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22.6.25

La ragazza di Scampia sul tetto del mondo, il judo simbolo di riscattoLa campionessa mondiale Susi Scutto viene dalla palestra di Gianni Maddaloni, faro di educazione e legalità nel rione napoletano




La ragazza di Scampia sul tetto del mondo, il judo simbolo di riscattoLa campionessa mondiale Susi Scutto viene dalla palestra di Gianni Maddaloni, faro di educazione e legalità nel rione napoletano

Assunta Scutto campionessa del mondo sul tatami di Budapest (Foto Ansa)


Una ragazza di Scampia sul tetto del mondo: quell’oro di Scampia che non è solo il titolo di un film e neppure il colore di tante medaglie conquistate dagli atleti nati e cresciuti nel vivaio dello Star judo club ma brilla nel presidio di sport e legalità creato dal maestro Gianni Maddaloni nel cuore del quartiere napoletano sulla scia di un altro oro, quello olimpico conquistato da suo figlio Pino a Sidney nel 2000.
C’è la lunga storia del club napoletano di trincea alle radici del titolo di Assunta Scutto, classe 2002, oggi in forza al gruppo sportivo delle Fiamme Gialle, conquistato qualche giorno fa a Budapest nei 48 chili (e seguito dopo qualche giorno da quello della bresciana Alice Bellandi, già campionessa olimpica, nei 78 chili). Una marcia implacabile verso il podio, con la rivincita sulla francese che gliel’aveva negato alle Olimpiadi di Parigi e la finale con la judoka kazaka risolta con un ippon (il ko del judo) a una manciata di secondi dalla fine. Non è la prima medaglia iridata di Susi Scutto che nel suo palmares ne ha già quattro assoluti, due bronzi nel 2022 e 2023 e un argento lo scorso anno ad Abu Dhabi. L’oro nella categoria junior, invece, l’aveva conquistato proprio in Sardegna, ad Olbia, nel 2021, seguita ancora dal suo maestro prima del passaggio alle Fiamme Gialle.


Assunta Scutto campionessa mondiale junior sul tatami di Olbia nel 2021 (Foto Fijlkam)


Sul tatami c’è arrivata, come tanti piccoli judoka, a cinque anni sulla scia di un cugino più grande e non ne è più scesa. Una delle foto della pagina di European judo union, la mostra bambina col suo judogi e lo slogan, “non smettere di credere in quella bambina che ha osato sognare”.
L’impresa di Maddaloni
Cadere e rialzarsi sempre, la prima regola del judo che si impara da piccoli e non si scorda più. Ma a Scampia cadere e rialzarsi va oltre il judo. L’impresa di Gianni Maddaloni è una di quelle belle storie che sa talvolta raccontare lo sport. E soprattutto lo sport più povero, quello dove non si diventa ricchi neppure da campioni del mondo. Raccontata in un libro per ragazzi di Giuseppe Garlando, “‘O mae”, nel film “L’Oro di Scampia” di Marco Pontecorvo con Giuseppe Fiorello (tratta da un libro di Maddaloni) e nella più recente serie tv “Clan, scegli il tuo destino”, andata in onda sulla Rai che vede come protagonista lo stesso Gianni Maddaloni.

Gianni Maddaloni con Susi Scutto (Foto instagram)

«Dopo la vittoria alle olimpiadi di mio figlio Pino nel 2000 mi è stato offerto di prendere in gestione diverse palestre altrove, anche in bei quartieri residenziali ma ho scelto di restare qua a Scampia nel mio territorio per mostrare ai ragazzi che anche se nasci qui non hai il destino segnato», ha raccontato in una delle tante interviste Maddaloni che a Scampia ci è nato e cresciuto e ha trovato nel judo e in un buon maestro quel punto di riferimento che oggi offre a tanti bambini e bambine. Sono una sessantina quelli che frequentano i corsi gratis e diversi sono i giovani detenuti messi alla prova che sul tatami – grazie alla collaborazione con il Ministero di Grazia e Giustizia – fanno anche un percorso di recupero. Un progetto che coinvolge anche le famiglie. Qua si combatte la povertà sociale ed educativa e anche gli stereotipi che dipingono Scampia come un luogo senza speranza.
Presidio sociale di legalità e fucina di campioni (sono innumerevoli gli atleti di interesse nazionale), la palestra di Maddaloni va avanti superando ostacoli. Nel 2023 ha incredibilmente rischiato lo sfratto, nel 2024 mentre a Parigi si combatteva sul tatami, a Scampia si piangeva per il crollo alle Vele.
I campioni nati qua vincono in giro per il mondo e ogni tanto tornano a casa, anche per un saluto. Anche ora che è sul tetto del mondo Susi Scutto, ha raccontato il maestro, torna appena può come tanti compagni e compagne di tatami diventati punti di riferimento per tutti quei bambini e bambine che osano sognare. Cadendo e rialzandosi

A settembre scatta il divieto nelle scuole medie e superiori: cinque ore disconnessi. Ecco come ci si sta preparando. La lunga estate detox per i ragazzi è la fine del cellulare no-limits

 fonte  repubblica  del 22\6\2025 

La lunga estate detox per i ragazzi è la fine del cellulare no-limits
                            d
i  Maria Novella  de  Luca  

 


Quanto saranno lunghe cinque ore al giorno senza cellulare in classe, senza quella vibrazione clandestina in tasca perché la prof non senta, senza lo scroll compulsivo durante la ricreazione, senza, insomma, ben custodito nello zaino scolastico, lo smartphone, simbolo massimo dell’iperconnessione, totem e tabù della generazione post digitale? Ci saranno crisi di ansia o invece, poi, la vita vera tornerà ad essere attrattiva? Perché nella grande incertezza di cosa sarà la scuola italiana nei prossimi anni, una cosa sembra abbastanza certa: alla prima campanella di settembre, ragazzine e ragazzini di medie e superiori il cellulare lo dovranno consegnare all’entrata e riprenderlo all’uscita. Poi ogni scuola deciderà tempi e modi, ma la strada è segnata. Non soltanto per la circolare del ministro Valditara che raccomanda fortemente il divieto di telefonini in classe, ma anche per le tante petizioni e raccolte di firme che da fronti diversi chiedono da anni la stessa cosa. E cioè che  la scuola sia zona franca da smartphone e telefonini, dunque da social e navigazioni multiple che mandano l’attenzione in mille pezzi. Così, in questa estate di vigilia, ultima, forse, dei cellulari no-limits, èinteressante vedere la moltiplicazione di iniziative di “disintossicazione” da smartphone dedicate agli adolescenti. Dai campeggi detox come in Valsesia al campus torinese di disconnessione organizzato dalla Fondazione Carolina e dall’Associazione Rubens: si sta insieme, ci si diverte, ma i cellulari restano fuori. E ci sono anche gli «Offlines days” di Scuolazoo, quattro giorni di trekking per teenager sulle colline toscane 

lontani da Instagram e Tik Tok. E in Emilia Romagna si guarda invece alla « disconnessione consapevole», con una domenica di liberazione dagli smartphone ogni mese a partire da ottobre. Non puntando alla proibizione, come vorrebbe la circolare Valditara (che è appunto una circolare, non una legge) ma sull’educazione, sulla moral suasion. «Imporre divieti senza consapevolezza rischia di produrre un effetto boomerang», ha detto l’assessora regionale alla scuola Isabella Conti, sottolineando la necessità di coinvolgere attivamente famiglie, docenti e studenti in un percorso collettivo.Come reagirà The anxious generation, tanto per citare il libro-bibbia di Jonathan Haidt sui danni da social sul cervello degli adolescenti, alla disconnessione forzata durante le ore scolastiche, è davvero presto per capirlo. Nelle diverse scuole dove questo è già avvenuto, spiega però il pedagogista Daniele Novara, «i risultati sono stati ottimi e i ragazzi sereni». Insieme allo psicoterapeuta Alberto Pellai, Novara ha
raccolto oltre centomila firme perché vengano vietati gli smartphone fino ai 14 anni e l’uso dei social sotto i 16 anni. «La circolare sui cellulari in classe è l’unico provvedimento del ministro Valditara che condivido, mentre su tutto il resto siamo su fronti opposti. Sono convinto che questa regola sarà salutare per i ragazzi. Pensate alle campagne antifumo. Quando scattò il divieto nei cinema, nei ristoranti, sui mezzi pubblici, sembrava che dovesse scoppiare la rivoluzione e invece milioni di italiani buttarono via
le sigarette, guadagnando salute e benessere. Cinque ore al giorno di disconnessione porteranno soltato vantaggi psicologici per i giovanissimi, concentrazione e relazioni umane». Certo, aggiunge Novara, la condizione è che oltre al divieto la scuola punti a conquistare l’interesse degli studenti. «Sono un pedagogista montessoriano e non credo alla lezione frontale, prof in cattedra e allievi che passivamente ricevono nozioni, se vogliamo che alzino gli occhi dai loro telefonini siamo anche noi adulti a dover cambiare». Infatti. Era il 1998 quando il ministro dell’Istruzione Berlinguer emanava la prima circolare che vietava — agli insegnanti — l’uso del telefonino in classe. Ne sono seguite almeno altre dieci e sono passati 27 anni di deregulation digitale. Adesso sembra che la scuola faccia sul serio. Ve￾dremo. Apputamento a settembre, con la prima campanella. 

Lo  so che on è facile  come dimostra ,la  storia (    una delle  tante )    di  : «Agata e il cellulare: una discussione continua. I divieti la stanno allontanando da noi”  da D  di repubblica   di qualche tempo fa , ma  o  le regole   o  attività  alternative  insieme  ad un uso  consapevole  sono la  soluzione    contro l'uso smodato  (  cosa che   anch'io a  50   quasi   e  soffro  e ho difficoltà  a  disintossicarmi  )    del  cellulare  e pc   .
Infatti    sempre secondo repubblica  


“Nel campus solo orto, cavalli e niente chat”
                            di ADELE PALUMBO

TORINO
È l’ultimo giorno di campo  estivo per Lilli, 16 anni. La serata è tiepida e la ragsieme agli amici. Nell’ultima settimana ha imparato a prendersi cura di un cavallo, ha coltivato le verdure dell’orto e ha passato le  serate tra costruzioni e giochi di società. Il tutto, senza mai prendere in mano il cellulare. Nessuna foto postata sui social. Niente notifiche da leggere su Whatsapp. Il “Camp Digital Detox” organizzato a Torino da Fondazione Carolina, insieme all’Associazione Rubens, prevede cinque giorni di totale disconnessione. «In un tempo in cui lo schermo  è un rifugio e, a volte, anche una dipendenza, abbiamo proposto un’alternativa fatta di relazioni  vere», spiegano. L’unica deroga è una chiamata a casa, 15 minuti, due volte a settimana.«All’inizio è stato difficile staccarmi dal telefonino», ammette Lilli. «Ma le attività che ci sono state proposte mi hanno fatto sentire meno la mancanza». Il momento più difficile era la sera.«Mi veniva voglia di chattare con gli amici, ma tutto sommato è stato sopportabile», aggiunge la ragazza, che durante l’anno studia in un istituto professionale di Milano. Con lei c’è Francesca, di tre anni più piccola, altrettanto legata al prezioso dispositivo. «Di solito quando mi sveglio prendo in mano il telefono e rispondo a qualche chat», racconta. «Qui non potevo farlo, ma mi sono divertita lo stesso».I ragazzi sono stati seguiti durante tutto il percorso da una psicologa e da una pedagogista. «Abbiamo cercato di far passare il messaggio che anche internet è un luogo», racconta Greta Perrone, la terapeuta che ha accompagnato le attività.


21.6.25

bambino autistico e diabetico per i medici non parlera ma la madre si laurea con lui e lo fa parlare appliccando la terapia ABA

 Morena vive a Rescaldina, vicino Milano. Sin da bambina sogna di diventare avvocato, lo dice con la certezza di chi sente quella strada già scritta dentro. Ma la vita, a volte, prende direzioni inaspettate. A 23 anni, infatti, Morena si ritrova a lavorare in banca. Diventa mamma di Manuel, ed è una gioia immensa. Ma il sogno di studiare Legge finisce in un cassetto. Qualche anno dopo, arrivano due diagnosi che le tolgono il fiato. Suo figlio è autistico e ha il diabete. Morena ha paura, si sente persa. Le cure sono costose, e la sua vita cambia all’improvviso. I primi tempi sono durissimi. I medici dicono che Manuel non parlerà mai.Morena, però, non vuole arrendersi a quel verdetto. Studia per conto suo, si affida a specialisti privati e applica la terapia ABA, che lavora direttamente sul comportamento e le abitudini dei pazienti. Paga tutto di tasca propria, perché il servizio pubblico spesso non basta. Così Manuel, piano piano, migliora. Comincia a parlare, a scrivere, a riconoscere le emozioni, a cercare compagnia.E mentre lui mette tutto il suo impegno per imparare a comunicare, Morena decide di fare altrettanto. Rispolvera quel vecchio sogno e si iscrive a Giurisprudenza. Dopo il lavoro, Morena apre i libri. Studia con Manuel in braccio, ripete a bassa voce, rinuncia agli svaghi, al riposo. A volte legge in sala d’attesa, altre tra un panino fatto al volo e una lavatrice. Ma non molla.Nel 2020 fonda un’associazione per aiutare famiglie come la sua, offrendo ciò che a lei è mancato. Supporto psicologico, formazione, consulenze legali. Morena si laurea nel 2024. È un traguardo meraviglioso, che raggiunge con suo figlio accanto. Prende anche un Master con una specializzazione in Diritto della disabilità.
Oggi Manuel ha 16 anni, con i suoi piccoli e grandi traguardi continua a sorprendere tutti. Morena accompagna le famiglie nella ricerca di tutele e diritti, con la forza di chi certe battaglie le ha vissute sulla propria pelle. È felice, e non si ferma. Sogna di diventare magistrato per poter proteggere, custodire e capire. Grazie a suo figlio ha scoperto una forza che non sapeva di avere.

STANNO FACENDO DESERTO E LO CHIAMANO CULTURA . IL CASO DI MASSINI

La  vera  cultura   e  quella  che accetta    anche  se   solo apparentemente   le  voci dissidenti . Questi ci  fanno rimpiangere   , ache a  chi  come    me  anagraficamente  gli ha  vissuti  di  striscio   o  in manieraindiretta  tramite   testimonianze  e letture  , gli anni  i  quella  he   viene  chiamata  impropriamente    prima  repubblica  ( 1946-1992\1994 )   e  a  governare  anche la  cultura    era la 
democrazia cristiana   con l'appoggio del vaticano  . Niete  di  nuovo  diranno quelli   che    hano  più anni di me  ,    vero,  ma  che  io ricordi  non  s'era  mai arrivati   a   usare    :  i soldi pubblici  come  arma  per   rimuovere  la  cultura .,  a   a minacciare  vedere  l'editot  Bulgaro di  Berlusconi .
 
N.b
 Se qualcuno\a   ricorda  o sa  il  contratrio     sarei grato  e ,m farebbe  piacere  ,  se me lo  facesse    sapere   nei commenti .

OrA  Quello che stanno facendo a un artista e intellettuale come Stefano Massini è indegno e al tempo stesso degnissimo dell’idea misera di cultura da parte di questo governo e del ministro Giuli.
Il Teatro della Pergola di Firenze, di cui Massini è direttore artistico da gennaio, verrà declassato da teatro nazionale a teatro della città.
Uno sfregio a un teatro storico, a una città intera ma anche - inutile girarci attorno - a chi, come Stefano Massini, lo dirige e lo rappresenta. Proprio nelle ore in cui il teatro stava presentando il nuovo cartellone.
Una decisione che assomiglia tanto a una resa dei conti e a una punizione nei confronti di un artista libero che non ha mai fatto sconti a questo governo e al potere in generale.
Non a caso tre dei sette componenti della commissione consultiva per il teatro del Ministero si sono dimessi per protesta nei confronti di Giuli.
Viviamo in un Paese in cui, per colpire la sinistra, si colpisce un teatro e una città intera.
In un Paese appena decente il ministro della Cultura premierebbe Massini per il lavoro egregio che sta facendo.
Invece qui da noi viene colpito e declassato. Colpirne uno per educarne cento.
Questa è una concezione tribale della politica e della cultura.
Infatti ha dato una risposta politicamente fortissima al ministro Giuli, al governo e a chi “con motivazioni pretestuose” ha declassato il teatro della Toscana.
Non solooltre a protestare vivacemente la sinda di Firenze Funaro ha annunciato la decisione di fare ricorso al Tar, ma poco fa ne ha spiegato con precisione le ragioni.

"Siamo di fronte a un un fatto gravissimo. Non è mai successo nella storia dei teatri di vedere una commissione ministeriale che si spacca e in cui tre membri si dimettono dicendo che le motivazioni del declassamento erano e sono pretestuose. Ovvero non c’è alcuna motivazione di qualità, di programmazione.Mi pare evidente, e lo dico con chiarezza, che il governo abbia deciso di colpire la città di Firenze e il teatro della Toscana. E io questo lo voglio dire come sindaca di Firenze ribadendo che il teatro e la cultura non sono di una parte. Il teatro e la cultura sono di tutti.”

La sindaca Sara Funaro ,  a prescidere     dal  partito  politico    che essa  rapressenta  , ha reagito con fermezza al declassamento del Teatro della Toscana, definendolo un atto politico privo di reali motivazioni artistiche. Ha annunciato ricorso al Tar, sottolineando come la cultura debba restare un patrimonio condiviso e non strumentalizzato. La sua posizione rappresenta una difesa netta dell’autonomia culturale e del ruolo di Firenze nel panorama teatrale nazionale.

Omicidio Willy, Gabriele Bianchi scrive un libro: “La verità che nessuno vuole accettare



lo so che non dovrei dare spazio a simili farneticazioni . ma l'indignazioe è più forte di me .








Omicidio Willy, Gabriele Bianchi scrive un libro: “La verità che nessuno vuole accettare”

Gabriele Bianchi ha scritto un libro dal titolo ‘La verità che nessuno vuole accettare'. È stato condannato a 28 anni di carcere per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte a Colleferro. Suo fratello Marco è stato condannato in via definitiva all'ergastolo.
Il libro, settanta pagine, è stato scritto nel carcere romano di Rebibbia e inizia così, secondo quanto riportato dall'agenzia AdnKronos: "Sono Gabriele Bianchi, uno dei fratelli Bianchi, carcerato da quasi 5 anni, condannato per un crimine che non ho commesso. Solo leggendo il mio libro capirai che pochi secondi possono cambiarti la vita per sempre. E che un innocente può finire all'inferno senza aver peccato…".
Secondo Bianchi il suo processo è stato un processo "mediatico, con un esito già scritto". Sostiene di essere "un innocente che l'opinione pubblica ha condannato prima che potesse uscire la verità. Una verità che urlo a gran voce da quasi 5 anni. Non sono un assassino senza cuore, un mostro senza anima che ha pestato a morte un ragazzo. Io non ho ucciso nessuno".
Condannato all'ergastolo in primo grado insieme a suo fratello, nel secondo processo d'appello i giudici hanno riconosciuto per lui le attenuanti generiche. La sentenza della Corte d'Assise d'Appello aveva invece concesso ad entrambi i fratelli le attenuanti generiche. In seguito la procura ha fatto ricorso in Cassazione, e i giudici della Corte suprema hanno stabilito che la motivazione dei giudici d'appello non era convincente. Nel processo d'appello bis, i giudici hanno confermato solo per Gabiele la concessione delle attenuanti generiche, considerate equivalenti all'aggravante contestata, cioè quella dei futili motivi.
Gabriele Bianchi ha sempre negato di aver colpito Willy. "Voglio pagare per le mie colpe, ma non l'ho colpito. Preferisco morire in carcere piuttosto che dire di averlo colpito. sono addolorato per la famiglia di Willy ma non posso dire una cosa che non ho fatto. Io Willy non l’ho toccato e continuerò a dirlo per l’ eternità".Nel corso della sua requisitoria al processo d'appello bis, il procuratore generale ha sottolineato che la "morte di Willy è un evento indecente sia nelle modalità in cui è avvenuta sia per i motivi". Un pestaggio definito "brutale", durato cinquanta secondi. I fratelli Bianchi hanno avuto "un ruolo preponderante con Gabriele, esperto di Mma, che dà il via con un violento calcio al petto di Monteiro seguito subito da Marco Bianchi".

“Sta picchiando me e mamma”: ragazza disabile chiede aiuto su Whatsapp e fa arrestare il papà violento ., Diceva Cicerone “Summus ius, summa iniura”, estrema giustizia, estrema ingiustizia”.,

  Un uso    consapevole  della  tecnologia  e  dei social  

https://www.fanpage.it/

Succede a Caivano, nella provincia di Napoli, dove i carabinieri hanno arrestato un uomo di 43 anni per aver aggredito moglie e figlia. È stata la ragazza a chiedere aiuto in una chat di gruppo.Pugni e gomitate alla moglie e alla figlia, affetta da una grave disabilità; è stato però proprio il coraggio della ragazza, appena 16enne, che ha chiesto aiuto via Whatsapp, a permettere l'arresto del papà violento. Accade a Caivano, nella provincia di Napoli, dove i carabinieri, nel pomeriggio di ieri, mercoledì 18 giugno, hanno stretto le manette intorno ai polsi a un uomo di 43 anni
L'uomo stava guidando la proprio auto sulla strada che collega Caivano a Crispano; a bordo anche la moglie, una donna di 46 anni, e la figlia 16enne. Quella che sembrava una giornata qualunque si è però repentinamente trasformata in un incubo per le due donne: il 43enne comincia a colpirle con violenti pugni e gomitate al volto. Nonostante il dolore, la ragazza è riuscita a rimanere lucida e a chiedere aiuto, riuscendo a inviare agli amici, in una chat di gruppo su Whatsapp, la loro posizione in tempo reale; gli amici, che aveva appena lasciato, hanno subito capito la gravità della situazione e hanno allertato il 112.I carabinieri della stazione di Caivano, grazie alla posizione Gps, sono riusciti in poco tempo a intercettare l'automobile con a bordo i tre: bloccato dai militari dell'Arma, il 43enne è stato arrestato e portato nel carcere napoletano di Poggioreale.


 Le due donne, invece, sono state accompagnate in ospedale, riportando lesioni giudicate guaribili in 10 e 7 giorni.

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“Si commettono spesso ingiustizie a causa di una cavillatrice troppo sottile e in realtà maliziosa interpretazione delle leggi”, scriveva Cicerone nel 44 avanti Cristo. Nel dopo Cristo, anno 2025, la “cavillatrice”” ha aperto le porte del carcere di Sollicciano, non proprio una comoda pensione, a un uomo di 94 anni, Renato Cacciapuoti. Data l’età, come la giustizia giusta avrebbe suggerito e il pannolone sostenuto, potevano tenerlo tranquillamente ai domiciliari magari con l’obbligo di controllare i lavori stradali. Il signor Renato non aveva mai rubato niente e meno che mai accoltellato qualcuno; 15 anni fa era stato condannato a 4 anni e 8 mesi per bancarotta. Il tempo passa senza che a nessuno passi per l’anticamera del cervello di chiedere una pena alternativa, ragion per cui alla scadenza dei termini, il magistrato emette l’ordine di arresto senza considerare i 94 anni anche se in salute. La notizia va in cronaca, i media alzano il volume finché al sesto giorno la “cavillatrice” trova il cavillo e in un pater senza gloria il vecchietto viene trasferito in un altro carcere dove un altro magistrato gli concede i domiciliari. Accade quando la scienza giuridica svirgola e guarda più alla lettera che alle persone fino a dimenticare il famoso detto: “Summus ius, summa iniura”, estrema giustizia, estrema ingiustizia”: Cicerone, duemila anni fa.  

Infatti quest  editoriale sull'unione  sarda  del 21\6\2025    sembra  confermare      questa  notizia 


Al termine di un colloquio nel carcere di Bancali con il suo assistito, Alfredo Cospito, lo ha salutato stringendogli la mano e dando due baci sulle guance.Per questo il difensore dell’anarchico, Flavio Rossi Albertini, è stato segnalato all'ordine degli avvocati dal direttore del penitenziario di Sassari. Il fatto risale al 9 maggio scorso.




«Tenuto conto della caratura criminale dei soggetti ristretti presso il reparto 41 bis di questo istituto - si legge nella comunicazione inviata il 5 giugno dal direttore - ed il significato intrinseco che può avere tale saluto, si chiede di valutare se il comportamento dell'avvocato sia deontologicamente corretto, anche al fine di dare le opportune indicazioni al personale di Polizia Penitenziaria che con abnegazione e professionalità assicura la vigilanza dei detenuti sotto posti al regime di cui all' 'art. 41 bis».Immediata la replica del legale: «Verso Alfredo Cospito ho manifestato empatia umana salutandolo con una stretta di mano e con due bacetti sulle guance. Lo saluterò sempre con affetto in quanto non intendo rendermi complice della sua deumanizzazione, delle politiche di annientamento del detenuto».Il caso commentato anche da Francesco Petrelli, presidente delle Camere Penali: «Quando anche nella valutazione dei gesti non si ha più attenzione a quelle che sono le radici stesse dell'umanità e al rispetto della dignità dell'uomo vuol dire che si è perso contatto con il valore universale della sofferenza. Mentre da una parte si cerca di restituire umanità ai condannati dall'altra si ritiene invece che la disumanizzazione del detenuto possa era un valore positivo da perseguire. Il Regolamento Rocco del 1930 vietava di rivolgersi al detenuto con il proprio nome, siamo a un passo da quella idea».


 concludo      questo  post  sulla  giustizia   con  un  iniziativa     particolare  fatta  alla marina    un  quartiere   del  centro  storico  di  Cagliari  dove  d'anni  regna   la   malamovida     che affronta    il  tema  della  malamovida   in  modo creativo   ed  originale   senza  scadre  i  coprifuoco  ,   eliminazione  panchine  , controlli d  polizia    ecc  . 

Cagliari, alla Marina una tavolata di quartiere contro la malamovida

Residenti e non chiamati a partecipare in piazza Sant’Eulalia, diventata uno dei luoghi simbolo del degrado nel fine settimana
Tavolata di quartiere in piazza Sant'Eulalia
Tavolata di quartiere in piazza Sant'Eulalia



Una tavolata di quartiere contro la malamovida. La stanno organizzando attraverso il passaparola, reale e sui social, i residenti della Marina, a Cagliari. L’appuntamento è per sabato prossimo, 28 giugno, in piazza Sant’Eulalia, punto di ritrovo di giovanissimi e diventata uno dei simboli del degrado del rione, soprattutto nel fine settimana.«La tavolata», scrivono gli organizzatori, «è aperta alla partecipazione di abitanti, commercianti, simpatizzanti del quartiere Marina e abitanti degli altri quartieri della città. La comunità educante non ha limiti geografici e per crescere deve nutrirsi di ogni contributo possibile».Si partecipa portando «qualcosa da mangiare o da bere, un piatto, una posata e un gioco».

20.6.25

Ma gente non conosce più il valore salutare della sconfitta. SINNER SOTTOBATTACCO DEGLI HATERS PER UNA,SCONFITTA



Gli è bastato perdere una partita - UNA - per finire nel tritacarne di pseudo-tifosi, veri odiatori, gente che magari  segue il tennis da sette minuti e carrozzone al seguito.
“È finita”. “Dopato”. “Non è più lui”. “Crucco” e via di insulti, denigrazioni, vomito puro nei confronti di uno che nell’ultimo anno e mezzo ha vinto tre Slam su sei, due coppe Davis quasi da solo, le Atp finals e ha passato le ultime 52 settimane (per distacco) da numero uno, nonostante tre mesi di stop totale.
Stiamo parlando di un giocatore che dal 2024 a oggi ha un record di 100 vittorie e 9 sconfitte, di cui 5 contro un giocatore solo: Carlos Alcaraz.
Significa che, al di fuori di Carlitos (con cui esiste un discorso tecnico e mentale a parte), le sconfitte di Jannik non si contano neanche sulle dita di una mano.
E, se le vai pure ad analizzare, si scopre che con Tsitipas un errore clamoroso dell’arbitro gli ha tolto il doppio break che sarebbe stato decisivo.
Che a Wimbledon con Medvedev aveva appena saputo del doping con annessa crisi gastro-intestinale.
Mentre con Bublik ieri, chiunque conosca il il tennis, sa che in certe giornate, su erba, il kazako vale un top 5, specie ad Halle dove non a caso aveva già vinto proprio con Jannik.
Eppure la notizia della sconfitta di Sinner ad Halle ha fatto il giro del mondo, tra gli “oh” sbigottiti e increduli. Solo con Sinner accade e il motivo è semplice: perché non succede (quasi) mai. Quando una tua sconfitta diventa un evento mondiale, vuol dire che sei un fenomeno.
Quindi di cosa stiamo parlando?
Non certo di tennis.
Non stiamo parlando neanche di Jannik. Che vivaddio non è un robot, ogni tanto perde pure e ha tutto il diritto di farlo e, anzi, per certi versi, in certi tornei e in certi momenti dell’anno, è pure salutare.
No, questa cloaca maxima parla del modo con cui certa gente si rapporta al tennis e   allo  sport  come sfogatoio su cui scaricare le proprie frustrazioni, il proprio tifo da arena, calcistico, ultrà. Vale per gli odiatori di Sinner così come per gli auto-proclamati sinneriani che offendono gli avversari di Sinner, dimostrando di non aver capito nulla non solo di tennis ma anche del loro idolo.
Sinner ha avuto il grandissimo merito di aver reso  di nuovo  il tennis sport nazionale e popolare.
Ma ha avuto il torto - suo malgrado e senza alcuna colpa - di averlo trasformato in una curva da stadio, con le sue tribù, le sue fazioni e le sue miserie. La sua ignoranza ostentata e senza vergogna.
La sconfitta di ieri contro Bublik ci ha ricordato che anche Jannik è umano, ed è una bella notizia. E lo proietta a Wimbledon senza la cintura - ma pure la pressione - del favorito assoluto. E anche questa non è detto che sia così cattiva.
Viva sempre Jannik. Soprattutto oggi, quando sul carro si sta un po’ più larghi. E si respira.

Un selfie? Ma anche no. di Giampaolo Cassitta



Te lo fai un selfie? Mi giri su WhatsApp la foto e il video? Hai fotografato il piatto di aragoste? E la torta di zia Nina? E il gatto, lo hai postato su Facebook? Stamattina mi è capitata una mia fotografia decisamente “vintage”: ero con mio fratello in bicicletta in una delle strade di un paesino del Belgio, nell’estate del 1972. C’eravamo andati per trascorrere le vacanze e trovare i miei zii emigrati tra il Belgio e l’Olanda.
E’ una delle più belle vacanze che io ricordi. Quella fotografia mi ha rigettato dentro quella strana e solare estate a mangiare patate fritte e “frikkandel” con maionese e Ketchup. Poi mi sono posto una domanda: ma tra molti anni dove saranno i selfie, i video, le fotografie sui cellulari, conservate magari sulla nuvola o perdute irrimediabilmente per sempre. Perché la verità è che nel mondo si effettuano ogni giorno miliardi di foto ma non si stampa più niente, o quasi.
La foto del nostro gatto, del bacio a mezzanotte, del tramonto spettacolare, della scalata a Tiscali la buttiamo nella rete e poi, irrimediabilmente, entra nell’oblio.
Ho cominciato a fotografare con una “Ferrania Eura” di plastica, con i rullini con 12 o, al massimo 24 fotografie. Son passato poi alla reflex e ho acquistato, con molta fatica, la mia prima Yashica Fx3, un portento per quegli anni (i prodigiosi anni ottanta).
Oggi ho una bellissima Nikon d90 finta-reflex che può sparare anche 6000 foto in un’ora: così scegliamo le migliori. Ma non lo facciamo mai. Ho più foto della mia adolescenza, scattate con la Ferrania rispetto ad oggi: migliaia di scatti, visti e corretti, praticamente perfetti ma che non hanno più il calore, la dolcezza e la bellezza delle vecchie fotografie

CASO GARLASCO I PROCESSI SI FANNO IN TRIBUNALE NON IN TV DI PAOLA BALDUCCI

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«Basta carciofi, è l’ora dei frutti tropicali» La sfida dei fratelli Stefano e Michele Bolliri: il clima cambia e non ci adattiamo

  fonte l'unione  sarda   10\6\2025

Tra le distese di carciofi che hanno fatto la storia agricola di Samassi, spuntano oggi piante che in Sardegna non ti aspetteresti. Avocado, mango, passion fruit e alchechengi: colture tropicali in risposta a un clima che cambia, curate da due giovani fratelli, Stefano e Michele Bolliri, classe 1994 e 2000.
L’idea
«La nostra avventura è nata da una domanda semplice ma ambiziosa: cosa può crescere in Sardegna che ancora non esiste?», raccontano. La risposta è arrivata dopo anni di studio, osservazione e sperimentazione sul campo. Nel 2023 è nato ufficialmente Sardinianway, ma il progetto aveva già radici profonde. I cambiamenti climatici sono una realtà con cui fare i conti e i due ragazzi hanno deciso di affrontarli non come una minaccia, ma come una sfida. «In Sardegna oggi fa caldo quanto in certi paesi tropicali, non possiamo far finta di niente. L’agricoltura deve adeguarsi, oppure resta indietro». Nel terreno di Sardinianway ora crescono diverse piante tropicali: avocado – in particolare la varietà Hass – passion fruit e alchechengi, un frutto dorato racchiuso in una campanella, spesso usato in pasticceria. E c’è spazio anche per una trentina di piante di mango, ancora in fase sperimentale. «Abbiamo letto, cercato fonti in spagnolo, scavato tra ricerche sudamericane. Ma a un certo punto bisognava sporcarsi le mani. Le vere risposte le trovi solo sul campo», spiegano i fratelli. Lontani dalle logiche dell’agricoltura intensiva, l’approccio dell’azienda è artigianale. «Qui non improvvisiamo. Ogni pianta la conosciamo. E anche se stiamo facendo qualcosa di nuovo, non ci sentiamo pionieri solitari: siamo parte di una terra che ha sempre saputo adattarsi».
La storia
A Samassi, dove la coltivazione dei carciofi è una tradizione centenaria, l’idea di piantare frutti tropicali ha suscitato più di una perplessità. «All’inizio ci prendevano per matti. Dicevano: “Ma dove andate con l’avocado?” E invece eccoci qui. Se dobbiamo reinventare il mestiere, tanto vale farlo su qualcosa che ancora non c’è». L’obiettivo va oltre la semplice coltivazione di colture esotiche. «Non si tratta solo di piantare qualcosa di diverso. Vogliamo contribuire a costruire una nuova identità agricola per la Sardegna. Una Sardegna che sappia essere più resiliente, più verde, più innovativa, ma sempre autentica». Mentre il clima cambia e l’agricoltura cerca di adattarsi, l’esperimento dei fratelli Bolliri somiglia sempre meno a una scommessa azzardata, e sempre più a un frutteto che cresce.

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto antiviolenza antonio bianco . puntata n XXXI SE VEDETE UN’AGGRESSIONE NON FATE I SUPEREROI... + ., SERVONO SISTEMI DI PREVENZIONE ADATTI A CHI È PIÙ VULNERABILE L’ANALISI DI Marilisa D’Amico Ordinaria di diritto costituzionale all’Università Statale di Milano

stavolta a guida di Antoi bianco affronta un tema particolare che è quello i cosa fare quando s'assiste ad un violenza \ aggressione verso le donne ( ma non solo ) quindi non interveite direttamente a meno che non siate super eroi oppure esperti in arti marziali e tecniche di autodifesa .

Ogni settimana, da queste pagine, cerchiamo di darvi consigli su come affrontare al meglio una possibile aggressione e su come comportarsi per evitare di trovarsi in pericolo. Può però capitare che siate voi ad assistere a un’aggressione. In questo caso come è consigliabile agire? Non fatevi prendere dalla sindrome del supereroe, prima  di tutto. Date la priorità sempre e comunque alla sicurezza, ed evitate di mettere voi stessi in pericolo, perché peggiorereste una situazione già delicata. Intervenite solo ed  esclusivamente se siete certi di poterlo fare in modo sicuro. Evitate di avvicinarvi all’aggressore, soprattutto se avete l’impressione che possa essere sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, di alcol, o in uno stato di rabbia. Mantenete una distanza di sicurezza tra voi e l’aggressore e non avvicinate oggetti che potrebbero trasformarsi in armi improprie. Chiedete l’intervento delle autorità e riferite l’accaduto, fornendo il maggior numero di dettagli sulla situazione e sulla posizione in cui si è consumato il reato. Se vi è possibile, annotate tuti i dettagli che riuscite a cogliere, perché potrebbero essere utili per il
riconoscimento del malvivente.Ad aggressione conclusa o meglio ancora sventata, rimanete accanto alla vittima, che potrebbe trovarsi in condizioni di shock. Statele vicino, e provate ad accompagnarla presso le forze dell’ordine per sporgere denuncia. Se ci sono altri testimoni che hanno assistito all’aggressione, cercate di contattarli per raccogliere eventuali ulteriori testimonianze. 
 ricordate che stare accanto a una persona che ha subìto un tentativo di aggressione o un’aggressione vera e propria può richiedere una quantità di energia importante dal punto di vista emotivo. Questo significa che anche voi potreste sentirvi in difficoltà. In questo caso non abbiate paura di chiedere aiuto o una qualche forma di supporto psicologico. Tenete a mente che spesso, anche e soprattutto in casi traumatici, condividere il proprio fardello con un’altra persona può essere un sollievo prezioso.


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“Una tragedia come quella  di Camelia  Ion uccisa  dall'ex    che  aveva  il bracialetto  elettronico   raccontata questa settimana  sul  settimanale  giallo   mette in luce quanto la vulnerabilità sociale dei senzatetto renda ogni strumento di protezione più difficile da applicare in modo efficace. Quando una donna si trova ai margini, senza una rete familiare o sociale, ogni provvedimento può rivelarsi fragile di fronte a una situazione di pericolo. È una s!da che richiede una valutazione profonda, perché non può bastare un divieto di avvicinamento o un braccialetto elettronico se le persone non sono messe in condizione di utilizzarlo. È fondamentale che le istituzioni, dalla polizia ai servizi sociali, collaborino per costruire una rete di cura intorno a chi vive una situazione di esclusione. Inoltre bisogna considerare quanto le persone senza !ssa dimora abbiano difficoltà ad accedere alla comunicazione, a partire dalla mancanza di uno smartphone, che può ostacolare l’uso di applicazioni di allarme o geolocalizzazione. È quindi importante che le misure siano adattate alle specifiche vulnerabilità, perché ogni situazione è unica e richiede una valutazione puntuale per evitare che la macchina della tutela resti inefficiente. 







L’assurdita delle frontiere di Pacmogda Clémentine

Con  sottofondo la strofa : <<[....]  il terreno su cui ogni giorno camminiamo noi non lo possediamo lo occupiamo e non è italiano africano è un dono che è stato fatto ad ogni essere umano i confini le barriere le bandiere sono giunti dopo aiutando l'odio la guerra e il razzismo a fare il loro gioco il terreno su cui ogni giorno camminiamo noi non lo possediamo lo occupiamo e non è italiano africano è un dono che è stato fatto ad ogni essere umano i confini le barriere le bandiere sono giunti dopo aiutando l'odio la guerra e il razzismo a fare il loro gioco [....]  » ( come ua pietra scalciata  - articolo 31 )
Leggo  quylesto  post di   Pacmogda Clémentine
Questo è il pilastro di cemento che separa il Ghana dalla Costa d'Avorio nella città di confine di Badukrom.


Questi due ragazzi si stringono la mano; uno è in Costa d'Avorio e l'altro in Ghana.La casa che vedete dall'altra parte è stata costruita da un uomo che vuole vivere in entrambi i Paesi.La gallina che vedete è del Ghana, in viaggio per andare a trovare il suo fidanzato in Costa d'Avorio.
🤣🤣🤣🤣😂
(preso sul profilo di EI-BB)

19.6.25

DIARIO DI BORDO N 13O BIS ANNO III Viaggio nell'isola di montecristo che ispirò Dumas e che oggi, sottratta alla speculazione edilizia e al turismo di massa, è sito pilota per il progetto Life Sea . ed altre storie

Avevo appena finito di scrivere il diario di bordo quando mi sono imbattutto in queste   storie 

  dal corriere  della sera  

 Viaggio nell'isola che ispirò Dumas e che oggi, sottratta alla speculazione edilizia e al turismo di massa, è sito pilota per il progetto Life Sea.Net per la crescita delle aree marine protette. Un modello da replicare ovunque. Con l'incognita di un possibile disimpegno di Bruxelles sulla tutela ambientale

per  chi  ha  fretta    può   guardare    solo il video  


 


DAL NOSTRO INVIATO
ISOLA DI MONTECRISTO 

I pulli di Berta minore crescono sereni e paciosi nei nidi artificiali predisposti per favorire la riproduzione della specie. Lì vicino i loro genitori si godono dall’alto lo spettacolo di terra e mare che regala loro lo scorcio dell’isola di Montecristo su cui si affacciano le cavità che hanno scelto come tana. Verso l’alto lo sguardo incrocia la vetta del Monte della Fortezza con i resti del monastero di San Mamiliano, che ospitò i monaci eremiti che cambiarono il nome a questa terra, indicata da greci e fenici come Monte Giove, dedicandola al figlio di Dio









. Verso il basso si posa invece su Cala Maestra, dove l’acqua turchese del mare è una tavola piatta che lascia immobili la motovedetta dei carabinieri e la motonave «Costa d’argento», le sole imbarcazioni autorizzate ad accedere alla baia, attraccate al piccolo molo. Poche decine di metri più in là l’ex casa dei pescatori accoglie i (pochi) escursionisti autorizzati a calcare il suolo di questa montagna di granito che emerge dal Tirreno su cui in molti - a partire da Alexandre Dumas che pur senza esserci mai stato vi ha ambientato il suo Conte - hanno fantasticato.



Una Berta minore sorvola Cala Maestra a Montecristo (foto di A. Sala)


Lo avevano fatto, alla fine degli anni Sessanta, anche alcuni imprenditori intenzionati a trasformare questo gioiello di natura in uno yacht club di lusso. Ma un movimento popolare affiancato anche da diversi studiosi e accademici era riuscito a far comprendere l’importanza di preservare questo scrigno di biodiversità e a vincere la battaglia per la sua conservazione: nel 1971 l’istituzione della Riserva naturale statale fece tornare nel cassetto, lasciandocelo per sempre, il progetto del resort per ricchi naviganti. Che in tanti avevano dato ormai per fatto, al punto che erano già state prodotte stoviglie di preziosa porcellana bianca con il marchio del nuovo circolo nautico, alcune delle quali sono ora in mostra nel centro visitatori dell'isola. A imperitura memoria, per raccontare quello che Montecristo avrebbe potuto diventare e che invece per fortuna oggi non è.






Oggi Montecristo è il regno della Berta minore mediterranea, nome scientifico Puffinus Yelkouan, che nel portale dedicato ai volatili da proteggere del ministero dell’Ambiente viene definita la «Signora del Mare Nostrum». Il 2% di tutta la popolazione globale di questa specie pelagica che assomiglia ad un piccolo albatros si trova qui. Al sicuro. Ma non è sempre stato così. Prima che il Parco dell’Arcipelago Toscano avviasse l’eradicazione del ratto nero, nel 2011, solo il 5% degli accoppiamenti arrivava a buon fine, ovvero allo sviluppo del pulcino e al suo involo. I ratti sono prevalentemente erbivori ma da buoni opportunisti non disdegnano di mettere in pancia qualunque cosa commestibile. E così, avendoli a portata, si nutrivano delle uova e dei piccoli appena nati, assaltando le fessure naturali del granito utilizzate dalle berte per deporre e a covare. Una scelta strategica per scongiurare gli attacchi dal cielo di quello che sarebbe stato il solo predatore naturale da queste parti, ovvero il falco pellegrino. Ma quando l’uomo ha portato sull’isola anche i ratti – involontariamente, trasportandoli nelle stive delle navi – i nostri puffinus hanno dovuto fronteggiare un nuovo e temibile nemico, di terra, contro cui poco potevano fare. Ora che questo nemico non c’è più, la percentuale di successo riproduttivo è superiore all'80%.


Cala Maestra e l'ex casa dei pescatori, oggi centro visite (foto di A. Sala)


L’isola di Montecristo è oggi un sito Natura 2000, la rete europea di circa 7 mila aree protette di interesse comunitario, ed è una delle zone pilota in cui viene sviluppato il progetto Life Sea.Net, co-finanziato dall’Ue, che ha come obiettivo l’individuazione di una strategia di gestione ottimale e replicabile per la conservazione di ambienti marini. A guidarlo c’è Legambiente, affiancata da diverse istituzioni: ministero dell’Ambiente, Ispra, due Regioni, tre aree marine protette, il Parco nazionale dell’Arcipelago Toscano e anche Federpesca, perché il coinvolgimento di chi il mare lo vive ogni giorno come risorsa economica e di sussistenza è fondamentale per la sua conservazione. Basti pensare a quanto possano incidere - e quindi essere malviste in mancanza di adeguata informazione - le limitazioni previste per Montecristo, che oltre a prevedere accessi super contingentati - max 75 persone al giorno, circa 1.700 all’anno che possono muoversi solo su tre percorsi prestabiliti e scortati dalle guide del parco e dai carabinieri – non è avvicinabile a meno di un miglio dalla costa. Le sue acque sono rigidamente tutelate e la pesca o le immersioni a scopo ludico portano a denunce di tipo penale.


Carabinieri presidiano l'attracco all'isola (foto di A. Sala)


La stessa Berta, del resto, in altre zone del Mediterraneo deve fare i conti con il problema delle catture accidentali. Quando si tuffa in picchiata per pescare piccoli pesci, immergendosi in mare anche per diversi metri, rischia di restare impigliata nelle reti tese dai pescatori. O, peggio, nelle reti fantasma, quelle abbandonate o perse, che agganciandosi agli scogli o ad altri appigli sui fondali continuano a pescare anche se non c’è nessuno ad issarle, intrappolando molti animali di acqua o del cielo, che poi muoiono affogati o di inedia. Secondo la Lipu (Lega italiana per la protezione degli uccelli), dall'inizio di maggio a metà giugno di quest'anno sono stati almeno 300 gli esemplari di Berta vittime del «bycatch» lungo le coste del Lazio e della Campania. A livello europeo, sempre secondo dati Lipu, sarebbero fra i 130 e i 380 mila gli uccelli marini che muoiono a seguito di catture accidentali. Lo specchio di mare che circonda Montecristo è indenne da questo fenomeno e sotto la superficie dell’acqua custodisce una enorme biodiversità animale e vegetale che dalla cima del Belvedere, uno dei punti più panoramici raggiungibili attraverso i percorsi prestabiliti, si manifesta nei chiaroscuri di cinquanta sfumature di blu che le praterie di Posidonia disegnano sul fondo di cala Santa Maria, trecento metri più in basso.

(Berte morte sul litorale laziale - Ph Andrea Benvenuti/Lipu)


La Berta non è però la «specie bandiera» dell'isola. Lo è invece, paradossalmente, è un animale alloctono ma da secoli diventato elemento inscindibile del territorio: la Capra di Montecristo, un tipo di capra selvatica molto simile all'Egagro, originario dell'Asia centrale e considerato il progenitore di tutte le capre. Importata dai greci per scopi alimentari, non essendoci altre possibili prede da cacciare, con l'estromissione dell'uomo non ha più predatori a minacciarla ed è oggi presente in tutte le aree dell'isola, tranne che in una porzione delimitata da recinti di contenimento che racchiude il promontorio di Punta Maestra, alle spalle dell'ex Villa Reale e del giardino botanico curato dai carabinieri forestali, unica presenza umana. È la zona dove c'è maggiore concentrazione di vegetazione ad alto fusto, tra cui alcuni lecci ultra centenari, che deve essere preservata dalla voracità dei ruminanti. Oggi se ne stimano circa 130 esemplari che vivono in stato totalmente selvatico, a cui se ne aggiungono cinque trasferiti al Bioparco di Roma a scopo di conservazione. Un altro animale simbolo è la Vipera di Montecristo, sottospecie della vipera meridionale, anch'essa presente da secoli ma, come il ratto, importata accidentalmente nella stiva di qualche imbarcazione.


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Piccolo elogio al coraggio del Parma che sta prendendo Carlos Cuesta, un allenatore straniero di 29 anni

L'ormai ex secondo di Arteta all'Arsenal non ha una carriera da calciatore alle spalle ed è il più giovane tecnico nella storia recente della Serie A.


Una delle notizie di calciomercato più significative di queste ultime ore, quindi all’inizio della sessione estiva 2025, non riguarda un calciatore, né tantomeno un club di prima fascia in Serie A. Riguarda invece il Parma, che tra poche ore annuncerà l’arrivo del suo nuovo allenatore: si tratta di Carlos Cuesta, tecnico spagnolo di 29 anni reduce dalle esperienze – come assistente tecnico – nelle

giovanili dell’Atlético Madrid e della Juventus, e poi nella squadra senior dell’Arsenal, accanto a Mikel Arteta. Beh, a questo punto dovrebbe essere chiaro perché si tratti di una notizia significativa: nell’anno in cui il calcio italiano sembra aver finito gli allenatori d’élite e forse anche le idee, nell’anno in cui il Milan e la Lazio e la Fiorentina hanno pensato che non ci fossero alternative migliori rispetto ad Allegri e Sarri e Pioli, nell’anno in cui la Juventus è rimasta scottata dal mancato ritorno di Antonio Conte e solo allora ha deciso di rinnovare il contratto di Igor Tudor, l’unico vento di novità arriva da Parma.
Sì, certo: anche il Cagliari ha dato un’opportunità a un tecnico giovane e allevato nel vivaio, a quel Fabio Pisacane che ha vinto la Coppa Italia con la Primavera rossoblu e che ha certamente una bella storia personale, di riscatto e di crescita. Però, possiamo dirlo: con Cuesta siamo completamente su un altro pianeta, siamo sul pianeta dell’azzardo, del rischio non calcolabile, quasi della follia, se leggiamo l’operazione attraverso la lente del giornalismo sportivo italiano – quello classico, almeno. In questo senso, basti pensare che Cuesta diventerà il secondo allenatore più giovane di sempre nella storia della Serie A, solo che il recordman – tale Elio Loschi – ha stabilito il primato nel 1939. Per trovare dei casi simili in Serie A, e in tempi relativamente recenti, bisogna arrivare fino a Bocchetti (Verona 2022) e a Stramaccioni (Inter 2012), che avevano 35 e 36 anni al momento della loro nomina ad allenatori. Allo stesso tempo, altra cosa abbastanza inusuale per il nostro calcio, Cuesta non ha una carriera da calciatore alle spalle. E non perché si sia interrotta a causa di un infortunio, tutt’altro: quando aveva 18 anni, Cuesta ha deliberatamente scelto di cominciare gli studi come tecnico. Un anno dopo, nel 2014, era già nello staff delle giovanili dell’Atlético Madrid.
Ecco, questa è un’altra ottima notizia per il nostro calcio. Il Parma, di fatto, ha aperto le porte – a livello di Serie A, quantomeno – a un allenatore non soltanto giovane, non soltanto straniero, ma anche formatosi in maniera diversa da tutti gli altri tecnici che lavorano in Italia. Nel nostro movimento, infatti, l’iter è abbastanza delineato e definito, si può dire che sia inscalfibile: un ex giocatore accede ai corsi di Coverciano, ottiene i titoli che servono per diventare allenatore e poi comincia la sua carriera, nei settori giovanili, nelle serie inferiori oppure – per i più bravi/fortunati – direttamente in Serie A. Cuesta, invece, si è formato direttamente come tecnico, come avviene da tempo in altri Paesi europei – la Germania su tutti. Questo ovviamente non significa che sia necessariamente più preparato rispetto ai suoi colleghi che hanno un background di campo, magari potrebbe anche mancargli qualcosa a livello di interazione coi calciatori. Il punto, però, sta proprio nell’accettazione della diversità, nell’abbracciare un profilo – e quindi una formula – che non appartiene alla nostra storia. Per dirla brutalmente: Cuesta non è nemmeno un allenatore à la Fàbregas, a cui il Como ha affidato il suo progetto tecnico. Nel senso che anche Fàbregas non aveva esperienza come allenatore in prima al momento della nomina, ma quantomeno aveva un certo status, una certa riconoscibilità e quindi un certo credito “gratuito”. Poi si è dimostrato pronto ad allenare ai massimi livelli, ma questo è un altro discorso.
Il Parma, quindi, ha fatto una scelta che in Serie A non si era mai vista: ha dato credito all’idea che gli allenatori del presente possano anche “nascere” in maniera diversa, passando per i vari step della carriera da coach – Cuesta ha lavorato all’Atlético e alla Juve come assistente tecnico nelle squadre giovanili, poi dal 2020 a oggi è stato secondo di Arteta – e non da un percorso consolidato; ha ripetuto, almeno in parte, la mossa già fatta a suo tempo con Maresca e poi anche con Chivu, oggi sulle panchine di Chelsea e Inter – ripetiamo: Chelsea e Inter – al Mondiale per Club; ha investito su un prospetto – e quindi su un progetto – che ha dei riferimenti forti, Arteta su tutti, riferimenti che in qualche modo andranno a urtare le fondamenta ideologiche del nostro calcio. Ben venga, però, il club che ha il coraggio di andare controcorrente, di osare, di cambiare lo status quo: le rivoluzioni vere, quelle importanti, quelle che hanno fatto la storia (non solo del calcio), sono iniziate tutte così.


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DA   https://www.lifegate.it/
L’Alaska dirama per la prima volta un’allerta meteo per il caldo
Un monumento nella città di Anchorage, in Alaska, dove le temperature sono particolarmente elevate in questi giorni © Hasan Akbas/Anadolu/Getty Images

17 giugno 2025,
di Andrea Barolini


Benché non si tratti di caldo record, il servizio meteorologico americano ha deciso di diramare un’allerta in Alaska: “Una presa di coscienza”.





“La nostra regione sarà interessata da un’ondata di caldo anomalo. Le persone, non abituate a queste temperature insolitamente elevate, potrebbero presentare sintomi legati a colpi di calore. Prendete le necessarie precauzioni”. A questo genere di messaggi siamo abituati. Nei periodi estivi si tratta di allarmi usuali in paesi come l’Italia, e ormai anche – sempre più spesso – nelle nazioni dell’Europa settentrionale. Anche gli Stati Uniti spesso devono fronteggiare ondate di caldo particolarmente forti. Ma questa volta l’allerta in questione assume un carattere storico: si tratta della prima volta che il National weather service (Nws) americano la dirama per l’Alaska.
Nel 2019 in Alaska il record di caldo
Non era infatti mai accaduto che un’allerta per caldo anomalo fosse diramata per lo stato più settentrionale degli Usa, situato nella estremità nordoccidentale del continente e bagnato dal Mar Glaciale Artico. Il primo avviso è stato diffuso domenica 15 giugno nella città di Fairbanks, la seconda
più grande dello stato, abitata da 32mila persone, nella quale sono stati toccati gli 85 gradi Fahrenheit (29,4 gradi centigradi).
Non si tratta, in realtà, della prima volta che l’Alaska è interessato da temperature al suolo anomale durante i mesi estivi. Nel 2024 per due volte si sono superati i 90 gradi Fahrenheit, pari a 32,2 gradi centigradi. E nel 2019 un’ondata di caldo estremo portò a battere dei record assoluti a Anchorage, Fairbanks e in altre località.
Il National weather service vuole fornire più informazioni alla popolazione
A cambiare, però, è l’approccio del Nws, che punta ora a fornire maggiori informazioni alla popolazione, anche con l’obiettivo di sensibilizzare sul problema. In passato, infatti, si utilizzavano dei “comunicati meteorologici speciali”, mentre ora si adottano gli stessi messaggi di allerta del resto del territorio statunitense.
Rich Thomas, del Centro di valutazione e politiche climatiche dello stato americano, ha sottolineato in questo senso che “il caldo attuale nelle aree interne non è eccezionale o da record. C’è un nuovo strumento ufficiale, che riflette in modo più chiaro una presa di coscienza”.
“Vogliamo usare le parole giuste, in Alaska non si è abituati a queste temperature”
“Vogliamo essere sicuri di utilizzare le giuste parole e una corretta comunicazione”, ha dichiarato Alekya Srinivasan, meteorologo residente a Fairbanks, secondo quanto riportato dall’Associated Press. “Si tratta di una dichiarazione importante – ha aggiunto -. Il pubblico deve sapere che le temperature aumenteranno e che possono risultare pericolose, poiché l’Alaska non è abitato a valori così elevati”.I consigli forniti dal National weather service in caso di ondate di caldo anomale
Nello stato americano i problemi di fronte alle ondate di caldo sono infatti legati alla mancanza di strumenti adeguati per difendersi: negli edifici i climatizzatori sono quasi inesistenti e, al contrario, la maggior parte delle strutture è concepita per conservare al meglio il caldo, per fronteggiare i rigidi inverni.
In Alaska case concepite per conservare il caldo
Ma non è tutto, il vicino Canada è interessato da mega-incendi e in tutto il Nord America in molte occasioni l’aria è diventata irrespirabile. Per questo le popolazioni avvolte dalle nubi di fumo sono state invitate a chiudere le finestre per limitare l’esposizione. Cosa che, in caso di ondate di caldo, rende ancor più complicato mantenere abitazioni e luoghi di lavoro a temperature accettabili.


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