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21.3.25

Fu il prof napoletano Vincenzo Mario Palmieri a inchiodare i sovietici sul massacro di Katyn. I comunisti italiani non l'hanno mai perdonato

N.b
Per chi ha tempo e vuole saperne di più oltre all'introduzione , ai siti riportati a fine post , e all'articolo riportato integralmente dal IL FOGLIO in cui racconta in maniera più dettagliata la vicenda e sul fango gettatogli addosso per evitare che parlasse di ciò . Ringrazio  il  libro : C'era  una  volta  in  Italia   gli  anni sessanta      di Enrico Deaglio  per  aver     fatto  conoscere  tale  storia 


Per le storie d'oggi vi propongo la storia di prof. Vincenzo Mario Palmieri (nato a Brescia il 16.07.1899 e deceduto a Napoli il 23.12.1993) che fu docente di medicina legale presso l’ateneo napoletano dal 1940 al 1969 e sindaco di Napoli tra il 1962 ed il 1963. Il prof. Palmieri fu componente di quella che potremmo definire la prima commissione internazionale nominata per l’accertamento di crimini di

guerra durante la seconda guerra mondiale. “Vincenzo Mario Palmieri, il medico napoletano che smascherò la bugia di Katyn, viene ricordato in Polonia come un eroe”, attesta Alfonso Maffettone che è stato corrispondente dell’Ansa a Varsavia per sei anni, dal 1993 al 1999, e mantiene tuttora contatti in quel Paese… “Non solo contribuì con la sua perizia alla rivelazione di uno dei più grandi crimini di Stalin”, aggiunge il giornalista (che per l’agenzia di stampa internazionale ha lavorato anche da New York, Tokyo, Singapore), “ ma ebbe la forza, sottolineano i polacchi, di resistere alle persecuzioni e alle minacce degli agenti del servizio segreto russo (Nkvd e Kgb) che, sotto falsa identità, venivano a Napoli per farsi consegnare dal medico una dichiarazione con la smentita ufficiale dei suoi studi da cui emergeva la responsabilità dei sovietici del massacro di Katyn”. Palmieri era pedinato, minacciato, anche affinchè non fosse divulgata la sua testimonianza “scomoda”. Si parla della strage di 22mila ufficiali polacchi sepolti nella foresta di Katyn, nei pressi della città di Smolensk (Russia) durante la seconda guerra mondiale. I cadaveri furono scoperti nel 1943 e, dopo uno scambio di accuse tra Russia e Germania sulle responsabilità dell’eccidio, si riuscì ad accertare la verità soltanto in seguito alle perizie di una commissione internazionale di scienziati indipendenti nella quale ebbe un ruolo determinante proprio il medico legale, docente della Federico II, Vincenzo Mario Palmieri appunto .

da il foglio

Upon all the living and the dead (J. Joyce)

Il giuramento di Ippocrate vale su tutti i vivi e i morti, anche se i morti non possono guarire né parlare, rimproverare o denunciare. Per non tradire i morti il professor Vincenzo Mario Palmieri, di anni 44, affermato docente napoletano di medicina legale, avrebbe vissuto il mezzo secolo che ancora gli riservò il destino nel timore di essere ucciso, nella denigrazione e in un inesplicabile silenzio. Sperò che tutti dimenticassero di lui ciò che lui non avrebbe mai dimenticato: “Uno spettacolo grandiosamente sinistro, che richiederebbe il verso di Dante o il pennello di Michelangelo”. E che richiese, a Palmieri, un referto scientifico di cui forse si pentì ma non avrebbe ritrattato.
E’ mercoledì 28 aprile 1943 quando il professore, assieme a 12 colleghi di altrettanti paesi, scende dal bus che lo ha portato dalla città russa di Smolensk alla vicina foresta di Katyn, dove le truppe tedesche di occupazione vanno scoprendo un immane massacro. Giacciono accatastati sotto un metro e mezzo di terra sabbiosa, su cui giovani pini e betulle sono stati trapiantati, i corpi di circa ventiduemila militari polacchi perlopiù ufficiali, prigionieri di guerra dei sovietici. Li ha liquidati la polizia segreta Nkvd, secondo un piano che poi si accerterà disposto dal Politburo e curato dal ministro dell’Interno Laurenti Beria. La Germania di Hitler, cui è offerta una formidabile opportunità propagandistica, incolpa della strage i sovietici. La Russia di Stalin respinge l’accusa e attribuisce il crimine ai nazisti. Gli alleati occidentali acconsentono per convenienza alla versione di Mosca. Il governo di Polonia esule a Londra sollecita un’indagine indipendente e il Cremlino, considerando la richiesta un atto ostile, rompe le relazioni diplomatiche con i polacchi. E’ in questo clima che il 23 aprile del ’43 la Croce rossa internazionale apre il Caso Katyn e designa una commissione per stabilire la dinamica del massacro e soprattutto la data: se sia avvenuto prima o dopo l’arrivo dei nazisti.
Per l’ignaro Palmieri la vita sta per cambiare: è stato scelto come rappresentante italiano per caratura accademica e perché parla tre lingue fra cui il tedesco, usato anche in casa con la moglie svizzera Erna Irene von Wattenwyl. Il 24 aprile, Sabato Santo, ha appena comprato la pastiera quando riceve una telefonata che lo invita subito a partire “onde procedere ad un’inchiesta medico-legale sui cadaveri esumati in gran copia nella foresta di Katyn”. La domenica di Pasqua si mette in treno e arriva a Roma, dove viene imbarcato su un aereo per Berlino. Vola martedì 27 via Varsavia a Smolensk con i colleghi, tranne il delegato spagnolo: il professor Piga, racconterà Palmieri, “aveva talmente sofferto nel viaggio in aereo che non riteneva possibile proseguire”. Qualche altro membro della commissione, potendo leggere il futuro, ne avrebbe seguito l’esempio. Come il professor Hayek di Praga. O Markov di Sofia. Quando i rispettivi paesi cadranno sotto influenza sovietica ritireranno le firme dalla perizia, poi finiranno uccisi. Più impressione ancora desterà in Palmieri, nel dopoguerra, la morte misteriosa del generale medico francese Costeodat, che aveva preso parte da osservatore alla commissione.
La perizia conclusiva della Croce rossa, siglata all’unanimità, non lasciava adito a dubbi: lo sterminio ebbe luogo tra marzo e aprile 1940 e si trattò, scrisse Palmieri, “di un’esecuzione sistematica, realizzata da persone particolarmente esperte”. Gli esami medici, botanici, balistici, coincidenti con le testimonianze raccolte fra la popolazione, trovavano conferma nelle carte rinvenute sui corpi, riferibili a un’epoca compresa tra l’autunno ’39 e l’aprile successivo. La maggioranza delle salme fu identificata facilmente perché i militari, caricati a gruppi sui camion dai campi di prigionia al luogo dell’esecuzione, vestivano la propria uniforme invernale e conservavano portafogli e documenti personali.
E’ mercoledì 28 aprile 1943. Vincenzo Mario Palmieri scende dal bus che lo ha portato dove i tedeschi hanno scoperto un immane massacro
Alla riconquista del territorio, il Cremlino nominerà la commissione medica Burdenko sotto suo diretto controllo, che sosterrà la matrice nazista dell’eccidio con un’opera di manipolazione dagli effetti duraturi, anche se nel mondo occidentale le reticenze cadono e nel 1951 un’inchiesta promossa dal Congresso americano accerta l’esistenza di “prove definitive e inequivocabili” contro i sovietici. Bisognerà aspettare la caduta del Muro di Berlino perché a Mosca ammettano le responsabilità: solo nel 1990 Gorbaciov porge le scuse ufficiali alla Polonia e nel ’92 Eltsin desecreta parte degli archivi tra cui i documenti su Katyn. Magari il professor Palmieri, che muore il 23 dicembre del ’94 ancora lucido malgrado un ictus sofferto anni prima, avrà guardato con sollievo a questa conclusione. Se lo fece, s’illuse. Perché non era (non è) finita. Nel 2004 Putin impone nuovamente il segreto di stato sulle carte, che sono un tassello dei complessi rapporti tra la Russia e la Polonia, e quando poi deplorerà l’eccidio ne parlerà come di un crimine stalinista (prima di rivalutare Stalin stesso).
Ma ormai nell’Italia degli anni Duemila nessuno si ricorda più dell’uomo che stese di suo pugno il primo referto su Katyn, lavorando su quel testo con i colleghi fino all’alba. Nessuno si ricorda o quasi: il 10 ottobre 2004, rispondendo a un lettore sul Corriere della Sera, Paolo Mieli ripercorre la vicenda e osserva che “i sovietici si impegnarono a screditare chiunque avesse collaborato con quella commissione”. Cita un’opera fondamentale, Il massacro di Katyn di Victor Zaslavsky, in cui si riferiva “dell’intimidazione e della denigrazione comunista nei confronti del professore napoletano Vincenzo Mario Palmieri che si era occupato del caso. E che, per essersi avvicinato alla verità e averne parlato pubblicamente, fu definito dal Pci ‘collaborazionista’, ‘fascista’, ‘nazista’, ‘servo della propaganda di Goebbels’, ‘menzognero e falsificatore della verità storica’. Una storia molto triste”.





Bisogna aspettare la caduta del Muro perché a Mosca ammettano le responsabilità. Nel 2004 Putin impone di nuovo il segreto di stato sulle carte


Molto triste sì ma adesso, aprile 2022, sembra tutto lontano: è lontano il luglio del ’43, quando il generale polacco Wladyslaw Sikorski, che ha chiesto conto a Stalin dell’eccidio, muore in un misterioso incidente aereo. Lontano il marzo ’46, quando il procuratore di Cracovia Roman Martini, che indaga su Katyn, viene ucciso sotto casa. Lontano persino il 10 aprile 2010, quando il presidente della Repubblica polacca, Lech Kaczynski, perisce con altre 95 persone (tra cui i membri dello stato maggiore) mentre vola a Smolensk per commemorare le vittime. Ma lontano molto meno è maggio 2020, quando vengono rimosse le targhe che ricordavano la strage dall’ex edificio dell’Nkvd, alla vigilia del settantacinquesimo anniversario della vittoria sul nazismo. E lontana per nulla, bensì di questi giorni, è la conclusione della commissione d’inchiesta polacca sulla fine di Kaczynski, che ribaltando le precedenti indagini non attribuisce il disastro a errori umani ma a due esplosioni sul Tupolev presidenziale, di cui i russi si sono sempre rifiutati di consegnare i rottami ai periti di Varsavia.
Risultano allora più comprensibili quei timori di Palmieri e l’amarezza che lo accompagnò nel resto della vita. Nel 2009 la storica della medicina Luigia Melillo cura per l’Orientale di Napoli con Antonio Di Fiore uno studio sul luminare quasi a riparazione postuma, scoprendo che la sua perizia su Katyn, malgrado la rilevanza internazionale, fu “significativamente” ignorata nell’atto con cui la facoltà di Medicina nel ’75 gli conferiva il titolo di professore emerito. E che nel volume in suo onore, curato da colleghi e allievi, la perizia manca dall’elenco delle 216 pubblicazioni prodotte in carriera. Ne resta unica traccia un articolo che Palmieri redasse nel luglio ’43 per La vita italiana. Perdute poi, perché “misteriosamente bruciate nell’Istituto medico legale di Napoli”, le fotografie scattate dai periti a Katyn, che il professore aveva portato con sé. Prima di lasciarle in Istituto, le aveva nascoste per anni in una scatola avendo cura, a ogni tornata elettorale, di avvolgerla in un impermeabile e interrarla casomai avessero vinto i comunisti.


Il più accanito accusatore di Palmieri fu Eugenio Reale, intimo di Togliatti. Gli studenti comunisti andavano a disturbare le sue lezioni

C’era un clima pesante che nel Dopoguerra fu pesantissimo, come rievocato da Ermanno Rea in Mistero napoletano. “La verità”, gli confidò Maurizio Valenzi, già sindaco ed esponente di spicco del Pci locale, “è che nella follia stalinista ci siamo stati tutti dentro fino al collo, siamo stati tutti nello stesso tempo vittime e persecutori, compiendo azioni e pensando cose che non avremmo voluto mai fare né pensare”. Il più accanito accusatore di Palmieri fu Eugenio Reale, intimo di Togliatti (di cui sarebbe diventato acerrimo nemico dopo i fatti d’Ungheria del ’56). Lo attaccò con più articoli sull’Unità e sulla Voce, esortando il rettore e gli studenti ad allontanare il docente colpevole della “infame missione” di Katyn. Non contento, nel gennaio ’48 Reale segnalò Palmieri a Kostylev, ambasciatore di Stalin a Roma, quale “servo della propaganda di Goebbels” dedito ad attività antisovietiche. L’accanimento produsse qualche effetto: Enzo La Penna, a lungo cronista giudiziario dell’Ansa, rammenta suo zio Pasquale Sica, che si laureò con Palmieri ed esercitò per tutta la vita come medico di base nel rione Arenaccia: “Mi raccontava con rammarico che gli studenti comunisti andavano a disturbare le lezioni del professore e a insultarlo. Ho un aneddoto che spiega quanto quel clima si protrasse. A otto anni andai a vedere a casa di un altro zio, Gigino, militante comunista, la partita Urss-Italia dei Mondiali ’66. Quando telefonò mio padre per sapere il risultato zio Gigino rispose: ‘Abbiamo vinto’. ‘E chi ha segnato?’ chiese papà. ‘Cislenko’”.
Tutto sommato, Palmieri evitò il peggio. Ormai anziano, l’allievo Achille Canfora ne ricordava il “basso profilo”: “Se si fosse esposto disseppellendo il caso Katyn, sarebbe stata a rischio l’incolumità sua e della sua famiglia. Non avevamo dubbi che fosse pedinato”. A proteggerlo furono l’amicizia con De Gasperi e l’appartenenza all’Azione cattolica, che lo portarono per un periodo di nove mesi e 20 giorni, tra il 1962 e il ’63, alla poltrona di sindaco di Napoli, il primo dopo l’epopea di Achille Lauro. Durò poco “perché non si piegava alle pressioni”.
C’era intanto un uomo che voleva disperatamente incontrare Palmieri: Gustaw Herling, lo scrittore polacco reduce dai gulag sovietici che si era stabilito a Napoli sposando Lidia Croce, figlia del filosofo. Herling aveva combattuto a Montecassino con il Corpo del generale Anders e teneva infisso in mente il chiodo di Katyn. Nel ’55 chiese di vedere Palmieri, ma ebbe un secco “no”: si sarebbero conosciuti soltanto nel gennaio ’78. Il professore prese la famosa scatola delle fotografie e gliele mostrò. Centinaia: “Era un cimitero polacco illustrato nel cuore della vecchia Napoli”. Palmieri disse che ancora ricordava il “terribile fetore”, le lettere, le foto di famiglia, i ritagli di giornale nelle tasche dei soldati. “Sembra che siano usciti molti libri su Katyn”, commentò. “Non li ho letti: che cosa possono aggiungere a ciò che conosco per esperienza diretta…”. Dialogavano sommessi come due clandestini.


Gustaw Herling, scrittore polacco reduce dai gulag sovietici, si stabilì a Napoli. Dialogò con Palmieri, sembravano due clandestini

Cosa ancora temevano? Per capirlo aiuta il Breve racconto di me stesso, dove Herling parla del suo trasferimento a Napoli: “Avvertivo chiaramente che mi trovavo in un paese sottoposto alla tutela dei comunisti, e che a mia volta ero oggetto di una continua sorveglianza… Sentivo dunque tutta l’avversione che i comunisti portavano nei miei confronti, e che toccò il suo apice in un articolo pubblicato su Paese Sera, in cui si chiedeva di espellermi dall’Italia”. Per lui, malgrado la parentela illustre, le porte degli intellettuali restarono semichiuse fino alla caduta del Muro: “Solo dopo il 1989, se così si può dire, Napoli si è interessata a me”. Allora finalmente gli presentano il direttore del principale quotidiano cittadino, che gli chiede: “Com’è possibile che lei abita a Napoli da quarant’anni e non sapevamo nulla di lei, ma solo adesso ci conosciamo?”. Herling vorrebbe dire che si sono conosciuti tardi “perché nessuno prima aveva voluto incontrarsi con me”. Decide invece di ribattere con ironia: “Dal momento che i polacchi amano l’attività clandestina, io anche ho vissuto qui in clandestinità”. “Non so”, soggiunge, “se sia stato compreso”. Recita una celebre tarantella ispirata forse dal Buddha, o dal cinismo: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, / chi ha dato, ha dato, ha dato / Scurdammoce ’o passato…”.
Ma forse è meglio di no.
https://www.simlaweb.it/crimini-guerra-katyn/
https://it.wikipedia.org/wiki/Vincenzo_Mario_Palmieri
siti consultati
https://www.quotidianonapoli.it/notizie-in-primo-piano-della-citta-di-napoli-e-della-sua-provincia/e-considerato-un-eroe-in-polonia-quel-medico-napoletano-che-smaschero-la-bugia-di-katyn-due-testimonianze/
Fu un napoletano a inchiodare i sovietici sul massacro di Katyn. I comunisti italiani non l'hanno mai perdonato | Il Foglio





e per finire il foglio di cui riporto integralmente l'articolo

Upon all the living and the dead (J. Joyce)

Il giuramento di Ippocrate vale su tutti i vivi e i morti, anche se i morti non possono guarire né parlare, rimproverare o denunciare. Per non tradire i morti il professor Vincenzo Mario Palmieri, di anni 44, affermato docente napoletano di medicina legale, avrebbe vissuto il mezzo secolo che ancora gli riservò il destino nel timore di essere ucciso, nella denigrazione e in un inesplicabile silenzio. Sperò che tutti dimenticassero di lui ciò che lui non avrebbe mai dimenticato: “Uno spettacolo grandiosamente sinistro, che richiederebbe il verso di Dante o il pennello di Michelangelo”. E che richiese, a Palmieri, un referto scientifico di cui forse si pentì ma non avrebbe ritrattato.
E’ mercoledì 28 aprile 1943 quando il professore, assieme a 12 colleghi di altrettanti paesi, scende dal bus che lo ha portato dalla città russa di Smolensk alla vicina foresta di Katyn, dove le truppe tedesche di occupazione vanno scoprendo un immane massacro. Giacciono accatastati sotto un metro e mezzo di terra sabbiosa, su cui giovani pini e betulle sono stati trapiantati, i corpi di circa ventiduemila militari polacchi perlopiù ufficiali, prigionieri di guerra dei sovietici. Li ha liquidati la polizia segreta Nkvd, secondo un piano che poi si accerterà disposto dal Politburo e curato dal ministro dell’Interno Laurenti Beria. La Germania di Hitler, cui è offerta una formidabile opportunità propagandistica, incolpa della strage i sovietici. La Russia di Stalin respinge l’accusa e attribuisce il crimine ai nazisti. Gli alleati occidentali acconsentono per convenienza alla versione di Mosca. Il governo di Polonia esule a Londra sollecita un’indagine indipendente e il Cremlino, considerando la richiesta un atto ostile, rompe le relazioni diplomatiche con i polacchi. E’ in questo clima che il 23 aprile del ’43 la Croce rossa internazionale apre il Caso Katyn e designa una commissione per stabilire la dinamica del massacro e soprattutto la data: se sia avvenuto prima o dopo l’arrivo dei nazisti.
Per l’ignaro Palmieri la vita sta per cambiare: è stato scelto come rappresentante italiano per caratura accademica e perché parla tre lingue fra cui il tedesco, usato anche in casa con la moglie svizzera Erna Irene von Wattenwyl. Il 24 aprile, Sabato Santo, ha appena comprato la pastiera quando riceve una telefonata che lo invita subito a partire “onde procedere ad un’inchiesta medico-legale sui cadaveri esumati in gran copia nella foresta di Katyn”. La domenica di Pasqua si mette in treno e arriva a Roma, dove viene imbarcato su un aereo per Berlino. Vola martedì 27 via Varsavia a Smolensk con i colleghi, tranne il delegato spagnolo: il professor Piga, racconterà Palmieri, “aveva talmente sofferto nel viaggio in aereo che non riteneva possibile proseguire”. Qualche altro membro della commissione, potendo leggere il futuro, ne avrebbe seguito l’esempio. Come il professor Hayek di Praga. O Markov di Sofia. Quando i rispettivi paesi cadranno sotto influenza sovietica ritireranno le firme dalla perizia, poi finiranno uccisi. Più impressione ancora desterà in Palmieri, nel dopoguerra, la morte misteriosa del generale medico francese Costeodat, che aveva preso parte da osservatore alla commissione.
La perizia conclusiva della Croce rossa, siglata all’unanimità, non lasciava adito a dubbi: lo sterminio ebbe luogo tra marzo e aprile 1940 e si trattò, scrisse Palmieri, “di un’esecuzione sistematica, realizzata da persone particolarmente esperte”. Gli esami medici, botanici, balistici, coincidenti con le testimonianze raccolte fra la popolazione, trovavano conferma nelle carte rinvenute sui corpi, riferibili a un’epoca compresa tra l’autunno ’39 e l’aprile successivo. La maggioranza delle salme fu identificata facilmente perché i militari, caricati a gruppi sui camion dai campi di prigionia al luogo dell’esecuzione, vestivano la propria uniforme invernale e conservavano portafogli e documenti personali.
E’ mercoledì 28 aprile 1943. Vincenzo Mario Palmieri scende dal bus che lo ha portato dove i tedeschi hanno scoperto un immane massacro
Alla riconquista del territorio, il Cremlino nominerà la commissione medica Burdenko sotto suo diretto controllo, che sosterrà la matrice nazista dell’eccidio con un’opera di manipolazione dagli effetti duraturi, anche se nel mondo occidentale le reticenze cadono e nel 1951 un’inchiesta promossa dal Congresso americano accerta l’esistenza di “prove definitive e inequivocabili” contro i sovietici. Bisognerà aspettare la caduta del Muro di Berlino perché a Mosca ammettano le responsabilità: solo nel 1990 Gorbaciov porge le scuse ufficiali alla Polonia e nel ’92 Eltsin desecreta parte degli archivi tra cui i documenti su Katyn. Magari il professor Palmieri, che muore il 23 dicembre del ’94 ancora lucido malgrado un ictus sofferto anni prima, avrà guardato con sollievo a questa conclusione. Se lo fece, s’illuse. Perché non era (non è) finita. Nel 2004 Putin impone nuovamente il segreto di stato sulle carte, che sono un tassello dei complessi rapporti tra la Russia e la Polonia, e quando poi deplorerà l’eccidio ne parlerà come di un crimine stalinista (prima di rivalutare Stalin stesso).
Ma ormai nell’Italia degli anni Duemila nessuno si ricorda più dell’uomo che stese di suo pugno il primo referto su Katyn, lavorando su quel testo con i colleghi fino all’alba. Nessuno si ricorda o quasi: il 10 ottobre 2004, rispondendo a un lettore sul Corriere della Sera, Paolo Mieli ripercorre la vicenda e osserva che “i sovietici si impegnarono a screditare chiunque avesse collaborato con quella commissione”. Cita un’opera fondamentale, Il massacro di Katyn di Victor Zaslavsky, in cui si riferiva “dell’intimidazione e della denigrazione comunista nei confronti del professore napoletano Vincenzo Mario Palmieri che si era occupato del caso. E che, per essersi avvicinato alla verità e averne parlato pubblicamente, fu definito dal Pci ‘collaborazionista’, ‘fascista’, ‘nazista’, ‘servo della propaganda di Goebbels’, ‘menzognero e falsificatore della verità storica’. Una storia molto triste”.
Bisogna aspettare la caduta del Muro perché a Mosca ammettano le responsabilità. Nel 2004 Putin impone di nuovo il segreto di stato sulle carte
Molto triste sì ma adesso, aprile 2022, sembra tutto lontano: è lontano il luglio del ’43, quando il generale polacco Wladyslaw Sikorski, che ha chiesto conto a Stalin dell’eccidio, muore in un misterioso incidente aereo. Lontano il marzo ’46, quando il procuratore di Cracovia Roman Martini, che indaga su Katyn, viene ucciso sotto casa. Lontano persino il 10 aprile 2010, quando il presidente della Repubblica polacca, Lech Kaczynski, perisce con altre 95 persone (tra cui i membri dello stato maggiore) mentre vola a Smolensk per commemorare le vittime. Ma lontano molto meno è maggio 2020, quando vengono rimosse le targhe che ricordavano la strage dall’ex edificio dell’Nkvd, alla vigilia del settantacinquesimo anniversario della vittoria sul nazismo. E lontana per nulla, bensì di questi giorni, è la conclusione della commissione d’inchiesta polacca sulla fine di Kaczynski, che ribaltando le precedenti indagini non attribuisce il disastro a errori umani ma a due esplosioni sul Tupolev presidenziale, di cui i russi si sono sempre rifiutati di consegnare i rottami ai periti di Varsavia.
Risultano allora più comprensibili quei timori di Palmieri e l’amarezza che lo accompagnò nel resto della vita. Nel 2009 la storica della medicina Luigia Melillo cura per l’Orientale di Napoli con Antonio Di Fiore uno studio sul luminare quasi a riparazione postuma, scoprendo che la sua perizia su Katyn, malgrado la rilevanza internazionale, fu “significativamente” ignorata nell’atto con cui la facoltà di Medicina nel ’75 gli conferiva il titolo di professore emerito. E che nel volume in suo onore, curato da colleghi e allievi, la perizia manca dall’elenco delle 216 pubblicazioni prodotte in carriera. Ne resta unica traccia un articolo che Palmieri redasse nel luglio ’43 per La vita italiana. Perdute poi, perché “misteriosamente bruciate nell’Istituto medico legale di Napoli”, le fotografie scattate dai periti a Katyn, che il professore aveva portato con sé. Prima di lasciarle in Istituto, le aveva nascoste per anni in una scatola avendo cura, a ogni tornata elettorale, di avvolgerla in un impermeabile e interrarla casomai avessero vinto i comunisti.
Il più accanito accusatore di Palmieri fu Eugenio Reale, intimo di Togliatti. Gli studenti comunisti andavano a disturbare le sue lezioni
C’era un clima pesante che nel Dopoguerra fu pesantissimo, come rievocato da Ermanno Rea in Mistero napoletano. “La verità”, gli confidò Maurizio Valenzi, già sindaco ed esponente di spicco del Pci locale, “è che nella follia stalinista ci siamo stati tutti dentro fino al collo, siamo stati tutti nello stesso tempo vittime e persecutori, compiendo azioni e pensando cose che non avremmo voluto mai fare né pensare”. Il più accanito accusatore di Palmieri fu Eugenio Reale, intimo di Togliatti (di cui sarebbe diventato acerrimo nemico dopo i fatti d’Ungheria del ’56). Lo attaccò con più articoli sull’Unità e sulla Voce, esortando il rettore e gli studenti ad allontanare il docente colpevole della “infame missione” di Katyn. Non contento, nel gennaio ’48 Reale segnalò Palmieri a Kostylev, ambasciatore di Stalin a Roma, quale “servo della propaganda di Goebbels” dedito ad attività antisovietiche. L’accanimento produsse qualche effetto: Enzo La Penna, a lungo cronista giudiziario dell’Ansa, rammenta suo zio Pasquale Sica, che si laureò con Palmieri ed esercitò per tutta la vita come medico di base nel rione Arenaccia: “Mi raccontava con rammarico che gli studenti comunisti andavano a disturbare le lezioni del professore e a insultarlo. Ho un aneddoto che spiega quanto quel clima si protrasse. A otto anni andai a vedere a casa di un altro zio, Gigino, militante comunista, la partita Urss-Italia dei Mondiali ’66. Quando telefonò mio padre per sapere il risultato zio Gigino rispose: ‘Abbiamo vinto’. ‘E chi ha segnato?’ chiese papà. ‘Cislenko’”.
Tutto sommato, Palmieri evitò il peggio. Ormai anziano, l’allievo Achille Canfora ne ricordava il “basso profilo”: “Se si fosse esposto disseppellendo il caso Katyn, sarebbe stata a rischio l’incolumità sua e della sua famiglia. Non avevamo dubbi che fosse pedinato”. A proteggerlo furono l’amicizia con De Gasperi e l’appartenenza all’Azione cattolica, che lo portarono per un periodo di nove mesi e 20 giorni, tra il 1962 e il ’63, alla poltrona di sindaco di Napoli, il primo dopo l’epopea di Achille Lauro. Durò poco “perché non si piegava alle pressioni”.
C’era intanto un uomo che voleva disperatamente incontrare Palmieri: Gustaw Herling, lo scrittore polacco reduce dai gulag sovietici che si era stabilito a Napoli sposando Lidia Croce, figlia del filosofo. Herling aveva combattuto a Montecassino con il Corpo del generale Anders e teneva infisso in mente il chiodo di Katyn. Nel ’55 chiese di vedere Palmieri, ma ebbe un secco “no”: si sarebbero conosciuti soltanto nel gennaio ’78. Il professore prese la famosa scatola delle fotografie e gliele mostrò. Centinaia: “Era un cimitero polacco illustrato nel cuore della vecchia Napoli”. Palmieri disse che ancora ricordava il “terribile fetore”, le lettere, le foto di famiglia, i ritagli di giornale nelle tasche dei soldati. “Sembra che siano usciti molti libri su Katyn”, commentò. “Non li ho letti: che cosa possono aggiungere a ciò che conosco per esperienza diretta…”. Dialogavano sommessi come due clandestini.
Gustaw Herling, scrittore polacco reduce dai gulag sovietici, si stabilì a Napoli. Dialogò con Palmieri, sembravano due clandestini
Cosa ancora temevano? Per capirlo aiuta il Breve racconto di me stesso, dove Herling parla del suo trasferimento a Napoli: “Avvertivo chiaramente che mi trovavo in un paese sottoposto alla tutela dei comunisti, e che a mia volta ero oggetto di una continua sorveglianza… Sentivo dunque tutta l’avversione che i comunisti portavano nei miei confronti, e che toccò il suo apice in un articolo pubblicato su Paese Sera, in cui si chiedeva di espellermi dall’Italia”. Per lui, malgrado la parentela illustre, le porte degli intellettuali restarono semichiuse fino alla caduta del Muro: “Solo dopo il 1989, se così si può dire, Napoli si è interessata a me”. Allora finalmente gli presentano il direttore del principale quotidiano cittadino, che gli chiede: “Com’è possibile che lei abita a Napoli da quarant’anni e non sapevamo nulla di lei, ma solo adesso ci conosciamo?”. Herling vorrebbe dire che si sono conosciuti tardi “perché nessuno prima aveva voluto incontrarsi con me”. Decide invece di ribattere con ironia: “Dal momento che i polacchi amano l’attività clandestina, io anche ho vissuto qui in clandestinità”. “Non so”, soggiunge, “se sia stato compreso”. Recita una celebre tarantella ispirata forse dal Buddha, o dal cinismo: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, / chi ha dato, ha dato, ha dato / Scurdammoce ’o passato…”.
Ma forse è meglio di no.

20.3.25

diario di bordo n 109 anno III . IL Liutaio del piano di Mozart è cuistode-dei suoni dimenticati Marcellinò Grillo ha lavorato anche he pér Peter Gal Gabriel ., La volontaria con le scarpe da running: «Corro perlaricercae vinco col cuore» Cinzia Noli, 42 anni, parteCipa a maratone e mezze maratone soltanto per solidarietà

   da  la  nuova  del  18\3\2025  e  del 17\3\2025






Dalla carta alla serie televisiva: è il “salto di specie” dei romanzi Amiche , M, Gattopardo, la saga dei Florio , Lolite e Conti di Montecristo , ecc : ormai sono le fiction a consacrare la grande letteratura

 La letteratura   scomarira   o sarà   destinata  a  fondersi  con il cinema  \  televisone ?    questo  è l'interrogativo che mi pongo   leggendo     quest articolo  di   Camilla Tagliabue  sul 



Dumas nostro contemporaneo: Il conte di Montecristo va a ruba più di Due cuori in affitto di Felicia Kingsley, ma è solo grazie alla fiction su Rai1 e alla contemporanea disfida di Mediaset con film omonimo. Ormai sono le serie televisive a consacrare la grande (e piccola) letteratura, e a far vendere i libri in un mercato stracco e in forte contrazione: svetta nella recente top ten dei tascabili L’arte della gioia di Goliarda Sapienza, altrimenti diretta su Sky da Valeria Golino e Nicolangelo Gelormini; il Dantès di Alexandre Dumas si attesta al quinto posto, mentre nella classifica della narrativa nostrana Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa – su Netflix con la regia di Tom Shankland – è nono e Una questione di soldi di Gabriella Genisi – l’ultima indagine della Lolita (Lobosco) più amata dagli italiani, i televisori italiani soprattutto – è ventesima.La serialità è diventata insomma marchio di garanzia doc, dop e igp: lo testimoniano le fresche lamentazioni di Hanya Yanagihara che, a dieci anni dall’uscita di Una vita come tante, ancora non ha trovato un produttore per ridurre il suo long-seller in episodi tv, nonostante il romanzo sia amatissimo da critica (una candidatura al Booker Prize) e pubblico (una pletora di Booktoker) e di trama spendibilissima per uno spettacolo, tanto da essere già stata adattata come pièce teatrale.Niet, questa serie non s’ha da fare: eppure si erano interessati al progetto, opzionandone i diritti, Scott Rudin (produttore di The social network) e Joe Mantello (regista di The boys in the band) e, nel 2022, la piattaforma di streaming Hulu ne aveva commissionato dodici episodi, abbandonando tutto dopo aver letto la sceneggiatura dei primi quattro, co-scritti dalla Yanagihara, e calcolato i costi (60 milioni di dollari almeno). “Ho sentito un paio di dirigenti di rete dire che avrebbero voluto che fosse come Sex and the City, il che mi preoccupa molto”, si duole l’autrice sui social. “Ma ci sono altri modi per decifrare questo libro, interpretarlo e portarlo sullo schermo”. Chi vivrà vedrà: un passaggio in tv non si nega più a nessuno.In principio fu Gomorra, ma pure Suburra, Romanzo criminale, Acab e altri Bastardi, compresi quelli di Pizzofalcone, perlopiù passati dalla carta al grande schermo e solo successivamente al piccolo: il salto di specie, però, è pericoloso e l’esito televisivo non sempre memorabile; anzi, la serie finisce spesso per tradire, banalizzare o caricaturizzare i romanzi. Se Le indagini di Lolita Lobosco su Rai1 ha dato lustro alla quasi sconosciuta Genisi, Il Gattopardo coi pur belloni attori è stato sbertucciato, non reggendo al confronto con il libro e ancor più col film di Visconti. Stessa sorte, in discesa, potrebbe capitare a Ha r r y Potter, la saga long-long-seller di J. K. Rowling che, dopo i lungometraggi, diventerà una serie tv prodotta da Warner Bros e sul set in estate con un cast rinnovato, tra cui John Lithgow nei panni di Albus Silente e Cillian Murphy come professor Raptor. I fanatici fremono, ma sono esigentissimi: chiedere a quelli di J. R. R. Tolkien, non proprio entusiasti dei film, figuriamoci della fiction
Schermi ambiti Yanagihara si lamenta che nessuno vuole ridurre il suo bestseller in episodi tv  Gli Anelli del Potere). Certo, è più facile tradurre a puntate per gli occhi le grandi epopee romanzesche, tipo il ciclo dell’amica geniale di Elena Ferrante o la trilogia, diventata nel frattempo pentalogia, su M. Mussolini di Antonio Scurati, piuttosto dileggiato nel remake televisivo. Poi ci sono i libri in serie, naturalmente trasposti in serie da decenni quando ancora si chiamavano telefilm o sceneggiati: il menù è ricco e offre quasi tutti i gialli e gialletti della casa o d’importazione, dal Poirot di Christie al Commissario Montalbano di Andrea Camilleri, dal Rocco Schiavone Antonio Manzini allo Stucky Fulvio Ervas, dal Vincenzo Malinconico di Diego De Silva alla Imma Tataranni di Mariolina Venezia...I noir funzionano; gli altri generi, dal romance al classico, un po' meno: come spesso accade per i film, lo schermo – piccolo o grande che sia – azzoppa i romanzi tipo One day di David Nicholls, Conversations with friends di Sally Rooney o il catastrofico – televisivamente parlando – Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez. Viceversa, pochi ma agguerriti sono i titoli tv che hanno poi decretato il successo del libro originale, come Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood o Il problema dei tre corpi di Liu Cixin. Ma chi lo conosce è bravo.

Il dolore di un papà cinque anni dopo: «Elisa vorrebbe vedermi felice, sorrido alla vita per lei»Pierpaolo Riccobono ha perso la figlia 15enne nel febbraio 2020 in un incidente stradale. Ora racconta come si è salvato: «Lei è il mio faro

Questa storia non è solo una della classiche storie per la festa del papa ma è anche una storia che risponde a una elucubrazione comune a chi a ho subito un lutto . la vicenda riportata sulla nuova sardegna del 19\3\2025 è certo una storia triste e malinconica ma piena di speranza e forza di rincominciae ed andare avanti .





Il dolore di un papà cinque anni dopo: «Elisa vorrebbe vedermi felice, sorrido alla vita per lei»
Pierpaolo Riccobono ha perso la figlia 15enne nel febbraio 2020 in un incidente stradale. Ora racconta come si è salvato: «Lei è il mio faro

                            di Luca Fiori

 Sassari 
«Il tempo non allevia niente. Però ti aiuta, giorno per giorno, a uscire dalle tenebre in cui si ritrova improvvisamente chiunque debba affrontare la tragedia che è capitata a me. All’inizio vedevo tutto nero, poi piano piano, grazie a lei, ho ripreso a vedere la luce e ora voglio godermi la vita a pieno, come mia figlia avrebbe voluto per il suo papà».Pierpaolo Riccobono, sassarese di 53 anni, agente di commercio, cinque anni fa - nei giorni in cui il

covid stava per cambiare le nostre vite - una sera di carnevale si è ritrovato catapultato all’inferno. Pochi giorni prima che esplodesse la pandemia, la sua esistenza è stata stravolta da un’esplosione ancora più violenta del virus, che miracolosamente lo ha lasciato in vita. E dalla quale ha avuto la forza di rialzarsi e piano piano anche di riprendere a sorridere. Il 29 febbraio del 2020 sua figlia Elisa, di soli 15 anni, era a una festa in maschera con gli amici, a Li Punti. Il giretto del quartiere in moto, con un ragazzino poco più grande di lei, era finito in tragedia. Chi guidava era rimasto ferito, Elisa, studentessa del liceo sportivo di Porto Torres e promettente ballerina, era morta un’ora dopo in ospedale.

Pierpaolo quale è stato il momento più difficile?

«Il momento più difficile è stato “il momento”. Perché quando la vita si spezza ti vengono a crollare tutte le certezze, tutti i pilastri che ti eri costruito. E il pilastro principale della mia vita era Elisa. Perché io, come qualsiasi genitore, vivevo, facevo e sognavo sempre perché c’era lei. Volevo sempre il bene per mia figlia, sempre vederla sorridere. Poi improvvisamente il buio».

E poi cosa è successo?

«Quando la vita ti mette davanti a tragedie di questo tipo hai tre possibilità. La prima, lo dico senza tanti giri di parole, è cercare un ponte e andarsene per sempre. La seconda è vivere strisciando e la terza è cercare di godersi il bello della vita, sapendo che ogni figlio desidera sempre vedere i propri genitori felici. Io ho scelto la terza possibilità, perché so che Elisa non vorrebbe vedermi strisciare, ma vuole la mia felicità».

E ora come sta?

«Sto bene, grazie. E grazie di avermi fatto questa domanda, non tutti hanno il coraggio di farmela. Questi cinque anni li ho vissuti sulle montagne russe. È stato un delirio, perché la cosa più importante al mondo mi è venuta a mancare. Ma fin da subito ho sentito che lei era sempre con me, che mi aiutava ad affrontare questo dramma. E cercando di reagire, grazie alle sue linee guida, perché lei ora è semplicemente il mio faro, sono riuscito a godermi la vita. Cosa che non avevo mai fatto prima. Avevo vissuto una vita strana, quasi a limite. Elisa mi ha insegnato a godermela, sotto tutti i punti di vista. Quando penso a lei, cioè ogni istante della mia giornata, e ho delle difficoltà di vita quotidiane, lei mi dà sempre le risposte».

E quali sono le risposte?

«È una semplice equazione quella che faccio: lei vuole il bene per me, come tutti i figli del mondo».

Che rapporto avevate?

«Splendido, di totale fiducia e complicità. Ricordo quando un giorno in macchina, a 14 anni, mi confidò che aveva iniziato a fumare. Le dissi che le sigarette non le avrebbero fatto bene, ma non mi arrabbiai. Poi venni a sapere che lo aveva raccontato felice ai suoi amici. Sapeva che poteva fidarsi di me e questo mi riempie ancora di gioia».

La festa del papà che giornata sarà?

«Sarà un giorno in cui penserò a lei ancora di più. Ma sempre con il sorriso e con un occhiolino per la mia bambina».

In quei giorni di marzo del 2020, poco dopo la tragedia, lei prese pubblicamente le difese del ragazzino che guidava la moto, che era stato attaccato sui social. Fu un gesto molto altruista.

«Insieme alla mamma di Elisa ci facemmo una semplice domanda: Elisa cosa avrebbe voluto? E anche in quel caso la risposta me la diede lei».

Lei da anni scrive sui social messaggi positivi, di speranza. Si concludono sempre con la frase “Più uno”.

«Quando scrivo sui social mi rivolgo a Elisa, non lo faccio per avere like o compassione. Non ho ricette per chi sta vivendo il mio dramma purtroppo, ognuno deve trovare la sua strada da solo. Ma ogni genitore deve sapere che un figlio, anche se non c’è più, non vorrebbe vederlo triste. La vita merita comunque di essere vissuta al meglio, nonostante le tragedie. “Più uno” era il modo di quantificare con lei l’amore che provavo nei suoi confronti, era una cosa nostra che continuo a fare».

Crede che ci sia qualcosa dopo la vita?

«Credo nell’uomo. E credo che l’inferno e il paradiso siano su questa terra. E credo anche che la vita ce la costruiamo noi, dobbiamo essere abili nel seminare bene per ricevere bene».

Come vede il suo futuro?

«Lo vedo».




egli ha saputo metabolizzare ( in realtà non passa mai ma possiamo renderlo meno cruento e doloroso ) . Ma soprattutto insieme alla moglie

da

https://www.fanpage.it/attualita/sassari-elisa-muore-a-15-anni-genitori-difendono-ragazzo-che-guidava-moto-lasciatelo-in-pace
/

[...]
Gavina Cubeddu sono i genitori di Elisa. E ora difendono Enrico, il 17enne che guidava l’Aprilia 125 da cui sono caduti, per le minacce ricevute. Lo fanno con un post su Facebook: “Volevo semplicemente dire a tutte quelle persone che se la stanno prendendo con Enrico con minacce e altro di prendersela con me. Siete solo dei poveracci che non capite la sofferenza di due famiglie. Non auguro a nessuno, neanche al mio peggior nemico, di passare quello che stiamo subendo dalla vita. Ma penso che sia dovuto solo a un stramaledetto destino infame. Per le persone che vogliono fare del male a Enrico devono passare sul mio cadavere. Fatti forza Enrico, ti vogliamo bene, Pierpaolo e Gavina”.Il post è stato condiviso da molte persone, che hanno apprezzato l’atto di amore dei due genitori nei confronti del ragazzo, nonostante quello che è avvenuto. A La Nuova Sardegna, Pierpaolo Riccobono aggiunge: “Spero che serva a qualcosa, magari ad aiutare a crescere e a ragionare i ragazzini che stanno attaccando ingiustamente Enrico. Poteva capitare a chiunque quello che è successo, ma nessuno può più fare niente. Due sere fa avevamo a casa 40 amici di Elisa, quella che lei chiamava la sua greffa. E ora io e Gavina possiamo solo cercare di dare il buon esempio a questi ragazzi”.

Caro Vecchioni Quando gli “altri” possono essere meglio di “noi” Il Fatto Quotidiano19 Mar 2025 VINCENZO INCENZO

 LEGGI     ANCHE MIA  LETTERA    APERTA   A  ROBERTO VECCHIONI


IL 15 MARZO SCORSO, durante la manifestazione pro-europa promossa da Michele Serra in piazza del Popolo a Roma, il cantautore Roberto Vecchioni ha detto alla folla: “Ora chiudete gli occhi e ascoltate questi nomi: Socrate, Spinoza, Cartesio, Hegel, Marx, Shakespeare, Cervantes, Pirandello, Manzoni, Leopardi. Ma gli altri le hanno queste cose?”.

“Gli altri”, cioè i non europei. Qualcuno pensa ai russi, sui social saltano fuori come da scatole a molla i nomi di Puskin, Gogol', Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Majakovskij. E Vecchioni rettifica, spostando il discorso sull’america di Trump e Musk.

Ma la pezza appare peggiore del buco. Il problema non è chi ha vinto il campionato della cultura, ma usare la letteratura come catenaccio per chiudere la porta agli “altri”, per dividere il mondo in buoni e cattivi, in intelligenti e stolti, cioè fare quanto di più anticulturale possa esistere.

Il concetto suprematista di un’europa illuminata e superiore, di un Pantheon inaccessibile allo straniero, di una sorta di arianesimo culturale, ci ripiomba in un baratro vissuto due secoli fa, al quale non dovremmo più nemmeno lontanamente pensare.

La letteratura - e a Vecchioni non dobbiamo certo insegnarlo - parla e agisce trasversalmente

alle culture e alle etnie, non può essere fondamentalista per la sua stessa ragione d’essere: unisce e non divide, chiama a raccolta tutti. La cultura non è nostra, professore, e lei lo sa bene: la cultura ha mille radici e mille provenienze. E ogni uomo ha valore a prescindere dai suoi avi, come ci insegna un “altro”, l’afroamericano Malcom X. Quel “frusciare di pagine” di cui parla Vecchioni nella sua canzone Il libraio di Selinunte che la portava “lontano dove il cuore non si sente più lontano” ci ha offerto, sono sicuro, il suo pensiero più autentico: quello che rifiuta le distanze, che ci libera da primati pericolosi e che sostituisce alle parole “noi” e “loro” la parola “insieme".

19.3.25

si può essere eroi anche senza essere militari . In volo verso gli Usa, medico specializzando salva passeggera colpita da infarto. «In quel momento ho pensato solo a far presto»



sfogliando msn.it \ big leggo  dal corriere  della sera  edizione  Bari  del 17\3\2025 la storia riportata oggi . Confermo quanto detto dal titolo ciioè si puo essere erori anche senza essere mlitari e in guerra . E che spesso per parafrasare  Eroe  per  caso  un famoso film degli ani 90 si può essere eroi per caso appunto   .
Infatti  dal  link     citato  nelle  righe  precedenti  p  avvenuta  una  storia  simile



Ormai non vi sono più valori certi e tutto avviene sotto l'insegna dell'apparire televisivo che costruisce falsi personaggi, che non importa siano veri "eroi" ma che sappiano bene interpretare la loro parte.
Non c'è più una morale sicura a cui fare riferimento ma solo una morale di "eroi per caso". Una
morale derivata dalla completa assenza di sicurezze, dove anche quelli che sembrano essere i più alti comportamenti altruistici non sono in realtà che l'azione resa necessaria dal contesto e dalle circostanze. Un comportamento morale che richiama quello della "morale della situazione" elaborata nell'ambito dell'antico
relativismo etico sofistico.
«In fondo siamo tutti eroi se sappiamo corrispondere alle difficoltà della vita» come lo è "Bernie" «...a causa del suo coraggio "necessario" (necessario per stare al mondo)»

Ma basta divagare e veniamo alla storia in questione


In volo verso gli Usa, medico specializzando salva passeggera colpita da infarto. «In quel momento ho pensato solo a far presto»
Nicolò Valentini, tarantino 27enne laureato in medicina, era su un volo della Delta Airlines quando è stato richiesto il suo intervento per una 59enne: le cure prestate fino all'arrivo ad Atlanta con il trasferimento della donna in ospedale
                                         di Cesare Bechis

Volava ad alta quota verso Atlanta, negli Stati Uniti, per un importante appuntamento legato alla sua professione di medico, quando la carlinga dell’aereo della Delta Airlines s’è trasformata all’improvviso in una sala medica di fortuna. 
Per Nicolò Valentini  [ foto  sopra  al cento  ], tarantino di 27 anni, laureato in Medicina all’università Magna Grecia di Catanzaro nel luglio dell’anno scorso, è stato un banco di prova della sua attitudine ad affrontare situazioni di emergenza e, in questo caso, a salvare una vita umana. C’è riuscito. 
E ha ricevuto non solo l’eterna gratitudine della signora 59enne, salvata per un soffio da un attacco cardiaco acuto, ma anche i ringraziamenti della compagnia aerea statunitense.La situazione di crisi scoppia dopo sei ore circa di volo, mentre l’aereo sorvola l’oceano. Dal personale di bordo arriva la richiesta urgente di un dottore: c’è una donna che si sente male per un violento dolore al torace, accompagnato da difficoltà nella respirazione e sudorazione fredda. Il medico tarantino lascia il suo posto e corre in aiuto. «Non ho pensato a nulla in quel momento – ricorda – solo che dovevo fare presto». Servendosi solo degli strumenti della cassetta di pronto soccorso di bordo e delle sue capacità, effettua i controlli di routine, pressione, battito cardiaco, parametri vitali, diagnosticando un attacco cardiaco. Utilizza i farmaci in dotazione all’equipaggio, mentre dall’aereo viene stabilito un contatto con il servizio medico d’urgenza di un’università americana, che conferma la correttezza dell’intervento per fluidificare il sangue e agevolare la circolazione con un farmaco vasodilatatore. Tutt’intorno s’era creato un clima di altissima tensione che, in ogni caso, non ha impedito al dottor Valentini di seguire la paziente fino all’atterraggio ad Atlanta, dopo tre ore, e di portare a termine il suo lavoro di assistenza medica.«Sono stati momenti difficili – ammette – ma sono rimasto lucido». Un team di medici, intanto, era in attesa sulla pista dell’aeroporto per trasferire subito la paziente in ospedale: la donna ha voluto ringraziare il giovanissimo medico italiano che le ha salvato la vita. Ora, la donna è in buona salute, ha superato la crisi e i suoi medici le hanno detto che grazie al pronto intervento del dottor Valentini ha evitato complicazioni gravi. Nel curriculum del giovane medico ci sono diverse esperienze,  compresa quella a Monaco di Baviera.«L'esperienza a Monaco è stata incredibile – commenta - mi ha permesso di crescere personalmente e professionalmente. Oltre la città, che è bellissima, ho avuto la possibilità di assistere a procedure medico-chirurgiche nuove per me, rafforzando ancora di più le mie convinzioni sul lifelong learning. Grazie Monaco».

 Un  tipo modesto   e  schivo   da    quanto  dichiara      in questa  intervista     rilasciata  al corriere  online d'oggi  


Ha la vocazione per la chirurgia. E dopo la laurea in Medicina, conseguita nel 2024 all’università Magna Graecia di Catanzaro, il 25enne tarantino Nicolò Valentini ha fatto parlare i giornali di sé salvando la vita di una donna a bordo di un aereo, mentre sorvolava l’oceano verso gli Stati Uniti. Ha scongiurato con il suo intervento gli effetti pericolosi di un attacco cardiaco acuto

Questa esperienza le ha fatto scoprire qualcosa di nuovo di sé? 

«Ho avuto la conferma che, nelle situazioni di emergenza, è importante essere concentrato e freddo. Nulla di nuovo per me, so di essere un tipo molto concentrato dal punto di vista professionale. E’ stata un’esperienza importante nella quale non ho avuto esitazioni, scoprendo che la presenza di un medico può aiutare generalmente tutte le persone che ti stanno intorno».

Lei andava negli Stati Uniti per lavoro? 

«Avevo un colloquio di lavoro in un ospedale di Memphis, nel Tennessee, per la mia specializzazione in chirurgia. Avevo mandato il curriculum. Mi faranno sapere l’esito. Poi sono rientrato in Italia e sto lavorando a Taranto, la mia città, in una struttura pubblica». 

La dotazione medica a bordo dell’aereo era sufficiente? 

«Per un intervento di emergenza come quello che ho dovuto affrontare sì, è sufficiente, ma deve essere rapido. Ovviamente diventa insufficiente per interventi complessi».

  Appena laureato lei non s’è riposato neanche un po’. Cosa ha fatto? 

«Non ho voluto perdere tempo. Ho approfondito la mia passione prima in Polonia dove ho studiato chirurgia classica e generale, poi sono andato in Ungheria per studiare ortopedia e traumatologia, infine a Monaco». 

Quale le è stata più utile? 

«Sono state tutte e tre molto formative, sia dal punto di vista professionale sia personale». 

In famiglia ci sono altri medici? 

«No, io sono il primo». 

Che hanno detto i suoi di questo episodio? 

«Sono stati contenti naturalmente. Il gesto acquista particolare valore quando avviene fuori dell’orario di lavoro e devi garantire la salute delle persone che si trovano in difficoltà». 

Condividono le sue scelte? 

«Sì. Pensano che sia importante avere opportunità ed esperienze professionali all’estero, anche perché queste aiutano a formarsi come persona. Tutto contribuisce a migliorare la tua consapevolezza come medico e come individuo».

Se dovesse andare a lavorare all’estero diventerebbe un cervello in fuga o tornerebbe in Italia? 

«Ora come ora non saprei proprio, non posso dirlo. So soltanto che sono molto aperto nei confronti della vita in generale. Ma può anche darsi che non andrò via». 

Lei ha un passato giovanile da ballerino. L’esperienza è chiusa? 

«Ho cominciato a ballare a 5 anni, per la precisione balli caraibici. All’inizio era un passatempo, poi è diventata una cosa seria e ho fatto vero agonismo, fino a quando non sono andato all’università. Ho partecipato a diverse competizioni vincendo anche due campionati italiani. Poi mi sono concentrato nella preparazione da medico e ho lasciato perdere la danza, anche se era una vera passione. E’stata però importante come forma mentis e come formazione del carattere, perché lo sport ti consente di essere preparato alla gestione dell’ansia e delle situazioni difficili e impreviste. Fisicamente ti insegna a gestire la fatica e le situazioni che nella vita quotidiana è difficile trovare. Mi ha insegnato anche a essere caparbio e a sacrificarmi, qualità che mi hanno aiutato nella vita da studente di medicina e ora da medico». 

Le capita di ballare ancora? 

«Dal punto di vista agonistico non ho più ballato. Ora mi manca la concentrazione necessaria».









18.3.25

DIARIO DI BORDO N 108 ANNO Ⅲ “Meravigliosamente strani”, la docente fa supplenza in una classe con studenti senza smartphone .,Striscione osceno al posto del Tricolore: l'oltraggio al monumento ai Caduti

  da   www.orizzontescuola.it/ del 14\3\2025 


“Meravigliosamente strani”, la docente fa supplenza in una classe con studenti senza smartphone. Sui social è polemica: “Senza cellulare nel 2025 è un abominio”, “Giusta la ribellione digitale”


Un fenomeno in controtendenza sembra poter emergere nelle scuole: in aumento il numero di studenti che rifiutano l’uso dello smartphone. Il post virale su X racconta di una classe soprannominata “degli strani”, dove alcuni ragazzi hanno scelto di

disconnettersi, preferendo libri e atlanti ai dispositivi digitali.
La ribellione silenziosa contro la dipendenza digitale
Il fenomeno degli “strani” rappresenta una reazione alla crescente dipendenza da smartphone che, secondo recenti studi dell’Università Bicocca di Milano, colpisce oltre il 25% degli adolescenti italianiLa ricerca Eyes Up, presentata a febbraio, ha evidenziato come l’uso precoce dei dispositivi digitali influisca negativamente sul rendimento scolastico, con effetti particolarmente marcati sulle competenze linguistiche e matematiche.“Uno di loro non ha MAI avuto un cellulare. Tre suoi compagni non lo usano più”racconta l’insegnante nel post virale, descrivendo una scena quasi surreale nell’era digitale: ragazzi che leggono classici come “Il Gattopardo” o studiano storia usando atlanti cartacei. La scelta controcorrente sembra riflettere quanto suggerito dall’Istituto Superiore di Sanità, che ha inserito “uscire dalla dipendenza da smartphone” come primo consiglio per il benessere nel 2025.Un movimento in crescita tra i giovani Il rifiuto dello smartphone non è più un caso isolato ma sta diventando un vero movimento di consapevolezza digitale. A Verona, qualche settimana fa, centinaia di studenti hanno partecipato a un evento sulla nomofobia (la paura di restare disconnessi), discutendo i rischi dell’iperconnessione. Secondo uno studio citato durante l’incontro, l’uso eccessivo di dispositivi mobili può favorire disturbi come il deficit di attenzione e iperattività.“Mio figlio (universitario) ha disinstallato Instagram perché ci perdeva troppo tempo”, commenta un utente sotto il post originale, mentre un altro racconta: “Un suo collega ha rinunciato allo smartphone ed è tornato al cellulare di vecchia generazione”. Tali comportamenti riflettono una crescente consapevolezza dei rischi dell’abuso tecnologico, che secondo l’ISS include effetti negativi su sonno, concentrazione e relazioni sociali.Tra critiche e apprezzamenti: il dibattito è aperto .Non mancano le critiche a questa tendenza: “Nel 2025 senza telefono è un’abominio”, scrive un utente, definendo “assurda” la demonizzazione della tecnologia. Altri sottolineano come rinunciare completamente a uno strumento così potente sia “una scelta radicale e poco lungimirante”, soprattutto per studenti di un liceo scientifico. Tuttavia, i sostenitori di questa “ribellione digitale” vedono negli “strani” un segnale di speranza per il futuro. “Sono supplenze che mi riaccendono le speranze”, commenta un insegnante, mentre altri apprezzano il ritorno alla normalità rappresentata dalla lettura e dallo studio tradizionale.Il fenomeno degli “strani” sembra così inserirsi in un più ampio ripensamento del rapporto con la tecnologia, in un’epoca in cui l’Istituto Superiore di Sanità consiglia di “stabilire zone smartphone-free” nelle case e le scuole, come è noto, hanno vietato l’uso del cellulare in classe fino alle medie, anche per scopi didattici.


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IL GIORNALE   18\3\2025

prima  di riportare  la secona storia   devo fare  una premessa. Non concordo   con la  retorica eccessivamente  patriottarda che  poi  sarebbe   vista  la  sotilissima e  la bile  differenza   qu.ella  nazionalistica  . Ma  tali gesti  di cui si  parla  sotto   sono  offensivi   e poco rispettosi   verso quelle persone morte , a prescindere  che   ci credessero e  quindi andarono  volontari  o  perchè   furono    costretti  cioè mandati al macello   dal  potere  . 



Una bandiera rosa con una scritta oscena, a sostituire il tricolore accanto ad uno dei principali monumenti cittadini. Atto goliardico di pessimo gusto oppure gesto a connotazione politica, ad opera magari di militanti femministe o transfemministe? In assenza di rivendicazioni dell'atto, questa è la


domanda che stanno ponendosi a Pistoia, a seguito di quanto avvenuto nelle scorse ore. Ignoti hanno infatti preso di mira il monumento ai Caduti situato in piazza San Francesco (che i pistoiesi conoscono familiarmente come piazza Mazzini) rimuovendo al contempo la bandiera italiana. Ed al posto del tricolore, è stato issato uno striscione rosa con la scritta "Zoccole sempre", poi rimosso. A denunciare l'episodio è stata Emanuela Checcucci, consigliera comunale di Forza Italia nella città toscana e membro della maggioranza, non nascondendo lo sdegno.
"Non so chi possa avere fatto questo gesto. Certo è, che, colui o colei che si è preso l'arbitrio di togliere il tricolore e sostituirlo con una bandiera con una frase incomprensibile, è sicuramente un soggetto ignorante - il suo pensiero, espresso in una nota sui social - nel vero senso del termine, cioè che non che non sa, non conosce il valore che ha il tricolore e che oltraggiare la bandiera è un reato. Auspico pertanto che le telecamere di zona abbiano individuato il soggetto che ha fatto questa bravata". Sulla questione è intervenuta anche l'europarlamentare della Lega Susanna Ceccardi: anche l'esponente del Carroccio, nel condannare quanto avvenuto, chiede che vengano individuati i responsabili. E rilancia l'ipotesi che indicherebbe nel gesto una provocazione di stampo ideologico.
“Quanto accaduto a Pistoia è un atto vergognoso e inaccettabile. La sostituzione del tricolore accanto al monumento ai caduti di Piazza San Francesco con una bandiera contenente scritte provocatorie è un oltraggio alla memoria di chi ha sacrificato la propria vita per la nostra Patria. Si tratta di un gesto grave che non può essere minimizzato né sottovalutato - ha detto Ceccardi - questo è un affronto non solo alla nostra storia e ai nostri eroi, ma anche a tutti gli italiani che credono nei valori dell’identità nazionale e del rispetto per chi ha difeso la libertà del nostro Paese. È inaccettabile che si tenti di strumentalizzare simboli così importanti per mere provocazioni ideologiche. Auspico che le autorità competenti individuino e perseguano i colpevoli con la massima severità. La nostra bandiera è il simbolo dell’unità nazionale e del sacrificio di milioni di italiani. Non permetteremo che venga calpestata dall’arroganza di chi non ha rispetto per la nostra storia e la nostra identità".

non sapevo che ricordare un ragazzo di destra ucciso negli anni di piombo significhi essere fascisti. IL caso Ramelli

lo so che  dovrei  come  ho ripetuto più    volte  ( ma  ci sto  lavorando    fra alti e bassi )    smetterla  di : leggere  e  ascoltare    chiunque  ogni lamento (cit  musicale  cantantoriale  degli  anni 70  )  e dovrei lasciarli perdere   ed essere    meno polemico   Ma  a  volte  ci sono dei  casi ,è questo  uno  dei casi, in cui  è impossibile  non esserlo,soprattutto quando  i miei post  vengono  fraintesi ed  equivocati    e   la gente     insinua ad  altri dubbi   inutili  .
 
Infatti     ho ricevuto  per  il mio post  su  Sergio Ramelli intitolato  : <<    Se non riusciamo a riconoscere e a onorare una vittima  della violenza politiva  e  dopo mezzo secolo non abbiamo pietà e rispetto di un ragazzo, allora il fascismo che lo abbiamo buttato giù a fare ? >>da  parte   d'amici\che  ( e non solo  ) fra gli eredi della sinistra extraparlamentare ho ricevuto delle email  alcune personali  e  di gente  che  non legge  le  Faq  o   fraintende  quello che scrivo  . eccone alcune  piene di  dubbi  e  contraddizioni   con sotto la mia replica .

Ma tu non eri anifascita e  ricordi  \  celebri  un  fascista 

lo sono ancora sia  contro  le scorie del vecchio fascismo [ quello di Mussolini ] , del neofascismo [ destra extra parlamentare anni 60/80] e quello più recente   alla  Umberto  Eco  e  alla  Michela  Murgia [ sovranismo /nazionalismo estremo e complottista vedi  gruppi  su telegram    che  parlano   alla pancia  della gente   e  usano   fondendoli  con il nazionalismo      elementi       che  dovrebbero essere di  sinistra  ] . Inoltre  il nazionalismo   soprattiutto    quello estremo    criticato  da   diversi cantanti   in particolare  Giorgio  Gaber   in  << Io Non Mi Sento Italiano >>  è  sempre    difficile  da    riconoscere   a prima  vista    visto     che si maschera  e  si unisce  al  patriottismo  nostante  le  differenze  notevoli   come spiega questo libro   di cui trova  a  sinistra    la  locanona  

Ricordare le vittime senza retorica e apologia di un periodo di violenza ideologica  cioè gli an  60\80  val di la delle categorie ideologiche  culturali .

Basta  con sta pippa  sugli anni piombo  ormai è solo roba  da  nostalgici 

Non sono molti di più quelli rimasti aperti, le storie degli anni di piombo senza morale, senza risposta e senza giustizia: i delitti della destra eversiva e della sinistra rivoluzionaria, le vite perdute degli irriducibili rossi e neri. Storie catartiche o inquietanti, storie di estremisti e terroristi ma anche di madri, sorelle e fratelli delle vittime, che per decenni hanno attraversato un dramma personale e pubblico, tentando di far luce sulla verità. Luca Telese raccoglie in Cuori neri e  Cuori contro   testimonianze e i documenti, entra negli eventi e nei processi, analizza le azioni, le reazioni e le interpretazioni dei fatti di sangue della nostra più recente   come  la  definiscono  alcuni  guerra civile.  << [ ...] E non fa sconti ai silenzi e ai revisionismi, perché oggi che i protagonisti di quegli anni scompaiono, oggi che il passato prossimo diventa storia, oggi che la cronaca continua a restituirci usi strumentali di tragedie mai chiarite del tutto né elaborate, «indagare nella zona grigia dove tutto rischia di confondersi è forse più utile di ieri».Così, come il suo predecessore Cuori neri, questo è un libro che non finisce: impossibile da chiudere. «La memoria degli anni di piombo è un organismo vivo, continuamente in evoluzione [...] », scrive l’autore in Cuori Contro N.B  non ricordo  la  fonte   . E scriverla, riscriverla ricomporla ,  farne  i  conti  è il dovere civile di una nazione.


Sergio Ramelli era un picchiatore e sosteneva gli squadristi .

Mah da letture che ho fatto ; cuori neri , wikipedia , ecc non ho trovato conferma, in quanto tutti affermano che era una diceria messa in giro per giustificarsi dai suoi assasini .  Infatti  da Omicidio di Sergio Ramelli - Wikipedia pagina  a  cui  rimando  per  approfondimenti )  << [...] Ramelli svolgeva il ruolo di referente (detto “fiduciario”) del movimento presso l’istituto che frequentava: pur non nascondendo le sue posizioni politiche, non si era segnalato per fanatismo[8]. Noto all’ufficio politico della Questura di Milano per affissione abusiva[9], non aveva però precedenti penali[10], non aveva partecipato ad aggressioni, risse o minacce e non aveva attaccato manifesti né distribuito volantini a scuola, come stabilito dalle inchieste della magistratura e dagli atti del processo[11].L’inchiesta giudiziaria accertò[12] che Ramelli in un tema scolastico aveva espresso posizioni di condanna delle Brigate Rosse, aggiungendovi una nota di biasimo verso il mondo politico per il mancato cordoglio istituzionale di fronte alla morte di due militanti del MSI, Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, uccisi durante l'assalto alla sede del MSI di Padova avvenuto l'anno precedente (17 giugno 1974). Il tema, dopo essere stato sottratto al professore, fu affisso in una bacheca scolastica, tacciato di fascismo e usato come elemento accusatorio[13][14]. Alcuni amici ricorderanno successivamente che fu quell’episodio ad indurre Ramelli ad iscriversi al Fronte della Gioventù in cerca di protezione[15], mentre la madre e altre fonti hanno riferito di una precedente frequentazione, seppur recente, del movimento[10][16]. [...] >>

La  pietà  è per i deboli  c'era  una  guerra  civile  a  bassa  intensità   tra  noi  e loro  e  quindi in guerra  nessuna pietà .

Vero in guerra  la pietà muore  .  Ma  è tropo  riduttivo ridurre  quel  periodo  solo  allo  scontro   politico  fra  due  schierament ideologici    quando  anche lo  stato stesso pratico   il  terrorismo   ed  alimentò  tali scontri  . "La pietà è per deboli" è un'espressione che spesso si collega a una visione di forza come sinonimo di impassibilità o mancanza di emozioni . Tuttavia, potremmo anche considerare che la pietà, l'empatia e la compassione richiedano un'enorme forza interiore. Riconoscere il doloree la  sofferenza   di qualcun altro  (  vedi   url  di wikipedia    citato  prima   in cui  si descrive   gli attti di prepotenza e  bullismo che dovette  subire prima  d'essere  ucciso  vigliaccamente  ) , mettersi nei suoi panni e scegliere di agire con gentilezza o comprensione sono atti che non tutti sono in grado di fare facilmente.Se ti va, possiamo esplorare il tema più in profondità. Hai in mente un contesto particolare per questa frase o un significato specifico che vuoi discutere ?

Se il solito democristiano  buonista  

 se raccontare  a  360  gradi  le  cose    si  lo sono .
poi  fate voi  se  volete  insermi  e classificarmi \ etichettarmi fate  pur e , tanto per  quell che  me  ne  frega  .


Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti

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