loro alleati di Salò erano la regola più che l'eccezione.

La caserma Efrem Reatto (oggi Montegrappa) base dei nazifascisti durante l'occupazione

I montanari e i contadini coprivano e aiutavano chi si batteva contro gli oppressori. Non solo sul massiccio del Grappa: in pianura c'erano altri gruppi partigiani meno strutturati che agivano sotto traccia, con azioni di sabotaggio piccole ma frequenti. Tra loro c'erano i fratelli Sandini.
Tornati dal fronte e renitenti alla leva della Repubblica sociale insieme ad altri vicini di casa, Domenico, Giovanni e Mario Sandini erano solo una parte della famiglia che viveva in contrada Rivana. Antonio, il secondogenito, nato nel 1920, era stato già deportato in Germania perché finito in una lista di indesiderati del regime. Tornerà sano e salvo solo alla fine della guerra. C'erano poi due sorelle: la più grande, Adele, era già sposata e viveva a Nove con il marito.
Domenico, il più grande, era del 1918, Giovanni del '22, Mario del '24. Avevano quindi tra i 26 e i 20 anni. A casa vivevano con la madre, Maria Zonta, e con il fratello piccolo, classe '32, Vittorio. Che aveva solo 12 anni. "Il nome ufficiale era Vittorio - spiega oggi Ugo Sandini, il nipote - ma in famiglia l'abbiamo sempre chiamato tutti Livio. Non so perché, ma per noi era solo zio Livio".
I tre fratelli, spinti certo anche dall'arresto e dalla deportazione del fratello Antonio, presero contatto con i gruppi partigiani e furono impegnati in azioni di piccolo sabotaggio contro i nazifascisti. Era la linea decisa dal comandante di zona: non fare azioni tali da scatenare le rappresaglie tedesche. Una volta i Sandini diedero fuoco a un grande quantitativo di sterpaglie lungo la linea della 'vaca mora', come nella zona era chiamato il treno che univa la città con Vicenza. Da Marostica a Bassano la linea rimase interrotta. Nessuna vittima, ma anche quella per alcuni abitanti della zona fu una provocazione troppo grande, che sarebbe stato meglio evitare. Un'altra volta rubarono le campane di bronzo delle chiese che erano state requisite dai tedeschi per fonderle e le nascosero nei campi: alla fine della guerra tornarono al loro posto.
Piccole o grandi che fossero, le azioni dei tre Sandini fecero rumore e Domenico, Giovanni e Mario entrarono nel radar dei fascisti della zona, guidati da giugno del 1944 dal tenente Alfredo Perillo, scelto anche perché parlava tedesco e quindi poteva tenere al meglio i contatti con i nazisti. L'Ufficio politico investigativo del tenente Perillo si insediò in quei mesi in un piccolo edificio accanto alla caserma Efrem Reatto, oggi chiamata caserma Montegrappa, in disuso e in attesa di ristrutturazione.
Al piano terra del piccolo fabbricato c'erano gli uffici della segreteria e la sala degli interrogatori, al primo piano la zona dove venivano tenute le donne e poi uno scantinato minuscolo, dove passavano i partigiani e dove venivano detenuti i sospettati prima di essere interrogati.
"Era una cantina che aveva un'area di tre metri per tre metri e con un solo piccolo pertugio, una finestrella; lì si trovavano normalmente più di 40 detenuti, i quali erano costretti a dormire in piedi l'uno accanto all'altro, senza acqua, senza aria e senza latrina"Con queste parole l'avvocato Antonio Gasparotto ricordava dopo la guerra (forse esagerando un po' sul numero di prigionieri) com'era quello scantinato. Nove metri quadrati d'inferno.

L'unica finestrella della cantina dell'Ufficio politico investigativo

La caserma e l'annesso edificio di Perillo erano il centro del fascio a Bassano. In quella caserma, nei giorni dell'eccidio, avvennero almeno 17 fucilazioni. Altri 14 partigiani furono costretti a scavarsi la fossa, per poi essere freddati da una raffica di mitra.
Da mesi Perillo osservava i Sandini e quello che succedeva in contrada Rivana. Addirittura aveva chiesto informazioni sui tre fratelli al parroco della Santissima Trinità, don Marco Carlesso. Il prete ebbe pochi dubbi sulle intenzioni di Perillo e avvisò i tre fratelli. Era piena estate e i tre ragazzi iniziarono a fare turni di guardia, controllando sempre chi girava nella zona e se delle auto si avvicinavano alla contrada. Avevano anche predisposto un nascondiglio: erano pronti ad andare a Nove, a nascondersi a casa della sorella Adele.
Erano quindi pronti la notte dell'11 settembre '44 quando videro arrivare la retata dei fascisti. "Corsero via, attraverso i campi coltivati a granoturco, c'era questo granturco molto alto, e si fermarono nei campi della mia famiglia, a 300-400 metri da casa loro". A ricordare quel giorno non c'è rimasto nessuno, se non Ilario Polo. Aveva 13 anni, uno in più di Vittorio 'Livio'.
La storia di quel giorno della famiglia Sandini non è mai stata raccontata in 70 anni, se non dalla voce di Ugo Sandini, figlio di Domenico e nipote di Livio, e accennata in un libro di Francesco Tessarolo, presidente della Fivl e storico della resistenza bassanese. Ma è un racconto che è rimasto circoscritto, chiuso, nascosto anche perché i fratelli, di quei giorni, di come hanno visto la morte arrivare ma l'hanno scampata, non hanno mai voluto parlare. È una storia di cui nessuno al di fuori della contrada ha mai sentito nulla. "Ma qui intorno, quella storia, tutti la sapevano", racconta Ugo Sandini.

I campi della famiglia Polo oggi. In linea d'aria il pozzo dista circa 400 metri


I fascisti arrivarono a notte fonda a casa Sandini, ricorda Polo, e naturalmente non trovarono i tre fratelli. Qualcuno aveva fatto la spia, e il commando andò su tutte le furie. Rabbia che si sfogò contro chi era in casa, la signora Maria e il piccolo Livio. "Sentivamo le mitragliatrici - racconta Polo - ero alla finestra di casa, in linea d'aria era pochissimo, ma era buio e non si vedeva". Si sentiva però, e si sentiva benissimo anche dal campo di granoturco dove Domenico, Giovanni e Mario si erano nascosti. E sentivano la madre e il fratello, poco più di un bambino, urlare.
I fascisti picchiarono la donna. Le puntarono una pistola alla tempia: "Dove sono i tuoi figli?". Non lo so, non sono qui, rispondeva la signora Maria. Le misero vicino all'orecchio la mitragliatrice e spararono in aria. "Volevano farle perdere la testa", spiega Polo. Le legarono anche una corda al collo, come un guinzaglio per un cane, ma lei non parlò, nemmeno quando le schiacciarono la mano con gli scarponi d'ordinanza.
Per farla parlare picchiarono anche Livio. Lo riempirono di botte. Dicci dove sono i tuoi fratelli. "Non lo so, sono andati via da tempo, non so dove sono". Inutile dire che Livio sapeva benissimo che erano appena scappati e che avevano predisposto il nascondiglio a casa della sorella Adele.
Dicci dove sono e dove si sono nascosti. Non lo so, non lo so, ripeteva Livio. Non lo so, lasciatelo, protestava disperata la signora Maria. Non si volevano arrendere e speravano che il dodicenne alla fine avrebbe parlato.


Il pozzo oggi: seppur coperto da una grata, è ancora lì


Se già picchiare una donna non è un atto nobile, l'infamia di quella notte toccò picchi più bassi ancora. Perché qualcuno del commando prese la corda che legava il secchio per prendere l'acqua in fondo al pozzo e la legò ai piedi di Livio. Che fu calato a testa in giù per oltre 20 metri nel pozzo, fino in fondo. Dove sono? "Non lo so". Inamovibile dalla sua posizione, nonostante il buio, il terrore, gli spari che sentiva. Sapeva il piccolo Livio che c'era una sola cosa da fare. Stare zitto, non parlare, non tradire il segreto dei fratelli.
Dal campo si sentiva tutto, e seppur parlando sottovoce per non farsi sentire, i tre fratelli discussero animatamente. Pensarono di tornare indietro, ma non avevano armi, valutarono di consegnarsi per fare smettere quella tortura. Nel campo di grano nel frattempo erano arrivati altri vicini, c'era il padre di Ilario Polo, c'era don Carlesso. "Mio padre alla fine ha insistito e li ha convinti. 'Se tornate indietro, vi ammazzano, vi ammazzano. Meglio che state qui buoni'. Ha avuto ragione, li avrebbero ammazzati".
Probabilmente il signor Polo sperava che con una donna e un bambino almeno questo tabù i fascisti l'avrebbero avuto. I tre fratelli si convinsero, e rimasero dove erano.
Livio non parlò, e furono costretti a tirarlo fuori dal pozzo. Ma i fascisti non rinunciarono. Lo portarono via e lo rinchiusero insieme ad altri nella cantina dell'Ufficio politico. Dove rimase - e qui i ricordi divergono - "mezza giornata" secondo Ilario Polo o "alcuni giorni" secondo quanto tramandato in famiglia. Nemmeno lì parlò, anche perché il peggio l'aveva già visto in fondo al pozzo e dopo aver resistito a quella tortura non era certo tipo da farsi piegare da una prigionia, seppur in una cantina asfissiante e sovraffolata.
"A quel punto - ricorda ancora Ilario Polo - don Carlesso andò a parlare con il tenente Perillo e lo convinse a liberare il ragazzo". Così Livio, con il suo segreto, poté tornare a casa. "Non sapevo - interviene Ugo Sandini - che ci fosse stata l'intercessione del parroco, ma è possibile. Lui si era speso molto".
I fascisti non si sono più avvicinati a contrada Rivana. I tre fratelli, dopo quelle ore di terrore, rimasero nascosti nella cantina della sorella Adele, uscendo poco e solo di notte, fino alla fine della guerra. Si salvarono. O meglio furono salvati: dal coraggio della signora Maria e soprattutto di Livio.


I fratelli Sandini nel 1961, al matrimonio di Livio. Da sinistra: Antonio, Mario, Livio con sua moglie Danila, Giovanni e Domenico

Danila Sandini, moglie di Livio, lo ha conosciuto dieci anni dopo e lo ha sposato nel 1961. C'è una foto, proprio di quelle nozze, che ritrae i 5 fratelli insieme. C'era anche Antonio, tornato dal campo di prigionia in Germania. Una foto che è lì a testimoniare l'eroismo di un bambino.
Danila Sandini non è una testimone diretta di quella notte, ma racconta: "Livio non aveva piacere di parlarne, era una cosa che voleva dimenticare". Conferma Ugo: "No, in famiglia non se ne parlava molto. Anche mio padre Domenico non mi ha mai raccontato molto di quel periodo. Ho saputo di più da mia madre che da loro. Quando ero adolescente chiedevo, volevo sapere, ma era difficile farli aprire. Penso sia naturale, un sistema di difesa".
Livio è morto nel 2004, dopo una lunga malattia. Ha vissuto 60 anni con il ricordo del pozzo, di quei 25 metri di buio, con le grida della madre, i suoni della mitragliatrice dei fascisti, di quello scantinato pieno di partigiani. "C'era un particolare che ripeteva sempre, quelle poche volte che me ne parlava - ricorda Danila - il fatto che l'avessero portato via scalzo. 'Nemmeno le scarpe mi hanno fatto mettere', diceva". Commossa, Danila conclude: "Com'era Livio? Una persona buona".


Foto di famiglia: il pozzo nei primi anni '60; Antonio Sandini di fronte alla casa di famiglia; Livio Sandini con i nipoti davanti al pozzo, anni '70
L'offensiva nazifascista, denominata in maniera roboante 'operazione Piave', che il 20 e 21 settembre 1944 annienterà le formazioni partigiane sul massiccio del Grappa è passata alla storia come rastrellamento o eccidio del Grappa. Il bilancio parla di centinaia di morti, seguiti a fucilazioni e impiccagioni. La popolazione fu terrorizzata: tre donne furono rasate a zero e fatte sfilare per le vie con un cartello appeso al collo: "Alle donne che offrono le loro grazie ai partigiani".
Trentuno giovani, alcuni appena saliti in montagna perché renitenti alla leva della Repubblica Sociale, furono catturati e impiccati agli alberi dei viali principali di Bassano.
Oggi delle targhe li ricordano, una per ognuno dei lecci che fiancheggiano via dei Martiri. Furono 'solo' 31 perché intervenne il vescovo di Vicenza e fermò lo scempio. Ma quei 31 rimasero appesi per 22 ore, abbastanza perché i maestri della scuola cittadina portassero in gita gli alunni a vedere che fine facevano i partigiani.
Tra i bambini c'era chi piangeva, chi si sentiva male e chi rimase più freddo, ma certo nessuno avrà mai dimenticato. Ricorderà Tina Anselmi, futura ministra della Repubblica, che era tra quegli alunni: "Fu straziante, una scena che mi lasciò turbata per molto tempo, che mai potrò cancellare dalla memoria".



Lo storico: "Così i nazifascisti hanno commesso l'eccidio del Grappa"


Oggi delle targhe li ricordano, una per ognuno dei lecci che fiancheggiano via dei Martiri. Furono 'solo' 31 perché intervenne il vescovo di Vicenza e fermò lo scempio. Ma quei 31 rimasero appesi per 22 ore, abbastanza perché i maestri della scuola cittadina portassero in gita gli alunni a vedere che fine facevano i partigiani.
Tra i bambini c'era chi piangeva, chi si sentiva male e chi rimase più freddo, ma certo nessuno avrà mai dimenticato. Ricorderà Tina Anselmi, futura ministra della Repubblica, che era tra quegli alunni: "Fu straziante, una scena che mi lasciò turbata per molto tempo, che mai potrò cancellare dalla memoria".





Una delle lapidi in memoria delle vittime dell'eccidio




Strage copti in Egitto, vedova perdona gli assassini, la reazione del giornalista musulmano

La    forza  del perdono 

L’Isis continua a colpire in Egitto la minoranza cristiana, come nella strage della Domenica delle Palme. La Tv accoglie il dolore delle famiglie delle vittime. Il messaggio è di perdono e speranza e spiazza anche il più noto giornalista musulmano. Servizio di Clara Iatosti

24.4.17

comwe spiegare la resistenza ai bambini







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on questo post  concludo ,  altrimenti rischio di diventare  prolisso e noioso  ed ottenere  l'effetto contrario  ,   la serie   di  post  dedicata  al 25 aprile   .  Inoltre ne approfitto   per  rispondere  a mia  nipote  acquisita  (  la figlia di mio cugin  in primo  )  che mi  chiede cosa  è  la reistenza   e perchè  è ancora  viva .
Lo faccio    suggerendoli  oltre questi  5  libri segnalati da  il fattoquotidiano anche  uno  consigliatomi  da ì miei  in contrapposizione  all'ideologia  fascista  di mio nonno paterno  .
IL  MIO   trratto da  wikipedia 
L'Agnese va a morire è un romanzo neorealista scritto da Renata Viganò, forse di ispirazione autobiografica, giacché Renata Viganò fu, con il marito, una partigiana della resistenza italiana.La storia è ambientata nelle Valli di Comacchio durante la seconda guerra mondiale, nello specifico nel periodo degli otto mesi precedenti alla liberazione dell'Italia. La protagonista è una lavandaia di mezz'età, di nome Agnese, che, dopo la morte del marito deportato, non essendosi mai interessata prima di politica, inizia a collaborare con i partigiani assumendo il ruolo di staffetta.

Trama
La lavandaia Agnese vive con il marito Palita, un uomo reso debole da una malattia avuta da bambino, che lo costringe a stare in casa senza compiere sforzi fisici: il suo unico lavoro è intrecciare ceste di vimini. Questa situazione costringe Agnese a lavorare il doppio per mantenere se stessa ed il marito. Palita, per quanto debole, è tuttavia un uomo politicamente impegnato, un comunista.Un giorno Palita viene catturato dai nazisti per motivi non chiari; forse perché in contatto con i partigiani, o a causa di una soffiata dei vicini di casa, in quanto la sera prima aveva ospitato un disertore italiano.Qualche giorno dopo la cattura di Palita, un suo amico, riuscito a fuggire dalla camionetta tedesca, annuncia ad Agnese la morte del marito. Ella aveva presentito la morte del marito, perché sapeva che egli era bisognoso di cure costanti. L'Agnese quindi rimane sola con l'unica compagnia della gatta di Palita, tutto ciò che le resta di lui, ed un odio profondo nei confronti dei nazisti.A non darle sicuramente una mano sono la vicina di casa e le figlie che amoreggiano coi soldati nemici. Una sera, dopo aver bevuto, uno di loro (Kurt) spara per divertimento alla gatta. Agnese allora lo colpisce in testa col fucile, e credendolo morto, fugge nascondendosi presso una famiglia di partigiani.Da questo momento Agnese diventa l'organizzatrice delle staffette, e la "mamma" della compagnia partigiana.Ma proprio quando gli alleati inglesi stanno per prendere il sopravvento sui nemici, Agnese viene trattenuta dai soldati tedeschi e, riconosciuta da Kurt, viene uccisa. Della donna non rimane che "un mucchio di stracci sulla neve"Esso  fu  Tradotto in quattordici lingue, valse all'autrice il Premio Viareggio nel 1949.Ha avuto una trasposizione cinematografica uscita nel 1976, per la regia di Giuliano Montaldo, dove il ruolo di Agnese è interpretato da Ingrid Thulin

Venticinque aprile, festa della Resistenza. Scuole chiuse, papà e mamma a casa. In piazza si canta “Bella ciao”. Ma come si spiega a quelli nati nel 2000 questa storia? Fino a qualche anno fa gli studenti la mattina del 25 aprile andavano in piazza con i loro insegnanti ma ora a chi tocca raccontare chi erano i partigiani, cos’hanno fatto per il nostro Paese? Ancora una volta sono i libri ad aiutarci a passare il testimone, a tramandare a chi è nato sotto la “mela” della Apple, un pezzo di storia significativa del nostro Novecento. Ecco cinque libri da tirar fuori in occasione della festa della Liberazione.Ci sono libri che parlano con le illustrazioni. Non hanno bisogno di molte parole. Parlano ai più piccoli, a quelli che ancora non sanno leggere e scrivere bene. E’ il caso di “Bella ciao” nelle edizioni “Gallucci”. Paolo Cardoni dà voce alla celebre canzone attraverso le illustrazioni colorate, vivaci, semplici e allo stesso tempo eloquenti che raccontano della città occupata dagli invasori. Ovunque si vedono ingiustizie, violenza e paura . Tutto è vietato, nessuno ha più voglia di sorridere. Perciò il partigiano saluta la sua bella
e se ne va in montagna a combattere per la libertà. Un racconto dolce introduce alla storia, che lascia intravedere ad un bambino la narrazione più complessa della Resistenza dando lui solo gli strumenti per imparare una canzone che ha fatto la storia. Al libro è allegato anche il cd con la canzone arrangiata dai “Modena City Ramblers



A volte può essere la storia di un cane a svelare un grande evento come la Liberazione. E’ il caso di “Fulmine, un cane coraggioso” (edizioni Mondadori) scritto dalla maestra Anna Sarfatti e dal fratello Michele. Il libro racconta di un cane che per l’affetto che lo lega ad un ragazzo, suo grande amico, si ritrova a partecipare alla lotta partigiana. Nelle pagine del testo Anna e Michele hanno scelto di dare voce a questa storia che ha trovato fondamenta anche nella realtà di Umberto Lorenzoni, un partigiano che nell’appendice racconta di Rolf, il fido compagno di battaglia. Nel libro ci sono anche lettere, immagini che aiutano a non perdere mai di vista la realtà di quanto è accaduto. Adatto ai bambini dai 7 ai 10 anni.



C’è un luogo in Italia dove ogni scuola dovrebbe andare in “gita”: è Sant’Anna di Stazzema, in Toscana. Ma prima di metter piede su quei monti, ogni scolaresca dovrebbe leggere “Era un giorno qualsiasi” (edizioni Altreconomia) del collega giornalista Lorenzo Guadagnucci. Pagine toccanti, emozionanti, scritte in prima persona da Lorenzo che racconta la storia del padre, Alberto, scampato all’eccidio nazista del 1944 per caso. Un giorno qualsiasi che si è trasformato in un inferno per quel bambino che vide i tedeschi arrivare a casa sua nascosto in un cespuglio. Una storia che sessant’anni dopo riapre un capitolo che dovrebbe essere in ogni libro di storia.



Le donne sono state protagoniste della storia della Resistenza italiana. Tina Anselmi, la prima donna ad aver ricoperto la carica di ministro della Repubblica, è una di loro. E in “Zia, che cos’è la Resistenza?” (Edizioni Manni), l’ex partigiana prova a rispondere alle domande di un’immaginaria nipote. Lo fa partendo dallo spiegare che cos’è il fascismo, che clima si respirava in quel periodo fino ad arrivare a scavare nelle ragioni personali che l’hanno portata a scegliere la strada partigiana. Un testo adatto ai ragazzi della scuola secondaria di primo grado ma anche ai primi anni delle superiori.




La storia partigiana è fatta di vittorie ma anche di sconfitte ma soprattutto di uomini non di eroi. Lo descrive bene un libro ormai dimenticato ma che vale la pena leggere con i ragazzi delle scuole secondarie di secondo grado: “I ventitré giorni della città di Alba” (Einaudi) di Beppe Fenoglio. Si tratta di sei racconti dedicati ad episodi della guerra partigiana. Il primo, il più intenso, narra della conquista di Alba avvenuta il 10 ottobre 1944 e persa tre settimane più tardi.Un racconto senza retorica patriottica che ai tempi fu molto criticato dai giornali di sinistra ma che serve, soprattutto per i ragazzi, a comprendere la realtà dei fatti.





















C


Gli industriali contro GranoSalus: togliete dal blog i risultati delle analisi sulla pasta

leggianche
http://www.granosalus.com/
http://www.inuovivespri.it/2017/04/07/grano-duro-de-bonis-ce-chi-scimmiotta-le-proposte-di-granosalus-ma-non-ha-autorevolezza/
QUI L’ARTICOLO SULLA FIMA
QUI L’ARTICOLO SULLA DISCUSSIONE AL SENATO SULLE MICOTOSSINE
QUI L’ARTICOLO DELL’IMPATTO DELLE MICOTOSSINE NEL GRANO DURO
QUI L’APPELLO AGLI EUROPARLAMENTARI SULLE MICOTOSSINE NEL GRANO
QUI L’INTERROGAZIONE DEL MOVIMENTO 5 STELLE AL PARLAMENTO NAZIONALE SULLE MICOTOSSINE NEL GRANO







Un’intimazione è arrivata anche a I Nuovi Vespri. Motivo: questo blog ha ripreso l’articolo che illustra le analisi di GranoSalus. La vicenda finirà sui tavoli dei giudici. Intanto Saverio De Bonis, rappresentante dell’associazione che raggruppa produttori di grano duro del Sud Italia e consumatori precisa: “Noi siamo sereni”. Da oggi per il latte e derivati dello stesso latte bisogna indicare l’origine. Speriamo che, a breve, sia così anche per il grano 
Leggiamo sul sito di GranoSalus:
“Siamo venuti a conoscenza del fatto che spesso la pasta contiene contaminanti: glifosate (o glifosato ndr), micotossine come il DON, residui di metalli pesanti, tracce di insetticidi. Ci sono prove documentali evidenti. Ma agli industriali della pasta tutto ciò non è gradito. I nostri consigli non sono graditi. Per loro il diritto all’informazione dei consumatori è un optional e quindi vogliono che i giudici civili rimuovano i nostri articoli perché diffamatori. Il diritto di cronaca e di critica, tutelato da norme costituzionali, deve rispettare tre principi fondamentali, ovvero:
primo: la verità oggettiva del fatto narrato;
secondo: la pertinenza cioè l’interesse pubblico della notizia divulgata;
terzo: la continenza, cioè la correttezza con cui i fatti vengono narrati.
La censura, invece, è altra cosa. Appartiene ai regimi totalitari!”.Insomma, da quello che leggiamo, gli industriali della pasta si sono rivolti ai giudici perché vogliono che GranoSalus tolga dal proprio sito i risultati delle analisi su otto marche di pasta.Sono le analisi che il nostro blog ha ripreso (e che potete leggere qui).Anche a I Nuovi Vespri è arrivata la ‘letterina’ dei grandi industriali della pasta. Anche a questo blog viene chiesto di togliere gli articoli che riprendono i risultati delle analisi su otto marche di pasta pubblicati sul sito di GranoSalus.
“Noi siamo sereni – ci dice Saverio De Bonis, rappresentante di GranoSalus -. Nel nostro Paese esiste il diritto alla salute e la libertà d’informazione. Davanti a questi valori il denaro dovrebbe fare un passo indietro”.
Proprio da stamattina il latte e tutti i suoi derivati (burro, mozzarella, formaggi, yogurt e via continuando dovono indicare, nelle confezioni, l’origine delle materie prime. E’ un primo, importante passo verso la tutela dei consumatori.L’obbligo arriva a tre mesi dalla pubblicazione, nella Gazzetta Ufficiale nazionale, del decreto firmato dai ministri delle politiche Agricole, Maurizio Martina, e dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, in attuazione del regolamento dell’Unione Europea n. 1169/2011.Un provvedimento uguale a quello da oggi in vigore per il latte lo si attende anche per i derivati del grano. Idea che non piace, ad esempio, al gruppo Barilla, che si è già pronunciato contro .Noi invece siamo convinti che indicare l’origine di un prodotto sia un passaggio fondamentale. E’ giusto sapere da dove arriva il latte, così com’è giusto sapere da dove arriva il grano, nel caso della pasta, da dove arriva il grano duro.Nel caso dei derivati del grano, poi, dovrebbero essere lo Stato e le Regioni ad effettuare i controlli sui prodotti finiti e a renderli noti ai consumatori.

23.4.17

Hostess muore a 33 anni, Italo e i colleghi le dedicano un treno dell'alta velocità

Se un giorno vi capitasse di viaggiare a bordo di un treno Italo dell'alta velocità e di leggere sulla fiancata, proprio il numero 25 allora ricordatevi della storia di Annalisa Venticinque, che un male incurabile tumore  \  cancro  ha portato via venerdì 14 aprile ma il cui ricordo continuerà a viaggiare 



Hostess muore a 33 anni, Italo e i colleghi le dedicano un treno dell'alta velocità Annalisa Venticinque scomparsa a causa del cancro: una targa nella cabina del train manager del convoglio numero 25
  da repubblica  di   GERARDO ADINOLFI



Una storia triste, ma anche di amicizia e di lavoro. Di una giovane hostess dei treni Italo di 33 anni morta a causa del cancro e dell'affetto dei suoi colleghi che, per non dimenticarla, le hanno voluto dedicare un convoglio. Così se un giorno vi capitasse di viaggiare a bordo di un treno Italo dell'alta velocità fate caso al numero scritto sulla fiancata, proprio sotto la cabina di guida. E se leggete il numero 25 allora ricordatevi della storia di Annalisa Venticinque, che un male incurabile ha portato via venerdì 14 aprile ma il cui ricordo continuerà a viaggiare.
L'"Annalisa 25" da oggi infatti percorrerà i binari italiani con una targa affissa nella cabina del train manager, in ricordo della collega che non c'è più. L'azienda, in accordo con i dipendenti, ha deciso di dedicarle prorpio il treno numero 25 della flotta. Annalisa era di Pignataro Maggiore, in provincia di Caserta. Ha lavorato prima come hostess di volo per la Air One e poi è con Ntv, sui treni dell'alta velocità. Un lavoro che era anche una passione, fatto di amicizie e soddisfazioni.
"Ha lasciato un segno indelebile nella nostra mente - scrive Tiziana, una collega e amica di Annalisa - a bordo si crea un legame speciale, trascorri molto tempo insieme e lavorando capita anche di confidarsi, aiutarsi, fare battute sceme. C'è uno spirito di squadra che in questi giorni ci ha unito di più intorno a lei che non meritava
tutto questo male ma lo ha affrontato con dignità esemplare e con il suo sorriso di sempre". I messaggi così continuano anche sulla sua pagina Facebook: "Sarà triste - dicono alcuni amici - non ritrovarti più sul treno".

risposta di ©Daniela Tuscano al mio post : è più eroe ......

un poliziotto    ucciso dall'Isis  o un carabiniere     che    sale  su  un tir  a  100 k.m all'ora  bloccandone   la  corsa    perchè l'autista ha   avuto   un malore 


la   risposta   al mio quesito   espresso  nel  post precedente  ( vedi url sopra  )   è  arrivata  dalll'amica compagna  di strada    Daniela  Tuscano  sulla  nostra pagina  di  facebook   ( https://www.facebook.com/compagnidistrada/  ) 



                                             L'EROE QUOTIDIANO

Su Xavier hanno scritto in tanti, com'è giusto, e il rischio di ripetersi è alto. Oppure no. Suo malgrado, il giovane poliziotto è diventato un simbolo, e certo non lo voleva. Credo di saperlo, quel che voleva: vivere; nell'anonimato dei giusti, nella compostezza della normalità alla quale tutti siamo chiamati. Aveva scelto un mestiere difficile, Xavier. Un mestiere per cui oggi ci sei, domani chissà. Specialmente di questi tempi. Ma non è forse così per ognuno di noi?
Precari lo siamo tutti. Ma viviamo, o piuttosto esistiamo, come il respiro ci appartenesse, e il mondo dipendesse da un nostro battito di ciglia. La differenza con Xavier probabilmente è tutta qui: lui, la cognizione del limite l'aveva. Sapeva, evangelicamente, che la vita umana era stata "comprata a caro prezzo". Quindi non la sprecava. Ci stava dentro, mani piedi e cuore. Se qualcosa gli mancava era il senso dell'appartenenza, del muro. Conoscere la propria realtà di umani significa costruire ponti. Significa darsi, e lui si è dato. Non mi riferisco all'epilogo del suo percorso terreno. Penso al prima, a quella normalità che l'ha contraddistinto e dovrebbe essere la cifra di tutti noi: amici, amore, lavoro, certo, ma anche e soprattutto relazioni, principi. A Xavier non bastavano la sicurezza economica e la stabilità degli affetti. La vita, nella sua pericolante vastità, esigeva altro. "I care", m'importa, avrebbe detto don Milani. Aiutare gli immigrati gli sembrava logico, doveroso. Impegnarsi per la pace, pure. Nel suo mondo non esistevano gli altri, ma un unico "noi". Era questa la cifra della sua pienezza e questo il faro che dovrebbe orientare le scelte di qualsiasi persona su questa terra. 
È vero: se occorreva la prova che l'Occidente è tutt'altro che imbelle, nichilista e snaturato (e quella dei jihadisti non è forza - né materiale, né morale - ma solo sterile ferocia), Xavier Jugele l'ha incarnata pienamente. Non era l'eccezione, bensì la regola. Ci sono tanti Xavier, ai quattro angoli del pianeta. Europei, asiatici, africani, americani. Di ogni etnia, di diverse o nessuna religione. Gente a cui importa, il cui ottimismo si sposa con una lucida visione della realtà.
Non sono pacifisti. Sono uomini e donne di pace. E, se non tutti arrivano al supremo martirio (=testimonianza) di Xavier, quest'ultimo è qui oggi, con la sua storia semplice e tragica, a dar conforto ai tanti cui, di solito, i media negano spazio. Ma senza i quali la storia umana sarebbe già finita, anzi, non avrebbe visto mai la luce.

© Daniela Tuscano
P.S.: Ho tralasciato di parlare dell'omosessualità di Xavier. Essa - hanno scritto - lo rendeva ancor più inviso ai terroristi. Le cose stanno così, ovviamente. Ma a cosa serve sottolineare un surplus d'odio? Conta la normalità. Xavier avrebbe potuto chiamarsi Paola o Kabir, amare uomini o donne, e non sarebbe cambiato nulla.

femminismo o maschilismo eutanasia . testamento biologico o vivere , vegano o carnivoro , ed altre Faq


in sottofondo  pane  e sa le  - Zucchero


Dopo  il mio  post   : Ero un uomo violento e pensavo: non è colpa mia” dal titolo ingannevole    sono   stato  attaccato  dalle neo  femministe  .
Ecco  una  delle  tante    discussioni    su fb     dove  ho  messo  l'articolo del blog








Giuseppe Scano lo so che andrò contro le femministe con il post d'oggi , http://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/.../ero-un... ma fra gli stalker ed i violenti c'è anche se una piccola percentuale casi come quello che riporto quisotto . Prima d'iniziare il post faccio delle precisazioni :
1) non sto giustificando , ma cercando di capire cosa spinge noi uomini a comportaci cosi
2) condanno sempre la violenza contro le donne e non solo
3 ) il dialogo fra generi e l'educazione all diversità fin dall'asilo \ scuola materna supera ogni confine ed aiuta tantissimo
Mi piace · Rispondi · 14 aprile alle ore 18:03 · Modificato
****** Senti, visto le cagate che hai scritto e pubblicato, ti potrei usare violenza? No, perché vorrei che trovassi una giustificazione anche alla mia, esattamente come stai facendo con i carnefici di sempre : gli uomini.
Ma ....già, io ho la vagina...e non mi è permesso.
Oltre ad un becero maschilismo recondito (che prima o poi viene fuori, appunto ), sei totalmente irrispettoso verso un crimine umano che non merita attenuanti : la violenza sulle donne.
Mai una donna si sarebbe sognata di scrivere queste schifose aberrazioni.
Mi piace · Rispondi · 2 · 15 aprile alle ore 13:41
****** E adesso sei pregato di andare affanculo. Grazie
Non mi piace più · Rispondi · 4 · 15 aprile alle ore 13:43
un altra sua utente .....non sta giustificando dice lui......noo....cerca le attenuanti....

Mi piace · Rispondi · 15 aprile alle ore 15:46

neppure cerco solo di capire come mai certi uomini si comportano cosi ed esercitano violenza fiscica e verbale \ psicologica verso le donne

  gli  ho chiesto     spiegazioni in privato  ed     la continuazione   fortunatamente  in tono  pacato


perchè secondo  te  starei giustificando i carnefici , quando dico che dietro alcuni casi possono esserci anche una cattiva educazione ( vedi punto tre del mio commento ) al rispetto della diversità culturale  femminile  da quella maschile , problemi psicologi ? non sapevo che il cercare di comprendere come mai molti uomini siano misogini e carnefici , significasse giustificarli . Io non sono il tipo e tu dovresti saperlo visto che ho condiviso il tuo post sul'8 marzo ed ho  sempre condannato   soia  qui  su  fb   che  sul mio blog  con storie , scritti ogni atteggiamento violento fisico e psicologico verso l'altro sesso . e 'poi ti dirò di più , dicendoti una cosa che non ho detto solo a poche persone qualche tempo fa mi offri, ma  poi non si fece niente   , verso una collega di lavoro vittima di uno stalker telefonico , d'andare a dare una lezione a colui che la tormentava


Lei  
Il machilismo è subdolo e viscido, nascosto anche nelle persone con le migliori intenzioni. Mi è capitato di appurarlo spesso. Uomini in netta contraddizione.
Comunque ti ho dato la mia spiegazione nel post. Buona giornata

IO 
ok.
però sappi che io non intendevo nè intendo far passare quello che tu dici nell'ultimo post cioè carnefici di sempre che si ergono a vittime mi sembra altamente inaccettabile ed irrispettoso verso una piaga umanitaria come la violenza sul genere femminile !!




Immagine correlata
Aggiungo    che  si  è vero sono  come  tutti  gli uomini  , fa parte  della mia  cultura  ed identità ,   e  cerco  sempre  di  tenerlo  a bada   e  di   farlo inaridire e  di coltivare  \  curare   quello  non  violento   e  d'unione     fra le  due  culture    quella  maschile  e quella femminile  ( vedi  foto a   sinistra  )  ,  sono maschilista   ma   come   ho  già detto sia   nella  discussione sopra  riportata     sia  in altri  posto   qui  sul  blog  e sui  social    desto  che    commette   violenza   anche  psicologica    sulle  donne  . E  poi     Comprendere    non  sempre  vuol  dire  giustificare  , anche  se  è vero , NON E'  IL MIO CASO ,    che   cercando   di   capire    sempre   si  giustifica  .Ma  ogni tanto  è necessario  per  poter  debellare  o  cintenere     tale  fenomeno



Un altra   seire di domande che  mi fanno   sono queste


  ti  ho visto mangiare carne    ma non eri vegano visto  che partecipi   alle manifestazioni  dei vegani  come testiminiato  da  queta  foto e dal video  riportato   alla fine di questo articolo di Gallura  news  video   perchè  l'altra  volta   ti  ho visto prendere l'aperiticome  ha  preso  della salsiccia e del lardo ?  [ dev'essere  qualche  mio paesano \ a  ]  ? 

Inanzittutto  io  sono  onnivoro anche    se   come   ho  già detto in precedenza su queste pagine  mangio  pochissima  carne per lo più   no  d'allevamenti intensivi  . L'altra  volta   ,  è vero  sono   un peccatore


,  ho  mangiato  carne  , ma  ho  un rapporto  complicato con il cibo e  se  vedo  cento   pietanze    ( anche se  sono  sazio   o min fa  male  le devo   per  forza  assaggiare ed   per   questo  che sono in analisi  )    .  Poi non sono vegano   , il perchè lo spiegato  nell'ulr  citato prima   e  poi  è una scelta  di vita  troppo  dura   e    io   essendo peccatore  non  ho   una  greande  forza di volontà e resistenza  alle  tentazioni   ma  animalista  e   poi   a quel presidio  \  manifestazione   c'erano  anche  vegetariani  e  vegani  

ma  tu  sei per l'eutanasia \  testamenti biologico  visto che riporti   entrambe le  storie  ?  cosa  faresti se    ti trovassi    nella lorom situazione   o   se  avessi un familiare    in un caso del  genere  ? 

Io   sono come  l'amico  \  compagno  di strada  . di viaggio   Criap  (     vedere i   qui  e  qui i suoi scritti in merito a tale  argomento  ) . 
Per me    anche  non  lo so' cosa  farò  dela mia  vita  . L'unica  cosa  certà  è   che  fortunatamente  riesco   a sopportare   i miei dolori e le mie sofferenze    dei miei acciachi   co cui cinvivo  fin dall'infanzia  (   problemi d'equilibrio  ,  problemi alla parte destra del corpo  ,  problemi di vista  e  d'udito  ) . Quando sarà il momentoi deciderò . 
Per  un familiare  lascio scegliere    con il testamento biologico  , se  non l'ha  fatto  cerco  d'interpretare   le  sue  volontà  sia  che  sia  no   che si    . cominquie  chiederei  a  un medico  di non  farlo soffrire  troppo



L'elzeviro del filosofo impertinente

Io sono stato un obiettore di coscienza e lo sono ancora. Quando in Italia il servizio di leva era obbligatorio scelsi subito di avvalermi del servizio civile. Ho sempre ripudiato l'uso delle armi e non volevo sottrarmi a prestare un servizio utile per il mio Paese. Detto ciò non capisco quei medici che si dichiarano obiettori pur lavorando negli ospedali pubblici. Lo trovo inconcepibile. Se il tuo credo o i tuoi ideali non ti permettono determinati atti non vai a lavorare in una struttura pubblica dove transitano quotidianamente milioni di persone con diverse problematiche di salute. Non puoi farlo se poi le tue convinzioni ostacolano la cura effettiva del paziente o il rispetto delle credenze altrui. Io da obiettore di coscienza non vado mica a lavorare in un'armeria né tanto meno ho mai desiderato arruolarmi in un corpo armato! Bisogna essere sempre coerenti con se stessi e con gli altri. Se sei medico e sei contrario all'aborto non presti il tuo lavoro al pronto soccorso, ma ti fai spostare dove il tuo credo non sarà un problema né per te né per il credo di qualcun altro. Il rispetto deve essere reciproco ma non si può filosofeggiare con la vita o la morte dei propri pazienti. Esistono tante strutture religiose dove poter fare il medico nel pieno rispetto delle proprie convinzioni, e con l'appoggio morale di pazienti e personale lavorativo della struttura. Consentire ai medici di appellarsi all'obiezione di coscienza è una vera imprudenza. Le leggi di uno Stato laico devono essere rispettate, e non conta se come singoli individui siamo favorevoli all'interruzione di gravidanza o contrari, o se non accettiamo la legge sul fine vita oppure se crediamo in Gesù, Ganesh o a nessuna divinità. A mio parere l'obiezione di coscienza deve essere disciplinata da una legge che limita i danni ai pazienti. Davanti al malato non si dovrebbe mai anteporre la propria convinzione personale. Ribadisco che la professione medica è un lavoro molto importante perché ai medici affidiamo la nostra vita e la nostra speranza di guarigione. Come scriveva Oliver Sacks: "La storia individuale del malato e l'intera vita del malato non devono mai passare in secondo ordine". L'obiezione di coscienza possiamo esercitarla quando ci riguarda in prima persona, e non invece imponendola ai nostri simili. Tutto ciò che è frutto di sopraffazione non è mai coscienzioso. L'obiezione di coscienza è un diritto del medico ma non di certo della struttura ospedaliera in cui esercita. Se io ripudio le armi non impedisco certamente ad altri di utilizzarle per difenderci come avviene ad esempio con la polizia, i carabinieri, ecc. Non dimentichiamo che l'obiezione di coscienza di alcuni medici talvolta uccide. Le nostre convinzioni devono essere rispettate ma non imposte altrimenti ogni persona, in virtù dello stesso principio, potrà appellarsi alla propria coscienza per non fare più determinate pratiche lavorative e cadremo nell'anarchia più assoluta. Patch Adams ha affermato che: "Divenni un esploratore dei continenti dell'esperienza e del divertimento facendo ricerca nel laboratorio dell'umanità". I medici devono frequentare di più questi laboratori di umanità per imparare anche dal sofferente. Più contagi di umanità e meno imposizioni fra dottori e pazienti. In questo scambio libero e fecondo di umanità ogni singolo soggetto troverà beneficio per la propria coscienza.

(Criap)


® Riproduzione riservata

chi è più eroe un poliziotto ucciso da Isis o un carabiniere che riesce a a salire in cabina e fermare la corsa di un tir lanciato a 100 chilometri all'ora senza controllo poerchè l'autiosta a veva avuto un malore ?

lo  so  che  tale discorso  vi sembrerà cinico  ma  io  considerò   di  più  eroe  chi   fa  qualche cosa    di eroico  .




da repubblica  de  23   aprile  2017



Asti, il carabiniere eroe: "Così ho fermato il tir impazzito. Ma ho fatto solo il mio dovere"
L'appuntato Riccardo Capeccia e il capitano Gianfranco Pino

Riccardo Capeccia: "Sono riuscito a salire in cabina dopo il camion aveva travolto la nostra auto. Ma se non fosse stato per il mio capitano oggi non sarei qui a raccontarlo"
di CARLOTTA ROCCI



Fermare la corsa di un tir lanciato a 100 chilometri all'ora è qualcosa che possono fare solo gli eroi oppure - nella finzione - gli attori dei film americani. E invece no. Venerdì nell'Astigiano ci è riuscito un carabiniere. Riccardo Capeccia, 44 anni, una compagna e una figlia di 13 anni, appuntato scelto da 12 anni in servizio alla compagnia di Villanova D'Asti, è riuscito a frenare un camion impazzito per colpa di un malore del conducente.
A qualche centinaio di metri da lui c'era il suo comandante, il capitano Gianfranco Pino, 32 anni, padre di due bambine di 8 anni e 8 mesi, da due anni e mezzo al comando della compagnia di Villanova d'Asti. Tutto è accaduto lungo la statale di Dusino San Michele, nella curva Migliarina. "Abbiamo rallentato perché abbiamo visto un camion fermo in curva subito dopo un dosso e abbiamo deciso di controllare. Ci aspettavamo tutt'altro tipo di intervento - spiega il capitano Pino - Invece mentre cercavo di chiamare il 118 per soccorrere l'autista in preda alle convulsioni ho sentito lo spostamento d'aria del camion che ripartiva. Ho fatto appena in tempo a urlare a pieni polmoni per avvisare l'appuntato. Per fortuna mi ha sentito". Il carabiniere si è scansato ma poi è sparito alla vista del suo comandante: "Ho pensato fosse stato travolto dal camion o dalla nostra macchina finita nel fosso".
E invece cosa ha fatto, appuntato?
"Il camion ha tamponato la nostra macchina di servizio e l'ha spinta in un fosso. L'impatto lo ha fatto rallentare, così ho potuto aggrapparmi alla maniglia della portiera sul lato del conducente del tir e mi sono buttato nell'abitacolo. Il camion stava andando avanti verso la curva e stava invadendo l'altra corsia. Con una mano sono riuscito a sterzare ma non trovavo nessun freno. In quel momento ho pensato davvero che ce la saremmo vista brutta io e il camionista".
Poi che è successo?
"Poi, mezzo dentro e mezzo fuori dall'abitacolo, perché non riuscivo a spostare l'autista che stava male, sono riuscito a raggiungere il freno a pedale con una mano. Eravamo già sul rettilineo in discesa e avevamo preso ancora più velocità. Alla fine ci siamo fermati a meno di 400 metri dalla casa cantoniera che Giorgio Faletti celebra nella sua canzone "Signor Tenente"".
Cosa ha pensato quando invece di spostarsi e basta ha deciso di aggrapparsi al camion.

"L'ho fatto e basta. Ho visto la strada, le macchine che arrivavano in senso opposto e ho pensato: se il tir non si ferma è una strage".
E se ci ripensa adesso?
"Ammetto che l'altra notte non ho dormito. Subito dopo non ricordavo niente ma ora continuano a tornarmi davanti agli occhi come dei flash. Mi rivedo mentre cerco il freno senza riuscire a raggiungerlo. E poi ripenso che se il capitano non mi avesse avvisato, non avrei fermato nessun tir e non sarei nemmeno qui a raccontarlo".
Adesso è diventato un'eroe, non crede?

"Ho fatto quel che dovevo e basta. Ringrazio chi crede
che abbia fatto qualcosa di straordinario ma io sono contento di aver evitato conseguenze molto più gravi per l'autista del camion e per gli automobilisti di quella strada molto trafficata".

Ha già incontrato l'autista del camion?
"Non ancora, so che è in ospedale ad Asti e aspetterò che stia meglio. È rimasto incosciente fino all'arrivo del 118 che lo ha portato d'urgenza al pronto soccorso".

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