8.8.21

storie olimpiche 8 ( fine ) olimpiadi vince l'oro a 14 anni per pagare le cure alla madre malata , "Finestre sigillate, poco cibo, solitudine": ecco il Covid Hotel degli atleti, dove muoiono i sogni olimpici e altre storie


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Una delle storie più belle di queste Olimpiadi, forse la più bella e commovente, arriva dai tuffi e da questa ragazza qui.Quan Hongchan è un’atleta cinese, una tuffatrice di 14 anni e 130 giorni. Poco più che una bambina.Due settimane fa è partita per Tokyo per coronare il sogno di partecipare alle Olimpiadi e un obiettivo molto piu intimo e personale: racimolare abbastanza soldi da poter pagare le cure della madre, malata. Quan Hongchan non si è limitata a partecipare. Non si è limitata neppure a vincere. Oggi è entrata nella Storia dello sport dalla porta principale portando a casa un clamoroso oro olimpico dalla piattaforma dei 10 metri con un puntegggio da record (466.20 punti totali) e addirittura tre tuffi semplicemente sublimi che hanno ottenuto 10 da tutti i giudici. La perfezione tecnica ed estetica. Mica male per una ragazza adolescente che si affacciava per la prima volta a una grande competizione internazionale e che era arrivata a Tokyo per un atto d’amore. Favole che solo le Olimpiadi sanno regalare.
Infatti secondo https://www.nextquotidiano.it/ eccetto il video

a favola di Quan Hongchan: va alle Olimpiadi per pagare le cure alla mamma e vince l’oro a 14 anni 

La giovanissima tuffatrice cinese ha vinto la finale di tuffi dalla piattaforma (10 metri). Uno dei suoi tuffi ha raccolto il punteggio massimo

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Quan Hongchan
Ogni atleta ha il suo sogno olimpico. In tanti, quasi tutti, gareggiano per tentare di vincere una medaglia per scrivere il proprio nome nella storia. Altri, invece, lo fanno perché il palcoscenico a Cinque Cerchi è quello che si sogna fin da bambini. A prescindere dal risultato finale. Poi c’è Quan Hongchan, partita dalla Cina in direzione Tokyo solamente per un motivo: cercare di pagare le cure alla mamma malata. Lei è giovanissima (14 anni e 130 giorni) e oggi è entrata nella storia dello sport. La gara era quella di tuffi femminili dalla piattaforma 10 metri. Partita in sordina, fuori dai radar delle favorite, la giovanissima atleta cinese ha sorpreso tutti. Con n punteggio da record (466.20 punti totali) – con uno dei tuffi che ha fatto l’en plein di 10 da parte dei giudici – la 14enne ha sbaragliato la concorrenza di tutte le sue “rivali” sportive partite con i favori dei pronostici. Una prestazione sublime che porta con sé un grande messaggio.Non solo per l’età. Quan Hongchan, infatti, si era aggregata alla compagine cinese. Ma era lontana dai riflettori, nonostante la grande tradizione della Cina nei tuffi (sia al maschile che al femminile, sia dal trampolino che dalla piattaforma). Lei era lì con un obiettivo che poco aveva a che vedere con le medaglie e il podio olimpico: tentare di ottenere il miglior risultato possibile per racimolare un po’ di soldi e pagare le cure alla mamma malata. Una spinta emotiva che l’ha guidata, leggiadra come una campionessa, fino all’oro olimpico.

 

Non male per una giovanissima atleta alla prima apparizione internazionale. Non male per un’adolescente salita su quella piattaforma senza pensare a una medaglia. Perché le storie olimpiche sono anche queste e possono trasformarsi in favole.

"Finestre sigillate, poco cibo, solitudine": ecco il Covid Hotel degli atleti, dove muoiono i sogni olimpici dal nostro inviato Fabio Tonacci





Cinque anni di allenamenti, la gara negata dalla positività, come è successo al canottiere Bruno Rosetti, si finisce a Koto city. E gli atleti protestano per le pessime condizioni in cui sono costretti durante l'isolamento


TOKYO - Una macchia arancione appare dietro l'unica finestra semi-aperta. A occhio, è uno del team olandese. Il ragazzo si sporge per respirare la brezza di Tokyo, e non si può dire che sia una boccata di aria fresca: già a metà mattina in città si superano i 33 gradi. La finestra è al terzo di dodici piani di cemento, vetro e piastrelle. Un parallelepipedo rovente e sigillato che affaccia sul canale del Sumida, uno dei tre fiumi che sfociano nella baia. Sulla facciata, in alto, l'insegna recita: "Day Nice Hotel". Siamo a Koto City, a venti minuti di macchina dal Villaggio Olimpico. Qui vengono rinchiusi gli atleti trovati positivi al tampone, come il canottiere italiano Bruno Rosetti. Soggiorno gratis e forzato al Covid hotel. Su ordine delle autorità sanitarie giapponesi, devono rimanere in quarantena una decina di giorni, anche di più se non si negativizzano. Sono arrivati fino a Tokyo dopo cinque anni di allenamenti, ma le Olimpiadi le guardano sul tablet.
La macchia arancione sta parlando al telefono. Ci vede e ne approfittiamo. "Come stiamo?", risponde con quel poco di inglese che mastica. "Male. Stanze piccole, le finestre sono bloccate, il cibo fa schifo e ci sentiamo abbandonati". Un mezzo sorriso di sarcasmo. Poi con le braccia mima il gesto delle manette. "Tra poco esco, sono stanco di sentire l'altoparlante che alle sette di mattina ci sveglia per ricordarci di sputare nella provetta". Il Nice Day hotel è un albergo a tre stelle chiuso da settimane. Il Cio e il Comitato Tokyo 2020 non forniscono dettagli sulla sua ubicazione, e adesso si capisce perché. All'ingresso un poliziotto controlla che nessuno esca e nessuno entri. La porta girevole non gira. All'esterno ci sono tavolini messi uno sopra l'altro. In fondo al marciapiede che conduce sul retro, una tenda bianca per la raccolta dei campioni salivari e due giapponesi che siedono in silenzio.






Cronache dalla quarantena. Il ciclista tedesco Simon Geschke su Instagram ha documentato la sua settimana e mezzo dentro. Giorno 3: "Ci è proibito far arrivare cibo da fuori chiamando i rider. Per colazione mi hanno dato pane secco, devo ringraziare un egiziano che mi ha portato della marmellata". Giorno 4: "Non esiste servizio lavanderia, lavo la biancheria nel lavandino. La finestra non si apre, asciugherò magliette e mutande col phon". Giorno 5: "Buongiorno dall'atrio, l'unico posto che posso vedere oltre la mia stanza. Preleviamo qui il cibo in tre momenti della giornata. Dietro una vetrata c'è un'infermiera con cui possiamo parlare". Giorno 7: "E' la prima volta che perdo peso dopo il Tour the France". Mostra il vassoio del pasto: due cartoni di riso appiccicaticcio e delle verdure lesse. Giorno 8: "La colazione sta migliorando, c'è più frutta oggi. Ma non abbiamo coltelli. Taglierò il pompelmo con la limetta per le unghie". Unico sollievo all'inerzia: nella camera, dove sono sistemati il letto e la scrivania, ha potuto mettere la bicicletta e può allenarsi pedalando a vuoto.
Athleten Deutschland, la federazione tedesca, attacca duramente il Cio. "I nostri atleti denunciano la mancanza di un ricircolo sufficiente d'aria, descrivono condizioni da prigione e si lamentano che il cibo non offre gli apporti nutrizionali necessari per chi gareggia". I medici interni, stando ai loro racconti, non parlano l'inglese. Lo skateboarder olandese Randy Jacobs è arrivato ad usare il termine "inumane" per descrivere le condizioni vissute al Covid hotel.
Il Nice Day è stato scelto per l'isolamento di atleti e allenatori ed è gestito dal Comitato Tokyo 2020. Sono una trentina quelli fermati prima di competere, su un totale di 358 positività riscontrate all'interno del perimetro olimpico: oltre a Jacobs e Geschke, la pallavolista ceca Marketa Nausch-Slukova, due tennisti olandesi, la karateka russa Anna Chernysheva, la cilena del Taekwondo Fernanda Aguirre, mezza squadra greca del nuoto sincronizzato e altri. Il Cio, per i contagio del team greco, è stato costretto ad uscire allo scoperto e a chiamare le cose per quello che sono. "E' il primo cluster dei Giochi". Non si sa dietro quale finestra chiusa sia la stanza di Rosetti, che ha saputo di essere positivo la mattina del 28 luglio nell'imminenza della finale del quattro senza. Il Coni e la Federazione di canottaggio si limitano a riferire che il 33 enne sta bene e non ha sintomi. Dovrebbe uscire tra qualche giorno.
Questo non è l'unico Covid hotel olimpico. Ce n'è un altro a Chuo City, molto più lontano e piccolo. E' riservato al personale delle federazioni internazionali. E' gestito direttamente dal governo giapponese. Le condizioni, dicono, sono anche peggiori



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Lotta, la rabbia di Chamizo: "Il destino ce l'ha con me"

dal nostro inviato Cosimo Cito07 Agosto 2021






Lotta, Conyedo medaglia di bronzo. L'Italia tocca quota 39
dal nostro inviato Cosimo CitoAbraham Conyedo esulta per il bronzo (afp)

L'azzurro sale sul podio nella libera, categoria fino a 97 kg. Battuto in finale il turco Karadeniz per 6-2. "Questa medaglia è la vita per me, ha vinto chi lo desiderava di più"
TOKYO. Arriva dalla lotta libera la 39ª medaglia azzurra ai Giochi di Tokyo. Abraham Conyedo ha avuto la meglio sul turco Karadeniz nella finale per il bronzo nei 97 kg. L'italo-cubano, 27 anni, si è imposto con il punteggio di 6-2: dopo essere stato a lungo in svantaggio, Conyedo ha trovato nei 30" finali la forza per capovolgere il risultato. Decisiva anche la chiamata di un challenge dalla squadra turca, rifiutato però dal collegio arbitrale, con conseguente punto della sicurezza per l'azzurro. La lotta è il 16° sport a salire sul podio ai Tokyo per la spedizione italiana. E per la libera si tratta del terza medaglia di sempre dopo l'oro di Claudio Pollio a Mosca 1980 e il bronzo di Frank Chamizo a Rio 2016. Conyedo proveniva dal tabellone dei ripescati e oggi aveva battuto, prima del turco, anche il canadese Steen. "Questa medaglia significa tutto per me, è la mia vita, ciò per cui ho lavorato negli ultimi cinque anni": è il commento dell'azzurro, "la prima dedica che voglio fare è per il mio allenatore, che per me è come un padre. Il turco Karadeniz lo avevo già affron.tato e per batterlo ho dovuto cambiare strategia e fare un lavoro molto intenso. Alla fine ha vinto chi lo desiderava di più".
Nato a Santa Clara, giunto nel nostro paese nel 2017 con un buon curriculum alle spalle (argento ai Giochi olimpici giovanili nel 2010 e ai Panamericani nel 2015), Conyedo ha ricevuto la cittadinanza italiana "per meriti speciali" nel 2019 dal Ministero dell'Interno grazie ai risultati sportivi ottenuti. In azzurro ha vinto un un bronzo mondiale (2018) e uno europeo (2019). Solo il 6 maggio scorso aveva ottenuto la qualificazione per i Giochi attraverso il torneo Preolimpico di Sofia. Diplomato in educazione fisica presso l'Università dello sport dell'Avana, ha una compagna italiana, Tiziana, è inserito nel gruppo sportivo dell'Esercito, si allena nel centro federale Fijlkam di Ostia con il coach Pietro Piscitelli. La sua medaglia compensa la delusione per il mancato podio di Frank Chamizo, del quale è amico fraterno, nei 74 kg.




Giappone, scuse pubbliche per chi arriva secondo. Ma cresce il fronte del no: "Troppo stress"dal nostro inviato Giampaolo VisettiKiyou Shimizu, argento nel karate (afp)
È tradizione culturale nel paese del Sol Levante scusarsi per aver fallito. Ogni giorno Tokyo si sveglia con trionfi e ammissioni di colpa. Ora c'è chi dice stop: "Ci siamo allenati duramente, non ci si può accusare di tradimento della patria"


TOKYO - "Non sono riuscita a rispondere alle attese del mio Paese e a ripagare i tanti connazionali che hanno fatto sacrifici per organizzare questi Giochi in un momento così difficile. Per questo chiedo scusa a tutti". Kiyou Shimizu aveva ancora la medaglia d'argento al collo quando in diretta tivù ha pregato i giapponesi di perdonarla per non aver trionfato nel karate kata, perdendo l'ultima sfida per l'oro contro la spagnola Sanchez. Tokyo 2020 ha segnato il debutto del karate alle Olimpiadi, proprio nella culla di una tra le più antiche arti marziali, nata sull'isola di Okinawa quasi otto secoli fa. Fuori dal Giappone l'incrocio di opportunità non basta però a spiegare l'urgenza di comprensione collettiva e la sistematicità dei mea culpa pubblici che accomuna gli atleti di casa che non salgono sul gradino più alto del podio.
Per gli stranieri vincere una medaglia alle Olimpiadi è comunque un sogno. Già qualificarsi per la finale, o conseguire un buon risultato, sono gli obbiettivi di una carriera sportiva. Per i giapponesi no: se vinci devi ringraziare, se non ci riesci ti devi scusare. Mai come in questa edizione. "Non ho il coraggio di prendere in mano il telefono - ha detto Kenichiro Fumita, argento nella lotta greco-romana - non so cosa dire a mio padre. Spero solo che lui e la nazione accettino le mie scuse". Il paradosso è che mai nella storia delle Olimpiadi il Giappone ha vinto tante medaglie come quest'anno. Alla vigilia della cerimonia conclusiva, la nazionale ospitante ne ha già conquistate 52: 24 d'oro, 12 d'argento e 16 di bronzo. Battuto il record di 38 medaglie, di cui solo 7 d'oro, stabilito nel 2016 a Rio de Janeiro.
Nel medagliere il Giappone è terzo alle spalle di Cina e Usa, le due superpotenze sia dello sport e che del pianeta. I successi hanno via via ridotto l'ostilità popolare contro i Giochi: rinviati di un anno, tenuti nonostante il riesplodere della pandemia nel Paese e svolti infine a porte chiuse. Non bastano però per sollevare gli atleti giapponesi dall'obbligo di pubbliche scuse, spesso in lacrime, ogni volta che mancano la vittoria assoluta. "Per rendere orgogliosa la gente - ha detto piangendo il climber Tomoa Narasaki, rimasto ai piedi del podio finale - ho rinunciato a tutto, ma non è bastato. Conquistare una medaglia d'oro era un mio dovere: chiedo scusa per questo fallimento".
La cultura occidentale tende a trovare anche nella sconfitta le ragioni di una grandezza. Quella dell'Estremo Oriente insegna invece che perdere significa non aver fatto il necessario per vincere e che tale mancanza impone una piena assunzione di responsabilità. Scusarsi davanti a tutti in Giappone fa parte di educazione e convenzione sociale. Lo fa chi entra in casa d'altri, il taxista che resta imbottigliato nel traffico, il manager che non soddisfa le attese degli azionisti, il politico travolto da uno scandalo, il dipendente che va in ferie, il conducente del treno che arriva con pochi secondi di ritardo. "La richiesta del perdono - spiega la psicologa Shirobu Kitayama - è prevista anche dal cristianesimo, ma in Giappone è rivolta alla società, non alla divinità. Mira ad attenuare le conseguenze di un errore, a dimostrare umiltà e rispetto nei confronti di chi si ritiene di aver deluso, o fatto soffrire".
Alle Olimpiadi di Tokyo per gli atleti di casa tale dovere è moltiplicato dalla pressione popolare che circonda l'evento, dai costi pubblici sostenuti per svolgerlo, dalla depressione indotta dal Covid e dal bisogno politico del governo di trionfi sportivi per risalire nei sondaggi in vista delle elezioni di fine settembre. Perfino la campionessa-star del tennis Naomi Osaka, a cui è stato riservato l'onore di accendere il braciere olimpico nel Nuovo stadio nazionale, non avendo centrato la finale è stata costretta a scuse social "per non essere riuscita a soddisfare le attese di tutti". Proprio i social sono tra le cause dell'escalation di richieste di comprensione che partono dal Villaggio olimpico. Decine di atleti, dopo aver mancato la vittoria, hanno denunciato minacce, insulti e aggressioni in Rete. Chi non ha provveduto a postare subito le proprie scuse sul web è stato subissato dalle accuse di "egoismo, menefreghismo e superbia". Tra questi anche Shochiro Mukai, argento nel judo a squadre. "Sì - ha dovuto infine ammettere - potevo resistere di più e non deludere i miei compagni, privandoli della gioia di vincere". Il capo dell'Unione degli atleti giapponesi, Takuya Yamazaki, ha spiegato che nel Paese "non si compete per se stessi, ma per rendere onore alla nazione". Da bambini si comincia a fare sport a livello agonistico non per divertimento, ma per essere all'altezza delle attese dei genitori, degli adulti, di insegnati e allenatori. L'obbiettivo, come nella vita di ogni giorno è "non perdere la faccia" risultando sconfitti. Scuse pubbliche esprimono allo stesso tempo rimpianto, umiltà, paura, riconoscenza, responsabilità, dispiacere e gratitudine per la comprensione altrui.
"Volevamo vincere a tutti i costi - ha detto il calciatore Yuki Soma dopo la sconfitta ai supplementari contro la Spagna - per rendere felici i giapponesi che causa Covid non hanno potuto sostenerci dal vivo nello stadio. Chiediamo scusa per non aver contribuito a dare forza ed energia al Paese". Mai come oggi il Giappone olimpico si sveglia ogni mattina carico di trionfi e allo stesso tempi di ammissioni di colpa. Il contrasto tra realtà sportiva e convenzioni sociali è tale che i media cominciano a chiedersi se non sia arrivato il momento di "attenuare lo stress che nella nazione pesa su ogni individuo dal giorno della nascita", considerato tra le cause del primato mondiale di suicidi. "Giusto aprire un dibattito sincero - ha detto al New York Times l'ex maratoneta Yoko Arimori, argento e bronzo ai Giochi di Atlanta e di Barcellona, processato pubblicamente per essersi dichiarato fiero di sé - sull'enigma della nostra identità. Ma restando allo sport e alle Olimpiadi, se un atleta si è allenamento duramente e in gara ha dato tutto, oggi non può più essere moralmente obbligato a scusarsi di un secondo posto per sottrarsi all'accusa ipocrita di tradimento della patria".

Tokyo 2020, i record di età dei medagliati: ecco la più giovane e il più anziano a salire sul podio


di Francesco Cofano

In questa edizione delle Olimpiadi sono stati riscritti primati di precocità e anzianità che resistevano da decenni. 

A 12 anni la giapponese Kokona Hiraki ha vinto la medaglia d’argento nello skateboard, sport al debutto assoluto ai Giochi, diventando la più giovane a vincere una medaglia da 73 anni. Il più anziano è invece il cavaliere australiano Andrew James Hoy, che a 62 anni si toglie la soddisfazione di vincere un argento e un bronzo alla sua ottava Olimpiade. Per quanto riguarda l’Italia, invece, tra il più giovane e il più anziano ci sono 23 anni di differenza. Ecco chi sono.





Naifonov, il bronzo del bambino di Beslan



Artur Naifonov (reuters)

Il ventiquattrenne russo, terzo nella lotta libera 86 kg, è uno degli oltre 700 bambini sequestrati diciassette anni fa durante l'assedio della scuola nell'Ossezia Settentrionale, la repubblica autonoma nella regione del Caucaso
Il ventiquattrenne russo Artur Naifonov, tre volte campione europeo e bronzo nella lotta libera 86 kg ai Giochi di Tokyo, è uno degli oltre 700 bambini sequestrati diciassette anni fa durante l’assedio della scuola numero 1 di Beslan, nell’Ossezia Settentrionale, repubblica autonoma nella regione del Caucaso. Lo riferisce il sito della Bild.
Tra il 1° e il 3 settembre 2004, 36 fondamentalisti islamici e separatisti ceceni occuparono l’edificio, sequestrando oltre 1200 persone. Quando intervennero le forze speciali russe, i terroristi uccisero 331 ostaggi, compresi 186 bambini, e ne ferirono 750.
In quell’occasione la mamma di Naifonov perse la vita per cercare di salvare il figlio. La vicenda coinvolge anche un altro lottatore presente ai Giochi: il connazionale Zaurbek Sidakov, oro nella categoria 74 kg ed ex compagno di classe di Naifonov, che per sua fortuna quel giorno non era a scuola. “In quel momento mi sono detto: se mai dovessi ottenere una grande vittoria, la dedicherò a tutti coloro che hanno sofferto a Beslan”, ha dichiarato alla testata Meduza il neocampione olimpico.

non tutti che hanno fatto il green pass falso sono imbeccilli e no green pass


  sul    gruppo    fb   : adotta   anche tu  un analfabeta   funzionale  gruppo   che  fa   le pulci  agli analfabeti   funzionali  o ai  creduloni  acritici   , ho  trovato     questo post    di  


Amico dei segreti dell'internet, cacciatore dei misteri di potenti organizzazioni, detective degli intrighi internazionali..... hai comprato alla modica cifra di 400 euro un greenpass tarocco dal primo canale telegram che te lo proponeva ? È dura, lo so .... ti credevi V per Vendetta ed invece ti scopri Furio che telefona all'Aci.Mi raccomando... ora prodigati in mille consulenze legali da parte di sedicenti avvocati che ti diranno quanto è incostituzionale tutto questo... tanto siamo sempre a tempo a trovare un'alchimista sul deep web che ti trasforma le grondaie di rame in oro!


  e questa interessante  discussione  

Sandra Basilischi
Ma bravi, prima si fanno fregare 300 euro, poi si ritroveranno finanziamenti a gogò da pagare, visto che lasciano copia di carta di identità e tessera sanitaria a chissà chi.

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Biagio Maestri
Sandra Basilischi stavo pensando la stessa cosa. Questi sono quelli che non vogliono essere controllati dal microchip di bill gates e poi danno tutti i documenti ad uno sconosciuto su telegram.·

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Andrea Zacchello
Sandra Basilischi infatti con quei documenti apri linee telefoniche, finanziamenti ect ....·
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Luigi Patitucci
Andrea Zacchello se ti va bene. Immagina se questi dati finissero in mano a criminali seri (cosa più che probabile se finissero nel deep web)·
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Sandra Basilischi
Per non parlare dei casi in cui ti ritrovi amministratore di millemila società


  vero  . però qui   non  ci soi  domanda   se ad aver acquistato il green pass taroccato fossero anche coloro che per infida burocrazia e leggi fatte ad ninchiam che rendendo complicatissimo ottenerlo peggio.del lascia passare A38 di Asterix una la scena pr chi non lo ricorda



non riescono ad ottenerlo ?

7.8.21

storie olimpiche parte 7 ( BIS )

erano talmente tante ler  stoprie   che  ho preferito di dividerle  in  due post 

Fausto Eseosa Desalu, dai primati non registrati alla cittadinanza a 18 anni fino alla favola delle Olimpiadi

di Marco Bonarrigo

Nato nel 1994 a Casalmaggiore (Cremona) da genitori nigeriani, Faustino è il classico italiano di seconda generazione. Ha cominciato col calcio ma a 17 anni è stato reclutato nell’Interflumina di Casalmaggiore

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(Getty Images)

Per diventare cittadino italiano, Eseosa Faustine Desalu, per tutti Faustino, quello che dei quattro eroi della staffetta olimpica azzurra si è fatto carico dell’ultima curva, ha dovuto aspettare di compiere 18 anni. Nato nel 1994 a Casalmaggiore (Cremona) da genitori nigeriani, Faustino è il classico italiano di seconda generazione.

Ha cominciato col calcio ma a 17 anni è stato reclutato nell’Interflumina di Casalmaggiore, una società di atletica che come molte altre in Italia è molto attenta a valorizzare quel gran bacino di talenti rappresentato dai giovani figli di immigrati. Quando nel 2011 stabilisce il nuovo primato allievi dei 60 ostacoli, questo non può essere convalidato perché Faustino non ha ancora il nostro passaporto. Successo dopo successo arrivano la cittadinanza, il reclutamento nelle Fiamme Gialle e una carriera di velocista che - curiosamente - è imperniata quasi esclusivamente sui 200 metri.

Faustino è veloce ma, soprattutto, è velocissimo in curva dove riesce a mantenere un equilibrio perfetto. Il suo 20”13 sui 200 (risale al 2018, poi qualche problema ai muscoli, purtroppo fragili, l’ha frenato) è il secondo tempo di sempre dopo il leggendario 19”72 di Pietro Mennea. Desalu si allena tra Bologna, Catania e Ortisei, ama il rock, i disegni manga e le clip di animazione.

Oltre alla sua superba prestazione in staffetta, di Desalu ha colpito il comportamento di mamma Veronica, l’unica tra i parenti dei nostri medagliati che ha rinunciato alle varie sfilate televisive in diretta. «Lavoro come badante - ha detto - e non voglio disturbare la signora che assisto. Ho visto con lei la gara e ci siamo commosse assieme e poi ci siamo divise una torta che ha portato sua figlia. E’ stato un bellissimo pomeriggio». 



  infatti  







«Vorrei dei nipoti da lui, così io potrò tornare in Africa dalla mia famiglia e riposarmi»
di Claudio Del Frate e Raffaele Rastelli / CorriereTv




Parla Veronica Desalu, la madre della medaglia d’oro nella 4x100 Eseosa «Fausto» Desalu, raggiunta nella casa dove vive con il figlio a Casalmaggiore (Cremona): «È sempre stato un bambino educato, che mi ascoltava. Fin da piccolo anziché camminare, correva sempre». E ancora: «Da mio figlio vorrei dei nipoti, così potrò tornare in Africa, dalla mia famiglia, e riposarmi. Sono orgogliosa di lui, prima di tutto gli ho insegnato il rispetto. E poi gli ho insegnato che i soldi vanno guadagnati in modo autonomo». Venerdì 6 agosto, nel corso del programma «Il circolo degli anelli» (Rai Due), la donna ha fatto sapere che non sarebbe andata in collegamento tv perché doveva lavorare come badante. Venendo a conoscenza di questo episodio il figlio si è commosso durante un’intervista rilasciata al «Corriere» a Casa Italia: «Mia madre? Mi sdebiterò con lei, mi ha insegnato i valori della vita».
C’è anche questa normalità, questa storia, questa straordinaria lezione di dignità, nella vittoria di ieri. Un frammento dell’Italia più bella come dice Lorenzo Tosa .



Paltrinieri e le Olimpiadi: si fa la storia anche senza vincere l’oro



di Luca Gelmini, inviato a Tokyo

La fatica, la sofferenza e il sacrificio di un campione valgono di più della medaglia. Una lezione che Greg condivide anche con l’amico Tamberi



Si fa la storia anche senza vincere l’oro. Gregorio Paltrinieri è l’atleta al quale la frase si addice di più. Per lui sono state usate espressioni come «impresa titanica», «miracolo», «gigante» e non accade spesso di riservarle a chi non finisce sul gradino più alto del podio. A lui invece è capitato.
L’ultima fatica rimarrà impressa per parecchio. La 10 km di fondo è un percorso di guerra, un’ultramaratona in mezzo ai pesci che volano. L’aggettivo più azzeccato per definirla è «brutale». SuperGreg ne è uscito con le ossa rotte, il ghigno stremato, il fisicone prosciugato perché all’«ultimo giro ero morto». Uno normale, con tutto quello che ha passato, la pianterebbe lì e invece lui si è affrettato a far sapere che è la disciplina che lo esalta di più. Perché Greg non è un velocista, semmai un passista. Esce alla lunga distanza, in acqua e fuori dall’acqua. A volte sembra cibarsi della sofferenza che patisce. Il piacere della sfacchinata, il senso del dovere.Non è un caso che un altro «doverista» (per dirla alla Dino Buzzati) come Tamberi lo indichi a modello. Nella bolla del villaggio olimpico Greg e Gimbo non hanno giocato alla Playstation. Si sono chiusi in camera per ore a parlare di ansie e riscatto, del dolore fisico che non passa. «È la persona alla quale voglio più bene, c’è solo da imparare», ha spiegato Tamberi. Che destino poi ha voluto abbia vinto un oro ex aequo, come dire che un po’ di fortuna a lui è tornata indietro. A Greg il fato ha riservato altro: un lungo cammino nel sacrificio. Ha preparato l’Olimpiade in condizioni impossibili. Ha saltato quasi un mese di allenamenti per la mononucleosi. Chiude portandosi a casa un argento in piscina e un bronzo nelle «acque libere». Era venuto a Tokyo per vincere tre ori e alla fine ne ha vinto uno. Quello della fatica, che vale di più.

Nonno Savino è malato e non può andare al matrimonio del nipote: lo va a trovare lui insieme alla sposa

Nonno Savino è malato e non può andare al matrimonio del nipote: lo va a trovare lui insieme alla sposa

di Alessandro Vinci

È accaduto mercoledì in un hospice di Minervino Murge (Bat). La lettera dei due: «Per sentirti vicino ci è bastato sapere che avresti lottato con tutte le tue forze per poter arrivare a questo giorno». Boom di «Like» sui social

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Nonno Savino avrebbe fatto qualsiasi cosa per essere presente al matrimonio del nipote, suo omonimo, con l’amata Maria. Sta però combattendo contro una grave malattia che lo tiene bloccato all’interno dell’hospice Karol Wojtyla di Minervino Murge, in provincia di Barletta-Andria-Trani. Conscio del desiderio dell’uomo, che pareva destinato a non essere esaudito, lo sposo si è quindi avvalso dell’aiuto degli operatori della cooperativa che gestisce la struttura per organizzargli una sorpresa indimenticabile. Senza apparente motivo l’anziano è stato quindi trasferito in una stanza con una grande porta finestra che si affaccia su un giardino interno. E proprio da lì, appena dopo la cerimonia, mercoledì ha visto fare capolino marito e moglie: il nipote in completo blu e papillon, Maria in abito bianco con tanto di velo. A immortalare il momento, alcuni scatti pubblicati il giorno dopo su Facebook dalla Asl provinciale.

Vista la fragilità della salute del nonno, per chiare ragioni precauzionali anti Covid-19 l’incontro si è svolto nel segno del più rigoroso distanziamento sociale. Anche per questo i neo consorti hanno voluto lasciargli una lettera scritta a quattro mani: «Ciao nonno, alla fine ce l’hai fatta – si legge –, volevi esserci a ogni costo e, in qualche modo, anche se non come speravamo, ci sei riuscito; Hai mantenuto la promessa e ci hai fatto il regalo più bello che potessi farci: esserci! Perché, anche se non fisicamente, per sentirti vicino ci è bastato sapere che avresti lottato con tutte le tue forze per poter arrivare a questo giorno. Il nostro più sentito pensiero va a te nonno!».Come prevedibile, il post ha fatto il pieno di «Like» e condivisioni. Numerosissimi anche i commenti, tra i quali si legge per esempio: «Un inchino a chi ha permesso che tutto ciò avvenisse», «Complimenti, questo si chiama “rispetto”» e «Ho il nodo in gola e gli occhi lucidi: i nonni sono la più grande ricchezza e uno dei doni più belli della nostra vita». Naturalmente però ad aver provato le emozioni più forti è stato nonno Savino: facile immaginare quanto gli abbia fatto piacere entrare a far parte, seppur dal letto di un hospice, del giorno più bello della vita del nipote. Un legame fortissimo ora rinsaldatosi ulteriormente

Torino, padre rifiuta la figlia anoressica: «Sei un mostro, fai impressione». Il giudice: «Per lei una vita penosa»


   dobbiamo smettere   di considerare    slo ed  esclusivamente   il femmicidio    nel significato  principale  cioè 

Il termine femminicidio (più raramente chiamato anche femmicidio o femicidio) è un neologismo che identifica i casi di omicidio doloso o preterintenzionale ...  

Ma   di usare      il   quelo  esteso    ovvero  

Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l'identità attraverso l'assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte. 

 
 Infatti   dal  https://torino.corriere.it/cronaca/    del  6\8\2021

                               di Simona Lorenzetti  

Torino, rifiuta la figlia anoressica: «Sei un mostro, fai impressione». Il giudice: «Per lei una vita penosa»



L'uomo, 65 anni, è stato condannato a 2 anni e 6 mesi per maltrattamenti. Per il Tribunale ha «infierito psicologicamente sulla difficile patologia con comportamenti incuranti»
Stravedeva per suo padre e avrebbe fatto di tutto per «rimanere la sua bambina». Nel 2008 ha 16 anni quando si ammala di anoressia. Il suo corpo si trasforma, fino a pesare 35 chili. Lui continua a rifiutarla, a dirle che è «pazza». Per anni le infligge «costanti sofferenze e mortificazioni». Quando lei si avvicina per abbracciarlo, lui l’allontana: «Sei un mostro». La spinge via, rinfacciandole di essere troppo magra: «Fai impressione». Allo stesso tempo, non esita a sfruttare l’amore incondizionato che la giovane ha nei suoi confronti «per chiederle favori». Sa che lei farebbe di tutto «per compiacerlo». Atteggiamenti, questi, che per il Tribunale di Torino configurano il reato di maltrattamenti. L’uomo, un torinese di 65 anni, è stato condannato a due anni e sei mesi di reclusione. Non solo ha infierito contro la figlia anoressica, ma anche contro la moglie: vittima di abusi psicologici e fisici.
È stata la donna, nel 2019, a denunciarlo ai carabinieri. Una decisione non facile, condivisa dalla figlia maggiore di 29 anni, l’unica capace di tenere testa a un padre aggressivo e con problemi di alcol. Il giorno in cui tutto cambia è il 30 giugno. L’uomo, che da qualche mese è tornato a vivere dalla madre, si presenta nella casa coniugale. Ha con sé una pistola, la punta contro la moglie e contro se stesso. Poi se ne va chiudendo la donna e la figlia maggiore nell’alloggio. Loro chiamano i carabinieri e lui viene arrestato per porto abusivo di arma. Emerge quindi che mesi prima la moglie lo aveva denunciato, dopo essere finita in ospedale perché lui l’aveva aggredita. Le indagini del pm Marco Sanini portano alla luce quello che ora il giudice definisce «un regime di vita particolarmente penoso, caratterizzato da notevoli sofferenze morali e fisiche».
In aula, la moglie e le figlie di 29 e 27 anni raccontano dieci anni di umiliazioni. Raccontano di un padre prevaricatore, incapace di confrontarsi in famiglia. Di un uomo che si nascondeva dietro a bugie e menzogne e che aveva portato tutti sul lastrico. A patire è soprattutto la figlia minore. Quando lei raggiunge la pubertà, lui le rimprovera di «non essere più la sua bambina» e la deride «per il peso eccessivo». La ragazza si ammala di anoressia. Il padre nega la patologia. Rifiuta l’incontro con medici e psicologi, sostenendo che sono «deficienti e incapaci». E alla figlia ripete: «fai schifo», «sei un mostro».
«Volevo spronarla a reagire», dirà l’uomo per giustificarsi. Per il giudice, che lo ha condannato,«ha agito con la consapevolezza di imporre alla moglie e alla figlia un regime di vita che le stesse non potevano sopportare». E in particolare alla ragazza, «infierendo psicologicamente sulla difficile patologia con comportamenti incuranti e improntati a moventi egoistici e approfittatori».

Lo straordinario ingegnere di Ittiri: non sente ma progetta il sound perfetto

 non racconto  come  leggerete  dal  post  d'oggi  ,  le  storie      delle    olimpiadi    , ma   anche altre storie 

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La scommessa vinta di Salvatore Ruiu e del team sassarese di Abinsula



LUCA FIORI   06 AGOSTO 2021 la  nuova  sardegna  






SASSARI. Quando a pochi anni di vita i medici gli hanno diagnosticato una sordità bilaterale profonda, la cui causa è ancora sconosciuta, i suoi genitori non si sono persi d’animo come sarebbe stato normale, ma hanno deciso che il loro bambino doveva comunque avere le chance di tutti i suoi coetanei. Così, grazie alla caparbietà di papà Luigi e mamma Baingia che hanno scommesso su di lui - e alle tante, tantissime ore di logopedia - Salvatore Ruiu, 35 anni, ingegnere informatico di Ittiri, con una laurea conseguita al Politecnico di Torino, ha superato difficoltà e diffidenze e quello che fa oggi è la prova che con la forza di volontà si può superare qualsiasi ostacolo. «Anche la sordità - spiega l’ingegnere, sposato e padre di una bambina - perché oggi, grazie al progresso e alle nuovissime tecnologie, anche una persona sorda è in grado di condurre una vita normale». Ma quello che fa l’ingegnere ittirese è molto di più di qualcosa di normale. Team leader all’interno dell’azienda sassarese Abinsula (l’azienda fondata nel 2012 e ora proiettata nel mercato globale), Salvatore Ruiu subito dopo aver conseguito la laurea in ingegneria informatica si è specializzato nel settore dell’automotive. «Non avrei mai pensato però - spiega l'ingegnere - che il mio primo progetto come sviluppatore di sistemi “embedded” fosse proprio legato alla programmazione di un processore audio digitale di un sistema infotainment per una grossa azienda automobilistica tedesca».

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