professionista con Lotto e Q'36.5 e oggi in maglia bianca, senza sponsor e con una sola scritta: Swatt Club, club amatoriale nato da un blog. Conca vince il campionato italiano professionisti a Gorizia battendo nettamente nella volata a cinque Alessandro Covi (Uae Emirates), Thomas Pesenti (formazione sviluppo della Soudal-Quick Step), Giovanni Aleotti (Red Bull-Bora) e l'altro compagno di squadra Mattia Gaffuri. A 10 Baroncini e a 11 Milan, protagonista di un grande forcing nel finale. Lo Swatt Club è un team lombardo e inizialmente era un semplice blog (solowattaggio). Nasce nel 2017 come formazione amatoriale con l'idea di dare una seconda possibilità a tutti i corridori over 23 anni scartati dalle grandi squadre e rimasti a piedi. Il regolamento lo prevede: il tricolore è aperto a tutti i corridori élite, cioè oltre 23 anni, per i quali esiste una speciale corsa vinta ieri da Alessandro Borgo. Siamo quindi alle comiche: sabato parte il Tour de France, con i nostri Jonathan Milan e Filippo Ganna alla ricerca di qualche acuto in terra francese che ci manca da 106 tappe (Vincenzo Nibali, Val Thorens, 27 luglio 2019), e ieri abbiamo vissuto una delle pagine ciclistiche nostrane più imbarazzanti di sempre. Un amatore che vince la maglia tricolore dei professionisti. L'uomo senza maglia, Filippo Conca, si veste di tricolore.
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30.6.25
Ciclismo, professionisti battuti dall'amatore senza sponsor
professionista con Lotto e Q'36.5 e oggi in maglia bianca, senza sponsor e con una sola scritta: Swatt Club, club amatoriale nato da un blog. Conca vince il campionato italiano professionisti a Gorizia battendo nettamente nella volata a cinque Alessandro Covi (Uae Emirates), Thomas Pesenti (formazione sviluppo della Soudal-Quick Step), Giovanni Aleotti (Red Bull-Bora) e l'altro compagno di squadra Mattia Gaffuri. A 10 Baroncini e a 11 Milan, protagonista di un grande forcing nel finale. Lo Swatt Club è un team lombardo e inizialmente era un semplice blog (solowattaggio). Nasce nel 2017 come formazione amatoriale con l'idea di dare una seconda possibilità a tutti i corridori over 23 anni scartati dalle grandi squadre e rimasti a piedi. Il regolamento lo prevede: il tricolore è aperto a tutti i corridori élite, cioè oltre 23 anni, per i quali esiste una speciale corsa vinta ieri da Alessandro Borgo. Siamo quindi alle comiche: sabato parte il Tour de France, con i nostri Jonathan Milan e Filippo Ganna alla ricerca di qualche acuto in terra francese che ci manca da 106 tappe (Vincenzo Nibali, Val Thorens, 27 luglio 2019), e ieri abbiamo vissuto una delle pagine ciclistiche nostrane più imbarazzanti di sempre. Un amatore che vince la maglia tricolore dei professionisti. L'uomo senza maglia, Filippo Conca, si veste di tricolore.
L’hip hop italiano ha ingranato la marcia indietro? Il rap italiano sta diventando nostalgico?
da https://www.rollingstone.it/musica/ di Mattia Barro 27 Giugno 2025 10:30
Il rap italiano sta diventando nostalgico?
Neffa che torna a rappare, Fabri Fibra che rifà un brano degli Uomini di Mare, DJ Shocca che pubblica ‘60 Hz II’. L’hip hop italiano ha ingranato la marcia indietro?

Shablo, Guè, Tormento, Joshua e Neffa Foto: Instagram
Che il rap sia, per antonomasia, un genere che si parla addosso è qualcosa di cui siamo apertamente al corrente. “Fare rap che parla di rap e parlare alla gente che ascolta rap è un controsenso, come se i libri parlassero di libri, e d’ogni foto stampassimo i negativi”, rappava Ghemon prima di una delle sue fughe dal genere in Niente può fermarmi, Anno Domini 2006. Nell’ultimo anno e mezzo, ovvero dalla reunion dei Club Dogo di inizio 2024, al parlarsi addosso si è però aggiunta una nuova (e altrettanto preoccupante) attitudine nella comunità hip hop: la nostalgia.Gli ultimi mesi sono stati piuttosto intensi per i nostalgici del primo rap italiano. L’anno ha difatti inaugurato con un cortocircuito importante: Sanremo. Sul palco dell’Ariston – che storicamente non ha buon feeling con il mondo hip hop – si è presentato Shablo accompagnato da due figure storiche del genere come Guè e Tormento, il primo di ritorno dopo precedenti apparizioni nelle serate cover, il secondo alla terza presenza dopo quella a nome Sottotono nel 2019 come ospite di Livio Cori e Nino D’Angelo e l’esordio nel 2001 diventato celebre per il violento alterco con Valerio Staffelli di Striscia la Notizia che portò poi inesorabilmente allo scioglimento del duo.Proprio nella serata cover di quest’anno, però, il cortocircuito: sul palco si ritrovano i due grandi rivali degli anni ’90, Neffa e Tormento, l’underground e il pop, a celebrare la storia dell’hip hop made in Italy con due pietre miliari di quegli anni, Aspettando il sole e Amor de mi vida. Quello che sembrava un semplice omaggio alla storia, però, si è presto rivelato essere una premonizione.
Neffa - Hype (nuoveindagini) (Visual Video) ft. Fabri Fibra, M¥SS KETA
Proprio Neffa, post-Sanremo, è tornato a pubblicare un disco rap dopo un’attesa lunga 25 anni e «dieci anni di cancro alla felicità», come ci ha raccontato nella cover story a lui dedicata. Il primo avvicendamento era avvenuto qualche mese prima nel 2024, in Fogliemorte con Fabri Fibra, ma è proprio dopo Sanremo che il cantante è uscito allo scoperto annunciando Canerandagio Pt.1, il vero ritorno del guaglione sulla traccia dai tempi dell’EP Chicopisco del 1999. E poteva questo disco non rifarsi in qualche modo alla nostalgia? Eccoci allora servito Hype (nuoveindagini) con Fabri Fibra, che chiude un cerchio aperto nel 2002 con Turbe giovanili, il primo album solista del Fibroga. Backstory: Neffa dopo Chicopisco decide di chiudere la sua parentesi con l’hip hop, lasciando in omaggio a Tarducci i beat che daranno forma alla sua prima avventura solista. Turbe giovanili apre Scattano le indagini, il cui sample è riutilizzato da Neffa proprio per la produzione di Hype (nuoveindagini), come parentesi vuole sottolineare.Passano meno di due mesi e questa volta è proprio Fibra a ripescare dal proprio passato. Per il suo ultimo disco, Mentre Los Angeles brucia, il rapper decide di affidare la chiusura – la oramai celebre traccia n. 17 – al remake di uno dei suoi più grandi successi periodo Uomini di Mare, Verso altri lidi. Già re-inserita nella scaletta live da qualche anno, Fibra porta sulle piattaforme di streaming una versione riarrangiata del brano che, nella sua versione originale – costruita attorno al sample di Is There Anybody Out There? dei Pink Floyd – non potrà mai vedere la luce per problemi di copyright. «Mi andava di rifarla perché alla fine il pezzo è mio e lo rifaccio come cazzo voglio» ci raccontava qualche giorno fa nella nostra cover story appena prima della release. È dovuto arrivare a quasi 50 anni Fibra per decidere di ritrovarsi con questo successo dell’underground uscito nel lontano 1999: e pensare che ai tempi di Mr. Simpatia, nel 2004, rappava “ho avuto pure un figlio ma l’ho fatto ammazzare / perché sperava che facessi un altro Uomini di Mare”. Dopo l’abbandono della scena di pessimi massimi come Neffa, Fede e Fritz Da Cat di inizio millennio, nel rap italiano del 2006 non c’è tempo di guardare al passato: bisogna avere coraggio, e riconquistare il mercato da un punto morto. Il rap, in quel momento storico, deve inventarsi il proprio futuro.
Fabri Fibra - Verso Altri Lidi (Official Visual Video)
Non c’è Fabri Fibra, ma c’è Neffa, e pure Ghemon e Tormento, nel team di rapper che DJ Shocca ha voluto per 60 Hz II,
il seguito del suo storico album del 2004, un faro che ha tenuto in
vita l’hip hop italiano in un’epoca storica definita dallo stesso Fibra
«il vuoto totale dopo la golden age». Già dal titolo, 60 Hz II è un’operazione nostalgia. Sfogliando la tracklist si percepisce infatti la volontà sfaccia di RocBeats di riportare in auge un proprio passato. Il disco, infatti, è colmo di parti due,
ovvero di brani che ripartono dal beat originale dell’epoca per darne
una nuova versione contemporanea. Per i fan della doppia H sentire
titoli come 60 Hz II, Rendez vous col delirio II (coi Club Dogo), Notte blu II (nell’originale del solo Frank Siciliano, qui con Gemitaiz e Ernia), Ghettoblaster II (con Stokka e Madbuddy oggi raggiunti da Jake La Furia e Izi) e Sempre grezzo II
(del compianto Primo, rivisitata qua da Tormento e Egreen) farà
scorrere un brivido lunghissimo a metà tra il dolce ricordo giovanile e
il terrore adulto di veder disonorata la storia.
L’esercizio
stilistico di Shocca è riplasmare il (suo) passato del rap italiano
creando un dialogo diretto con ciò che fu, trasformando vecchie strofe
in scratch (come nel finale di Rendez vous col delirio II e Notte blu II),
interludi in pezzi veri e propri pezzi (“Roc ti giuro ti ringrazio /
rappo su sto interludio dal 2004 / 20 anni dopo sono in studio per
firmarti un classico” come fa notare Ensi in How We Roc, facendo riferimento a Quattro, interludio strumentale nel primo episodio di 60 Hz)
e portando i rapper a boxare con l’ombra del proprio passato tra strofe
e ritornelli ripresi alla lettera dalle versioni originali (accade in
tutte le versioni II). E fa strano in apertura del disco sentire
Madbuddy lanciarsi in “Odio i rapper bloccati nel passato perché i
ricordi sono come un sentiero di vetri rotti”.
Simon Reynolds ha
spiegato molto bene questa tendenza contemporanea coniando il termine
retromania, ovvero l’idea che la cultura pop – tramite remix, ristampe,
sampling e revival – sia ossessionata dal proprio passato al punto da
diventare incapace di produrre qualcosa di davvero nuovo. «Viviamo in
un’epoca pop impazzita per il rétro e ossessionata dalla commemorazione.
[…] Il pericolo è che potremmo esaurire il passato stesso», scrive nel
suo celebre saggio Retromania del 2011, in cui la nostalgia
diventa qualcosa che paralizza e la retromania è il sintomo della
difficoltà della modernità nel pensare il futuro. Se per gli Uomini di
Mare nel 1999 Il domani è oggi, per il rap italiano il passato è oggi.
DJ Shocca, Club Dogo - Rendez Vous Col Delirio II
E se anche le nuove generazioni – vedi Santana Money Gang di Sfera Ebbasta e Shiva con le continue citazioni a Club Dogo (Guè inoltre ha di recente pubblicato KG Anthem con Rasty Kilo, una riedizione di Zona Uno Anthem del 2010) e Marracash – iniziano a ripescare dal passato perdendo il furente approccio iconoclasta, rifacendosi direttamente ai padri (vedi che anche la volontà di Salmo di avere una figura storica come Kaos come unico featuring nel suo ultimo disco Ranch), forse l’idea di futuro portata avanti dal rap si è inceppata. Non è un caso che oggi molti della next gen – Ele A, Nerissima Serpe, Kid Yugi – abbiamo lasciato da parte la trap per tornare proprio a rappare, come si faceva una volta, rima su rima, barra dopo barra.Se questa nostalgia sarà solamente una fase ciclica, una moda che ritorna a 20 anni dagli originali, o qualcosa che si è inserito in modo metastatico nello strato sottocutaneo del rap italiano lo scopriremo ben presto. Nel primo caso parleremo di un omaggio ai sopravvissuti alla storia gloriosa della golden age. Nel secondo della fine della spinta propulsoria di quella che sempre Fibra ha definito «l’unica rivoluzione musica italiana». La sensazione, se dovessimo scommettere i celebri due centesimi, è che anche il suono della strada è stato inghiottito dal suo stesso passato.
l'essenza della guerra dibattito con Mario domina https://mariodomina.wordpress.com/
Mi pare che la posta in gioco – un mondo realmente multipolare dopo la parentesi monopolare di quest’ultimo trentennio, che qualcuno aveva immaginato, illudendosi, come “la fine della storia” e il trionfo della globalizzazione neoliberista – sia piuttosto chiara.
Ciò non toglie che quando subentra la logica bellica – o meglio, quando la guerra si rivela per ciò che è nella sua essenza, ovvero la struttura profonda e l’intelaiatura dei rapporti internazionali e tra potenze, e non il puro fenomeno delle guerre guerreggiate – si manifestano accanto alla “razionalità” degli interessi, anche elementi irrazionali e nichilisti di cui occorre tener conto. Altrimenti sarebbe impossibile spiegare quel che è successo durante le due guerre mondiali, specie nel corso della seconda.
La guerra è portatrice ad un tempo di elementi materiali, di interessi, di “razionalità”, e però insieme di ideologie distruttive e nichiliste. Le due forze vanno insieme, e le si vedono interagire anche nel linguaggio, negli attori collettivi e nei soggetti individuali (basti pensare ai fanatismi nazionalisti sempre pronti a risorgere).
Economia e psicopatologia all’unisono, al servizio di un crescente delirio di onnipotenza. Ragion per cui le guerre si cominciano spesso al buio, senza sapere a quali terre ignote condurranno.
L'incredibile storia dell'italiano e del santuario che ha addomesticato un orso .,Bufera sulla bandiera nazista al museo della guerra di Orsogna: mozione per rimuoverla. Lo storico Marco Patricelli, esperto dell'Europa del Novecento e della Seconda guerra mondiale,: «Richiesta ridicola»
29.6.25
Il negozio-museo compie un secolo .,La caduta dal ponteggio, 45 minuti a terra prima dei soccorsi: «Sono un miracolato» Gianluca Deiana, 55 anni, nel febbraio 2024 è stato coinvolto in un grave incidente sul lavoro a Cagliari. Il suo racconto
fonte unione sarda
Il negozio-museo compie un secolo «Abbiamo ancora una clientela fedele, qui si vendono lampadine e si parla del Cagliari»
Ci sono i grandi megastore dell’elettronica, quelli con le smart tv sempre più grandi e mille oggetti dei desideri di cui tanti sembrano non poter fare a meno. E poi c’è questo piccolo negozio con gli scaffali in legno, che odora di antico, con le abat jour vintage esposte a fianco ai ventilatori di ultima generazione, i lampadari che pendono sopra il bancone e, qua e là nelle vetrine, vecchi contatori, misuratori di corrente di varie epoche, una vecchia cassaforte, tracce della storia dell’ultimo secolo.Un secolo di vita
In effetti quello dei fratelli Roberto, in viale Regina Margherita, è un po’ negozio di elettricità e un po’ museo. E infatti Piero Roberto, 57 anni, che rappresenta orgogliosamente la terza generazione della famiglia, al museo ci sta pensando davvero ora che l’attività ha compiuto un secolo e può vantarsi di essere il più vecchio della città
L’iscrizione al “registro delle ditte”, esposta in una vetrina accanto a tanti pezzi storici, porta la data del15 giugno 1925. Ad aprire l’attività fu Giovanni Roberto, perito elettrotecnico, secondo di sette fratelli originari del Monferrato, che iniziò a vendere materiale elettrico nell’orologeria aperta in via Barcellona dal padre Domenico, che si era trasferito a Cagliari a fine ‘800 dal Monferrato e nel 1884 aveva realizzato in città una delle prime stazioni telefoniche del Genio militare.Quando dal Pirmonte arrivarono anche Marco , Antonio e Pietro si miseri in proprio e aprirono il negozio in via Napoli, dove oltre a commerciare materiale elettrico riparavano in esclusiva le radio Philips, una delle marche di cui erano depositari per tutta la Sardegna. L’attività era fiorente tanto che l’azienda arrivò ad avere oltre dieci dipendenti. Negli anni ‘40 si trasferirono in via Sant’Eulalia, dove costruivano impianti elettrici per numerose imprese edili, riparavano motori e facevano manutenzione agli impianti militari tra cui le sirene d’allarme che si attivavano durante le incursioni aeree
Riferimento sicuro
Erano uno dei riferimenti sicuri della città, uno di quei negozi dove si trovava tutto, ma proprio tutto ciò che serviva. Il 4 dicembre del 1942 un aereo cadde sul palazzo dove aveva sede l’attività distruggendo i due piani superiori ma non quello dove aveva sede l’attività. Ma fu solo un segno premonitore perché nel maggio del ‘43 una bomba rase al suolo l’edificio, distruggendolo. La famiglia fu costretta a lasciare tutto e sfollare a Villanovafranca. Quando rientrarono a Cagliari, agli inizi del ‘45, dell’attività non restava più nulla. «Qui non c’è da piangere né da lamentarsi», disse il padre ai figli, «ricordate che i piagnistei e le lamentele non hanno mai risolto niente»
Viale Regina Margherita
Così fu: il negozio fu riaperto in viale Regina Margherita 24, dove ha sede ancora oggi e dove ogni angolo racconta un pezzo di una storia lunga. Piero Roberto lavora dietro quel banco da quando aveva 19 anni e aveva appena finito l’istituto professionale, al Meucci. Assieme a lui ci sono i figli Federica, 29 anni, e Filippo, 23. Resistono, nonostante tutto, forti della loro storia e di un nome che in cento anni non si è mai sporcato. «La grande distribuzione e Amazon ci hanno portato via parte del lavoro ma a penalizzarci di più sono i parcheggi a pagamento», spiega Piero che, fedele all’insegnamento del padre e del nonno, non si lamenta. «Abbiamo una clientela fedele».In questo spazio di fronte a Sa Manifattura c’è una tradizione che si rispetta, qualsiasi cosa accada, e che prescinde da prese elettriche, batterie e applique. «Il lunedì si commenta il risultato del Cagliari. Lo facciamo prima io e Filippo (che mostra orgoglioso un tatuaggio con lo stemma dei rossoblù), poi con i clienti, molti dei quali sono anche amici». Del resto ciò che da un secolo tiene in piedi questa attività è la competenza, certo, ma anche i valori, quelli sani, che trasudano da queste pareti antiche
La caduta dal ponteggio, 45 minuti a terra prima dei soccorsi: «Sono un miracolato»
Gianluca Deiana, 55 anni, nel febbraio 2024 è stato coinvolto in un grave incidente sul lavoro a Cagliari. Il suo racconto
| «Lavoravo come muratore, in un cantiere a Cagliari - racconta - era febbraio del 2024. Il ponteggio lo avevamo già montato da tempo e stavamo sistemando la facciata». Sennonché «in quel momento, mancava poco alle 13, ero solo e ricordo che ho saltato un piccolo gradino, dal balconcino alla pedana per prendere l’attrezzatura e andare via». Dopo è il buio, «non ricordo niente se non che verso le 13.45, dopo avere perso i sensi, ho ripreso conoscenza. Sono rimasto buttato in terra sull’asfalto per 45 minuti. In quell’arco di tempo in strada non è passato nessuno, nemmeno persone a passeggio con il cane. Forse perché era l’ora di pranzo, forse è stata una fatalità, non so». Quando si risveglia arrivano il titolare dell’impresa e un suo collega. «La mia situazione non gli era sembrata grave, non hanno chiamato l’ambulanza ma mi hanno caricato in macchina e mi hanno portato in ospedale al Policlinico. Io c’ero e non c’ero. Ricordo che avevo dolori lancinanti ovunque, avevo capito di essere fratturato». |
| Le emorragie cerebrali |
| Prima di entrare in ospedale Deiana resta in auto a lungo. «Fino a quando sono arrivata io», interviene la moglie Elisabetta Spano, «sono entrata di corsa a cercare un medico e ho detto: “Venite perché mio marito sembra Gesù tolto dalla Croce”. Era in condizioni pietose, il volto tumefatto, non riusciva a muoversi. Sono corsi ed erano allibiti che non fosse arrivato in ambulanza. L’hanno portato dentro e sono rimasti con lui otto ore di fila».Le condizioni sono critiche: due emorragie cerebrali frontali, lesioni a entrambe le rotule, frattura del perone, del malleolo e quella del polso «che non potrà recuperare». Da lì il calvario: tre operazioni, la fisioterapia. «Dovrei operare anche la mandibola ma sono in attesa». La fisioterapia l’ha fatta a pagamento: «Mi dovevo rimettere in piedi subito e c’erano liste d’attesa lunghissime». Piano piano la rinascita, «ho capito che mi dovevo rimettere in piedi e ci sono riuscito. Sono un miracolato. E pensare che quella mattina avrei dovuto accompagnare io il titolare a prendere del materiale, invece poi era andato il mio collega». |
| L’epilogo |
| E a marzo Elisabetta Spano e Luca Deiana, che fino a sabato scorso era obriere della cappella di via Porcu, si sono sposati. «Quando ero lì in ospedale, nonostante dieci anni di convivenza con Luca io in pratica non ero nessuno - dice Spano - Non mi davano notizie, non potevo decidere niente. Così abbiamo deciso che dovevamo regolarizzare tutto». E ricominciare a vivere. |
CANE ABBANDONATO IN SPIAGGIA DIVENTA CUSTODE DELLE TARTARUGHE
Il gran cuore di Amelia Bissiri. La storia di una giovane di Seui che a Los Angeles si mise al servizio degli emigrati
Da https://www.nemesismagazine.it/

Sul fronte dell’emigrazione, che negli anni della guerra avrebbe avuto un significante calo, non si era ancora arrivati a un provvedimento per ridurre i flussi di disperati in arrivo dall’Europa come l’ Emergency Quota Act del 1921, ma da tempo le proteste contro l’emigrazione incontrollata tenevano banco in tutti gli States prendendo di mira gli WOP, i without passport e in particolar modo i “macaroni” e i “dagger”, i disonesti italiani del meridione dal coltello facile. Il ragionamento di chi si opponeva all’accoglienza degli emigrati era molto simile a quello dell’attuale presidente statunitense Donald Trump che poche settimane fa ha dichiarato che non permetterà “che gli Stati Uniti siano distrutti da migranti illegali e criminali del Terzo Mondo” o a quello del governatore democratico della California Gavin Newsom che ha proposto di togliere l’assistenza sanitaria gratuita agli immigrati irregolari.
Nel primo Novecento raggiungere gli Stati Uniti dalle sponde dell’Europa passando per Ellis Island era un impresa difficile, arrivare sino alla west cost e nelle città di Los Angeles e San Francisco complicava ulteriormente le cose. Fu così creato un comitato di soccorso alle colonie di immigranti provenienti da Italia, Spagna e Francia al quale avrebbe aderito a Los Angeles una giovane e intraprendente ragazza sarda, Amelia Bissiri da Seui.
Amelia era l’unica femmina sopravvissuta nell’estesa famiglia Bissiri Caredda, le sorelle Amalia, Ada e Aida erano morte ancora in tenera età. Negli U.S.A aveva avuto modo di diplomarsi, seppur tardivamente, al college e di studiare lingue alla University of Southern California, la stessa dei fratelli Alfio e Augusto, dove si laureò nel 1920 con una dissertazione sull’estetica di Ramón María del Valle-Inclán per poi andare a insegnare lingua spagnola al Pasadena City Schools e al Polytechnic High School.
Agli inizi del 1915 Amelia Bissiri partecipa attivamente alle iniziative della Woman’s Home Missionary Society del quartiere di Westlake, dove conosce e abbraccia la causa della chiesa metodista e dove spesso, in un mondo a prevalenza maschile, viene chiamata in qualità di conferenziera ed è nell’Istituto Internazionale per il soccorso per gli immigrati, nata in seno alla stessa associazione, che riesce ad accattivarsi la stima e la simpatia dei bisognosi. La colonia di emigrati, dove prevalgono gli italiani, è abbastanza nutrita, circa novemila persone, fra le quali sono moltissime ad aver bisogno di aiuto. Amelia è in prima linea per procurare cibo e vestiario, assistere gli ammalati, badare ai neonati mentre le madri sono a lavoro ed aiutare le persone a trovare un’occupazione. Sfruttando a pieno la sua dimestichezza con le lingue, mette le sue competenze a disposizione della Young Women’s Christian Association, organizzazione internazionale no profit ancora esistente che che si concentra sull’emancipazione, la leadership e i diritti delle donne, negli uffici di 1315 Pleasant Street dove assieme alle colleghe, in tre parlano otto lingue diverse, sotto la direzione di Miss Sue Barnwell, tiene i corsi di inglese per le ragazze straniere, agevolandole così nella ricerca di un impiego.

Il suo operato non passa inosservato e il suo nome finisce ben presto fra le colonne dei giornali che ne lodano l’impegno e le qualità e le notizie che la riguardano rimbalzano presto oltre l’Atlantico, sino a Cagliari, dove l’Università Popolare nata sulle ceneri del Circolo filologico la celebra durante un’incontro sociale ed esalta le gesta di quella giovane sarda “dagli occhi bruni”.
Il percorso di Amelia, come del resto quello dei suoi fratelli, in particolare Augusto e Amerigo, prosegue fra l’esercizio della professione, l’associazionismo e il volontariato per i più bisognosi, ma la sua grande generosità e il suo disinteressato altruismo non sono ricambiati dalla corrispettiva dose di fortuna. Muore prematuramente a Los Angeles a soli 35 anni, era nata a Seui il 22 settembre del 1888 e diventata cittadina statunitense nel 1917. Riposa al Grand View Cemetery di Glendale nella Città degli Angeli che la volle come figlia adottiva.
La sua storia andrebbe ulteriormente approfondita, come quella della sua famiglia e di Augusto, l’uomo che sognava il futuro, pensandolo, come la sorella, probabilmente migliore di quello del 1915, non potendo immaginare che invece, oltre un secolo dopo, la guerra ancora avrebbe scosso l’umanità e molti migranti avrebbero avuto ancora bisogno di tante altre Amelia.
La pace ha bisogno delle donne: voci dalla manifestazione di Cagliari 26 giugno 2025 ., Addio alle armi: le storie dei militari russi che disertano la guerra.,
da https://www.pressenza.com/it -
Carlo Bellisai

L’appello alla giornata del 26 giugno, lanciato dalla “Rete Donne per la Pace”, è stato raccolto in Sardegna dai gruppi femministi e dalle organizzazioni della società civile, con l’adesione di 22 associazioni e ben tre manifestazioni territoriali: a Sassari, Oristano, Cagliari. Nata dall’idea di alcuni gruppi femministi e dalle Donne in Nero, che già svolgevano presidi localmente, l’idea di 10 – 100 – 1000 piazze è stata contagiosa.
Si dichiarano “donne per la pace e per un futuro senza violenza” e hanno deciso di unirsi “perché la pace non è un’utopia lontana, né un fatto privato o diplomatico. La pace è una pratica collettiva, un atto politico quotidiano, un bene comune da costruire, qui e ora.” Forse sta qui la necessità di autoconvocarsi delle donne, per dare un accento e un senso di genere al bisogno di pace dei popoli, per dare una sensibilità e un’autorevolezza in più alle richieste di fermare l’escalation bellica. Ma come?
Provo a chiederlo a Cagliari, a qualcuna delle partecipanti al presidio delle donne in piazza Costituzione, alcune centinaia, nella serata afosa, sotto il Bastione Saint Remy.
Ci sono state tante manifestazioni contro la guerra e il riarmo e per la pace, perché avete sentito il bisogno di autoconvocarvi e qual’ è l’apporto più forte, l’aggiunta più significativa che le donne possono dare per la pace?
- Le donne hanno un rapporto speciale con la pace, – afferma Angela – innanzitutto perché possono essere madri e quindi hanno un senso di protezione per la vita e non vogliono vedere figli morti in guerra. Inoltre sono più abituate a tessere, a costruire relazioni, mentre la guerra non fa che distruggerle.
Secondo Valeria, sono le donne che danno la vita e che la tengono più a cuore. Concetto ribadito da altre partecipanti, tra cui Pinella, che puntualizza:
- Nella Storia le donne sono state meno complici della guerra, rispetto agli uomini. Hanno un rapporto fisico con la vita e non accettano che diventi carne da cannone. –
Per Marta, le donne, storicamente, – non hanno mai avuto voce in capitolo sulla guerra, né sulle più importanti decisioni di potere, né nelle pratiche repressive. Perché i corpi delle donne sono i primi a diventare terra di conquista. Sarebbe una contraddizione umana per le donne, contribuire alla guerra. –
- Essendo creatrici della vita, hanno più a cuore la cura della vita e una sensibilità speciale per la sofferenza. – (Bernarda)
Il femminicidio è l’espressione ultima della guerra. – (Luisa).
Anche secondo Raffaella: – le donne hanno sempre avuto una capacità di mediazione nei conflitti della vita di tutti i giorni, capacità di ascoltare, di reagire, di trovare soluzioni. –
Sembra quindi che le donne, anche in quanto generatrici, si sentano in qualche modo custodi della vita e quindi agli antipodi con la guerra, le armi e gli assassinii. Inoltre sentono di aver potenziato capacità relazionali più prossime all’empatia e allo spirito di cura per l’ambiente e per l’altra persona. I temi della sensibilità alla cura dei rapporti e dell’attitudine all’ascolto della sofferenza, depurati dagli stereotipi convenzionali, sembrano dare almeno in parte una risposta alla nostra domanda.

Cagliari, manifestazione del 26 giugno al Bastione Saint Remy – Foto di Pierpaolo Loi
Durante il sit-in di Cagliari si sono svolte delle letture di poesie o di brani e gli interventi dei rappresentanti delle associazioni aderenti alla rete, compresa una giovane rappresentante dell’associazione in solidarietà con la Palestina, che ha ricordato ancora una volta il genocidio in atto. Particolarmente interessante la partecipazione di un folto gruppo di giovanissime, appartenenti al “Collettivo Sregolate”, che hanno letto poesie e mostrato pensieri e vignette satiriche.
La ricerca della pace, quella vera, costruita sulla parità tra i generi, sulla giustizia sociale e sul riconoscimento dei diritti dei popoli, avrebbe bisogno del coinvolgimento delle donne in tutto il mondo, proprio perché le donne sono spesso il primo bersaglio della violenza, dagli stupri di guerra a quelli casalinghi, sino al femminicidio.
La guerra crea paura ed aggressività, genera violenza a trecentosessanta gradi e questo si ripercuote sulle donne, specie quelle appartenenti agli strati sociali più deboli, o ai popoli colonizzati.
Siamo con loro, non solo per spirito di solidarietà, ma nella convinzione che è dal crescente impegno delle donne che potrà estendersi una cultura della pace in tutto il mondo, che possa contrastare la guerra e i suoi sporchi interessi egemonici ed economici.

Foto di Pierpaolo Loi
Concludo con un estratto dell’intervento di Afra:
- Ci dicono che l’eroe è colui che uccide. Noi diciamo che l’eroe è che si rifiuta di obbedire. Ci dicono che i maschi devono essere forti, violenti, armati. Noi diciamo che la vera forza è spogliarsi della divisa, disertare, prendersi cura.
Perché il patriarcato uccide anche gli uomini. Li obbliga a combattere. A odiare. A morire. E mentre sopra le nostre teste passano droni e bombe intelligenti, noi resistiamo con un’intelligenza più antica: quella dell’empatia, della memoria, della comunità. Perché la guerra è macchina, è gabbia, è imposizione. La pace , invece, è un processo collettivo, liberante, transfemminista. E non ci sarà pace finché una sola persona sarà oppressa in nome della patria, del genere, della razza o del denaro.-
da https://www.valigiablu.it/
Georgij* ha 28 anni, ne dimostra meno. Sorride con gentilezza, parla un francese incerto, ma efficace. Lo incontro in un pomeriggio di aprile insieme al suo compagno, Sergej*, 30 anni. Sono arrivati in Francia grazie all’associazione Russie-Libertés, che insieme ad altre in Europa, come inTransit in Germania, si occupano di sostenere l’opposizione russa. Georgij è un primo tenente dell’esercito russo. È entrato nell’esercito nel 2017: dopo la laurea all’Istituto di fisica e tecnologia di Mosca gli viene proposto di integrare l’arma per il suo servizio militare, continuando a fare quello per cui stava studiando, il programmatore. La famiglia lo sostiene: poteva essere l’inizio di una carriera militare, che significa un posto e uno stipendio sicuro. Inoltre lavorando nei servizi informatici ci sono diversi vantaggi pratici: un lavoro di ufficio, niente operazioni sul campo e niente armi per esempio. L’anno successivo, alla fine del servizio di leva, l’esercito gli propone di firmare un contratto per cinque anni, "promettendomi che nulla sarebbe cambiato nelle mie mansioni”. Invece, poco dopo, gli comunicano che il posto per il quale è stato assunto non esiste più, che sarà collocato altrove, ripetendogli che in ogni caso, è impossibile sciogliere il contratto prima della fine.Da lì sono cominciati i conflitti con i superiori, per questioni anche banali. A questo si aggiunge il fatto che Georgij è omosessuale, un anatema in un paese dove l’omofobia è politica di stato. In Russia una prima legge contro la "propaganda LGBT+" è stata approvata nel 2013; nel 2022 la legge è stata rafforzata, con gravi conseguenze per i militanti e le associazioni omosessuali. “Già in quel momento mi sentivo in contraddizione con la politica interna del paese, con i valori dell’esercito, dove è obbligatorio sostenere lo stato”, racconta Georgij.Nel 2021 scrive una prima lettera ufficiale di dimissioni. Respinte. Il motivo: “è impossibile lasciare l'esercito” prima della fine del contratto. Seguono altre lettere, documenti, rapporti. “Tutte le mie domande venivano ignorate”, spiega. Georgij ha tentato l’assenteismo, ha poi dimostrato – con un certificato di uno psichiatra che gli diagnosticava una depressione – che non poteva restare. La verità, spiega, è che non c’è soluzione. A un certo punto viene convocato. Esiste una possibilità per lasciare l’esercito: una procedura giudiziaria, un processo quindi. Un dossier a suo nome, che lo accusa di furto e corruzione, è già pronto. L’uscita dall’esercito è quindi possibile, ma per andare in carcere. Non c’è soluzione. Una prima svolta avviene il giorno dell’invasione su larga scala dell’Ucraina, il 24 febbraio 2022. “Mi ricordero’ sempre di quel mattino: ero in metro e ho visto i bombardamenti in Ucraina dal mio smartphone”. Fino quel momento non aveva nemmeno realizzato cosa stesse succedendo: la sua depressione si faceva sempre più profonda. “Il giorno successivo c’era una manifestazione contro la guerra a Mosca” e, nonostante il suo status di militare glielo proibisse, è andato, “per mostrare che chi è contro non è da solo”. Georgij non ha troppi ricordi della primavera che è seguita: “Ho cominciato a bere davvero tanto; sono diventato alcolizzato”. Nel giugno dello stesso anno viene assegnato a una missione che consiste nel lavorare sui dossier dei combattenti volontari per la guerra in Ucraina: aveva quindi accesso ai dati di coloro che si arruolavano spontaneamente. Lo scarto tra i numeri che aveva sotto gli occhi e il discorso politico era stridente: “Mi sono reso conto che non solo i miei amici e i miei conoscenti sono contrari alla guerra e non sostengono la politica del paese, ma vedevo anche tutti quei numeri, che erano davvero gonfiati dai dati ufficiali”.Le forze armate russe hanno quattro principali fonti di reclutamento: la prima sono i coscritti, gli uomini che devono prestare servizio nell'esercito per un anno. Il secondo gruppo è composto da “soldati a contratto” che hanno accettato di partecipare firmando un contratto con il ministero della difesa. Ci sono poi le persone mobilitate dal decreto di Vladimir Putin del 21 settembre 2022 per combattere in Ucraina e, infine, i “volontari”, ovvero persone che hanno deciso volontariamente di partecipare ai combattimenti, tramite organizzazioni di volontariato affiliate al ministero della difesa, tra cui società militari private, spiega un’analisi di Yuri Fedorov, specialista di questioni militari e politiche russe per l’Istituto francese di relazioni internazionali (Ifri) e giornalista in Repubblica Ceca. E proprio del decreto di Putin mi parla Georgij: questo stabiliva anche che coloro che già hanno un contratto con l’esercito se lo vedranno prorogare “fino alla fine della guerra”. A questo punto, spiega, “ho capito che avevo poche opzioni: sapevo che sarebbe arrivato il mio momento, o la guerra o il carcere”. Anna Colin Lebedev è docente e ricercatrice in scienze politiche: il suo lavoro si concentra sul rapporto tra cittadini e stato nelle società post-sovietiche. Dopo l'invasione su larga scala dell'Ucraina, ha pubblicato Jamais frères ? (“Mai fratelli?”, Seuil editore, 2022), un'analisi delle somiglianze e delle differenze tra la società russa e quella ucraina.Colin Lebedev mi spiega la questione delicata e dolorosa dei coscritti, ovvero dei giovani che effettuano per la prima volta il servizio militare obbligatorio. Se formalmente rimane un tabù per il Cremlino, alla luce delle campagne che le madri dei soldati hanno fatto in Russia soprattutto durante la prima guerra in Cecenia, la legge autorizza l’invio di questi giovani uomini sul fronte (un decreto di Eltsin che lo vietava è poi stato abolito). Per essere inviati in guerra, non devono formalmente essere "coscritti" ma “soldati”. Cosa significa? “Hai 18 anni e ricevi una convocazione per il tuo servizio militare di un anno. Prima ci volevano almeno quattro mesi affinché ti proponessero di firmare un contratto. Oggi avviene fin dal primo giorno”, spiega Colin Lebedev. “Si tratta di giovani che non hanno mai tenuto un’arma in mano”. Se firmano un contratto si ritrovano a essere dei dipendenti del ministero della difesa con un contratto a tempo indeterminato, ovvero fino alla fine della guerra. E questo trasforma lo status di questi giovani, da coscritti a “militari sotto contratto”. La magia è fatta: non ci sono coscritti sul fronte.Oppure, prosegue Colin Lebedev, sono inviati, “nelle zone frontaliere o in quelle di Cherson o Zaporizhzhya”. Visto che il governo “le considera Russia”, questi giovani ufficialmente non hanno mai lasciato il territorio nazionale. Ma di fatto sono sul fronte e combattono. E muoiono. Si tratta, insiste Colin Lebedev, di un pubblico particolarmente vulnerabile: prima c’è la pressione della società e della famiglia, per cui un uomo deve servire l’esercito; in più a 18 anni, si tratta di persone non hanno mai lavorato per un vero stipendio, e gli vengono offerte somme che paiono esorbitanti. Inoltre, “non hanno alcuna possibilità di comunicare con gli avvocati, con i loro cari. E gli ufficiali esercitano una forte pressione. Questo significa che non si tratta di persone che vogliono prestare servizio, ma che sono messi in una situazione in cui non possono non farlo”, dice. L’esercito recluta soprattutto nelle classi sociali più in difficoltà, aggiunge Colin Lebedev: “Innanzitutto perché quando si è studenti all’università, si è esonerati per la durata degli studi. Chi finisce nell’esercito a 18 anni sono persone che non proseguono gli studi. Poi, l’esercito recluta soprattutto nelle piccole città, dove è più complicato nascondersi; inoltre, più si è poveri, meno possibilità si hanno di corrompere i militari o di comprare un certificato medico. E nelle famiglie più povere l’esercito è ancora visto come un modo per uscire dalla miseria”.
O la guerra, o il carcere. O l’esilio
Tutto succede velocemente per Georgij: “Pochi giorni dopo [l’invasione su larga scala] ho ricevuto l’ordine di lasciare il mio posto nell'amministrazione e di presentarmi al punto di raccolta con le mie cose per essere spedito non si sa dove – perché non te lo comunicano – né per quanto tempo”. Che fare? O la guerra, o la prigione, oppure “trovavo un modo per lasciare l'esercito, perché era fuori discussione che partecipassi a tutto questo”. Alla fine sceglie l’esilio. “Sono andato da Sergej, per avvertirlo che sarei partito. Ero convinto che non lo avrei mai più rivisto”, racconta Georgij rivolto al suo compagno, seduto accanto a lui. Georgij ha preso un treno fino in Siberia, poi un tassista, con cui lo avevano messo in contatto, l’ha aiutato ad attraversare la frontiera con il Kazakistan, dove è arrivato tre giorni dopo. Ha avvertito Sergej, che in seguito ha lasciato il suo posto di professore di storia e la sua vita in Russia per raggiungerlo. Il Kazakistan, insieme ad Armenia, Kirghizistan e Bielorussia, sono paesi politicamente vicini al Cremlino, dove i russi possono recarsi con il solo passaporto interno (l’equivalente della nostra carta d’identità). I militari spesso non hanno il passaporto internazionale, che viene loro confiscato quando entrano nell’esercito: per uscire dal paese devono ottenere l'autorizzazione dei loro superiori e/o dei servizi segreti. Il Kazakistan quindi non è un posto sicuro per un soldato russo che ha disertato. E Georgij non aveva contatti. Il giorno del suo arrivo non c’erano posti per dormire negli alberghi e negli ostelli e ha chiesto informazioni alla ragazza che teneva il chiosco dove ha comprato una sim card. La ragazza si è offerta di ospitarlo, forse perché ha capito la sua situazione. “È stato meraviglioso; sorprendente e commovente”, dice con un sorriso.All'inizio Georgij non diceva di essere un disertore – per il quale c’è un mandato di arresto federale – ma raccontava di essere scappato alla mobilitazione, e ha trovato un lavoro in una fabbrica. Nel gennaio successivo la polizia è venuta al nostro appartamento, racconta Georgij. “Abbiamo guardato come scappare dal balcone del terzo piano”, aggiunge ridendo Sergej. Nel frattempo andavano trovate soluzioni: Sergej passava le giornate a contattare associazioni e ong per capire come poter essere al sicuro e cosa fare.
Addio alle armi: come disertare
Nel maggio del 2023 vengono convocati dal Kazakhstan International Bureau for Human Rights and the Rule of Law (KIBHR) dove incontrano Aleksander, che nel frattempo ci ha raggiunto al nostro appuntamento e si siede a fianco di Sergey. Aleksandr ha 26 anni ed è – era – un tenente dell’esercito russo.“A 18 anni sono entrato all'accademia militare e la politica ha iniziato a toccarmi, personalmente". Aleksandr elenca diversi esempi: “Lavoravamo in cucina e la data di scadenza della carne che mangiavamo era del 1990. Perché mangiamo prodotti così scaduti?”. Oppure, prosegue, quando “ho saputo lo stipendio dei nostri professori, che guadagnavano tra i 15 e i 17mila rubli, ovvero 150-170 euro. Come può la nostra istruzione essere buona con gente pagata così poco?. Per cui ti chiedi dove finiscono i soldi – tanti – che vengono inviati alla nostra Accademia. E li ti fai delle domande. E YouTube mi ha dato una risposta: ho guardato, in particolare, i canali dell'opposizione russa. E ho pensato che fosse possibile.” Insieme ad altre persone incontrate al KIBHR, Sergej, Georgij e Aleksandr, hanno iniziato a discutere di cosa poter fare, politicamente. Aleksandr e Sergej hanno avuto l’idea di creare un progetto mediatico per rivolgersi in particolare ai militari, per raccontare la loro storia e mostrare che è possibile lasciare l’esercito. Una sorta di “contro-propaganda per disertare”, mi spiegano. Il progetto si chiama Farewell to arms/Прощай, оружие – “Addio alle armi”. “Non potevamo tacere, bisognava fare qualcosa. Per noi è essenziale dare la parola alle persone che lasciano l’esercito e spingere chi ha un dubbio ad andarsene”, dice Aleksandr. “In fondo è semplice. Noi siamo ciò che consumiamo, che mangiamo, ma anche quello che ascoltiamo e che vediamo. E questa è la forza della propaganda, in fin dei conti”. Secondo Sergej “è più semplice per un militare parlare ai militari, è più facile che lo ascoltino invece di un difensore dei diritti o di un cittadino qualunque”.Farewell to arms ha un canale Telegram e uno YouTube. Raccontano le storie di chi diserta, spiegano come disertare, scrivono lettere ai prigionieri politici perché se le prigioni le ricevono è un segno per il potere che qualcuno si ricorda delle persone, ed è meno facile farle sparire. “All’inizio della guerra nell’esercito russo non c’erano così tante persone che erano davvero ideologicamente pronte per questo conflitto. Erano pochissimi quelli che la pensavano come la versione ufficiale, secondo cui in Ucraina c'erano i nazisti e che dovevamo liberarli. C'erano persone che seguivano degli ordini, ma in realtà non erano d'accordo con questa ideologia”. Ed è a loro che Farewell to arms si rivolge. “Si, andiamo contro la legge, ci prendiamo la responsabilità delle nostre azioni: è importante che in Russia si sappia che i disertori esistono, che c’è un’altra strada possibile”, spiega Aleksandr. Aleksandr dice che ogni persona che li contatta viene verificata per ovvie ragioni di sicurezza. “Lungo la linea del fronte russo/ucraino ci sono dei campi dove vengono rinchiusi i militari che cercano di scappare”, aggiunge.Trovo una conferma nell'analisi di Yuri Fedorov, che riporta la testimonianza di un soldato russo: “La punizione più comune consiste nel rinchiuderli in una grande fossa a cielo aperto, dove vengono mandati per vari reati: consumo di alcol, conflitti con i superiori, abbandono del posto senza permesso. A volte un soldato viene gettato in uno scantinato, di solito in edifici abbandonati, come una scuola o un ospedale, per essersi rifiutato di combattere, e lì viene torturato. Dopo un mese in questo tipo di ‘cella’ e in condizioni di detenzione così disumane, andrete dove vi diranno di andare”.Secondo i mezzi d’informazione russi dal dicembre 2024 il personale delle forze armate russe è aumentato fino a raggiungere quasi 2,4 milioni di unità, di cui 1,5 milioni sono militari. Il 31 maggio 2024, il ministero della difesa britannico ha rivelato che il numero totale dei soldati russi uccisi e feriti dall'inizio della guerra era di 500mila persone.Si tratta di dati e stime che diversi siti e media indipendenti cercano di verificare. Secondo Fedorov questo numero potrebbe aggirarsi tra 330 e 525mila uomini. Il numero dei disertori, sempre incrociando dati difficili da verificare, era secondo lui, tra i 30 e i 40mila solo nel 2023. Come spiega Regard sur l’Est, rivista che riunisce diversi esperti del settore, nel 2023: “Le autorità russe avrebbero lanciato la versione beta di una banca dati che raccoglie le persone soggette al servizio militare e/o mobilitabili” per consentire al governo di aumentare i controlli e “impedire a coloro che desiderano sottrarsi agli obblighi militari di attraversare le frontiere (dall'inizio della guerra sarebbero tra 500mila e un milione)”. Colin Lebedev, per precisione, aggiunge che in realtà mettere numeri è davvero complicato sulla Russia di oggi: “Il problema che abbiamo con l'esercito russo è che diffonde dati ufficiali che non hanno molto a che vedere con la realtà. Vale a dire che quel numero [l’esercito di un 1,5 milioni di unità] è l'obiettivo. È così che l'esercito russo vede se stesso”.Chiedo cosa rappresenta economicamente fare quello che hanno fatto Aleksandr, Sergej e Georgij. Aleksandr è sorpreso dalla mia domanda, dice la sua espressione: “Non ci siamo mai posti la questione dei soldi, avevamo solo due scelte: lasciare la Russia e restare vivi, oppure andare in prigione, e comunque, oggi, anche in carcere reclutano, quindi, qualunque cosa succeda, dalla prigione finisci comunque in guerra”.
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