10.5.23

amore sacro ed amor profano Ex fidanzati divisi (e uniti) dalla fede. Ora sono prete e suora

 Dopo 9 anni di fidanzamento decidono di cambiare tutto e diventano sacerdote e suora. E’ la storia di Angelo e Paola, una ex coppia che stava anche programmando il matrimonio. Oggi Angelo e Paola sono Don Angelo Ragosta e suor Maria Giuseppina: lui il 21 aprile scorso ha festeggiato i dieci anni da prete, ora è in Germania; lei è diventata monaca di clausura, carmelitana scalza, conosciuta con il nome di suor Maria Giuseppina dell’Amore incarnato. A raccontare la particolare storia è stato Don Angelo tramite la sua pagina Facebook: “Dovevamo sposarci e invece abbiamo detto sì a Dio  (  
Fidanzati diventano prete e suora: storia Don Angelo e suor Giuseppina (tpi.it)


Su altre fonti


Sempre insieme, ma ora con un ‘terzo incomodo’: Dio. La storia di Angelo e Paola sembra la sceneggiatura di un film romantico, anzi una parabola cristiana. Da anime gemelle fino a sposare… il Signore, diventando prete e suora. I due si incontrano per la prima volta a Portici, nella provincia di Napoli, quando Angelo ha 16 anni e Paola 15. La fede arriva solo successivamente, però, perché anzi inizialmente li unisce una certa avversione per la Chiesa, i preti e le suore. (QUOTIDIANO NAZIONALE)

“Ecco l’opera del Signore: una meraviglia ai nostri occhi. Salmo 117. (Il Fatto Quotidiano)



Dopo ben 9 anni di relazione, due giovani ragazzi: Paola e Angelo, hanno scoperto un’interiorità diversa che li ha spinti a scelte determinanti per la loro vita. Entrambi hanno compreso la radicata vocazione che traboccava nei loro cuori così hanno chiarito il loro rapporto e i loro sentimenti visionando una strada diversa. (Internapoli)


La storia di Angelo e Paola è una di quelle storie d'amore che sembrano uscite da un romanzo, ma che in realtà sono la testimonianza di due anime che hanno sentito la vocazione religiosa e hanno deciso di seguirne il richiamo. (Gazzetta del Sud)




La storia di Angelo e Paola: dovevano sposarsi, ora lui è un prete e lei una suora Originari di Portici, nel Napoletano, fidanzati per 9 anni, a un passo dal matrimonio, prima lei e poi lui hanno sentito la vocazione. (Fanpage.it)




Nel 1996 si innamorano e iniziano una relazione con – fa sapere Angelo, riportato dal Quotidiano Nazionale – «i classici tira e molla di gioventù». Da ex fidanzati a prete e suora. (Open)I due si innamorano e dopo 9 anni di fidanzamento decidono di sposarsi. Lei è suor Maria Giuseppina, monaca contemplativa al Carmelo (ma continua a fargli le ramanzine come quando erano fidanzati). (ilmattino.it)

8.5.23

tatuaggio fatto per una donna che aveva il cancro al seno. Facebook l'ha ritirata perché la considera un'immagine di nudità e offensiva.

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Evidentemente     certi  argomenti  sono   tabù   se  (  vedere  anche        nei link  sopra  il  caso di Michela  Murgia  )  certe  persone   fanno rimuovere   la  foto  di questa  bella  opera  d'arte   



Francisco Rodriguez Chacon


Este tatuaje fue hecho para una mujer que tenía cáncer de mama. Facebook la ha retirado por considerarla una imagen de desnudez y por ser ofensiva. Sin embargo, creemos que esta mujer es valiente y fuerte, por lo que vamos a publicar la foto. Os pido vuestro apoyo. Dadle al ‘Me gusta’ y compartidla rápidamente para mostrar vuestro apoyo a esta y a otras muchas mujeres que han perdido tanto

Questo tatuaggio è stato fatto per una donna che aveva il cancro al seno. Facebook l'ha ritirata perché la considera un'immagine di nudità e offensiva. Tuttavia, crediamo che questa donna sia coraggiosa e forte, quindi pubblichiamo la foto. Vi chiedo il vostro sostegno. Mettete "Mi piace" e condividete velocemente per mostrare il vostro sostegno a questa e a molte altre donne che hanno perso tanto

sia   che   sia   ,  a  volte  capita  ,  l'algoritmo che non riconosce le opere d'arte ed artistiche dalla volgarità  sia  che  sia       come  mi  ha  risposto   il mio  contatto  
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  • 10 h
  • Pina Sechi
    Giuseppe Scano Fb blocca o cancella in base al numero di segnalazioni, non tiene conto dei contenuti; è stata censurata la foto di una mamma africana che allatta il figlio e chi ha proposto i forni crematori per gli extracomunitari ha ancora il profilo attivo. Basti pensare ai falsi fan di quell'abominevole video costato 9 milioni di soldi pubblici. Quanti profili fake esistono su Fb? E di Morisi- Salvini e Longobardi-Meloni ci siamo dimenticati
  • è segno   che    non  c'è  un educazione   all'arte    in tutte le  sue   forme  

Paolo Crepet: “Michela Murgia dà la parola ai morituri. Qualche cretino dirà che è esibizionismo, ma le sue parole sono rivoluzionarie”

 di  solito  non  commento tali  cose   perché    non  saprei cosa  dire    e  quindi come in questi caso lascio  la  parola    agli  altri .  Prima  con  l'articolo  di  Daniela   Tuscano   (  lo  trovate  qui  )     e poi  questo bellissimo  (  ogni  tanto mi  trova  d'accordo  )  di  Crepet 


Paolo Crepet: “Michela Murgia dà la parola ai morituri. Qualche cretino dirà che è esibizionismo, ma le sue parole sono rivoluzionarie”

Paolo Crepet: “Michela Murgia dà la parola ai morituri. Qualche cretino dirà che è esibizionismo, ma le sue parole sono rivoluzionarie”

"Le vorrei dire grazie. Per le parole e il coraggio"

Michela Murgia e i talenti di Daniela Tuscano

 Michela Murgia c'è. C'è in una sincerità sconcertante, contraddittoria, a volte scombinata, come il suo corpo ancestrale e le sue idee postmoderne.



Le chiamo idee, non spirito. Le idee passano, e quelle di Murgia non le ho condivise quasi mai. Lo spirito, invece, ha conservato una integrità in cui tutti ci riconosciamo.
Arriviamo al capolinea nudi e affamati. Di verità, di senso. Murgia, questa domanda, l'ha offerta. Con semplicità. Vuole entrare nella morte a occhi aperti, "presente a sé stessa". Può sembrare azzardato, ma certi passaggi dell'intervista rilasciata a #Cazzullo mi hanno ricordato #Ozanam. Il santo francese, scomparso a 40 anni, così commentava la prossima dipartita: "Ho vissuto più della metà della vita". E la scrittrice sarda: "Ho cinquant’anni, ma ho vissuto dieci vite. Ho fatto cose che la stragrande maggioranza delle persone non fa in una vita intera". Aggiunge: "Non è vero che il mondo è brutto; dipende da quale mondo ti fai". La responsabilità, nel bene e nel male. La sensazione d'aver vissuto, e vivere ancora, una grande avventura, da impiegare seriamente, come i #talenti evangelici. Murgia non ha dimenticato questa parabola. Potrà sbagliare, non sprecare.
Non so come gestirà questi mesi - che giustamente definisce "lunghissimi", anche un giorno lo è, anche un respiro -: ma si è confessata ora, respingendo la retorica bellicista e riconsegnando, così, la persona malata alla sua dignitosa fragilità. Quando si muore non si perde nessuna #guerra, l'esistenza non è un videogioco, al grande passo non sfugge nessuno.
Sì, il corpo muore. Saperlo rende umili. E l'umiltà, lungi dall'impoverire l'umano, gl'infonde energia, pienezza. Michela Murgia, non sono stata una tua ammiratrice, ma credo che, adesso, tu stia scrivendo il tuo più bel libro, comunque vada, anche se - come ti auguro - dovessi attraversare ancora lunghissimi mesi, forse anni, forse altre dieci vite. Non susciti pena, trasmetti forza. La tua energia si è concentrata in un nucleo magnetico. E irresistibilmente attrae verso la luce.

6.5.23

la storia di una coppia omosessuale ha scelto l'affido e non ha ricorso alla maternità surrogata

Enrico e Samuele: l'affido è anche per noi  

DA https://www.vita.it/it/     del   3  maggio  

                                           di Sara De Carli

 Stanno insieme da 19 anni e l'utero in affitto non fa per loro. Non immaginavano che anche una coppia dello stesso sesso potesse dare disponibilità all'affido e anche al termine del percorso formativo sotto sotto pensavano che i servizi avrebbero sempre preferito una coppia eterosessuale. Invece da quattro anni Enrico e Samuele hanno in affido due fratelli, che oggi hanno 9 e 14 anni. «Non è facile, ma le loro risate ci ripagano di tutto. Il cuore ti batte in modo diverso»

 
Quel giorno di autunno, quando suonò il cellulare, Enrico e Samuele non credevano che stesse succedendo davvero. Avevano fatto tutto il percorso formativo con il Centro affidi di Pistoia, ma quei mesi di attesa li stavano vivendo con i piedi di piombo, senza permettere che i sogni si prendessero troppo spazio. «Il nostro mood era quello di restare con i piedi per terra. “Ok abbimo fatto il percorso ma forse ci hanno detto che andavamo bene come coppia affidataria solo per essere politically correct”: ci dicevamo questo l’uno l’altro. Sotto sotto pensavamo che quando gli operatori avrebbero dovuto scegliere davvero tra noi e una coppia eterosessuale, avrebbero comunque scelto gli altri. Invece non è andata così», racconta Samuele.
Enrico ha 46 anni, Samuele 38. Vivono in provincia di Pistoia e stanno insieme da diciannove anni: «Mai subito un attacco o una discriminazione per la nostra omosessualità o per la nostra relazione», dicono. Si sono sposati nel giugno 2018 e dall’autunno successivo hanno in affido due fratelli, un maschio e una femmina, che oggi hanno 9 e 14 anni. Prima di essere affidati a loro, i due bambini stavano insieme alla mamma in una casa-famiglia.

«La prima volta che la parola “affido” è entrata nella nostra coppia è stato durante una chiacchierata con un’amica, che ha detto: “ma perché non prendete un bimbo in affido?”. Noi non sapevamo nemmeno che una coppia dello stesso sesso potesse dare disponibilità all’affidamento familiare», dice Enrico. «Ci si era interrogati sulla paternità e sull’ipotesi dell’utero in affitto, ma non rientra nel nostro modo di vedere le cose e la vita, nei nostri valori. L’affido invece… ci ha subito intrigati. Ne abbiamo iniziato a parlare tanto fra noi, ci siamo informati, abbiamo contattato il Centro affidi della nostra provincia e abbiamo fatto un anno e mezzo di formazione e di colloqui. Alla fine quello che ti si scolpisce in testa è che lo scopo dell’affido è il rientro dei bimbi nella loro famiglia di origine. Se invece guardi all’affido come “ultima spiaggia” per avere un figlio… sei fuori strada».
Qui entra in gioco un altro elemento casuale, «che poi forse tanto casuale non è», sottolinea Samuele. «Amici e parenti ci dicevano “ma poi, quando arriverà il giorno in cui ve li toglieranno perché i bambini torneranno dai loro genitori, che succede?”. È una domanda che ci facevamo anche noi: è una prospettiva che un po’ spaventa. Però io avevo conosciuto da vicino una storia di affido: l’ex fidanzata di mio fratello da piccola era stata in affido. Ho “toccato” il legame che lei, anche da grande, aveva con la famiglia affidataria, il bene che quella famiglia le ha fatto, la relazione che hanno mantenuto e questo mi ha fatto dire “sì”, mi ha convinto. Alla fine non ci ha mosso tanto il desiderio di avere un figlio nostro ma il desiderio di aiutare un bambino», racconta Samuele.
Torniamo quindi alla telefonata del Centro affidi. È l’autunno 2018, Enrico e Samuele sono insieme in auto quando squilla il cellulare. La proposta del Centro affidi riguarda un bambino di 5 anni. Samuele ed Enrico incontrano gli operetori del Centro affidi e accolgono l'abbinamento. Per la sorella del piccolo i servizi avevano individuato un’altra famiglia. «Poi un giorno ci richiamano e ci dicono che se noi eravamo d’accordo, i bambini possono stare insieme. Noi abbiamo entrambi fratelli, sappiamo cosa significa questo legame… abbiamo dato immediatamente disponibilità per entrambi, non potevamo certo essere noi a separarli». A questo punto Samuele ed Enrico iniziano il percorso di avvicinamento ai due bambini, in casa famiglia: per due mesi vanno in comunità due volte a settimana, presentandosi come “amici”. Stanno con tutti i bambini, giocano, li mettono a letto. I servizi e gli educatori della casa famiglia intanto fanno un lavoro enorme con le fiabe per far comprendere ai bambini cosa significhi amare un altro uomo. Si parla con i bambini, si scoprono le carte del progetto di affido. Qualche uscita, qualche serata, poi qualche weekend. A inizio gennaio 2019 i due fratelli entrano stabilmente in casa di Enrico e Samuele. «Né i bambini nè i loro genitori hanno mai mosso un’obiezione al fatto che l’affido fosse ad una coppia dello stesso sesso. Temevamo che i due papà avrebbero potuto magari avere dei dubbi, invece no. I ragazzi non sono mai tornati a casa raccontandoci episodi negativi in questo senso: anche a scuola gli insegnanti sono stati molto bravi, sia alle elementari che in prima media siamo andati a aprare in classe delle famiglie come la nostra», racconta Enrico.
«Ancora oggi a volte noi pensiamo di non essere in grado. L’affido è proprio un’esperienza in cui le persone che accogli ti insegnano tantissimo. I ragazzi ma anche i loro genitori. Con la mamma dei bambini abbiamo un buon rapporto, la prima volta che l’abbiamo incontrata le abbiamo proprio detto “noi non siamo qui per portarti via i bambini, ma per darti un supporto con loro», afferma Samuele. I primi tempi non sono stati facilissimi, «anzi direi che è stato un trauma sia per noi che per loro, non è tutto rose e fiori, è come se avessimo partorito due figli già grandi», dice Enrico. «Eravamo abituati ai nostri spazi e ritmi e ci siamo trovati a dormire in quattro in un lettone, a fare cose che non eravamo preparati a fare o che non sapevamo come fare. Da un giorno all’altro ti cambia il modo di pensare, di cucinare, di dormire. Io ero uno che se mi spostavi in giardino mentre dormivo, non me ne rendevo conto: adesso mi sveglio appena i ragazzi respirano in modo diverso», aggiunge Samuele. «Sorridevamo quando ci dicevano che quello di genitori è il mestiere più difficile del mondo, ora invece capiamo. La sera quando i ragazzi dormono tantissime volte ci chiediamo se abbiamo fatto bene o male a dire o a fare quella determinata cosa… Facile non è, ma ci mettiamo tutto l’amore possibile. Si sbaglia e ci si arrabbia, siamo abbastanza rigidi, ma quando i ragazzi ridono ci ripagano di tutto».
I due ragazzini, oggi, chiamano “babbo” Enrico e Samuele. «La prima volta, non sai quando abbiamo pianto», confidano. Perché farlo? Enrico non ha dubbi: «Perché il cuore ti batte in maniera diversa».

2.5.23

Pillon di sicuro approverà laura chiatti ed company di Maria Patanè

   di cosa  stiamo  parlando 

Laura Chiatti: “L’uomo che fa il letto e passa l’aspirapolvere non lo posso vedere, mi abbassa l’eros”

Laura Chiatti: “L’uomo che fa il letto e passa l’aspirapolvere non lo posso vedere, mi abbassa l’eros”

Con tutta la buona volontà del mondo, ma...questa non è semplice libertà di opinione. Questo discorso ha ben poco a che fare con l'eros, ma molto con una rigida divisione dei ruoli, gli stereotipi e in generale con quel fenomeno deleterio che ci condiziona fin dalla nascita noto come binarizzazione di genere. Infatti


30.4.23

abuso del termine eroe i caso di Masi Nayyem Avvocato e militare, n Donbass ha perso un occhio e la voglia di vivere.

 

Avvocato e militare, Masi Nayyem in Donbass ha perso un occhio e la voglia di vivere. Oggi, a Kiev, ha fondato un’associazione per aiutare i veterani ucraini. «Tutti ci esaltano. Ma quando poi torniamo a casa - monchi, orbi, spaventati a morte - non siamo

In battaglia si uccide, l’ho fatto anch’io. Non ho provato nulla, se segui le emozioni sei già morto — Masi Nayyem

Sul tavolo del soggiorno di Masi Nayyem, a Kiev, c’è una pistola. La CZ P-10 9mm semiautomatica striker da 15 colpi, di fabbricazione ceca, riposa in una valigetta di plastica nera. «Me l’hanno restituita dopo l’incidente, è una specie di portafortuna».

Nayyem, avvocato penalista di origini afghane, militare esperto in cybersecurity, una medaglia al valore dell’esercito ucraino e una dell’intelligence, un cane con un nome da romanzo russo - Barmaley - e una passione per i testi buddisti, ha un appartamento vista parco al 7° piano di Pechersk, quartiere bon chic bon genre della capitale, e mezza faccia che gli manca.

Il 5 giugno dell’anno scorso, mentre era in missione di perlustrazione in Donbass, l’auto su cui viaggiava è saltata in aria su una mina, un suo compagno è morto. Masi, il cranio aperto a metà, è stato trasportato e operato in Germania per dieci ore. Ha perso un occhio, il destro, ma che sia sopravvissuto, dicono i medici, è già un mezzo miracolo. «Faccio fatica a prendere la mira quando mi verso l’acqua nel bicchiere, ma per il resto sono tutto intero». A dicembre, Nayyem ha ripreso a lavorare nel suo studio legale, tra i più noti di Kiev. Va in ufficio con la mimetica, «perché finché si combatterà io resto un militare».

La guerra, Masi, l’ha sempre avuta addosso. Nato a Kabul nel 1985, ha perso la madre quando aveva solo dieci giorni. È cresciuto nelle strade invase dai tank sovietici, coi mujaheddin che appendevano agli alberi chi collaborava. Quando aveva sei anni suo padre Muhammad Naim, un ex ministro afghano che si era rifiutato di lavorare per l’Urss, è fuggito a Kiev con lui e gli altri due figli, Mustafà e Mariam. Qui Masi è cresciuto, ha studiato, è diventato avvocato. Finché, nel 2015, si è arruolato nell’esercito per difendere il Donbass e i fantasmi di quando era bambino lo hanno guardato negli occhi. «Sembrava che la guerra mi inseguisse». Quando ha

ucciso un uomo per la prima volta, dice con una voce spenta, non ha provato nulla. «È come mangiare carne: non ti fa piacere, ma devi».

La sera del 23 febbraio di un anno fa, Masi stava fumando pensoso una sigaretta sul divano di casa,

la   sua   auto esplosa 
prima   dell'esplosione 
dopo una giornata di lavoro. Da un po’ usciva con una donna, stavano bene assieme. Sapeva che la Russia era pronta ad attaccare, che in caso di conflitto i riservisti sarebbero stati richiamati per primi, ma avrebbe preferito non dover partire, era stanco di morte. Eppure, all’alba dell’indomani ha chiamato il comando: «Ci sono, ditemi solo dove posso prendere un’arma». Quattro mesi dopo, in ricognizione d’intelligence vicino al confine russo, l’auto su cui viaggiava è esplosa. Lui e i suoi compagni sapevano di percorrere un territorio a rischio, ma dal comando li avevano rassicurati: “Vi diamo un blindato anti-mina”. «Macché blindato, sarà stata la vecchia auto di un politico: aveva solo i finestrini anti-proiettile, la bomba ha squarciato il pianale come fosse di burro». Quando si è risvegliato dopo l’intervento, con la testa fasciata e i medici che bisbigliavano, ha capito subito di aver perso un occhio. La prima cosa che si è chiesto, ammette con un sorriso amaro, è se le ragazze lo avrebbero guardato comunque. La seconda, se sarebbe ancora riuscito a leggere tutti i faldoni di un processo in una notte.

Ma il peggio, se un peggio c’è, doveva ancora arrivare.

Al suo ritorno a casa, Masi si è reso conto che era cambiato tutto. Non aveva più voglia di amici, di aperitivi, di cinema. Non aveva - non ha - voglia di nulla. È uscito con una ragazza, non ha funzionato. «Sto bene solo con Barmaley, il mio cane». Masi l’ha incontrato in Donbass, durante la sua prima spedizione. Il randagio viveva nell’accampamento, ci giocava tutti i giorni. Quando Nayyem è ripartito, il cane ha preso a correre dietro alla sua auto. Cinque chilometri ostinati, a perdifiato. Finché lui non ha frenato e l’ha fatto salire. «È il mio migliore amico».



Neanche casa è più casa. Nell’appartamento di design, un tempo il rifugio di un single benestante, si accumulano i cartoni della pizza. La notte tornano gli incubi: il sangue, il boato che fracassa i timpani. La psicoterapia? «Ci ho provato, con me non funziona». Masi cerca di rimediare col lavoro, fa meditazione, molto sport. Per l’anniversario dell’incidente, a giugno, punta a rimanere nella posizione della panca - sollevato da terra, poggiato solo a mani e piedi - per 100 minuti tondi, una follia. «Lo stress post traumatico è duro da guarire».

Quello che lo angoscia di più, però, è sapere che

Il mio cane è il mio migliore amico, l’unico che sa starmi accanto

— Masi Nayyem

dopo un anno di guerra gli ex combattenti nelle sue condizioni sono già centinaia. Uomini persi, che faticano a ottenere aiuto, «perché l’Ucraina non è pronta». E perché mostrarsi fragili, quando il Paese sta ancora combattendo, è un tabù. Il problema, per Masi, sta anche qui. «Smettetela di chiamarci eroi. Basta. Siamo eroi finché ci battiamo al fronte, poi torniamo, monchi, orbi, spaventati a morte, e non siamo più nessuno».

Se in Ucraina l’alcol è sempre stato un problema, oggi lo è ancora di più. E nell’ultimo anno, spiega l’avvocato, i reati sono raddoppiati. In gran parte dei casi a delinquere sono ex militari che tornano a casa e si ritrovano senza lavoro, senza amici, senza più una famiglia. «Le cicatrici della guerra non sono solo quelle che ti ricuciono in faccia».

Poche settimane fa Nayyem ha fondato Principle, un’associazione che si batte per i diritti umani dei veterani. Attraverso il suo studio legale, aiuta i militari che non riescono a farsi riconoscere l’invalidità dalla farraginosa burocrazia ucraina. In futuro vorrebbe fare molto di più: mettere insieme medici, psicologi, fisioterapisti. Lo Stato, però, deve intervenire. La settimana scorsa il suo appello è arrivato direttamente al presidente Zelensky: «Ha istituito una commissione, ci stanno lavorando».

Masi prende in mano la sua pistola, la osserva come fosse quasi un appiglio. «Siamo stati aggrediti con ferocia, ci stiamo difendendo con tutte le nostre forze. È già abbastanza, gli ucraini non meritano una disfatta della società».