30.4.23

abuso del termine eroe i caso di Masi Nayyem Avvocato e militare, n Donbass ha perso un occhio e la voglia di vivere.

 

Avvocato e militare, Masi Nayyem in Donbass ha perso un occhio e la voglia di vivere. Oggi, a Kiev, ha fondato un’associazione per aiutare i veterani ucraini. «Tutti ci esaltano. Ma quando poi torniamo a casa - monchi, orbi, spaventati a morte - non siamo

In battaglia si uccide, l’ho fatto anch’io. Non ho provato nulla, se segui le emozioni sei già morto — Masi Nayyem

Sul tavolo del soggiorno di Masi Nayyem, a Kiev, c’è una pistola. La CZ P-10 9mm semiautomatica striker da 15 colpi, di fabbricazione ceca, riposa in una valigetta di plastica nera. «Me l’hanno restituita dopo l’incidente, è una specie di portafortuna».

Nayyem, avvocato penalista di origini afghane, militare esperto in cybersecurity, una medaglia al valore dell’esercito ucraino e una dell’intelligence, un cane con un nome da romanzo russo - Barmaley - e una passione per i testi buddisti, ha un appartamento vista parco al 7° piano di Pechersk, quartiere bon chic bon genre della capitale, e mezza faccia che gli manca.

Il 5 giugno dell’anno scorso, mentre era in missione di perlustrazione in Donbass, l’auto su cui viaggiava è saltata in aria su una mina, un suo compagno è morto. Masi, il cranio aperto a metà, è stato trasportato e operato in Germania per dieci ore. Ha perso un occhio, il destro, ma che sia sopravvissuto, dicono i medici, è già un mezzo miracolo. «Faccio fatica a prendere la mira quando mi verso l’acqua nel bicchiere, ma per il resto sono tutto intero». A dicembre, Nayyem ha ripreso a lavorare nel suo studio legale, tra i più noti di Kiev. Va in ufficio con la mimetica, «perché finché si combatterà io resto un militare».

La guerra, Masi, l’ha sempre avuta addosso. Nato a Kabul nel 1985, ha perso la madre quando aveva solo dieci giorni. È cresciuto nelle strade invase dai tank sovietici, coi mujaheddin che appendevano agli alberi chi collaborava. Quando aveva sei anni suo padre Muhammad Naim, un ex ministro afghano che si era rifiutato di lavorare per l’Urss, è fuggito a Kiev con lui e gli altri due figli, Mustafà e Mariam. Qui Masi è cresciuto, ha studiato, è diventato avvocato. Finché, nel 2015, si è arruolato nell’esercito per difendere il Donbass e i fantasmi di quando era bambino lo hanno guardato negli occhi. «Sembrava che la guerra mi inseguisse». Quando ha

ucciso un uomo per la prima volta, dice con una voce spenta, non ha provato nulla. «È come mangiare carne: non ti fa piacere, ma devi».

La sera del 23 febbraio di un anno fa, Masi stava fumando pensoso una sigaretta sul divano di casa,

la   sua   auto esplosa 
prima   dell'esplosione 
dopo una giornata di lavoro. Da un po’ usciva con una donna, stavano bene assieme. Sapeva che la Russia era pronta ad attaccare, che in caso di conflitto i riservisti sarebbero stati richiamati per primi, ma avrebbe preferito non dover partire, era stanco di morte. Eppure, all’alba dell’indomani ha chiamato il comando: «Ci sono, ditemi solo dove posso prendere un’arma». Quattro mesi dopo, in ricognizione d’intelligence vicino al confine russo, l’auto su cui viaggiava è esplosa. Lui e i suoi compagni sapevano di percorrere un territorio a rischio, ma dal comando li avevano rassicurati: “Vi diamo un blindato anti-mina”. «Macché blindato, sarà stata la vecchia auto di un politico: aveva solo i finestrini anti-proiettile, la bomba ha squarciato il pianale come fosse di burro». Quando si è risvegliato dopo l’intervento, con la testa fasciata e i medici che bisbigliavano, ha capito subito di aver perso un occhio. La prima cosa che si è chiesto, ammette con un sorriso amaro, è se le ragazze lo avrebbero guardato comunque. La seconda, se sarebbe ancora riuscito a leggere tutti i faldoni di un processo in una notte.

Ma il peggio, se un peggio c’è, doveva ancora arrivare.

Al suo ritorno a casa, Masi si è reso conto che era cambiato tutto. Non aveva più voglia di amici, di aperitivi, di cinema. Non aveva - non ha - voglia di nulla. È uscito con una ragazza, non ha funzionato. «Sto bene solo con Barmaley, il mio cane». Masi l’ha incontrato in Donbass, durante la sua prima spedizione. Il randagio viveva nell’accampamento, ci giocava tutti i giorni. Quando Nayyem è ripartito, il cane ha preso a correre dietro alla sua auto. Cinque chilometri ostinati, a perdifiato. Finché lui non ha frenato e l’ha fatto salire. «È il mio migliore amico».



Neanche casa è più casa. Nell’appartamento di design, un tempo il rifugio di un single benestante, si accumulano i cartoni della pizza. La notte tornano gli incubi: il sangue, il boato che fracassa i timpani. La psicoterapia? «Ci ho provato, con me non funziona». Masi cerca di rimediare col lavoro, fa meditazione, molto sport. Per l’anniversario dell’incidente, a giugno, punta a rimanere nella posizione della panca - sollevato da terra, poggiato solo a mani e piedi - per 100 minuti tondi, una follia. «Lo stress post traumatico è duro da guarire».

Quello che lo angoscia di più, però, è sapere che

Il mio cane è il mio migliore amico, l’unico che sa starmi accanto

— Masi Nayyem

dopo un anno di guerra gli ex combattenti nelle sue condizioni sono già centinaia. Uomini persi, che faticano a ottenere aiuto, «perché l’Ucraina non è pronta». E perché mostrarsi fragili, quando il Paese sta ancora combattendo, è un tabù. Il problema, per Masi, sta anche qui. «Smettetela di chiamarci eroi. Basta. Siamo eroi finché ci battiamo al fronte, poi torniamo, monchi, orbi, spaventati a morte, e non siamo più nessuno».

Se in Ucraina l’alcol è sempre stato un problema, oggi lo è ancora di più. E nell’ultimo anno, spiega l’avvocato, i reati sono raddoppiati. In gran parte dei casi a delinquere sono ex militari che tornano a casa e si ritrovano senza lavoro, senza amici, senza più una famiglia. «Le cicatrici della guerra non sono solo quelle che ti ricuciono in faccia».

Poche settimane fa Nayyem ha fondato Principle, un’associazione che si batte per i diritti umani dei veterani. Attraverso il suo studio legale, aiuta i militari che non riescono a farsi riconoscere l’invalidità dalla farraginosa burocrazia ucraina. In futuro vorrebbe fare molto di più: mettere insieme medici, psicologi, fisioterapisti. Lo Stato, però, deve intervenire. La settimana scorsa il suo appello è arrivato direttamente al presidente Zelensky: «Ha istituito una commissione, ci stanno lavorando».

Masi prende in mano la sua pistola, la osserva come fosse quasi un appiglio. «Siamo stati aggrediti con ferocia, ci stiamo difendendo con tutte le nostre forze. È già abbastanza, gli ucraini non meritano una disfatta della società».

29.4.23

Giannis Antetokounmpo e chi chiama «fallimento» ogni sconfitta




Giannis Antetokounmpo e chi chiama «fallimento» ogni sconfitta

«Michael Jordan ha giocato 15 anni, ha vinto 6 titoli: gli altri nove anni sono stati un fallimento?» ha detto tra le altre cose il campione dei Milwaukee Bucks appena eliminati in NBA

Giannis Antetokounmpo (Stacy Revere/Getty Images)


Nella notte tra mercoledì e giovedì i Milwaukee Bucks sono stati eliminati dai Miami Heat al primo turno dei playoff del campionato di basket NBA. È stata un’eliminazione sorprendente per la sua precocità, dato che Milwaukee era stata la miglior squadra della stagione regolare, ma non per la qualità degli avversari. Miami infatti arriva agli ultimi turni dei playoff da ormai tre anni di fila e ha giocatori di altissimo livello, peraltro particolarmente in forma in questo periodo.
Nella conferenza stampa dopo l’eliminazione, Giannis Antetokounmpo, eletto due volte miglior giocatore del campionato (MVP), ha risposto alle domande dei giornalisti, in particolare ad una:



E: Vedi questa stagione come fallimentare?

G: Oh mio dio… mi hai fatto la stessa domanda un anno fa, Eric. Tu ricevi una promozione ogni anno, nel tuo lavoro? No, giusto? Quindi ogni anno il tuo lavoro è fallimentare? Sì o no?

E: No.

G: Ogni anno lavori per raggiungere qualcosa, un obiettivo, una promozione, per essere in grado di prenderti cura della tua famiglia, dargli una casa in cui vivere. E non è un fallimento questo, sono tappe verso il successo.
Non ho niente contro di te personalmente, è che ci sono sempre dei passi da fare. Michael Jordan ha giocato 15 anni, ha vinto 6 titoli: gli altri nove anni sono stati un fallimento?

Antetokounmpo — che con Milwaukee ha vinto il titolo NBA due anni fa — ha poi concluso dicendo: «Questo è lo sport. Non devi sempre vincere. Vincono anche gli altri. E quest’anno vincerà qualcun altro».


Di seguito il video completo sottotitolato in italiano.

natura e lavoro posso convivere ? il caso dei fenicotteri rosa delle ex saline di Cagliari





 A pochi chilometri da Cagliari c’è un luogo magico dove l’uomo e la natura convivono in un equilibrio stupefacente. Le saline Conti Vecchi, nel comune di Assemini, sono un tesoro di archeologia industriale, di produzione ecosostenibile, e di rarità avifaunistica. Dove può capitare di trovarsi a pochi metri da un maestoso airone o di dare la precedenza a una famigliola di fenicotteri rosa che attraversa il viottolo in fila indiana. Oppure di sfiorare montagne candide di sale che brillano sotto il sole e aggirarsi nel laboratorio chimico ottocentesco tra alambicchi, provette e rari cristalli rosa. C’è tutto questo e molto di più da ammirare durante una visita alle saline (uniche ancora in attività in Italia assieme a quelle della Puglia) che si estendono per 2700 ettari nella laguna di Santa Gilla tra Cagliari, Assemini e Capoterra. I moderni impianti ancora attivi coesistono con la memoria raccontata da stabilimenti e macchinari di un
le  saline   
tempo, perfettamente conservati e diventati museo insieme agli uffici della direzione arredati in stile liberty e agli edifici della “cittadella del sale”. Qui vivevano i lavoratori dell’impresa ideata dall’ingegner Luigi Conti Vecchi negli anni Venti del Novecento, avviata nel 1931 dal figlio Guido e  tuttora in attività con una produzione di sale marino che si aggira sulle 400 tonnellate all’anno destinate al settore alimentare ma anche all’industria dei detergenti e cosmetica, e alla liberazione delle strade dalla neve. Le Saline sono un miracolo da oltre 90 anni anche dal punto di vista naturalistico perché la continua movimentazione dell’acqua da una vasca di evaporazione all’altra ha favorito la riproduzione e la nidificazione di oltre 40 specie di uccelli, tra cui la garzetta, il cavaliere d’Italia, il falco delle paludi, gli aironi e ovviamente uno stuolo di fenicotteri rosa che da 30 anni sono diventati stanziali nello stagno di Santa Gilla. Un esercito di “genti arrubia” 


fenicotteri rosa

come vengono chiamati da queste parti, che in volo disegnano profili geometrici come fosse un miraggio. Il più anziano che vive a Santa Gilla ha quasi 50 anni ed è nato nella Camargue, in Francia. Sono i racconti delle guide Fai (il Fondo Ambiente Italiano che dal 2017 gestisce il sito) che accompagnano i visitatori sul trenino attraverso le vasche dove l’acqua evapora e lascia depositato il sale sul fondo che poi viene raccolto a macchina dagli operatori; una piccola parte a mano destinata alla cucina gourmet come il fiore di sale e il sale integrale, naturale o aromatizzato. Affascinante anche la parte di archeologia industriale con la falegnameria e l’officina dove i macchinari venivano riparati, se non costruiti, per garantire la continuità della produzione. Si possono visitare gli uffici, gli archivi, le scrivanie, i registri e persino le lettere di assunzione dentro le palazzine d’epoca perfettamente ristrutturate. L’ufficio contabilità conserva macchine da scrivere e comptometer (antenati delle calcolatrici), schede anagrafiche, libri paga mentre l’ufficio tecnico custodisce i modelli per i ricambi. L’idea del Fai è ricostruire il villaggio delle saline dove per tanto tempo hanno vissuto gli operai, i tecnici e le loro famiglie, dove si andava a scuola e ci si sposava. Un’impresa unica in Italia d

Due giorni interi senza il cellulare: la sfida di 12 studenti Il progetto del Pitagora insieme a “Logout Livenow”

Interessanti    esperimenti di questo tipo   .  ben vengano  .  Ma  il problema   è   he  bisogna  insegnarli ad  usare    i social 

 da la  Nupva  Sardegna  del  29\4\2023 
Sassari
 Due giorni interi senza cellulari. Una sfida ai limiti dell’impossibile per un gruppo di impavidi studenti dell’Istituto paritario Pitagora che, dopo alcuni seminari e laboratori di formazione, sono stati condotti nel parco di Neulè, sul Cedrino, dove hanno consegnato i telefonini al tutor Gavino Puggioni il quale li ha chiusi in una cassetta di sicurezza. E dopo questo “detox digitale” gli stessi ragazzi hanno scoperto con loro grande sorpresa che c’è un mondo anche dietro gli schermi, vale la pena di esplorarlo e viverlo intensamente. È stato il momento clou del progetto portato avanti dalla dirigente Caterina Mura e condotto insieme alla “Logout Livenow Digital experience”, tour operator di detox digitale che si è avvicinato adesso al mondo delle scuole grazie a un bando della Fondazione Sardegna. «Abbiamo partecipato al bando per dare ai nostri ragazzi qualcosa di originale, utile ed efficace – spiega la 
 dodici studenti dell’Istituto Pitagora durante il detox digitale
nel parco di Neulè
sul Cedrino col tutor Gavino Puggioni
dirigente del Pitagora –. Purtroppo loro sono nativi digitali e sono sempre incollati al cellulare anche in situazioni poco adatte alla didattica. Noi permettiamo che il cellulare venga portato a scuola, però non devono utilizzarlo. Poi però succede che ne consegnano uno vecchio e portano di nascosto dentro quello vero. E, purtroppo, devo anche dire che ci si mettono i genitori che li cercano anche durante le ore di lezione. Il progetto mi è piaciuto molto, spero di ripeterlo». A Neulè, vicino a Dorgali, sono andati in 12 «scelti tra quelli più riottosi ad accettare queste regole» sottolinea scherzando Caterina Mura. E lì il primo trauma, con tentativo di aggiramento: «Ho fatto mettere i cellulari nella cassetta di sicurezza – racconta Gavino Puggioni – ma quando li ho contati erano solo otto... Poi abbiamo coinvolto i ragazzi in una serie di attività, come una gita in kayak, ma abbiamo lasciato loro anche momenti liberi per costringerli a pensare. Abbiamo dato loro anche delle fotocamere usa e getta con le quali dovevano gestire 29 scatti. Il tutto, insieme a quello che spieghiamo nei seminari, per far realizzare loro la qualità del tempo che possono trascorrere senza cellulari. Questi ragazzi non conoscono il mondo senza il tramite del cellulare, sul quale trascorrono una media di 7-8 ore al giorno. Spieghiamo loro anche quali sono le tecniche di aggancio utilizzate dai social, a partire dal fatto che rilasciano dopamina e creano anche un bisogno di approvazione sociale. Cerchiamo anche di fargli capire che portano via tempo e attenzione, senza i quali non si può far nulla. Non è che non debbano usare i cellulari, ma bisogna guidarli a un utilizzo consapevole». E qualcuno ha anche cominciato a capirlo: «Un’esperienza nuova che consiglio a tutti, dai 15 ai 40 anni – dice Andrea, uno dei protagonisti di questa esperienza –. Ti cambia completamente il modo di pensare, ti fa apprezzare le piccole cose come una chiacchierata con gli amici o una passeggiata. All’inizio ho patito, non lo nego, cercavo continuamente il cellulare in tasca. Dopo 6-7 ore però ho capito che era inutile e devo dire che senza telefono si sta proprio bene».

28.4.23

un giornalismo che guarda come si veste un politico e non a quello che dice o fa è un giornalismo da quattro soldi . il caso Elly Schlein

 

Invece di occuparsi dei 25 parlamentari strapagati che hanno fatto andare sotto il governo sul Def - mai accaduto da quel che ricordo nella storia repubblicana - molti pseudo-giornalisti e destrume vario attaccano Elly Schlein per come si veste, per chi e quanto paga come consulente d’immagine, come se fosse una bestemmia.
Ora A me sinceramente di come veste Elly Schlein ( stesso discorso per gli altri\e
rappresentanti parlamentari ) , di quali colori predilige, non me ne frega nulla. Mi interessa quello che fa e dovrebbe fare le sue idee politiche, la sua eventule coerenza e la dignità delle sue battaglie. E, se non fosse una donna giovane e capace, il fatto che indossi un eskimo o un trench non interesserebbe a nessuno.
Tanto per essere chiari secondo questi tipi qua : l’unico problema di Elly Schlein che si affida all’armocromia è di chi ne parla, di chi trasforma un’intervista a Vogue (a un mensile di moda, ma dai…) in un tema politico, di chi lo titola urlato come se fosse una notizia, dei moralisti da strapazzo che le fanno pulci sui 300 euro all’ora (e allora ? È un lavoro che ci piace o meno e costa quanto vale, se lo vale ). Vi do una notizia 😊😂😉: tutti i leader politici uomini hanno un consulente d’immagine. TUTTI. Spesso pagato anche molto di più di 300 euro l’ora, senza che nessuno abbia mai alzato un sopracciglio. Non è un problema di privilegio, che pure esiste e lei non ha mai pure negato. È come fa notare Lorenzo Tosa il solito, squallido, sessismo mischiato con un po’ di vetero populismo. Due facce della stessa medaglia. Infatti concodo con l'utente

 
Se si veste male, vi lamentate.
Se assume una tizia che le dice come vestirsi bene, vi lamentate. Le polemiche sulla consulente d'immagine sono a dir poco idiote. Sappiamo bene che quasi tutti i politici hanno i consulenti di immagine… chi li deve avere se non loro ? Comunque sono sicura che se si trattava di un politico uomo nessuno avrebbe trovato da obiettare niente …

Quindi    cari  amici     del  Fq     ritornate  in  voi   ed   smettetela  d'abbassarvi   a  quegli infidi  giornalisti    che   non  sanno   cosa  dire  pur  dire  pur  di  attaccarla  anche quando non lo merita  

27.4.23

A Tempio pausania nasce l'acquavite di ghiande, si chiama Làndhe

 https://sintony.it/news 27\3\2023

A Tempio nasce l'acquavite di ghiande, si chiama Làndhe

Il distillato è nato dall'idea di Fabio Depperu, agronomo con la passione dell'alambicco. Ma poi la tenacia del suo ideatore lo ha premiato

Poteva sembrare una bestemmia per i cultori del fil’e ferru, e infatti l’idea di produrlo con le ghiande ha fatto storcere il naso a molti. Ma Fabio Depperu, agronomo e titolare dell’Azienda Agricola “Frutti di Bosco” di Tempio Pausania, ci ha creduto e l’ha fatta. Del resto la ghianda è sempre stato un alimento, in tempi di carestia, come canta Peppino Mereu nella sua lettera a Nanni Sulis: “Famidos, nois semus pappande pan'e castanza, terra cun lande”. Dunque perché non provare a produrre l’acquavite di lande?Eccola . Dal cuore selvaggio di una terra unica nasce una pianta, la quercia, albero simbolo della Sardegna. Nata senza l’aiuto dell’uomo, lotta continuamente con la natura per avere uno spazio di vita. Da secoli cresce con maestosità e differenza, con forme disegnate dal vento, e di vento e di luce si nu tre. Il frutto della quercia è la ghianda, Làndhe, in lingua sarda

Sardegna – Làndhe, la prima acquavite di ghiande prende in sposa il  Gorgonzola piccante DOP – VINODABERE – Esperienze nel mondo del vino, della  gastronomia e della ristorazione

Fabio l’ha pensato e creato. E' un prodotto sardissimo e identitario e ha subito conquistato appassionati e sommelier. Il progetto, che all'inizio poteva apparire visionario, ha presto conquistato i ricercatori delle università di Sassari e di Udine che hanno collaborato al progetto e ha goduto del sostegno convinto di altri esperti, in particolare dell'agronomo Walter Carta. Certo, sulla carta il progetto era plausibile, dal momento che la ghianda è un frutto amidaceo. E dalla trasformazione degli amidi in alcol è possibile ottenere un mosto che, distillato, può portare a un’abbardente. Ci sono voluti anni di sperimentazioni e ricerche prima di arrivare a un risultato soddisfacente. Ma alla fine i sacrifici di Fabio sono stati premiati.
Il suo percorso inizia nel 2009 con i piccoli frutti che coltiva e serve nei migliori resort della Costa Smeralda. Coltiva in campo aperto dall’uva spina alla mora, dal ribes al mirtillo. Questa produzione stagionale, però, non gli basta più: vuole arrivare all’essenza, conservarla, immobilizzarla nel tempo. Ecco perché pensa alla distillazione: presenta un progetto europeo in collaborazione con la facoltà di Scienze Agroalimentari per l’Università di Udine, allestisce una microdistilleria e crea i primi distillati monofrutta.
Poi arriva l’ispirazione con la ghianda. Ma l’idea di farne un distillato sembra una follia. Non ci sono precedenti, non sarebbe teoricamente neppure possibile metterla in commercio perché mancano testimonianze sulla sua edibilità. Fabio inizia un lungo percorso di ricerca in tutta Europa, di studio della storia, contemporaneamente alle analisi effettuate nei laboratori dell’Università. L’obiettivo è ottenere il via dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli  e dall’Ispettorato centrale repressione frodi al commercio di questo prodotto.

 

In Sardegna la prima acquavite di ghiande al mondo: esperienza unica di  sapori e profumi | News - SardegnaLive

 

Fabio vince la sua (prima) battaglia e così può continuare ad accendere il suo microalambicco da 140 litri a fiamma diretta e distillare quel raccolto tanto faticoso da ottenere. "Le ghiande - spiega - non ci sono tutti gli anni. Ad esempio la sughereta sperimentale Cusseddu Miali Parapinta di Nuchis nel 2019 era così piena di ghiande da non poterci camminare, nel 2020 e nel 2021 al contrario era completamente sgombra per colpa del Maestrale che l'ha colpita in fioritura bloccando del tutto la produzione”. Questo però non è l’unico ostacolo: “Le ghiande possono essere raccolte solo da terra, perché solo queste sono sicuramente mature, ma sono anche più appetibili per gli insetti che ne apprezzano l’amido e per i cinghiali. Devono essere cernite una a una durante la raccolta e prima dell’utilizzo”. Risultato? Quattro persone non riescono a raccogliere più di due quintali di prodotto in una giornata che poi devono essere essiccati per almeno 35 ore. Una volta terminata questa fase, inizia la macinatura per trasformare le ghiande in uno sfarinato molto fine che viene inserito nel bollitore dove inizia la fermentazione. Il fiore del mosto subisce tre cicli di distillazione. La resa è infinitesimale: meno di un litro di distillato da un quintale di ghiande verdi. La produzione non supera le 2000 bottiglie l’anno, racchiuse in cofanetti di legno realizzati a mano e con le scritte in Braille.

 

Quercia spinosa | SardegnaForeste


Landhè nasce dal bosco, da piante secolari. “Nessuno può pensare di piantare delle querce e raccoglierne i frutti  - continua - noi abbiamo scelto di prendere in affitto una foresta certificata FSC, poco o nulla antropizzata”.  Quelle ghiande si legano alla Sardegna di secoli fa e l’acquavite che se ne ricava è un ponte con quei boschi dell’Alto Medioevo, ne conserva il profumo. Un mix di castagna e nocciola, di falò spenti e di terra appena prima che cada la pioggia.

mi fanno ridere quei cristiani che parlano di pensiero unico

Non condivido  i  toni   del post    riportato sotto    ma  nella  sostanza  ha  ragione .  i  tempi  sono  cambiati  ,   ed  tornare inietro  è  solo  nostalgia  . si può  essere   anche  credenti  ( nel  nostro  caso   cristiani  o  cattolici ) in modo laico  e  non  solo  confessionale  .  Ma  soprattutto    non è solo  l'unica  cultura  della  nostra  identità  



Ugo Giansiracusa

Se c'è una cosa che mi fa ridere fino alla nausea sono i cristiani che parlano di "pensiero unico" per tutto ciò che non rispecchia la loro ideologia. Amico cristiano e amica cristiana, forse non ve ne siete del tutto resi conto ma per circa 2000 anni il pensiero unico è stato il vostro. Libri messi al bando, teorie scientifiche bollate come eretiche, massacri di credenti (cristiani anche loro) che avevano una lettura leggermente diversa del cristianesimo, massacri di "infedeli", curatrici messe al rogo accusate di stregoneria e via discorrendo. Dalle

leggi alla morale alla scienza passando per la politica e ogni aspetto della vita quotidiana era improntato al pensiero unico cristiano. È solo con l'illuminismo che si comincia ad affrancarsi da una visione religiosa di tutto. Ora io capisco che vi scoccia un poco aver perso questo primato e il diritto di fare i roghi e le crociate e restare totalmente impuniti per i vostri orrori grazie al fatto che erano in nome di una divinità. Però dovete prenderla con un poco più di filosofia ! Anche se nelle scuole non si insegna più che l'uomo è stato creato da Dio avete pur sempre le vostre chiese dove tramandare le vostre strampalate teorie. E si, capisco che un mondo che non consideri peccato mortale fare sesso fuori dal matrimonio, magari pure sesso omosessuale, vi metta in profonda crisi ma, non so come dire in maniera esaustiva...ah, si: cazzi vostri. Lungi dall'essere un pensiero unico come lo è stato quello cristiano per due millenni, oggi puoi scegliere liberamente. Concordo nel fatto che questo possa creare un poco di confusione. I tempi andati in cui senza alcuna scelta battesimo, cresima, comunione, matrimonio 6 o 7 figli e via. E se non ti omologavi fiamme eterne! Comunque quei tempi sono passati. E capisco che guardiate certe teocrazie mediorientali con una certa invidia. Però, ecco, noi no. Ma la cosa bella di un mondo senza pensiero unico (benché voi pensiate il contrario) è che c'è la totale libertà di mandare i vostri figli in scuole cristiane. Poi potete mandarli al catechismo. In estate al Grest. In vacanza ai ritiri spirituali. Insomma, liberi di fargli vivere una vita di merda secondo la vostra ideologia. E finché siete liberi e libere di indottrinare i vostri innocenti figli con una marea di orribili e dannose corbellerie vi pregherei di astenervi dal parlare, proprio voi, di pensiero unico.

Cordialmente.

perché le persone discriminano? Perché la gente non si limita a vivere la propria vita invece di entrare nel merito di quella degli altri» ? Dario de Judicibus

 Un amico mi ha domandato: «Dario, ma perché le persone discriminano? Perché la gente non si limita a vivere la propria vita invece di entrare nel merito di quella degli altri» ?

Ci ho pensato molto e alla fine sono giunto a una conclusione, probabilmente inaspettata, sicuramente non ortodossa: è solo uno dei tanti meccanismi con i quali un gruppo di individui elimina un altro gruppo dalla lotta per il potere e la sopravvivenza. Non è un caso che spesso vediamo questi comportamenti anche fra i nostri parenti più vicini nel regno animale: i bonobo e gli scimpanzé. Se sei il più forte o il più furbo è facile avere la meglio, diventare l'alfa, quello che comanda. Ma se sei il più debole? Se vuoi comunque conquistarti una posizione che non sia proprio alla base della piramide, cosa fai? Devi eliminare quanti più concorrenti possibili, quanto meno quelli che starebbero un gradino sopra a te per intelligenza o forza. E allora ti attacchi a qualcos'altro, a qualcosa che con l'intelligenza, la forza o comunque le qualità individuali non ha nulla a che vedere, qualcosa che possa tagliare fuori di colpo intere fette della popolazione dalla corsa al potere. È una donna, è nero, è omosessuale, appartiene a quella etnia o crede in quelle divinità. Insomma, qualsiasi
cosa va bene, purché di colpo metta un'intera fetta di individui al piano di sotto, in fondo alla piramide. Sei maschio, bianco, sei cristiano, sei etero: allora sei superiore a tutti quelli che non lo sono, poco importa se sei un cretino, debole e senza spina dorsale. Sei salito di qualche gradino e il potere, che sa che sei debole e stupido, ti adora, perché non rappresenti un pericolo, anzi, fai da cuscinetto a quelli davvero pericolosi che tuttavia sono stati sbattuti in fondo alla fila per ragioni del tutto strumentali.
Il brutto è che il meccanismo funziona così bene che anche chi è discriminato non è esente dal discriminare. E così ci sono donne e omosessuali razzisti, persone di colore omofobe e misogine, religioni che si combattono a vicenda, etnie che discriminano altre etnie pur essendo a loro volta discriminate. Minoranze dentro minoranze dentro altre minoranze, o magari anche maggioranze, come nel caso delle donne, poco importa. Così si crea una gerarchia non più basata sulle capacità e sulle qualità, ma in base a parametri del tutto strumentali, parametri che permettono di avere in cima alla piramide un piccolo gruppo di potenti che campa sulla pelle di tutti gli altri. Un piccolo gruppo davvero paritario, perché formato da uomini, donne, persone di colore e omosessuali che si nascondono tutti dietro alla stessa maschera aristocratica di dinastie inattaccabili e consolidate anche in quelle che chiamiamo democrazie. Re e regine, dittatori, presidenti, dinastie di industriali, capi di organizzazioni più o meno legali. Loro possono essere quello che vogliono: possono essere di qualsivoglia genere, colore, orientamento sessuale o fede religiosa. Magari non lo fanno sapere, ma vivono la loro vita a spese di tutti gli altri, pur essendo quello che a tutti gli altri è negato, perché la prima cosa in assoluto che devono negare agli altri è il potere. Tutto il resto è solo funzionale a questo. Perché le persone discriminano, quindi? Perché è più facile dimostrare che un altro è inferiore a noi piuttosto che sia superiore, specialmente se tale "dimostrazione" non si basa su un'onesto confronto di qualità ma su evidenze oggettive del tutto irrilevanti come il colore della pelle, l'etnia, l'orientamento sessuale o il genere. Sei una donna? È evidente. Sei di genere fluido? È evidente. Sei di pelle scura? È evidente, facile da dimostrare: non significa nulla, quindi è perfetto per affermare che sei inferiore. Tu invece devi dimostrare che io sono un cretino e sebbene in molti questo sia evidente, è un po' più difficile da fare. Magari perché a quel punto ti denuncio per diffamazione. Tu invece non mi puoi denunciare per diffamazione per aver detto che sei una donna o che la tua pelle è nera. A me basta solo far passare il messaggio che tutto ciò è sufficiente per tagliarti le gambe, impedirti di studiare, di accedere a posti di comando, persino di esercitare determinati mestieri. Alla fine, e purtroppo è successo spesso nella Storia, per negarti persino il diritto di esistere.

26.4.23

Le partigiane sarde: il 25 aprile è il giorno giusto per riscoprirle perchè sono Tante, ma poco note. La storia di Assunta Manca di Bultei

 


Emigrate nella Penisola, dove si erano sposate oppure lavoravano. Alcune appena ragazzine, altre già adulte, figlie, sorelle, fidanzate o mogli di partigiani. Oppure donne libere, emancipate, con una forte coscienza sociale e politica. Sono tante e quasi tutte poco conosciute le partigiane sarde. Come l’infermiera Assunta Manca di Bultei.
Gregarie e combattenti: le donne ebbero un ruolo cruciale Dagli schedari le storie di tante partite dalla Sardegna

Sassari Emigrate nella Penisola, dove si erano sposate oppure lavoravano. Alcune appena ragazzine, altre già adulte, figlie, sorelle, fidanzate o mogli di partigiani. Oppure donne libere, emancipate, con una forte coscienza sociale e politica che le spingeva a darsi da fare, a impegnarsi anche a costo della propria vita. Sono tante e quasi tutte poco conosciute le partigiane sarde, finite nell’oblio come la maggior parte delle donne che invece ebbero un ruolo cruciale durante la Resistenza. «Uno sminuimento che si manifesta già nella definizione che ebbero nei documenti: venivano classificate come “gregarie” invece che “combattenti”, quali invece erano, pronte a morire per la causa in cui credevano e per aiutare le persone che amavano. E quando entravano nelle città liberate, molto raramente le donne sfilavano in cima: stavano in disparte». Marina Moncelsi, ricercatrice, è la direttrice dell’Istasac, Istituto per la Storia dell'Antifascismo e dell'Età contemporanea nella Sardegna Centrale: « Soltanto di recente il ruolo delle donne è stato rivalutato, gli studi hanno fatto emergere come in quel periodo siano state fondamentali per mantenere i contatti tra i vari gruppi, tra i partigiani e le loro famiglie, per recapitare messaggi, viveri e anche armi. Potevano farlo perché a differenza degli uomini erano abbastanza libere di circolare, a piedi o in bicicletta. Tra le staffette ci furono anche parecchie donne sarde riconosciute come partigiane, come attestano le schede inserite nel Ricompart, sigla che indica l’Archivio riconoscimento partigianato. Nelle schede vengono riportati i dati anagrafici (anche del padre e della madre), le attività svolte nelle formazioni, la valutazione della parte della commissione che verificava la domanda». E la respingeva nel caso il ruolo svolto dalla richiedente non venisse confermato da altri componenti del gruppo e dai testimoni. Ecco alcune delle donne sarde partigiane: a Roma e nel Lazio furono operative Fulvia Duce nella brigata “Toninelli”, Anna Fiori dall’Asinara nella brigata “Cristiano sociale”, Mariuccia Murgia da Orune, Maria Assunta Manca, azionista di Bultei, di cui raccontiamo la storia in queste pagine . E poi ancora Gemma Ledda di Gesturi nella brigata “Bocca” di Chivasso, in Piemonte, nella “Divisione Garibaldi” Maria Bachis da Siliqua e nelle Sap la compaesana Adalgisa Pisano. Combattenti sarde presenti anche in Emilia Romagna: a Bologna Giovanna Usai da Santa Teresa di Gallura nella brigata “Masia”, a Reggio Emilia la sassarese Maria Iolanda Doria, il cui nome vero era Maria Sole Nieddu, a Modena Vladimira Inzaina da Calangianus: queste ultime due sono tra le pochissime classificate come “partigiane combattenti”. Ancora, a Reggio Emilia, Eleonora Zedda di Tiana: staffetta e crocerossina, fu trasferita in un campo in Germania ma fu liberata dagli alleati e ritornò in Sardegna, dove morì nel suo paese d’origine.


 



Riflessioni a caldo sul 25 aprile 2023 parte II

 



Dopo   l'ubriacatura     in  gran parte     retorica  come  sempre   , ma  quest anno  ancor  di  più  per  il  l fatto   che      questo  sarebbe  stato il   primo  25  aprile    con degli

 esponenti   che   che     si rifanno  al  fascismo   o  quanto meno    tengono    una  posizione  ambigua   ed  in  doppietto  (  vedere    vignetta  a  sinistra    del  FQ del  25\4\2023  )  su   tali  eventi     che sono   alla base  della   stria  repubblicana    ecco  alcune  mie  riflessioni . 

Finiamola con usare il termini a sproposito . La memoria condivisa è un utopia .
Infatti Stefano Massini racconta la toccante storia di don Pietro Pappagallo, uno dei tanti sacerdoti uccisi nella lotta di Liberazione. E nel riavvolgere il nastro, Massini cerca la risposta alla grande domanda sul perché il 25 aprile ancora susciti polemiche e divisioni. Ma la Storia, se letta con attenzione, offre sempre una lucida radiografia dei fatti, dei motivi, delle distorsioni.  


sentite    inoltre   cosa  dice   lo  stesso   Alessandro  Babero  






Ovvero chiedere ad una puttana se è vergine . Infatti






Se proprio  vogliamo   che   il 25  aprile  sia  festa    di  tutti\e   anziché  chiedere  patenti  di  antifascista   ed  ottenere    risposte  ipocrite     come  quelle  di  ALorenzo    Fontana    che  predica  bene  (  si dichiara  antifascista   ) e   poi  invece ha un lungo curriculum  e  se  ne  vanta  pure  fatto di rapporti con Putin e i suoi uomini e strette alleanze con i partiti neofascisti di mezza Europa. Oltre a prese di posizione contro Lgbt,   molto  vicine   all'omofobia  , aborto, eutanasia e Peppa Pig.  (  qui    ulteriori  news  ).  Oppure   in doppietto  da  giravolta   come  la  Meloni   che   da  un lato   giustamente,  anche  la  destra  liberale   ed in parte   quella   patriotica  ( La differenza tra patriottismo
e nazionalismo può sembrare a prima vista sottile. In realtà scava un solco profondo tra l'amore verso il proprio territorio e l'odio per tutto ciò che è straniero. lo spiega bene in NAZIONALISTI E PPATRIOTI il politologo Maurizio Viroli  )  si fa   portatrice    di un antifascismo    conservatore    elogiando    anche    se  ipocritamente ed per  opportunismo  visto che  non   ha  ....  il  coraggio     di prendere  una  posizione seria  ma       solo  di  facciata  (   come il  doppietto  di    Almirante  )    ha  elogiato   la  Bellunese,  Paola Del Din
quasi centenaria, fece parte della brigata Osoppo: fu medaglia d'oro e paracadutista dei servizi britannici: 

«Mi resi disponibile a portare messaggi. La politica non mi piace: tutti hanno fatto malanni»

                                Paola Del Din con Giorgia Meloni


«Una donna straordinaria» il cui coraggio «le è valso una Medaglia d’oro al valor militare, che ancora oggi, quasi settant’anni dopo averla ricevuta, sfoggia sul petto con commovente orgoglio». Così Giorgia Meloni nella sua lettera al Corriere della Sera in occasione della festa della Liberazione definisce Paola Del Din, una delle poche donne ancora in vita tra quelle che hanno partecipato alla Resistenza. La premier dedica a lei la giornata del 25 Aprile e cita le sue parole sulla Liberazione: «Il tempo ci ha ribattezzati Partigiani, ma noi eravamo Patrioti, io lo sono sempre stata e lo sono ancora».
Nata a Pieve di Cadore (Belluno), Paola Del Din il 22 agosto prossimo compirà cent’anni. Non ama l’aggettivo «partigiana», preferisce «patriota», così come Radio Bari definiva i primi combattenti volontari contro l’invasore nazi fascista. Si definisce apolitica, apparteneva alla brigata Osoppo di impronta risorgimentale, popolata da tre anime, la cattolica, quella del partito d’Azione e da militari regi confluiti dopo l’8 settembre 1943 (armistizio di Badoglio). Era studentessa di Lettere quando l’8 settembre ha scelto di fare la staffetta. Dopo la morte del fratello Renato, nella notte tra il 24 e il 25 aprile 1944, ha accettato di consegnare un plico di carte secretate per conto dei servizi segreti britannici. Renata il nome in codice, in onore del fratello. Quell’azione le è valsa la medaglia d’oro al valore. Dopo aver attraversato l'Italia ha consegnato i documenti top secret ai britannici ed è stata addestrata come agente e paracadutista dal servizio segreto di Sua Maestà, lo Special Operations Executive (Soe), ed è tornata nel Friuli occupato lanciandosi da un aereo con altri due agenti italiani nella missione Bigelow. [ ......]


Quindi  invece  di  chiedere    patenti  di  antifascismo   chiedete  e  pretendete    che   sciolga   le  organizzazioni      della   destra  extraparlamnetare  sui     cui  indirettamente  si appoggia    come   fece  l'Msi  . 




[ riflessione a freddo sul 25 aprile 2023 parte I ] Quant’è contemporaneo il 25 aprile. Anche se c’è chi nega la Liberazione e soprattutto vuole farne una memoria condivisa a tutti i costi



Esperienza esistenziale, fatto politico e organizzazione paramilitare. La Resistenza si comprende solo tenendo unite le diverse istanze di chi ha combattuto. E prestando attenzione ai tentativi di denigrarla o semplificarla
                                 da  https://espresso.repubblica.it/attualita/ del 24 APRILE 2023

                                                           di Luca Casarotti


Specie ai chiari di luna di quest’altra “notte della Repubblica” che è l’attualità, bisognerebbe avere sempre la pazienza di fare l’elenco delle cose dalle quali chi ha combattuto per la Liberazione ha voluto liberarsi. L’occupante nazista; la “repubblichina” di Benito Mussolini; lo sfruttamento del capitale; la disparità tra donne e uomini; il dominio coloniale dell’Italia
È ormai un’acquisizione degli studi storici interpretare la Resistenza a questo modo, cioè

scomponendola come attraverso un prisma, per scorgervi all’interno le diverse istanze di emancipazione che hanno dato forma a quell’unità di differenze in cui consiste il partigianato. Esperienza esistenziale, fatto imprescindibilmente politico e organizzazione paramilitare, la Resistenza non si capisce se non la si guarda nell’insieme di questi tre livelli. Nemmeno la si capisce se la si rimodella ogni volta all’uso e al consumo del momento, per quanto lo si faccia (talvolta) con le migliori intenzioni.
Ci sono, infatti, due modi di negare la Resistenza, speculari negli intenti, ma non dissimili negli esiti. Uno è l’aperta denigrazione, culto a cui un tempo si votavano i reduci alla Giorgio Pisanò, nel frattempo sdoganato a senso comune. Lo sdoganamento, beninteso, non va imputato solo agli scrittori di bestseller dal punto di vista dei vinti, che semmai l’hanno saputo captare e ne hanno profittato. Va invece ascritto ai cedimenti politici che si sono prodotti a partire dal passaggio di decennio Settanta-Ottanta (“L’aspra stagione” che dà il titolo al libro di Tommaso De Lorenzis e Mauro Favale) e poi con la crisi definitiva della “Prima Repubblica”.
Che cosa fa la vague dei denigratori? Descrive la guerra partigiana come un cumulo di crimini sanguinolenti e inspiegabili: il contrario di una liberazione. Così facendo, nega la dimensione esistenziale della Resistenza, ossia la sua moralità: l’aspirazione, cioè, a un’umanità opposta a quella dell’uomo fascista. Ma, a ben guardare, ne nega anche il valore militare, che era invece fin troppo noto ai nazifascisti (non stupiscano perciò le fantasticherie su via Rasella riciclate di fresco) e lodato dagli alleati. Lodato anche obtorto collo – va detto – perché da Londra e Washington non si vedeva propriamente di buon occhio il tipo di politicità che molte e molti di questi partigiani mettevano nell’agire.
L’altro modo di negare la Resistenza è quello elitista, di chi vede la Liberazione come appannaggio esclusivo di un’avanguardia in armi. Qui è invece la dimensione politica che rischia di finire offuscata: cioè il fatto che l’impresa della Resistenza non sarebbe stata tale senza il progetto di un nuovo Stato, che l’antifascismo politico era andato elaborando nei vent’anni della dittatura e nei venti mesi della Liberazione. Un progetto messo a punto sì da un’avanguardia, ma con una vocazione ugualitaria e universalistica.
Sarebbe comodo se il 25 aprile fosse il giorno a partire dal quale ci si può lasciare il passato alle spalle, perché tutto ricomincia da zero. Ma intendere così questa data significherebbe relegare la Resistenza fuori da una contemporaneità che invece ci appartiene, fosse anche solo perché dobbiamo ancora capirla fino in fondo. E l’oblio è l’inverso della comprensione.

25.4.23

Il calciatore che uccise Mussolini: Michele Moretti (ovvero il commissario Gatti)

  da   https://www.corriere.it/  del  25\4\2023

Fu idraulico e celebre partigiano tanto da avere un ruolo importante a Dongo. Ma fu anche terzino e poi ala della Comense, giocò in B e in C e perfino il c.t. Pozzo lo valutò per la Nazionale, ma non lo convocò

Il calciatore che uccise Mussolini: Michele Moretti (ovvero il commissario Gatti)

Il calciatore, l’idraulico, il partigiano, ma soprattutto il giustiziere di Mussolini. Quella di Michele Moretti, conosciuto dai compagni della Resistenza come Pietro Gatti, è una storia quasi leggendaria, ma che intreccia sport e politica in uno dei momenti più drammatici e significativi per l’Italia. Nato a Como nel 1908 da padre ferroviere, le sue imprese sportive vennero presto dimenticate di fronte al ruolo che ebbe con i partigiani nella cattura e nell’esecuzione del Duce, tanto dall’aver combattuto con i partigiani prima e l’esser fuggito in Jugoslavia e Unione Sovietica poi, quando dietro la fuga rimase irrisolto il mistero di un presunto bottino in milioni di lire dell’epoca sottratto alla Repubblica di Salò e agli ultimi gerarchi fascisti.
Ma quello che pochi ricordano è che come calciatore giocò come terzino e poi ala nella Comense fra il 1927 e il 1935, protagonista di una stagione fantastica in serie C, dove la squadra non perse neanche una partita con ben 90 gol segnati. Nel complesso giocò 4 campionati cadetti con 83 presenze all’attivo, fino alla stagione del 1933-34 quando, perdendo per 4-2 con il Bari, vide sfumare all’ultima giornata la promozione in A conquistata invece dalla Sampierdarenese (antenata della Sampdoria). Ebbe anche la possibilità di vestire la maglia della Nazionale i giocatori visionati da Vittorio Pozzo, unico allenatore a detenere ancora oggi il record di due Mondiali di calcio vinti, giocando fra gli azzurrabili ebbe un comportamento altalenante, focoso e discutibile, mostrando presto la sua indole combattiva, anche nella vita.
A casa, il ragazzo che per sopravvivere all’epoca lavorava in realtà come idraulico a Maslianico (Como), aveva sempre ascoltato il pensiero di alcuni esponenti del socialismo italiano e straniero, come Costa, Turati, Prampolini e naturalmente Marx. Nel 1944 prese parte anche a degli scioperi, prima di lavorare in Austria, in una succursale della Gerenzana a Pols, quando la sua storia sarebbe diventata famosa. Era fuggito, ma mantenendo sempre i contatti con i vertici comunisti nell’Italia settentrionale durante la Resistenza. Fu il 25 aprile del 1944, esattamente un anno prima della Liberazione, ad abbracciare pienamente la causa dei partigiani sulle Alpi Lepontine, sulla sponda occidentale del lago di Como e del lago di Mezzola. I compagni raccontavano che avesse tante vite quante ne hanno i gatti, fino a quando non fu chiaro che il fascismo era caduto e che il Duce stava fuggendo oltreconfine.
Come commissario politico della 52esima Brigata Garibaldi «Luigi Clerici», operante sul monte Berlinghera, intercettò un gruppo di soldati tedeschi, che fuggendo provava a razziare abitazioni, opere d’arte, ricchezze e quello che potevano. Catturati i fuggiaschi la scoperta: Benito Mussolini e la compagna Clara Petacci, insieme ad altri fedeli gerarchi, erano nascosti fra gli ostaggi. Moretti chiese consiglio ai vertici militari comunisti, ma presto si decise per l’esecuzione del Duce. Dal posto di blocco di Dongo a Bonzanigo, frazione di Mezzegra, giunsero i capi partigiani Walter Audisio e Aldo Lampredi. La storia si fa confusa, ma sembra che Moretti prese parte alla fucilazione con una MAS-38 francese di calibro 7,65.
Da quel momento, in una fase storica estremamente confusa, l’ex calciatore venne accusato di essere fuggito con 33 milioni di lire, parte del tesoro della Repubblica di Salò, precedentemente sequestrato ai prigionieri. Un aspetto che fu oggetto anche di un processo nel 1957, ribattezzato «L’Oro di Dongo» ma il partigiano Gatti era già scappato in Jugoslavia, prima di riprendere nel dopoguerra il proprio lavoro di idraulico nell’allora Unione Sovietica. Si racconta della perdita della moglie, di quella di un figlio, anche se il resto della sua vita fu in buona parte avvolta nel mistero, compresa la sua testimonianza diretta sulla morte del Duce. Il calciatore-partigiano fu premiato con l’Abbondino d’Oro nel 1993, massima onorificenza del Comune di Como, dove nel frattempo era rientrato nell’ultimo periodo della sua vita, prima di morire per cause naturali il 5 marzo del 1995. Una storia fra le tante di anni complessi, ma che mostra come lo sport e la vita rimangano sempre componenti difficili da slegare e che si intrecciano nello svolgersi degli eventi.


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