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19.8.25

diario di bordo n 142 anno III Dalla Barbagia all’Interpol per collegare le polizie europee ., Alghero, una biblioteca tra i gatti e i ginepri sulla spiaggia di Maria Pia., L’uomo in fiamme

 
 nuova   sardegna   1\8\8\2025

 L’avventura professionale dell’esperto di reti e sicurezza informatica, Gianstefano Monni. Dalla Corte internazionale dell’Aia a Lione
Dalla Barbagia all’Interpol per collegare le polizie europee

                                      di Valeria Gianoglio






Nuoro «Cosa faccio di lavoro? Roba di computer». Quando deve spiegare a una delle tante affettuose “tziedde” nuoresi poco avvezze alle moderne tecnologie, come guadagni da vivere, in genere, Gianstefano Monni e la sua autoironia, decidono di tagliare corto. Ma in realtà, nel mezzo di un curriculum sterminato, il suo attuale incarico e professione potrebbe, tutto sommato, essere riassunto in pochi termini: da due anni, infatti, dirige il gruppo di ingegneri dei sistemi informativi dell’Interpol, nella sede centrale di Lione. Unico nuorese tra tutti i 1272 dipendenti tra la Francia e Singapore, con solo un altro sardo a far parte del gruppone. «In sostanza – spiega – progetto soluzioni per collegare in senso logico le forze di polizia dei 195 Stati membri dell’Interpol. Il team che gestisco si occupa di creare soluzioni per le forze di polizia di tutto il mondo. Ad esempio crea un sistema di condivisione delle informazioni sulle armi rubate, o per condividere le informazioni sui crimini che colpiscono i bambini, per rendere il servizio di law enforcement può efficace, affidabile e veloce». «In poche parole – aggiunge, ridendo – faccio cose, vedo gente».
E non gli manca davvero la voglia di prendersi in giro, insomma, a Gianstefano Monni, come spesso, del resto, succede alle menti più brillanti. Ma la sua storia personale, in realtà, è fatta di esperienze di lavoro serissime, incarichi prestigiosi, e tante esperienze all’estero.
Cinquantadue anni, nuorese di nascita ma genitori dorgalesi – Giacomo e Lucia Fancello – giovinezza trascorsa tra i cortili vicino all’Agrario e le aule del liceo Scientico Fermi. E i primi “incarichi” importanti nel mondo del digitale e dei pc – come confermano i suoi amici di sempre – quando l’allora parroco del Sacro Cuore, don Giovannino Puggioni, gli aveva chiesto una mano per informatizzare l’archivio parrocchiale con tutti i sacramenti impartiti. Poi gli anni di Ingegneria informatica al Politecnico di Torino, e la laurea con una tesi sulle reti “software defined”, prima del ritorno in Sardegna. Ma il rientro nell’Isola, per Gianstefano Monni, è stata solo una parentesi, anche se ricchissima di nuove avventure professionali: dal lavoro di ricercatore al Crs4 di Cagliari all’Ailun di Nuoro.
E ancora consulenze per enti pubblici e aziende, sempre come esperto di digitalizzazione dei processi e nello sviluppo di soluzioni avanzate per la sicurezza delle reti. Una competenza sterminata che nel 2013 lo ha proiettato a un altro incarico prestigioso e a varcare di nuovo i confini dell’Isola: fino alla Corte penale internazionale dell’Aia, dove ha guidato la “migrazione” della rete e dell’intera infrastruttura nella nuova sede. E subito dopo in Irlanda, dove si è occupato sempre della sicurezza delle reti anche per la Zurich insurance. Finisce lì? Manco per niente: perché nel frattempo Gianstefano Monni deposita pure quattro brevetti internazionali legati alla sicurezza informatica, che introducono grosse innovazioni in settori chiave come la gestione intelligente delle politiche di sicurezza di rete.
E infine l’ultima grande sfida, in ordine temporale: l’avventura all’Interpol. Dal 2023 guida l’ufficio di ingegneria, coordina progetti strategici in cybersecurity e non solo: si occupa, insomma, di progettare soluzioni per collegare le forze di polizia di tutti i 195 Stati membri dell’Interpol. Tanti anni di lavoro per i quali ha lasciato l’adorata Sardegna e insieme alla moglie Maria Francesca Pau e a due bei gattoni lo ha fatto come scelta precisa e per diverse ragioni. «Nel 2014 – spiega – in Sardegna avevo raggiunto un punto in cui era impossibile crescere ulteriormente, e lavorare da autonomo nell’Isola era diventato impossibile per molte ragioni. E poi mi aveva chiamato il tribunale internazionale e il caso ha voluto che avessero bisogno proprio delle competenze che avevo acquisito nei due anni precedenti».
E ciò che davvero per lui ha fatto la differenza, nel lavoro all’estero, sta nel fatto «che se non ti piace quello fai puoi sempre cambiare. Ogni ruolo che ho assunto era quello che in Italia sarebbe stato un contratto a tempo indeterminato, ma la voglia di crescere e laroutine mi hanno sempre spinto a cercare, e accettare, ruoli diversi e ripartire in contesti completamente diversi».
«Della Sardegna? – dice – mi manca tutto o quasi, ma la Sardegna sta sempre lì. Non siamo alberi, ma le radici sono sempre quelle e ce le portiamo dietro ovunque. Sono dentro di noi e il legame lo senti ancora più forte quando sei lontano. Ma, detto questo, soprattutto in certe professioni e per certe opportunità devi comunque imparare a convivere col fatto che se vuoi avere certe occasioni devi uscire e accettare le sfide. Poi, se ci sono i voli, puoi sempre tornare. In Sardegna bisognerebbe garantire a tutti e per tutti che restare, partire o tornare, siano scelte fatte liberamente, e non imposte perché non hai alternative».


Alghero, una biblioteca tra i gatti e i ginepri sulla spiaggia di Maria Pia
di Luca Fiori


Inviato ad Alghero Il sentiero di sabbia affonda sotto i piedi, il profumo dei ginepri si mescola alla salsedine. Poi, all’improvviso, tra le ombre lunghe della pineta, appare una scritta azzurra in inglese: “Beach Library”. Due parole semplici, che raccontano una magia. Dietro, il mare di Maria Pia ad Alghero, una tavolozza di azzurri che sfuma nell’orizzonte verso Capo Caccia, e qualche gatto che sonnecchia pigramente tra le radici contorte degli alberi, dove ha trovato casa una colonia felina. È qui che il tempo sembra rallentare, per lasciare spazio a un rito antico, quasi dimenticato: sfogliare un libro o un quotidiano. Quindici anni fa, Stefano Filippi ha deciso che la spiaggia poteva diventare un salotto letterario.



Cinquantacinque anni, nato ad Alghero, socio dello stabilimento balneare “Hermeu”, racconta la sua idea davanti ai libri che ha raccolto in tutti questi anni e sistemato con criterio negli scaffali in legno. Alle sue spalle il mare che si muove lento e un bagnino - maglietta rossa e radiolina in mano - controlla con attenzione i bambini sul bagnasciuga. «Sono trent’anni che lavoro tra gli ombrelloni, ma un giorno mi sono chiesto: perché non portare i libri qui, dove la gente viene per staccare la spina?». E così, sotto il più grande ginepro della pineta, ha montato delle mensole e le ha riempite di storie. Romanzi, saggi, fiabe, thriller nordici e libri per bambini. In italiano, ma anche in francese, inglese, tedesco.
«Prendi un libro, leggilo, riportalo o scambialo con un altro. Nessuna regola, nessun pagamento, solo il piacere di leggere», dice, mentre un alito di vento fa frusciare le pagine dei quotidiani come ali leggere. La scena è da cartolina viva: gli ombrelloni arancioni punteggiano la spiaggia, il mare disegna riflessi di luce, i gatti si stiracchiano al sole e catturano lo sguardo dei turisti. E tra le risate dei bambini e il rumore delle onde, c’è il silenzio raccolto di chi legge sotto l’ombrellone. «Il bello è la sorpresa negli occhi degli
stranieri – racconta Stefano – non se l’aspettano. Per loro è una novità assoluta vedere una biblioteca sulla sabbia».
Poi ride: «Sai qual è la cosa più fotografata insieme al mare? La scritta Beach Library». E non ci sono solo libri. Sugli scaffali, accanto alle riviste colorate e i cruciverba, ci sono i quotidiani. «Il più richiesto? La Nuova Sardegna, senza dubbio», sorride Stefano. A confermarlo è Marcello Pizzi, turista romano, abbronzato e sorridente, che si autodefinisce di un’altra epoca. «Io i quotidiani li compro ancora. Sono un nostalgico di un’altra epoca – spiega – per me il giornale è carta, odore d’inchiostro, trovarlo qui in spiaggia è una vera comodità». In prima fila tra i clienti di Stefano: algheresi e sassaresi, molti dei quali sono “fidelizzati”.
«Ci sono persone che conosco da una vita – spiega – e a loro so che devo conservare ogni giorno una copia del quotidiano. «La lettura della Nuova Sardegna sul lettino in estate non può mancare – spiega Carmelo Carta – la leggo dalla prima all’ultima pagina. In spiaggia, sotto l’ombrellone – sorride il pensionato – il piacere della lettura è maggiore». Giuseppe Fiori e Giacomo Usai confermano: «Il giornale lo compriamo tutti i giorni e la comodità di trovarlo qui a due passi dal mare è impagabile». Intanto i gatti si acciambellano tra la sabbia e le radici e le pagine si aprono e chiudono sotto gli ombrelloni colorati. Tra i libri e i quotidiani, la “Beach Library” è diventata un punto di riferimento. Qui non si sfoglia solo un romanzo o La Nuova Sardegna, si riscopre il piacere di leggere anche in vacanza, davanti a un mare che toglie il fiato e Capo Caccia sullo sfondo.
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L’uomo in fiamme
Celestino Tabasso  unione  sarda  19\8\2025

Nel lessico perbenista dell'informazione scrivere in un titolo che Tizio “è morto” suona un po' forte: si preferisce la formula “Addio Tizio”, se era arcinoto, altrimenti si annuncia compuntamente che Tizio “si è spento”. Eppure sull'88enne Ronnie Rondell Jr quasi tutti hanno titolato che è morto. Non era così celebre da meritare un Addio e sarebbe stato ridicolo annunciare che si è spento: era quello avvolto dalle fiamme che stringe la mano a un altro signore, il suo collega stuntman Danny Rogers, sulla copertina di “Wish you were here” dei Pink Floyd. Rondell, spiegava domenica il Post, dovette mettersi in posa quindici volte, sempre con pochi secondi a disposizione perché la tuta ignifuga che indossava sotto i vestiti poteva reggere fino a un certo punto. Oggi per confezionare un'immagine del genere basterebbe dare qualche istruzione all'intelligenza artificiale, non servirebbero nemmeno il tempo e la cura artigiana necessari fino all'altro ieri per provarci con photoshop. Figurarsi rischiare la pelle e giocarsi un baffo e un sopracciglio come accadde a Rondell. Però quell'immagine ha una poesia stralunata che il digitale, ancora così pacchiano nel suo iperrealismo grafico, non raggiunge. E a costo di fare sciovinismo analogico e anagrafico, va detto anche che un altro disco come “Wish you were here” lo aspettiamo da cinquant'anni.

18.8.25

molto spesso la verità te lo dicono i morti anzichè i vivi . il caso di Maria Grazia Lai, ultima figlia dei Devilla d’Aritzo: «La verità dal Dna, così ho scoperto chi era mio padre»


unione sarda  15\8\2025 

Maria Grazia Lai, ultima figlia dei Devilla d’Aritzo: «La verità dal Dna, così ho scoperto chi era mio padre»L’infanzia in orfanotrofio: «Oggi a settant’anni sono serena, non provo rancore o rabbia nei confronti di chi ha taciuto»



(foto simbolo)


Alla fine la verità gliel'hanno rivelata i morti. Non la madre che l'ha partorita, non i parenti, non le suore dell'orfanotrofio di Cagliari dov'è cresciuta con le coetanee senza famiglia. Maria Grazia Lai, nata a Cagliari nel febbraio 1955, è figlia di Giuseppe Luigi Devilla, nato ad Aritzo nel 1879 e qui morto all'età di 78 anni nel 1957, due anni dopo ch'era venuta al mondo quella bambina concepita fuori dal matrimonio e mai riconosciuta.
Il vecchio patriarca
Sta tutta dentro le date della biografia di quest'uomo, l'origine della storia che arriva dalla Sardegna di metà Novecento. L'età di un vecchio patriarca con un cognome importante e un patrimonio di terre fertili e di servi. Uno di quei notabili, già medico e sindaco del paese, a cui nessuno poteva dire no, nemmeno le donne a servizio in casa, nubili o sposate non fa differenza, potevano salvarsi solo quelle con un padrone rispettoso e degno. «Ho settant'anni e ho trascorso una vita intera a chiedermi chi fosse realmente mio padre, ma la verità mi è stata sempre negata. Per questo sono stata costretta a cercarla da sola facendo ricorso al Tribunale di Cagliari».
I frammenti ossei
Poche note messe per iscritto, nessuna intervista e nessuna fotografia a corredo della sua storia. Lo scorso giugno, dopo tre anni in giudizio, Maria Grazia Lai Devilla, artigiana con casa e famiglia nell'hinterland di Cagliari, ha finalmente ottenuto il riconoscimento giudiziale di filiazione. Il collegio presieduto da Giorgio Latti ha stabilito che lei è sangue del sangue di Giuseppe Luigi Devilla. Nessun dubbio, grazie al referto della perizia genetico forense che ha stabilito, scrive il giudice nel dispositivo della sentenza, «il valore della attribuzione della paternità biologica del 99.9999%. (novantanove/999 per cento)». Un accertamento eseguito sui resti dell'uomo, pochi frammenti ossei dai quali è stato raccolto il materiale genetico poi confrontato con quello della presunta figlia.
Un mistero da risolvere
È stata dunque necessaria la riesumazione della salma. «Resti di quasi settant'anni che hanno comportato non poche difficoltà nell'esecuzione della perizia», spiegano i legali della donna, Luca Picasso e Walter Trincas. «Sono stati necessari numerosi esami su diversi frammenti, ma alla fine abbiamo potuto dimostrare il rapporto padre-figlia». Una conferma che ha risolto quello che l'avvocato Picasso ha definito «un enigma».
Le mezze verità
Maria Grazia Lai aveva avuto sentore fin da ragazzina che le sue origini dovevano essere dentro l'abitazione dei Devilla, la grande casa di Aritzo col cortile interno e i balconi in legno di castagno (oggi patrimonio del Comune) dove sua madre era a servizio. Di tanto in tanto la mamma la portava in paese, cosicché lei raccoglieva voci, ascoltava parole sussurrate, intuiva verità non dette. «Ho sofferto in silenzio, è stato un dolore di cui nessuno della mia famiglia ha voluto o saputo tener conto», scrive nella nota affidata ai legali. «Sono riuscita a costruirmi una famiglia mia e a crearmi un'attività, ma quella cappa di mistero e di silenzi ha condizionato la mia vita. Fin da bambina non c'è stato un solo giorno in cui non abbia sognato di conoscere le mie radici».
Il colpo di scena
Si è decisa nel 2004, aveva quasi cinquant'anni. Si è rivolta agli avvocati Picasso e Trincas e ha intentato una causa civile per il riconoscimento giudiziale di paternità, convinta che suo padre fosse Sebastiano Bachisio Michele Basilio Devilla, morto a Roma nel 1962. Era, costui, il penultimo dei cinque figli di Giuseppe Luigi, certamente più vicino, per età, alla madre di Maria Grazia. Riesumati i resti, ed eseguito l'esame genetico, il colpo di scena. Le corrispondenze del Dna dicevano che lei e Sebastiano condividevano lo stesso genitore biologico, dunque erano fratello e sorella. Era una Devilla, e a quel punto la verità era evidente. Tuttavia è stato necessario un secondo processo, un'altra riesumazione e nuovi esami genetici. Maria Grazia Devilla Lai ha chiesto l'annotazione del cognome del padre accanto a quello della madre. «Adesso che finalmente conosco la verità sono serena e non provo rancore o rabbia nei confronti di chi ha taciuto. Vorrei solo che la mia famiglia mi riconoscesse, accogliendomi come una dei Devilla. L'ultima, dei figli di Giuseppe Luigi, ancora in vita»

meglio essere cinici e poco rispettosi che stare zitti . il confronto su media fra la morte di Pippo baudo e il conflitto in israele

E  è vero    che     come ho già detto   nel post precedente  : <<  ci sarà  qualcuno\a  che     raccoglie   l'eredità  di Pippo Baudo  oppure    la  sua  morte   è  Una parabola comune, un mondo culturale definitivamente tramontato.? >> è  stato un pilastro   della  tv italiana . Ed  è giusto  parlarne  ,  ma  qui si esagera   Infatti   come dice   il post  istangram    riportato sotto



    Ci  sono due  pesi  e  due  misure      nell'informazione  . Io non avrei saputo   dirlo meglio

17.8.25

idiozie Sant'Agostino nero: bufera sul libro woke per bambini della Chiesa anglicana



non è questo il modo di promuovere la diversità . Si rischia l'omologazione culturale 

  da msn.it 


san  Agostino  di Botticelli 

In una società sempre più ostile alla religione cristiana, l’ultima cosa che ti aspetteresti è di vedere una chiesa promuovere la cosiddetta cultura woke. In Inghilterra, invece, è proprio la Chiesa Anglicana a essere in prima fila nel promuovere una visione del passato più in linea con l’intollerante visione del mondo così cara all’estrema sinistra. Ha causato molte polemiche il fatto che un libro per bambini che sarà pubblicato il 21 agosto da un editore specializzato in temi cristiani dipinga uno dei padri della Chiesa, Sant’Agostino, come un uomo di colore. Il libro è stato scritto da due sacerdotesse anglicane, responsabili del dipartimento della Chiesa d’Inghilterra dedicato alla “giustizia razziale”. Poco importa
che uno dei filosofi più importanti della storia della Chiesa fosse di origine berbera e, quindi, dalla pelle bianca.
La deriva woke degli anglicani
Come riportato dal quotidiano The Telegraph, il libro dedicato ai bambini dagli 8 agli 11 anni vede una delle figure più iconiche della Chiesa delle origini tra i 22 personaggi cristiani di colore che dovrebbero ispirare i bambini. Il libro, dal titolo Heroes of Hope, include esempi di “santi neri e di colore, spesso cancellati dalla storia ufficiale, che hanno contribuito alla crescita della Chiesa e della società moderna, come la conosciamo oggi”. L’inclusione di Aurelius Augustinus, nato nel 345 d.C. nella città di Thagaste, nel territorio dell’odierna Algeria, è già abbastanza controversa ma non quanto l’illustrazione scelta dagli autori del libro, nella quale il padre della Chiesa ha lineamenti che hanno poco a che vedere con il popolo berbero. Non è la prima volta che si cerca di cambiare l’iconografia che, dalla notte dei tempi, dipinge Sant’Agostino come un uomo dai tratti nordafricani: nel 2023, l’università cattolica di Villanova, negli Stati Uniti, aveva commissionato opere d’arte che ritraessero Sant’Agostino come un uomo dalla pelle nera. Secondo uno degli amministratori dell’università della Pennsylvania, la ragione era ideologica: “rappresentare Sant’Agostino come un uomo di colore combatte attivamente la cultura bianca”.
Le autrici del libro,che sarà disponibile dal 21 agosto, sono Sharon Prentis e Alysia-Lara Ayonrinde, rispettivamente vice-direttore e responsabile dell’educazione nazionale della racial justice unit della Chiesa d’Inghilterra. Lo scopo della controversa unità, creata nel 2022 sull’onda delle proteste legate al movimento Black Lives Matter, si prefigge di aiutare la società a raggiungere la “giustizia razziale”.

Oltre a dichiarare che “Dio non è un uomo bianco”, la chiesa anglicana sta spingendo per rendere più inclusive le rappresentazioni artistiche cristiane: una diocesi si è impegnata a “correggere le immagini di Gesù Cristo” per avere una “migliore rappresentazione razziale”. La chiesa, poi, sta spingendo l’idea della “giustizia razziale” nelle scuole da essa gestita, piegando il programma d’insegnamento per “promuovere l’equità e la giustizia razziale” ed assicurandosi che i presidi delle scuole siano “più rappresentativi della diversità razziale nell’Inghilterra dei nostri tempi”. Parecchi genitori hanno alzato entrambi i sopraccigli quando le scuole hanno fornito materiale “anti-razzista” per le assemblee ed istituito ogni febbraio una domenica dedicata alla giustizia razziale.
Riscrivere la storia sempre e comunque
Il libro, pubblicato dalla Society for Promoting Christian Knowledge, la più grande casa editrice indipendente del Regno Unito dedicata ad argomenti religiosi, include figure meno controverse, come San Maurizio, ex soldato romano di origine nubiana, tradizionalmente rappresentato come un uomo di colore fin dal suo martirio nel III secolo assieme ad icone più moderne, come il reverendo sudafricano Desmond Tutu. L’introduzione al libro promette ai giovani lettori che “le storie di questi straordinari 22 individui che hanno lasciato il segno sul mondo vi ispireranno. Speriamo che le loro storie vi spingeranno a fare la differenza, non importa se grande o piccola”. Il fatto che la Chiesa d’Inghilterra abbia già acquistato un discreto numero di copie da distribuire gratuitamente nelle scuole da essa gestite è un segnale che questa iniziativa gode del supporto delle alte gerarchie ecclesiastiche anglicane. La pubblicazione di questo libro non è certo il primo esempio di come la Chiesa d’Inghilterra abbia deciso di partecipare attivamente all’opera di riscrittura sistematica della cultura inglese che da qualche anno sta causando molto allarme oltremanica. Nel 2024 la chiesa aveva assunto un dipendente con il compito di deconstructing whiteness, ovvero combattere l’ingiustizia razziale e rimuovere monumenti ed opere d’arte legate, anche indirettamente, al commercio degli schiavi.
Singolare, poi, quando la chiesa ha promesso “riparazioni” alle popolazioni dei Caraibi per il coinvolgimento storico nella tratta degli schiavi africani, cosa che è oggetto di un violento dibattito tra gli storici. A far disperare molti inglesi è che proprio l’istituzione religiosa tradizionale, da sempre pietra angolare dell’identità britannica, partecipi attivamente al tentativo di riscrivere la storia del Regno Unito. Oltre a numerosi casi nei quali figure storiche bianche sono state interpretate da attori di colore, molte organizzazioni, a partire dal London Museum, stanno cercando di rendere “più inclusive” figure storiche di ogni genere. L’inclusione dell’imperatore romano Lucio Settimio Severo nel mese dedicato alla “Black History” ha causato parecchie perplessità, visto che, pur essendo nato a Leptis Magna, in Libia, era membro di una importante famiglia patrizia romana. I libri per bambini, poi, talvolta, scivolano nel ridicolo: il libro del 2023 Brilliant Black British History riporta come “i primi britanni erano neri” e che Stonehenge è stato costruito quando la Gran Bretagna era una “nazione nera”.

Nanni Fodde: «Il buon gusto e la parsimonia mi hanno salvato»Il patriarca dell’Acentro si racconta: l’azienda, la famiglia e lo sguardo su 100 anni di vita.




Nanni Fodde: «Il buon gusto e la parsimonia mi hanno salvato»Il patriarca dell’Acentro si racconta: l’azienda, la famiglia e lo sguardo su 100 anni di vita. Appassionato di arte, senza mai perdere il sarcasmo parla anche del suo carattere ruvido e fotografa il rischio d’impresa







Si è concesso «vezzi, non lussi». È stato «parsimonioso, non avaro». Il primo ruggito del patriarca è un esercizio di contrapposizione tra la percezione del sé e quel che «di me si diceva in giro». Sullo smalto del sarcasmo nessun segno del tempo. Ma per maneggiare carattere e opere di Giovanni (Nanni) Fodde è sufficiente un particolare: il signor Acentro, diecimila macchine vendute all’anno quando la media nazionale valeva un terzo in meno, in vita sua ha scelto tutto, persino il giorno di nascita. L’8 agosto. Sotto il segno del Leone. Era il 1925. Un secolo fa. «Ma a partire dal 5 del mese, ogni data sarebbe buona per festeggiare il compleanno». Il capostipite di tre generazioni dell’auto – non fosse altro che «il timone bisogna cederlo pur senza sentirsi inutili» – si racconta dalla sala riunioni che ha frequentato di più. Via Calamattia (un tempo si entrava da via dei Valenzani), primo piano. Oggi 150 dipendenti, nove sedi, 140 milioni di fatturato. Il mondo fuori, i quadri dentro. «Ho letto più giornali che libri – racconta – e l’arte è stata una mia distrazione».

In cento anni quante stagioni ci sono?
«Una. Per me è sempre stata quella del lavoro».

Perché la Fiat?
«Abbandonata la vendita dei trattori Ford, decisi di dare una mano a due collaboratori che erano stati contattati dal concessionario di Cagliari. C’era da smaltire il magazzino di viale Monastir, la guerra aveva bloccato il mercato. Fu durante quella collaborazione che mi venne offerta la possibilità di aprire una sede mia».

Dove?

«A Senorbì Nord. Si chiamava Auto Trexenta. A Torino stavano attenti al fatto che tra concessionari non ci si portasse via quote di mercato. Fosse stato per me, avrei aperto a Sanluri, ma fecero resistenze da Oristano. Allora a Senorbì c’era una sola strada che portava fuori dal paese».

Con l’Acentro quando inizia?
«Negli anni Cinquanta».

Il nome chi l’ha scelto?
«Io. Era la contrazione tra auto e centro. Mi sembrava un buon marchio di provincia».

Davvero in vita sua ha lavorato e basta?

«Ho praticato molto anche la vela, ho posseduto natanti. Bellissime barche d'epoca».

Cosa avrebbe voluto fare meglio?

«L’esperienza mi farebbe giudicare sbagliate tante scelte. Ricadrei persino nei rimpianti. Solo chi sta fermo, non commette errori. A me non è mancata la curiosità, ho fatto molti mestieri».

Quali altri?
«A Roma, mentre davo qualche esame in Economia e Commercio, vendevo il sughero. Per tappi e solette. Sughero rimasto ugualmente nei magazzini per via della guerra. Fu l’ennesima intuizione di mio padre. Un uomo eccezionale. Si chiamava Antonio, era di Cuglieri. Scriveva la corrispondenza commerciale in gotico e corsivo. Venne a Cagliari per proseguire l’attività olearia e sposò mia madre, Delfina Manunza, di Selargius».

Prima si facevano più affari?
«Forse la concorrenza si è inasprita. Ma non direi che si facevano più affari. Oggi come allora bisogna essere preparati per affrontare un mestiere».

Un comandamento professionale ce l’ha?
«L’ho sempre ripetuto ai miei collaboratori: è necessario lavorare nell’interesse della propria azienda».

È stato gentile con i suoi dipendenti?
«Mi arrabbiavo, quando era il caso».

Il rischio d’impresa cos’è?
«Una questione anagrafica. L’esposizione ai problemi capita più spesso in gioventù. Poi con l’età e l’esperienza si diventa molto più pratici e meno romantici».

Che rapporto ha con i soldi?
«Non li porto più in tasca, ho paura di perderli. Fortunatamente mi accompagnano e si prendono cura di me. I soldi comunque non li ho mai sprecati: ho guadagnato bene, ma li ho anche persi. Su di me si dice che sia avaro. Invece mi faccio un complimento: sono parsimonioso».

L’accompagna pure la fama di ruvido, caratterialmente.
«Da giovane ero più acceso. Poi ho smesso, adesso quasi mai perdo le staffe».

Spigoloso ai limiti dell’arroganza?
«Esattamente. Nella vita mi ha salvato il buon gusto, oltre al fatto di non aver mai sprecato nulla».

Però per l’arte ha speso?
«L’arte è salvifica. I pittori Pietro Antonio Manca e Ausonio Tanda li ho frequentati, tramite un amico gallurese, un grande critico d’arte che guidava l’Ufficio legale della Regione».

Quanto vive di ricordi?
«I ricordi aiutano a conservare la vita. Un po’ la memoria la sto perdendo, sono preoccupato. Ma alla mia età succede e bisogna accettarlo».

È un uomo libero?
«Sentimentalmente mai, per via di due mogli. Politicamente sì, mi sono sempre definito un liberale. Da giovane mi entusiasmavo ai comizi: seguivo con interesse gli idoli del momento, come Ciccio Cocco Ortu».

Una stretta di mano che non dimentica?
«Ho conosciuto tanta gente importante. Ma l’altro giorno un medico mi ha stretto calorosamente la mano: avevo l’influenza e mi ha visitato. Sono rimasto colpito».

Da cosa?
«Le relazioni umane sono importanti. Non le cerco, ma quanto le trovo o le intuisco, faccio di tutto per curarle. Le apprezzo».

I fratelli Umberto e Giovanni Agnelli?
«Il primo l’ho incontrato più spesso. Il secondo, l’Avvocato, era distante».

Un divo?
«Era idolatrato, ho assistito a scene di fanatismo».

I suoi grandi amici?
«Pochissimi, una decina. Poi cominciano a diminuire di grado».

Chi frequenta più spesso?
«Oggi quasi solo la mia famiglia».

È stato un buon padre?
«No, c’è di meglio».

Quanti figli ha?
«Quattro».

Cosa si rimprovera come genitore?
«Semplicemente con i miei figli avrei potuto fare più cose insieme».

Ha sacrificato la famiglia per il lavoro?
«L’ho anche sacrificata per qualcosa di piacevole, come andare in barca o giocare a golf».

Si dice che sia stato lei a portare il golf in Sardegna.
«Venni incaricato di farlo da alcuni amici della Federazione nazionale».

La povertà l’ha conosciuta?
«No, ho sempre lavorato».

Ha mai fatto una cosa folle?
«Mi è capitato di inseguire qualche novità sul lavoro, commettendo errori».

L’impressione è che sia un perfezionista.
«È una forma di rispetto anche verso se stessi, l’ho praticata per tutta la vita. Ho fatto ogni cosa con passione e cercando il risultato. Ho un ricordo da giovane, nel frantoio di mio padre: trovai il modo di ridurre i costi di lavorazione della materia prima rivendendo gli scarti della deacidificazione dell’olio».

Ha mai contato le macchine vendute?
«Le poche volte che mi sono fatto la domanda, penso che siamo arrivati a quota 100mila. O forse è il prossimo traguardo, non saprei di preciso. Io, in ogni caso, mi sono occupato di dirigere, non di vendere. Da tempo le redini dell’Acentro le ha mio figlio Enrico, più di recente è entrato anche mio nipote Giovanni. Io, però, l’azienda continuo a difenderla».

Lussi?
«Nessuno, ho condotto e conduco una vita modesta».

Al polso cos’ha?
«Un semplicissimo Swatch».

Vezzi?
«Le iniziali sulla camicia».

Usando come nome Giovanni o Nanni?
«Non ricordo. Ma Nanni lo preferisco. Lo sento più mio, mi piace che sia breve».

Manie?
«Ne abbiamo tutti così tante, specie con l’età tendiamo a essere ripetitivi. Non saprei dirne una».

Rapporto con la tecnologia?
«Nessuno. Uso sempre meno anche il telefonino. Questo che ho costa 45 euro».

Il complimento migliore che ha ricevuto?
«Non uno in particolare. Nella nostra azienda il lavoro è quotidiano. I risultati arrivano ogni giorno. Come i complimenti. Riceverli, di certo, fa bene alla salute».

Nelle nuove generazioni cosa vede?
«Non si può dire nulla quando dei bambini rubano un’auto, vanno in giro per la città e provocano la morte di una passante. Notizia di questi giorni».

Vede un brutto mondo?
«Rimango vigliaccamente distaccato, per fortuna non ho problemi di questo genere».

Cosa la inquieta più di tutto?
«Un po’ la mia sordità, altro acciacco dell’età, e l’artrosi».

L’aveva immaginato che sarebbe arrivato a cent’anni?
«Ho cominciato a crederci dopo i novanta».

Un rammarico?
«Sono monotono: nel lavoro avrei voluto sbagliare di meno».

Perché questo pensiero ricorrente sugli errori?
«È una forma di vanità».

Si considera vanitoso?
«Da sempre, lo sono anche adesso a cent’anni».

È felice della sua vita?
«Sì, anche perché non ne ho un’altra».

A quanti anni vuole arrivare?
«Non saprei».

Centocinque le bastano?
«Ci provo».



È ora di pranzo. Giovanni Fodde si alza dalla sedia. «Sono leggermente commosso, con queste domande mi sono ricordato tante cose della mia vita». Questa volta è lui a stringere mani calorosamente. A cent’anni non si smette di essere galantuomini.

Alessandra Carta

ci sarà qualcuno\a che raccoglie l'eredità di Pippo Baudo oppure la sua morte è Una parabola comune, un mondo culturale definitivamente tramontato.?


Da quel  poco  che  ricordo di  pippo baudo    era  come  M.Bongiorno      che  entra   nelle  case  degli 
italiani con garbo e  cultura  .  Infatti  , tale miei vaghi  ricordi,  vengono confermati    da    quest  post  dell'amico 

Mario Domina

    Pippo Baudo e Raffaella Carrà erano il compromesso storico dell'Italia nazional-popolare.Erano la TV che ha costruito una lingua e un sentire comuni, una vera e propria koinè, erano il calore del sabato sera in famiglia (ed erano anche la fuga per reazione dialettica da quell'abbraccio soffocante) - da Chissà se va a Sanremo, con un'infinita teoria di canzoni e cantanti ed artisti di ogni tipo; erano la festa e lo specchio di un'Italia che non c'è più - con pregi e difetti, vizi e virtù, ma ora come ora riesco solo a vederne le qualità.Pippo Baudo era poi siciliano, di Militello in val di Catania (un paese bellissimo), e il pensiero va inevitabilmente ai miei (di madre era quasi coetaneo).Una parabola comune, un mondo definitivamente tramontato.

Infatti la mia domanda credo che dìsarà destinata a non trovare riposta in quanto : << riposta è importante solo quando fai domanda giusta . cit karate kid 4>> perchè nel bene e nel male con lui se ne va un pezzo profondo, articolato, pulsante della televisione italiana. Non soltanto un conduttore, non solo un volto noto. Pippo come dicono le croinache era un radar, un direttore d'orchestra che sentiva la musica prima che iniziasse, un visionario con lo smoking addosso e il fiuto dei grandi talent scout americani, quelli che con uno sguardo capiscono se c'è una scintilla.
In un Paese che spesso inciampa nel provincialismo e nella nostalgia, Baudo ha saputo essere classico senza mai diventare vecchio. Ha attraversato decenni con la leggerezza di chi conosce bene il proprio mestiere: la conduzione come arte, la diretta come coreografia, il palco come un'estensione della propria anima. Perché Pippo non presentava, accoglieva. Accoglieva gli spettatori, i concorrenti, i cantanti, i comici e soprattutto i giovani.
L'elenco di coloro che "ha lanciato Baudo" somiglia più a una galleria di ritratti che a una semplice lista  qui   su  :  <<Pippo Baudo - Wikipedia >> per  ulteriori   approfondimenti  .


16.8.25

Anche l’ultima frontiera è stata superata. Era solo questione di tempo prima che fosse messa lì nero su bianco.Lo ha fatto Walker Meghnagi, Presidente della Comunità ebraica di Milano.

leggo con sconceto da Lorezo Tosa da cui ho usato le prime righe per il titolo del post che

Anche l’ultima frontiera è stata superata. Era solo questione di tempo prima che fosse messa lì nero su bianco.Lo ha fatto Walker Meghnagi, Presidente della Comunità ebraica di Milano. Lo ha fatto Walker Meghnagi, Presidente della Comunità ebraica di Milano. Che, in un’intervista surreale a “La Stampa”, ha pronunciato una frase di una gravità e un’ignoranza storica spaventosa. “Per fortuna c’è la Presidente del Consiglio Meloni e il resto della destra che ci difende. Altrimenti torneremmo al ‘38.Se al governo ci fossero Schlein, Conte, Bonelli e Fratoianni, a noi ebrei sparerebbero in strada".





Siamo arrivati al punto che uno dei massimi rappresentanti della comunità ebraica in Italia inneggia pubblicamente a una destra erede in linea diretta e mai pentita di chi proprio nel ‘38 firmò e promosse il Manifesto della Razza.Eredi mai pentiti di quelli che mandarono gli ebrei su treni piombati nei campi di sterminio.Eredi mai pentiti di chi nel ‘38 era alleato con Hitler.Gente che ancora oggi tiene orgogliosamente i busti di Mussolini in casa, non celebra il 25 aprile ed è incapace di dichiararsi nel 2025 antifascista.E, se fossi in uno dei quattro leader , [ma al loro posto non ci so stare corsivo mio ] vergognosamente accusati di antisemitismo, denuncerei immediatamente quest’uomo per gravissima diffamazione.Per tutelare sé stessi da un’accusa volgare e infamante.Ma anche - e con ancora più forza - per difendere la sinistra da qualunque accostamento al 1938 e a totalitarismi che sono storicamente, politicamente e culturalmente di DESTRA ESTREMA. E sempre lo saranno. E i primi a doverne chiederne le dimissioni immediate sono proprio i membri della comunità che questo individuo rappresenta.Altrimenti non è più il delirio di un singolo ma un’allucinazione collettiva. Un passo in avanti verso l’abisso.

Il grande inganno della “mascolinità in crisi”intervista di Francesca Barca per valigia.blu a Francis Dupuis-Déri è un ricercatore franco-canadese, professore presso l’Università del Québec a Montréal (UQAM).

La mascolinità sta davvero attraversando una “crisi” come spesso si sente dire? Il femminismo sta esagerando? Gli uomini “non possano più dire nulla”? Le femministe sono “troppo radicali”? Francis Dupuis-Déri, esperto di antifemminismo e mascolinismo, analizzata e decostruisce questo tipo (tenace) stereotipo. Francis Dupuis-Déri è un ricercatore franco-canadese, professore presso l’Università del Québec a Montréal (UQAM). È un
esperto  di movimenti sociali, e negli ultimi anni, ha lavorato in maniera particolare su antifemminismo e mascolinismo. Dupuis-Déri è autore di numerosi libri, tra cui La crise de la masculinité ; autopsie d’un mythe tenace (“La crisi della mascolinità; autopsia di un mito tenace”, Éditions du remue-ménage, 2018), Antiféminismes et masculinismes d’hier à aujourd’hui (“Antifemminismo e mascolinismo ieri e oggi”, PUF, 2019) e Killer Althusser: The Banality of Men (Althusser assassino, la banalità del male, Between The Lines, 2025). Di quest’ultimo testo avevamo parlato per raccontare un episodio poco conosciuto: il 16 novembre 1980 il filosofo marxista Louis Althusser ha ucciso la moglie, la sociologa Hélène Rytmann: un femminicidio che per anni è stato “occultato” dal mondo della cultura e della politica. E anche dalla stampa. 



Francesca Barca: Cos’è la mascolinità?

Francis Dupuis-Déri: La “mascolinità” è una rappresentazione, un modello, direi persino un riferimento ideologico. Sempre concepito, in modo consapevole o meno, in un rapporto diseguale e gerarchico con la femminilità.
Il concetto di mascolinità non esiste senza quello di femminilità; non esiste il maschile senza il femminile. Negli ultimi anni la mascolinità è stata oggetto di discussione, spesso in maniera scollegata dal concetto di femminilità. Che sia in modo implicito o esplicito, la mascolinità viene presentata e percepita come superiore alla femminilità: gli uomini vengono considerati più razionali (mentre le donne sarebbero eccessivamente emotive), più attivi e creativi (le donne più passive), più autonomi (le donne, invece, più dipendenti), più forti, aggressivi e violenti (le donne, al contrario, sarebbero più delicate, pacifiche e premurose).
Tutto questo  è un costrutto ideologico, basato su stereotipi tratti da testi religiosi o divulgativi, semplicistici e spesso fallaci, o ancora su una preistoria immaginaria, su un presunto determinismo genetico o ormonale. Ma resta il fatto che ha un impatto sulla realtà, sulla nostra socializzazione, sulle aspettative che abbiamo riguardo alle persone o a noi stessi. 

Come dovrebbe essere definita la cosiddetta “crisi della mascolinità”?

Come spiego in La crise de la masculinité, si tratta di un discorso che si sente almeno dai tempi dell’antichità romana in Europa, e che è diffuso in tutto il mondo. Questa retorica sostiene che gli uomini stanno male, soffrono, perché le donne starebbero prendendo troppo spazio, occupando il “nostro” posto in quanto uomini, e perché le femministe ci starebbero criticando in maniera ostile… Gli uomini vengono, in quest’ottica, dipinti come vittime delle donne e la soluzione sarebbe quella di rivalorizzare la mascolinità tradizionale, messa in ginocchio dalla femminilizzazione della società.
È importante sottolineare che questo discorso “vittimistico” degli uomini si esprime ed esiste, indipendentemente dal regime politico, giuridico (compreso il diritto di famiglia e del lavoro), economico e, anche, indipendentemente dalla cultura e dalla religione dominante.  Questo tipo di discorso può emergere anche nei paesi più poveri, così come in quelli più ricchi. Oggi, alcuni degli uomini più potenti al mondo, come Elon Musk, Mark Zuckerberg e Donald Trump, sostengono che stiamo attraversando una cris i della mascolinità.


Potrebbe spiegarci cosa sono l’antifemminismo e, più precisamente, il mascolinismo?

Detto nella maniera più semplice possibile, l’antifemminismo è una forza che si oppone al desiderio o alla volontà delle donne di essere libere e uguali agli uomini. Come spiega la sociologa Mélissa Blais, l’antifemminismo, come qualsiasi forza politica o movimento sociale, è composto da molti elementi e si mobilita su diversi fronti. Ad esempio, l’antifemminismo cattolico è molto attivo nella lotta contro il diritto all’aborto (in nome di Dio). L’antifemminismo "mascolinista" si basa sull’idea di una crisi della mascolinità, utilizzata per giustificare i ruoli di genere e la divisione sessuale del lavoro. L’antifemminismo di estrema destra si interseca con il mascolinismo, il suprematismo bianco e la xenofobia, in nome della difesa della famiglia come pilastro nazionale.Ancora, l’antifemminismo di sinistra o anticapitalista ripete che le questioni delle donne sono secondarie, che le femministe dovrebbero piuttosto dedicarsi a  movimento di massa o a un partito, per combattere contro la classe capitalista e il capitalismo, e che devono soprattutto astenersi dal criticare il sessismo e la violenza sessuale all’interno delle organizzazioni progressiste, perché questo dividerebbe le forze del movimento…

Il discorso mascolinista che si sente oggi sembra molto simile a quello pre-MeToo, o precedente ai passi avanti ottenuti dai movimenti femministi. C’è una differenza? 

Il mascolinismo utilizza molto spesso lo stesso argomento di fondo: gli uomini stanno soffrendo perché le donne si sono spinte troppo oltre, uscendo dal ruolo che la società aveva loro attribuito, come l’essere oggetti sessuali, compagne docili, madri casalinghe. Ma i sintomi della crisi possono variare in base al contesto.

La storica Eve-Marie Lampron ha chiaramente mostrato (nel suo capitolo del libro Le mouvement masculiniste au Québec : L’antiféminisme démasqué, 2015) che, durante la Rivoluzione francese, il discorso mascolinista si esprimeva in tutti i campi politici, con i repubblicani che accusavano il re Luigi XVI di essere effeminato e sottomesso dalla regina Maria Antonietta, mentre i monarchici accusavano i repubblicani di permettere alle “loro” donne di marciare per le strade indossando pantaloni. Sappiamo anche che, prima che il divorzio venisse liberalizzato, si sentiva ripetere lo stereotipo che gli uomini fossero dominati dalle mogli all’interno del matrimonio, considerato una prigione. E da quando il divorzio è stato liberalizzato, si sente dire che le ex mogli continuano a dominare gli uomini, “estorcendo” le pensioni alimentari. Che siano sposati o divorziati, gli uomini possono continuare ad affermare di essere dominati dalle donne. Come hanno messo in luce le ricerche di Angela Davis, Patricia Hill Collins e bell hooks, il discorso sulla crisi della mascolinità è stato espresso anche all’interno del Black Power negli anni Sessanta e Settanta, quando le afro femministe venivano criticate per la loro presunta dominazione sulla comunità.Molti argomenti ricorrono da almeno 20 o 30 anni, come l’idea che gli uomini non possano più corteggiare con le donne e che siano proprio queste ultime ad avere il completo controllo nei rapporti sessuali, oppure che le difficoltà scolastiche dei maschi siano la prova di una crisi della mascolinità, anche se, una volta terminati gli studi, gli uomini ottengono risultati migliori delle donne nel mercato del lavoro.Negli Stati Uniti, dagli anni '90 si ripete che gli “angry white men” (“uomini bianchi arrabbiati”) sarebbero vittime di una terribile ingiustizia economica a favore delle donne e delle minoranze afroamericane e migranti, che ruberebbero loro il lavoro... La vittoria elettorale di Donald Trump è stata spiegata dicendo, per esempio, che questi uomini “comuni” erano i grandi perdenti della deindustrializzazione.Invece, se si osservano i dati, si può notare che gli stati americani che hanno più supportato Trump, come il Nebraska e il Wyoming, registrano un divario retributivo annuo, per lavoro a tempo pieno, di circa 15mila dollari tra lavoratrici e lavoratori, a favore… degli uomini! Perché succede? Perché i lavori a predominanza maschile, come il lavoro in fabbrica, l’attività mineraria, quella di silvicoltura e l’autotrasporto offrono stipendi migliori rispetto ai lavori considerati femminili.In sostanza il discorso sulla crisi della mascolinità non è nuovo, e si ripete da generazioni, spesso con gli stessi falsi argomenti. Inoltre, ricerche condotte in diversi paesi hanno mostrato che il mascolinismo viene usato da tempo per screditare le analisi femministe e le mobilitazioni contro la violenza maschile, sia in Québec, che in Spagna o in Francia (si veda L’antiféminisme et le masculinisme d’hier à aujourd’hui 2018).Il mascolinismo, o il discorso sulla crisi della mascolinità, è stato fin dal principio uno dei pilastri del fascismo italiano e successivamente della propaganda nazista; si basava sulla tesi secondo cui gli uomini italiani o ariani erano stati “traditi” durante la Prima guerra mondiale da un'élite liberale decadente e femminilizzata, e che il fascismo avrebbe ripristinato la mascolinità virile e la famiglia patriarcale. In altre parti del mondo, come in Spagna, il discorso fascista ha fatto propria questa tesi della femminilizzazione degli uomini e della nazione, proponendo la stessa soluzione: una mascolinità aggressiva che conquista, per esempio attraverso la colonizzazione (si veda il lavoro di Marie Walin sulla Spagna).Ancora oggi, l’estrema destra partecipa al mascolinismo, anche attraverso internet, come rivelano numerosi studi.

Si sentono spesso espressioni come “femminismo radicale”, “femminismo totalitario” o persino “femminazi”. Ci può aiutare a contestualizzare?

Gli antifemministi non si definiscono tali naturalmente, negano di essere antifemministi e preferendo giocare sulla divisione retorica tra femministe “buone” e “cattive”. Si sentirà quindi dire che il femminismo è “andato troppo oltre”. Queste persone se la prendono soprattutto con le “neofemministe” radicali o estremiste. Ma se entriamo nei dettagli, per capire a chi si rivolgono, ci rendiamo conto che il loro obiettivo sono praticamente tutte le femministe di oggi... Il discorso vittimistico dei maschilisti suggerisce che il femminismo odierno imponga alla società un vero e proprio “totalitarismo” e che gli uomini non possano più dire nulla, che siano vittime di un sessismo anti-maschile. Per quanto riguarda il termine “feminazi”, la paternità è attribuita a Rush Limbaugh, un conduttore radiofonico reazionario attivo negli Stati Uniti negli anni '90. Quando si conosce la storia e ci si riflette seriamente, l'espressione “feminazi” è triplicemente scandalosa e ridicola. Ovviamente, è un insulto alla memoria dei milioni di vittime dei nazisti. In secondo luogo, l'espressione è un insulto al femminismo, uno dei movimenti sociali più pacifici, persino molto moderato, considerando le ingiustizie e le violenze storiche e pratiche che le donne devono affrontare. Ad esempio, per quanto riguarda gli omicidi di donne – i femminicidi – uccise dai loro partner o ex partner, cosa fanno le femministe? Niente di molto radicale, se ci pensiamo bene: nessuna rivolta contro gli uomini, nessuna operazione di vendetta (impiccagioni, fucilazioni, villaggi distrutti, come hanno fatto ripetutamente i nazisti), nessuna formazione di milizie armate o attentati, come fanno i neonazisti. Si sente spesso dire che le femministe “castrano” gli uomini, ma in realtà non fanno nulla, a differenza dei veri nazisti che torturavano - e persino castravano - realmente le loro vittime... 

Da Gaza agli “spari sopra”, il silenzio di Taylor Swift e gli appelli di Vasco: la pace di comodo dei VIP

faziosità a parte ha ragione quest  articolo   una   delle  poche  perle   che   si  trovano  nella  merda    solleva    un   problema   molto   importante  

da il giornale tramite msn


                                                   di Massimiliano Parente


 
oggi Emanuele Capone, nella sua “Colazione con Capone” (quando apro Instagram faccio sempre colazione con Capone), si chiede perché Taylor Swift non dica niente su Gaza (o meglio si chiede perché debba secondo i fan dire per forza qualcosa su Gaza), domanda legittima, visto che una sua caption sposta più opinione pubblica di un comizio. Solo che qui vale il solito teorema dell’artista in tempo di guerra: se parli hai sbagliato per metà del pubblico, se taci hai sbagliato per l’altra metà, quindi condanna garantita a prescindere, applausi o fischi dipendono solo dal lato del fronte. E c’è pure (sono andato a spulciarmi Reddit) la sottocategoria dei fan che la accusano direttamente di essere a favore di
Israele semplicemente perché non ha detto niente, boh, perché non ha detto niente: boh.
Come se tutti dovessero per forza dire qualcosa, e se non la dicono stai dalla parte di chi dovresti condannare. C’è la terza via, la più redditizia: dire tutto senza dire niente, il “basta le guerre” dei pacifisiti, tipo Jovanotti e Vasco Rossi, formula multiuso che funziona per Gaza, per l’autostrada, per i litigi in chat condominiale, per qualsiasi cosa. Vasco (e lo dico da fan di Vasco, beninteso) lo urla al pubblico, “basta con la guerre”, applausi, e attacca “Gli spari sopra” e tutti a casa con la sensazione di essere stati dalla parte giusta, di cosa non è chiaro, però si balla e va bene così, in ogni caso per Vasco entusiasmo e incasso garantito.
In mezzo, c’è sempre chi giudica a posteriori: Red Ronnie, per esempio, che ha raccontato di non aver mai voluto intervistare Freddie Mercury perché aveva suonato a Live Aid quando c’era l’Apartheid, come se Freddie dovesse essere il Mandela della discografia. Peccato che Freddie non abbia mai preso posizione su niente, e soprattutto non poteva fregargliene di meno, non sapeva neanche chi fosse Red Ronnie e in generale odiava i giornalisti e rilasciare interviste (figuriamoci a Red Ronnie, se avesse saputo chi era). Perché poi un cantante dovrebbe prendere posizione per forza, e perché il metro di giudizio dovrebbe essere la purezza ideologica retroattiva, resta un mistero (andrebbe chiesto agli alieni che incontra Red Ronnie).
Non è solo Vasco, anche amiche mie, come Marisa Laurito e Barbara Alberti, le quali continuano con gli appelli per “fermare le guerre”, la famosa resistenza da divano, foto profilo in assetto umanitario e nessun rischio di scontentare troppa gente. Parentesi doverosa: in realtà una presa di posizione c’è eccome, contro Israele sì, o meglio pro Palestina sì, mentre sul riarmo dell’Ucraina contro Putin no, quindi resistenza sì purché disarmata (quindi non armare l’Ucraina ma non disarmare Putin), e possibilmente dall’altra parte del televisore, un modo elegante per dire scegliamo il conflitto comodo, quello con morale semplificata e senza conseguenze sul portafoglio né sulla tournée né sulle anime belle.
Alla fine i VIP non si dividono più in due categorie, piuttosto in quattro: quelli che parlano e vengono presi a sassate digitali, quelli che tacciono e vengono presi a sassate digitali, quelli che dicono “basta la guerra” e vendono più biglietti, e quelli che scelgono un solo nemico perché il secondo complicherebbe l’etica del profilo, il tutto mentre l’algoritmo accompagna con cori angelici, pardon, con cori di follower che con un like si sentono la coscienza pulita.
Comunque sia il top resta sempre Vasco con “Gli spari sopra”, un capolavoro di vaghezza poetica: mai capito se gli spari sono sopra per noi, sopra per voi, sopra per nessuno, sopra e basta, e perché poi sopra e non sotto, sopra cosa? Forse è questa la vera chiave della comunicazione dei VIP: dire cose che suonano importanti, di cui non si capisce esattamente il senso, così ognuno ci legge quello che vuole. E intanto il concerto finisce, il pubblico applaude, e la guerra, sopra o sotto, può tranquillamente continuare da un’altra parte.

14.8.25

Era stato sbeffeggiato da Salvini sui social, il No Ponte Dario Costa, risponde con un video: «Le è stato dato troppo potere, ora mi augurano la morte»

Questo ragazzo si chiama Dario Costa, è un siciliano di 21 anni, ed è appena stato sottoposto a una vergognosa gogna nientemeno che dal Vicpresidente del Consiglio Matteo Salvini. Tutto per cinque secondi di video, tagliati e decontestualizzati da un video molto più lungo, nei quali Dario ha definito il Ponte sullo Stretto “un atto delinquenziale”. Una frase dura, certo, ma che affonda in un passato purtroppo esistente e per nulla campata per aria. Anzi. Eppure tanto è bastato perché Salvini
trasformasse quei cinque secondi in un video di scherno indegno, con tanto di montaggio al rallentatore derisorio, trasformando all’istante Dario nel bersaglio di migliaia di odiatori, che in poche ore gli hanno tirato addosso di tutto: insulti, offese, addirittura minacce di morte. Siamo al punto che un ministro dei Trasporti di 50 anni bullizza stavolta  direttamente    senza    cani da  guardia  un libero cittadino di 20\  anni  - non iscritto a nessuna associazione o partito - solo per aver espresso una critica (comprensibile) sul Ponte sullo Stretto. Questa è l’idea di libertà e di democrazia di Matteo Salvini. Così povero di argomentazioni da essere costretto a fare il bullo con un ragazzo che protesta.
Ma   ha  trovato  qualcuno  che nn  piega  la  testa   e ha  pronta  la  risposta  . Dario Costa – questo il nome del 21enne di Messina protagonista della clip – ha risposto al ministro con un video  che    trovate  sotto  











su TikTok: «Caro Salvini, lei non è un ministro ma un uomo cui è stato dato troppo potere – dice – Mi hanno augurato morte, infarto, castrazione chimica, tumori e minacciato di pestaggio». Costa ha dichiarato che denuncerà alla polizia postale gli autori degli insulti social. «Ha fatto tutto questo – dice nell’ultima sferzata al ministro – perché ha paura del dissenso»

13.8.25

Chiede a ChatGPT come sostituire il sale nella sua dieta quotidiana e finisce in ospedale in preda alle allucinazioni

Gli esperti , ma lo dice anche il buon senso , avvertono che gli strumenti di IA ( e anche internet in generale ) possano si fornire si informazioni generali , ma per i consigli medici e alimentari dovrebbero essere verificati e controllati con operatori sanitari qualificati onde evitare gravi conseguenze come il caso ( vedi articolo sotto per iulteriori dettagli ) di un 60enne di cui non sono state rese note le generalità ha finito ha chiesto a ChatGPT come creare del sale casalingo ed è finito in ospedale in preda alle allucinazioni. Il problema dell'errore di Chatgpt ( e credo delle altre IA ) sta nel fatto che il bromuro di sodio fio agli anni \5\80 era inserto nei farmaci che acquistavamo in farmacia tramite ricetta medica, ovvio che l'intelligenza artificiale lo ha consigliato , si è basato su quello che trovato sulle notizie magari non  aggiornate  o complottiste estreme   sanitarie  .



L'articolo Chiede a ChatGPT come sostituire il sale nella sua dieta quotidiana e finisce in ospedale in preda alle allucinazioni   da me  riportarto  proviene da Open.








Un 60enne di cui non sono state rese note le generalità ha finito ha chiesto a ChatGPT come creare del sale casalingo ed è finito in ospedale in preda alle allucinazioni. Il caso è riportato dalla rivista scientifica statunitense Annals of Internal Medicine: Clinical Cases ed è citato oggi sul Corriere della Sera.
La richiesta a Chat Gpt
L’uomo, dopo essersi informato sui possibili effetti nocivi del sale da cucina sulla salute umana, ha chiesto al popolare chatbot (versione 3.5 o 4) un valido sostituto. La risposta di ChatGPT è stato il bromuro di sodio. Valido però per «per altri scopi, come la pulizia», spiega il paper. Una opzione che però l’AI non avrebbe menzionato. Così, dopo averlo acquistato on line il 60enne lo ha inserito nella sua dieta quotidiana. Tre mesi dopo si è presentato in ospedale nel pieno di un episodio psicotico, convinto che un vicino di casa lo volesse avvelenare. E si è ammalato di bromismo, un’intossicazione cronica debellata negli anni. Ha accusato per settimane paranoie, allucinazioni, disturbi della memoria, confusione mentale. Tutti sintomi della sindrome che «si riteneva contribuisse fino all’8% dei ricoveri psichiatrici, poiché i sali di bromuro erano presenti in molti farmaci da banco destinati a una vasta gamma di disturbi, tra cui insonnia, isteria e ansia», spiegano sulla rivista scientifica. Il caso è emblematico per sottolineare i limiti dell’intelligenza artificiale, spesso nelle diagnosi fai da te, che possono «potenzialmente contribuire allo sviluppo di conseguenze negative per la salute che potrebbero essere evitate».


Gli etiopi deportati all’Asinara dai fascisti: 88 anni dopo il ricordo sull’isola



  nuova  sardegna  12\8\2025


Sassari
Yeweinshet Beshah-Woured compirà 94 anni il prossimo 13 settembre, ma nei suoi occhi celesti, profondissimi, si vede ancora quella bambina: sei anni appena quando, nel 1937, venne strappata alla sua casa di Addis Abeba, deportata in Italia, all’Asinara, insieme alla madre e al fratello. Il padre, funzionario vicino all’imperatore Hailé Selassié, era stato fucilato dai fascisti. Allora lei partì senza sapere dove stava andando e cosa sarebbe accaduto.


Oggi è tornata, 88 anni dopo, consapevole. Con lei sessanta etiopi, una delegazione dei discendenti dei quasi 300 prigionieri e prigioniere – tra cui ambasciatori, ministri, alti funzionari dell’Impero e i loro familiari – che il regime fascista deportò all’Asinara tra il 1937 e il 1939, in seguito all’attentato contro il Viceré Rodolfo Graziani. Donne e uomini, bambine e bambini costretti a vivere un incubo di paura e miseria. I sopravvissuti riuscirono a ricostruirsi un’esistenza. Altri e altre no. Con l’isola condividono ’eternità

Per ricordarli, sono arrivati da ogni parte del mondo – Stati Uniti, Canada, Germania, Francia, Inghilterra, Etiopia – chi con addosso abiti tradizionali, chi con fotografie in bianco e nero tra le mani e una quiete luminosa sui volti. Nessun rancore. Nessuna ricerca di colpe e colpevoli. Solo la forza composta della volontà di restituire dignità e memoria, etiopi e italiani insieme.
Davanti all’ex ospedale di Cala Reale, sotto un sole cocente e una brezza leggera, è stata scoperta una targa commemorativa che finalmente restituisce un nome e un luogo a quel capitolo doloroso e taciuto della nostra storia. E lì, in quel momento tanto atteso, è accaduto qualcosa di raro e necessario: «A nome dei cittadini italiani, vi chiediamo scusa per quanto inflitto al vostro popolo», ha tuonato senza remore Paola Fontecchio della cooperativa Sealand Asinara, curatrice dell’evento. Nessuna paura di finire nelle sabbie mobili della diplomazia di governo. Una frase pronunciata con schietta umanità, che ha dato carica ad uno dei più begli applausi mai vissuti di recente in questo piccolo mondo.
A seguire, le voci della delegazione si sono levate dapprima in preghiere e poi in un canto tradizionale etiope, per rendere omaggio, per restituire e nulla più. «Sono tornata per chi non può più farlo», ha detto Yeweinshet Beshah-Woured, nel piccolo cimitero di Campo Faro, dove riposano i resti di alcuni deportati, come anche, quelli di Gideon, il figlio di appena due anni della Principessa “melograno d’oro” Romanework Hailé Selassié. Moglie di Merid Bayané, uno dei comandanti della resistenza anti italiana, dopo la fucilazione del marito per la principessa e i suoi quattro bambini si aprirono le porte della deportazione. Visse, insieme a centinaia di altri connazionali, mesi durissimi, segnati da umiliazioni, privazioni e da un dolore profondo.
Oggi, insieme, etiopi ed italiani, non più vittime da una parte e carnefici dall’altra, sono solo uomini e donne uniti dal desiderio di riscrivere un pezzo di storia. Un’occasione per trasformare la memoria individuale in coscienza collettiva. Balacho è nato in Etiopia ma in Germania ha costruito la sua vita adulta. È arrivato sull’isola per ricordare suo nonno, suo bisnonno e il suo prozio, tre uomini ritenuti scomodi e per questo arrestati e deportati in questi luoghi: «Nella nostra cultura è qualcosa di cui si fatica a parlare, perché è considerato motivo di vergogna – ammette Balacho – molti di loro sono morti, molti sono stati uccisi in prigione. Hanno voluto dimenticare quel periodo, e a noi bambini non hanno mai raccontato cosa fosse successo: il cosa, il come, il perché. Questo silenzio è stato molto dannoso per la nostra memoria storica. La storia è come un cerchio: speriamo che non si ripeta, ma quasi sempre finisce per riaccadere, ancora e ancora».Senza dubbio si è scritta una nuova pagina di storia per l’isola. Ne è convinto il direttore del Parco, Vittorio Gazale, non solo testimone oculare ma tra i fautori di questo evento: «Abbiamo tanto da imparare da questo popolo fiero – meraviglioso esempio di civiltà– che è arrivato sull’isola senza rancore nei confronti di noi italiani per quanto subito. Sono arrivati col solo desiderio di ricostruire una memoria, insieme a noi, al nostro fianco». L’evento è stato realizzato con il contributo della Fondazione di Sardegna, in collaborazione con l’Ente Parco Nazionale dell’Asinara, il Comune di Porto Torres, l’Associazione delle Guide Esclusive dell’Asinara e la Rete Educando Asinara, con il contributo di ricercatori italiani e africani impegnati nel recupero delle verità coloniali dimenticate.

diario di bordo n 141 anno III Maria Ermakova crolla a pochi metri dal traguardo, nessuno la può toccare: vince e perde conoscenza., Fiorello fa la spesa al supermercato, elogio all’umiltà nei commenti: “Gira con la lista di sua moglie”


Cos'è altro lo sport se non lo spingersi a toccare i propri limiti dando il massimo per onorare la competizione cui si sta partecipando? Se poi si vince pure, le circostanze drammatiche in cui lo si è fatto aggiungono quell'aura di epos che si ricorderà per l'intera vita. Nelle ultime ore tutti i media russi hanno esaltato l'impresa di Maria Ermakova, che ha vinto i 10000 metri nei campionati nazionali di atletica leggera a Kazan.



                          Maria Ermakova crolla a pochi metri dal traguardo, 




Maria Ermakova crolla, si rialza e vince i 10000 metri ai campionati russi di atletica leggera

La giovane mezzofondista aveva un vantaggio abissale sulle altre concorrenti nell'ultimo giro della prova, quando all'ingresso del rettilineo finale ha iniziato a rallentare sempre di più, fino a caracollare quasi al passo e infine crollare a pochi metri dal traguardo. Sono stati momenti drammatici, in cui nessuno poteva toccare la Ermakova per rialzarla o aiutarla in qualche modo, pena la squalifica immediata, visto che tutti speravano che ce la facesse a fare in qualche modo quei pochi passi che la separavano dall'arrivo e da una vittoria ormai certa.
In quel momento Maria ha pensato a tutti i sacrifici fatti per arrivare fin lì e ha attinto a quello che le era rimasto dentro: muscoli, nervi e cuore. Si è rialzata e barcollando ha superato il traguardo, accasciandosi poi sulla pista. Completamente sfinita, a quel punto ha perso conoscenza. Gli operatori sanitari sono intervenuti rapidamente e hanno portato via la Ermakova dallo stadio su una sedia a rotelle.


"Sono felice di essere viva, mi sento immortale"

"Quattro giri prima, mi sentivo come se le mie gambe fossero di ovatta – ha raccontato la Ermakova successivamente ai media russi, scherzando anche un po' – Non ricordo com'è stato il mio arrivo. Sono felice di essere viva, mi sento immortale. Solo dopo ho realizzato cosa avevo fatto, perché alla fine non ho capito niente".
Maria Ermakova si era presentata ai campionati russi come una delle atlete più promettenti del Paese. Ai Giochi BRICS del 2024 ha vinto il bronzo nei 5000 metri per la Russia, nello stesso anno ha ricevuto il titolo di "atleta dell'anno" nella categoria "Stella nascente". Lo scorso febbraio ha battuto il record nazionale Under 23 nei 3000 metri indoor. Adesso arriva questo successo di grande peso, col suo nuovo personale (32'24"44): la seconda classificata, Albina Gadelshina, è arrivata dopo quasi un minuto (33'10"15), un'eternità.





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Fiorello fa la spesa al supermercato, elogio all’umiltà nei commenti: “Gira con la lista di sua moglie”




"Ma quel viso non mi è nuovo?". Conoscerete benissimo la sensazione di aver visto un volto familiare in luogo pubblico, magari proprio come è accaduto a questa utente su TikTok tra gli scaffali della pasta e dei sughi pronti. Fiorello incontrato casualmente al supermercato e tutto si è trasformato in un fenomeno virale.
Dove si trovava Fiorello
È quanto successo a un'utente di TikTok che, nella notte tra l'11 e il 12 agosto, ha pubblicato un video che ritrae Fiorello durante una normalissima spesa a un supermercato che si trova nella cittadina di Santa Margherita di Pula, in Sardegna.
Una normalità che fa notizia
Nel filmato, lo showman siciliano passeggia tra le corsie del supermercato con la lista della spesa alla mano. Un'immagine di quotidianità che ha colpito gli utenti: Fiorello in versione casalinga, lontano dai riflettori e dalle telecamere, intento in una delle attività più comuni al mondo. Il dettaglio che più ha attirato l'attenzione? La lista scritta a mano che tiene ben salda tra le dita, presumibilmente compilata dalla moglie Susanna Biondo. Un particolare che ha scatenato una valanga di commenti affettuosi da parte dei fan. Fiorello e Susanna Biondo sono degli habitué della Sardegna, e in particolare di Santa Margherita di Pula.
Le reazioni dei fan al video pubblicato su TikTok
Le reazioni dei fan non si sono fatte attendere. Grandi commenti positivi per questa "normalità". "Fiorello è un uomo semplice, gira tra le corsie del supermercato con in mano la lista fatta dalla moglie", scrive un utente. Altri aggiungono: "Lui è un grande. Si è formato dal nulla, famiglia umile e non si è montato la testa", "Anche lui con la lista scritta dalla moglie, è un essere semplice come tutti". Ci si sorprende, e sembra strano, che anche Fiorello faccia la spesa proprio come tutti. Strano, vero? Eppure, è così.

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