9.3.21

Se è lo Stato a riscrivere la storia Il caso del consiglio regionale del Veneto taglia i fondi agli studiosi che non si adeguano alle cifre “ufficiali” delle vittime delle foibe.

  chi mi  sfotte perchè   parlo al di fuori della settimana     del giorno  del ricordo  [il 10 febbraio ]   e chi   continua   , nonostante lo  abbia spiegato più  volte  , a dirmi  come spunti sul  10 febbraio ma  lo ricordi  .  Lo invito  a  leggersi questo articolo . 


 DI SIMONETTA FIORI   da repubblica.it

Se è lo Stato a riscrivere la storia

Il consiglio regionale del Veneto taglia i fondi agli studiosi che non si adeguano alle cifre “ufficiali” delle vittime delle foibe. Chi mette in dubbio che fossero 12 mila è considerato “negazionista”
Può esistere una verità storica di Stato sancita da un organo legislativo ? Nell'anno che celebra Orwell, è toccato assistere a una riproposizione in piccolo del suo "Ministero della Verità", che riscrive la cronaca e la storia secondo i dettami di chi governa. È accaduto il 24 febbraio scorso in Veneto, dove il consiglio
regionale ha approvato una mozione con cui si chiede alla giunta di sospendere "ogni tipo di contributo a favore di quelle associazioni che si macchiano di riduzionismo o di negazionismo nei confronti delle foibe e dell'esodo istriano, fiumano e dalmata". E per chi fosse tentato di avanzare dubbi sulla nozione di "riduzionismo" o "negazionismo", lo stesso documento provvede a fornire il parametro attraverso il quale misurare ed escludere gli studiosi reprobi, ossia le cifre degli infoibati (12 mila) e degli italiani costretti all'esodo (350 mila) cui ci si deve attenere. E provvede a indicare anche l'interpretazione esatta di quegli accadimenti, definiti con le categorie precise di "pulizia etnica" e di "genocidio", tanto da richiamare il reato penale previsto dalla legge contro i negatori della Shoah.
Chi non si adegua alla verità storica decretata dai cinque consiglieri veneti firmatari della mozione - per la massima parte Fratelli d'Italia, Lega e Forza Italia - non è degno dei fondi pubblici per la ricerca. Ed è assimilabile ai negazionisti dell'Olocausto. Il che significa - a guardare bene le cose - che il meglio della storiografia italiana rischia di finire sul banco degli imputati.
Modellato a ricalco di un'analoga mozione approvata nel 2019 in Friuli Venezia Giulia, il documento ha provocato l'indignazione degli Istituti per lo studio della Resistenza - i più colpiti dal provvedimento - e dei più bei nomi degli studi storici, i quali hanno inviato ieri una lettera al presidente Mattarella per richiamare la sua attenzione su quella che si configura come "una tendenza pericolosa di manipolazione politica della storia". Un rischio gravissimo "per la libertà di ricerca, per il libero dibattito scientifico, e più in generale per la libertà di espressione nel nostro Paese", si legge nell'appello preparato da tre professori che operano a Padova - Filippo Focardi, Giulia Albanese e Carlo Fumian - e firmato da cinque società storiche, 49 istituti per la Resistenza e oltre duecento studiosi tra i quali Carlo Ginzburg, Mario Isnenghi, Andrea Giardina, Gia Caglioti, Enzo Traverso, Giovanni De Luna, Nicola Labanca, Simon Levi Sullam.
A parte il metodo assai discutibile - fissare a priori i risultati di un'investigazione che deve restare aperta - l'aggravante consiste nel contrasto tra le cifre indicate dai consiglieri veneti - con relativa interpretazione storiografica ("pulizia etnica" e "genocidio") - e gli esiti delle ricerche storiche più attendibili. "È inaccettabile che si pretenda di imporre una sorta di incontrovertibile verità di Stato. E la si imponga su basi storiografiche del tutto infondate", protesta Filippo Focardi, direttore scientifico dell'Istituto Parri che raccoglie la rete degli istituti per lo studio della Resistenza. "La mozione mette sotto accusa un testo come il Vademecum per il Giorno del Ricordo, frutto del lavoro dell'Istituto storico della Resistenza del Friuli Venezia Giulia. Chi ne ha guidato la ricerca, Raoul Pupo, è uno dei massimi esperti dell'argomento. Possiamo accettare che Pupo venga accostato di fatto a negazionisti antisemiti come David Irving o Robert Faurisson?".
L'aspetto paradossale della vicenda è che Raoul Pupo è stato uno dei primi studiosi a far luce sulle foibe, rompendo un lungo silenzio dettato non solo dagli imbarazzi a sinistra - era difficile rovesciare il mito resistenziale dei partigiani jugoslavi - ma anche dalla diplomazia internazionale che induceva i governanti italiani ad avere un occhio di riguardo verso Tito dopo la rottura con Stalin (lo ammise apertamente nel 2005 Giulio Andreotti, ricordando la lezione di De Gasperi: "Guardare sempre avanti e mai indietro"). Fin dagli anni Ottanta, Pupo e i suoi collaboratori hanno lavorato nell'ombra, negletti dalla politica e dall'editoria che fatalmente segue le mode mediatiche. Come si sente oggi nei panni del negazionista? "Mi dispiace non per me, ma perché un organo legislativo dello Stato si sia lasciato trascinare in una china pericolosa, dando un'immagine deformata di quello che è stato un vero dramma. Non capiscono che è proprio alterando la rappresentazione di una tragedia che si finisce per fare il gioco dei negazionisti". I negazionisti ci sono ma isolati, voci periferiche che non hanno influenza nel dibattito o fiammate di qualche singola sezione dell'Anpi o di qualche centro sociale che contesta gli spettacoli di Simone Cristicchi. Non è negazionista la ricerca storica che approda a risultati diversi rispetto a quelli rivendicati dalla destra nazionalista e riportati nella mozione. "Gli italiani infoibati dai partigiani di Tito nel 1943 e nel 1945 non furono probabilmente più di cinquemila", ragiona Pupo. "E quelli cacciati dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia non potevano essere 350 mila, come indica la mozione veneta, perché un censimento del 1936-39 calcola nelle terre dell'esodo 270 mila italiani. Perché storpiare i numeri? Si pensa forse di dare più peso a una tragedia che già con cifre minori non perde nulla della sua gravità ?".
Gli italiani espulsi furono tra i 250 mila e i 270 mila ma il fatto significativo - insiste lo studioso - è che fu costretto all'esodo il gruppo italiano quasi nella sua interezza: è questo che conta, non le cifre. Gli pare poi una follia parlare di "pulizia etnica". "La nazionalità italiana era un'appartenenza politica e culturale, non un fatto di sangue. E, pur nella loro terribilità, le uccisioni non sono assimilabili a un genocidio".
Ma perché oggi riattizzare l'incendio intorno a vicende sulle quali negli ultimi anni è stata elaborata una memoria pacificata, condivisa dalle diverse parti allora in conflitto? "A una memoria europea riconciliata", rileva Guido Crainz, "hanno contribuito l'allora presidente Giorgio Napolitano e più di recente Mattarella, artefice del viaggio a Trieste insieme al presidente sloveno Borut Pahor. Quella di oggi mi sembra un'offensiva fuori stagione, ma pericolosa, da parte di Fratelli d'Italia e di una destra ancora più estrema che le sta al fianco". Nella campagna mossa dai consiglieri veneti, anche Raoul Pupo vede "il tentativo di riappropriazione di quella storia da parte di una destra nazionalistica che si erge a tutrice di una memoria esclusiva". In linea con il vento sovranista che spira in Europa.
Un aspetto non secondario della vicenda riguarda l'accostamento improprio delle foibe alla Shoah, con il richiamo alla legge che punisce i negatori dello sterminio degli ebrei. "È un caso di Holocaustdistortion", dice Gadi Luzzatto Voghera, direttore della Fondazione Cdec e membro italiano dell'International Holocaust Remembrance Alliance che combatte gli abusi pubblici del termine. "Siamo in presenza non solo di un discutibile paragone tra Olocausto e foibe ma anche del richiamo strumentale a una legge che è stata pensata per colpire i negatori della Shoah".
Ma che cosa pensa il governatore Luca Zaia di una mozione che dà voce alla destra nazionalista? Sollecitato a intervenire sul tema, preferisce declinare l'offerta. I suoi collaboratori spiegano che la mozione riguarda il consiglio regionale, non la giunta da lui presieduta. In realtà si tratta di un pronunciamento politico che coinvolge anche la giunta e che comunque interpella il presidente della Regione. Che il suo silenzio voglia dire che non se ne farà niente? Ora gli studiosi si appellano a Mattarella, per evitare che la mozione veneta con il precedente friulano possa aprire la strada a "inaccettabili abusi interpretativi, a scopo di censura, da parte di corpi politici e amministrativi". Il "Ministero della Verità" deve restare confinato dentro le pagine di 1984. E dentro un'esperienza storica che non può essere d'esempio per chi vive in democrazia, a prescindere dalla geografia politica d'appartenenza.

Qui  non si vuole  negare  o  mettere   a  tacere  la storia    e  le  vicende  di chi   ha subito  tali indicibili  violenze   e la sradicalizzazione   dalla  propria terra  natia  . Ma  di  difendere la  ricerca  storica .  Infatti  anche  uno  dei primi storici  Raul Pupo  che ha  rotto  il  silenzio su tale eventi potrebbe  venire  accusato di negazionismo  in base  a tale legge  ,   vuol  dire  che  tale  legge  si tratta  di propaganda  .
Non  ha  tutti i  torti    Marcellus85 quando   commenta  l'articolo   : << sì, come esisteva una sedicente
sinistra che negava l'esistenza delle foibe e sputava addosso agli esodati istriani. Siamo sopravvissuti ai pericolosi citrulli di allora, speriamo di sopravvivere anche a quelli di oggi, che anche se vestono la casacca avversaria sono della medesima infelice razza umana >>
Il "Ministero della Verità" deve restare confinato dentro le pagine di 1984  d'Orwell . ..dice giustamente Simonetta Fiori. Invece , assistiamo quotidianamente su certi quotidiani , alcuni  di questi "organo ufficiale" di quel "MINISTERO" anche nel nome che per quel giornale rappresenta un ossimoro eclatante ad una completa mistificazione di quello che succede ed è successo ..una competa manipolazione dei dati e degli eventi. Le destre nazionaliste, xenofobe , razziste sono questo ..come cento anni fa : solo propaganda e menzogna , niente studio niente ricerca storiografica seria . Il mio timore (terrore) è che che queste destre ora in auge di consensi ci portino alla fine della pace perchè nei loro alfabeti esistono solo le parole "odio" e "guerra" da sempre

sfatiamo sulla musica classica in particolare quella sinfonica . Il caso dei notturni di chopin

 Infatti  chi non conosce  la  musica  classica     e  in particolare  quella  sinfonica   definendola  anticaglia  o  la  conosce  appena   perchè magari    avrà sentito   qualche pezzo come  colonna  sonora  di un film  , esempio  la nona  di Beethoven    ne  film    in Arancia Meccanica  di Stanley Kubrick      pensano  sia  scherzando  ma  [  sic ]  alcuni  anche  seriamente    che  i notturni   di  F.  Chopin (  1810-1849 ) 

    

 siano   ascoltabili   di notte    prima  di prendere  sonno  oppure   : << [...] ascoltate i Notturni chopiniani nel silenzio, ascoltateli fin tanto che dura quel sacello ovattato di sensazioni, quell’impalpabile dondolio di segreti, quel canto sinuoso. Che è la notte >>  (da https://www.digressioni.com/tenero-e-il-notturno-se-e-di-chopin/  )  . 
A  quanto    dice   l'articolo  sopracitato un fondo  di verità  c'è perchè  
  • Per la realizzazione di queste opere, Chopin prese spunto da composizioni che si adattavano facilmente alla sua indole sognante e tipicamente romantica.In un primo momento egli trasse la sua ispirazione dalle opere dell'irlandese John Field; tuttavia, diversamente da questi, componeva per esprimere le sue più intime sensazioni, piuttosto che per assecondare il pubblico.Le composizioni di Chopin sono il trionfo del canto, del bel suono e dell'espressione; esse sono per lo più opere in forma di una monodia accompagnata strutturate in A-B-A a volte con una breve coda con carattere di Berceuse.Il maestro polacco le insegnò spesso ai suoi allievi affinché imparassero che cosa intendesse per suono e per tocco.Rispetto a quelli di Field, i Notturni di Chopin hanno (spesso, ma non sempre) la peculiarità di essere divisi in più sezioni tematiche contrastanti: troviamo accostate varie espressioni di stati d'animo (dolci, tenere, sognanti, ma anche violente) ed inoltre un uso più raffinato degli abbellimenti che ora si fondono totalmente con la melodia. Tema ricorrente sono lo spirito polacco e il Bel Canto italiano, legati indissolubilmente a tutte le opere del compositore.                                       [...] da https://it.wikipedia.org/wiki/Notturni_(Chopin)

Ma   comunque   si va a gusti, e dunque ci si può immergere come non mai nel piacere del soggettivo,  infatti   , io  la  penso     come   l'introduzione    citata  sopra    di  wikipedia  .  Infatti  mi   chi lo ha detto che tale bellissime musiche debbano essere ascoltate solo di notte ? A volte , come oggi , basta un cielo cupo e piovoso . Ma anche un " litigio " con tanto di cancellazione da parte di un contatto social a cui tenevi , per certe sue posizioni retrograde sula musica contemporanea giovanile vede le polemiche suscitate dai Maneskin e da Achille Lauro a questa edizione di San remo . Infatti gli ho scritto : << che la sua posizione mi ricorda mia prozia di 105 anni >> e d'impulso \ a caldo dimenticandomi che lke parole sono un ar,ma << l'autore di questo post sembra un seminarista mancato ? >> Trovate qui https://bit.ly/3cf3pGj in questo suo post il nostro scazzo.  
concludo   , sempre  rimanendo in  tema  con  questo bellissimo  pezzo   di  un mio  contatto

8.3.21

chi lo ha detto che per celebrare - festeggiare l'8 marzo di debba per forza essere femminista




Chi lo dice che lottare per la parità di diritti fra i sessi sia necessariamente essere femministi . Infatti come dice Silvia Gola sulla newsletters del quotidiano domani ( www.editorialedomani.it )  nell'articolo  ripreso dal post  odierno   : << Si è sempre la cattiva femminista    di qualcun’altra >>   Infatti

[...] L’8 marzo non è la giornata delle femministe, ma la giornata internazionale delle donne. Questo, forse, varrebbe la pena che venisse ricordato. Perché né una donna è per forza femminista (peccato), né una persona femminista è necessariamente donna (sorpresa!).
Ma è doveroso ricordare che oggi si celebrano tutte: anche quelle non femministe. Anche quelle che si sentono cattive femministe. [...] 
Ora     chi   è la cattiva femminista ?
Analizzando  la  definizione  di   


femminismo
/fem·mi·nì·ṣmo/
sostantivo maschile
  1. Storicamente, il movimento diretto a conquistare per la donna la parità dei diritti nei rapporti civili, economici, giuridici, politici e sociali rispetto all'uomo: le prime manifestazioni del f. risalgono al tardo Illuminismo e alla Rivoluzione francese; estens., il movimento, ampio e articolato, che tende a porre l'accento sull'antagonismo donna/uomo, nel sociale come nel privato, e a realizzare una profonda trasformazione culturale e politica, riscoprendo valori e ruoli femminili in senso antitradizionale.

  La cattiva femminista è una femminista non impeccabile, con gusti discutibili che sembrerebbero puzzare   ( anzi  lo sono  )  di patriarcato    da km di distanza. Una che sente di dover confessare i suoi “guilty pleasure” come fossero marachelle o che  usa i  termini  orribili    tipo  :   donna  con le palle   , ecc .





Infatti
Forse ---- sempre   secondo  l'articolista --- sono una cattiva femminista perché non mi sono indignata davanti al tutorial su Rai2 che insegnava alle donne come fare la spesa sexy e sedurre gli uomini incontrati al supermercato.
Certo, non mi ha fatto ridere – non era ciò che definirei spassoso   o  sensuale  – ma l’ho guardato come si trattasse di un insetto su una foglia: totalmente in sintonia con l’ambiente circostante.
O forse sono una cattiva femminista perché una sera, fuori da un locale, ho visto un gruppo di ragazzi darsi di gomito mostrandosi a vicenda alcune foto di ragazze, li ho sentiti usare un linguaggio in cui la donna è solo un passivo pezzo di carne, e non sono riuscita a dire nulla.
O, ancora, forse sono una cattiva femminista perché leggendo che Coop ha scelto di abbassare temporaneamente l’Iva al 4 per cento sugli assorbenti non mi sono sentita di additare subito la faccenda come una goffa mossa di pink-washing necessariamente dannosa. Ne prendo atto e rimango con la speranza che anche questo possa favorire la sensibilizzazione sul tema presso istituzioni, società civile e media.
Poi leggo un commento: «Non c’è niente di cui gioire, gli assorbenti inquinano, ormai l’unico modo è passare alla coppetta e agli assorbenti lavabili, dovreste averlo già capito!».
Ecco, è successo di nuovo: ho gioito per la cosa sbagliata.
Sono una cattiva femminista perché, in ognuna delle tre situazioni, immagino come si sarebbe comportata una buona femminista: davanti al programma si sarebbe indignata; davanti al gruppo di idioti si sarebbe fatta sentire; alla notizia della Coop avrebbe risposto che non bisogna rallegrarsi per queste briciole.
La compagna che sbaglia
Come   lei     io la  vedo cosi  
Oggi è l’8 marzo: non è la giornata delle femministe, ma la giornata internazionale delle donne. Questo, forse, varrebbe la pena che venisse ricordato. Perché né una donna è per forza femminista (peccato), né una persona femminista è necessariamente donna (sorpresa!).
Ma è doveroso ricordare che oggi si celebrano tutte: anche quelle non femministe. Anche quelle che si sentono cattive femministe.

Ora    concordo   con lei   lo riporto  integralmente   questo pezzo. , perchè   viene male   a  sintetizzarlo   ma  soprattutto   perchè    considero   l'8 marzo  è di tutte le donne  e  non solo di   una parte  delle  donne  

Facciamo un passo indietro. Chi è la cattiva femminista?
La cattiva femminista è una “compagna che sbaglia”: crede fermamente nella parità di genere, eppure a volte indulge in abitudini e comportamenti apparentemente in contraddizione con l’ideale femminista. È una specie diffusa a ogni latitudine, e si distingue per un discreto quantitativo di ansia in merito al suo essere femminista.
La cattiva femminista, insomma, è quella che non sempre ce la fa, non è impeccabile, e ha paura che il femminismo sia un sistema a punti in cui ne puoi perdere tre ogni volta che ti senti chiamare “tesoro” e non reagisci. O se conosci tutta la discografia di Eminem a memoria. O se un paio di film di Polański sono tra i tuoi preferiti. O se hai fantasie romantiche su villetta bifamiliare, marito e marmocchi.
Bad feminist – cattiva femminista – è l’espressione che dà il titolo alla raccolta di saggi di Roxane Gay, docente, romanziera, saggista e giornalista americana di origine haitiana.
Come l’autrice scrive in un passaggio fondamentale, nonché fulminante inizio del suo Ted Talk del 2015: «Sto fallendo come donna. Sto fallendo come femminista. Accettare gratuitamente l’etichetta di femminista non sarebbe giusto nei confronti delle buone femministe. Se lo sono, femminista dico, sono una cattiva femminista. Sono un casino di contraddizioni. Ci sono molti modi in cui sto facendo male il femminismo, almeno secondo i modi in cui la mia percezione del femminismo è stata plasmata dal mio essere donna» (traduzione mia).
Attraverso questa etichetta, Gay vuole provocare per portare avanti un ragionamento serio: ammettendo di amare il rosa, di dimenarsi al ritmo di canzoni che hanno testi volgari, di aver voglia di essere accudita e di interessarsi di moda, Gay si incorona “cattiva femminista”.
Una femminista non impeccabile, quindi, con gusti discutibili che sembrerebbero puzzare di patriarcato da km di distanza. Una che sente di dover confessare i suoi “guilty pleasure” come fossero marachelle.
Farebbe molto ridere se non fosse che queste preferenze private, questi peccatucci veniali, fin troppo spesso vengono innalzati ad argomento serio. È assai curioso quanto, come società, siamo ossessionati e ossessionate da consumi, gusti e tendenze privati delle donne: un dettaglio anche secondario sembra poter restituire l’interiorità, gli ideali e i valori di una persona. Un dettaglio può fare la differenza tra buona e cattiva femminista.
Come può redimersi, dunque, questa nostra cattiva femminista?
Chiariamoci: i suoi comportamenti e gusti possono pure essere inappropriati, ma la cattiva femminista è pur sempre una femminista: lotta per l’uguaglianza dei generi, crede nella necessità di raggiungere parità politica, sociale ed economica, ed è convinta che una società migliore sia caratterizzata da identiche opportunità, giustizia sociale, libertà sessuale e riproduttiva, fine della cultura della violenza, rispetto delle scelte di vita.
Perché chi mette in dubbio questo non è una cattiva femminista: semplicemente non è femminista.








Prima di tutto sé stesse
Ma no, no: noi stiamo parlando di ben altre cose. Si è capito ormai che il cattivo femminismo si gioca su altri livelli: amare un certo colore, ascoltare un tipo di musica, non indignarsi ogni volta che si dovrebbe.
Non possiamo illuderci: non esiste redenzione per la cattiva femminista. Esiste solo una presa di coscienza basilare: una persona è prima di tutto sé stessa e solo dopo una femminista.
Sembra quasi che chiunque si avvicini al femminismo debba attraversare la fase della cattiva femminista finché non riesce a concepire che, in realtà, lo sta facendo nel modo giusto: non è possibile né utile sacrificare la propria personalità sull’altare di una malsana aspirazione a essere femminista buona, perfetta, impeccabile.
Se quindi, invece che un sistema a punti, ci mettiamo d’accordo e concepiamo il femminismo come una pratica quotidiana e un percorso, ecco che la buona e la cattiva femminista non esistono più ed emerge una nuova figura: la femminista in cammino.
Perché la cattiva femminista è la femminista che non ha ancora capito che solo attraverso il proprio essere sé stessa con tutti i dubbi quotidiani, i tentennamenti, solo andando per prove ed errori (ascoltando–ripetendo–migliorando), si è all’altezza del femminismo.
L’unico modo per coesistere insieme è sapersi dare una seconda possibilità quando si sbaglia, perdonare le incomprensioni, credere nell’auto-educazione e nel mutuo insegnamento: da pari ognuna insegna qualcosa in più all’altra. Rinunciare a essere guidate dall’ossessione morbosa per la quale sogni, abitudini, desideri e gusti che si consumano nella vita privata sanno dirci al 100 per cento se una donna è una cattiva o buona femminista.
Non per lasciarsi andare a un facile ecumenismo e chiamare femministe tutte le donne – anche quelle disinteressate al tema –, ma per dare la possibilità di riconoscere come femminista anche chi, a un primo sguardo superficiale, non si direbbe mai che lo sia.
Perché possiamo avere gusti discutibili e lacune in storia del femminismo ma soprattutto possiamo orientare le nostre azioni e il nostro attivo stare nel mondo. Ovvero parlare, discutere, cambiare opinione. Aprirsi a considerazioni più informate delle nostre. Decidere di approfondire perché ci piace un certo tipo di musica, perché ogni tanto abbiamo paura di esporci, perché siamo così fallibili.
Essere una cattiva femminista appare, a questo punto, non solo probabile ma imprescindibile: tutte siamo o siamo state cattive femministe in cammino verso la versione migliore di noi stesse. E camminare è già migliorare.
Lo diceva J.P. Sartre e possiamo dirlo anche noi oggi, al netto dei moralismi – reali o immaginari che siano: «È vero che non sei responsabile di quello che sei, ma sei responsabile di quello che fai di ciò che sei».
Che, aggiornato, potrebbe suonare all’incirca così: «Non sentirti in colpa per la cattiva femminista che sei, ma sentiti responsabile di ciò che fai per essere sempre un po’ migliore».

   non s che  altro  aggiungere    sia  a questo  articolo sia   a quanto  già  detto  nei precedenti post    se  non  la  classica     frase     buon 8 marzo a tutte.

donne che resistono in questo mondo di squali

 le  due  storie  riportate  sotto   confermano  quanto ho scritto ,  sempre   sulla  tematica   del 8 marzo ,   in  : << perchè    da  uomo festeggio  l'8 marzo  . esso non è  solo mimose  ma    anche  donne  che  hanno svecchiato l'italia  e  i suoi  costumi     come  Rosita Lanza di Scalea >>

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L'imprenditrice Ivana Ciabatti: "Nessuno ci credeva, ora tratto a tu per tu con chi estrae l'oro"
                                         di Maria Cristina Carratù

"Non bisogna mai pensare di non essere all'altezza. Dobbiamo credere in noi stesse e fare ciò che sappiamo fare, solo così si può emergere in un mondo di uomini"
"Mai pensare di non essere all’altezza di una sfida. Le donne devono credere nelle proprie competenze, e nei propri sogni, senza aver paura di fallire. Così, tutto diventa possibile".
Può sembrare un po’ troppo ottimista Ivana Ciabatti, 64enne signora aretina che ha messo insieme dal nulla la Italpreziosi di Arezzo (oggi azienda leader nella lavorazione, nel commercio e nel trading di metalli preziosi e punto di riferimento per il polo orafo italiano e internazionale, con fatturato di 6 miliardi e mezzo nel 2020), sfidando fuochi di sbarramento maschili, in patria e non. Ma lei ne è convinta: no, non è questione ottimismo astratto, dice, "solo di fiducia in se stesse". Proprio quello, purtroppo, che tanto spesso alle donne manca. La prova sta nella sua stessa biografia, che parte da un paesino di contadini nel casentino, dove la piccola Ivana "sogna, guardando il cielo, di andare sulla luna", per poi, più grande, usare i depliant delle agenzie di viaggio "per le prime trasvolate immaginarie". Finché arriva il primo viaggio vero, in autostop, e poi tutti gli altri, con mete sempre più lontane. E oggi che di mondo ne ha visitato «almeno due terzi», la signora può dire che il sogno dell’infanzia, intanto, è diventato realtà.
Ma c’è poi il resto. Sì, perché Ivana Ciabatti è una "imprenditrice autonoma", come tiene a dire, nel senso che ha fatto "tutto da sola". Ovvero, "facendomi aiutare, certo, quando è stato necessario, ma sempre mettendoci la faccia in prima persona, giocandomela con i miei mezzi". Il tutto, sia chiaro, senza affatto rinunciare alla famiglia, a un marito, e a due figlie educate anche loro, ovviamente, "a credere in se stesse", il miglior viatico per le giovani generazioni femminili. E così eccola, nel 1984, a 27 anni, trasformarsi da impiegata in un’azienda orafa in piccola imprenditrice in proprio, dopo aver contagiato con il suo entusiasmo "un socio finanziatore, che ha investito nel mio progetto", mentre lei, memore della parsimonia familiare, faceva benzina "a 10 mila lire a volta, per non spendere troppo".
E dopo poco, decidere il secondo salto: comprare la materia prima grezza da cui ricavare l’oro puro (in lingotti destinati agli orafi, agli investitori privati, ai caveau delle banche) direttamente dalle miniere. "Fu una rivoluzione, in Italia, allora, non lo faceva nessuno". Ivana fa le valigie, e, manco a dirlo, si mette in viaggio. L’impresa è ardua, il settore, ad ogni latitudine, dal Medio Oriente, all’Africa, all’America del nord e del Sud, all’Africa, all’Oceania, è dominato dai maschi e, dice lei, "credo di essere tuttora l’unica donna al mondo a trattare a tu per tu con gli estrattori, a chiedere di visitare le miniere". Follia? "Sì, ma in certi casi necessaria". Una volta, in Ghana, il re locale proprietario di una miniera le propone di diventare “regina madre’’, con tanto di rito di iniziazione: "Ho avuto una gran paura, ma lui voleva solo dirmi che mi dava fiducia".
In Arabia Saudita un suo interlocutore, dando per scontato di aver preso appuntamento con un uomo, si è rifiutato di riceverla, "ma io ho resistito, mi sono presentata per tre giorni di seguito, il terzo mi ha aperto la porta". Da allora, racconta la signora, "sono accolta ovunque con tutti gli onori, e la ragione è semplice: mi sono guadagnata la stima del settore", cioè dei maschi che lo presidiano, che pure hanno tentato di scoraggiarla con ogni mezzo (compreso il più usurato, il corteggiamento), senza però smuoverla di un millimetro.
E alle donne, da donna, Ivana vuole dirlo chiaro: "Lasciate perdere le quote rosa, che vuol dire non credere nelle proprie capacità, puntate su quel che sapete fare, che avete voglia di fare. E fatelo. Solo così si può avere ragione di un mondo maschile che frappone continui ostacoli, ma alla fine è costretto riconoscere il nostro valore". Banalmente: perché serve anche a loro.


La pilota Lara Rosai: "Le avances del mio capo quando lavoravo in falegnameria, l'ho denunciato e cambiato vita"

                                   di Ilaria Ciuti

A dicembre ha preso il brevetto di pilota di droni, li guida per una società che lavora per il Nuovo Pignone. Lara Rosai vive sola, con 800 libri, due gatti, le lunghe passeggiate, lo stipendio che basta per vivere tranquilla, il compagno che vive lontano, "gli voglio bene ma sono indipendente e non ho timore di stare da sola, sono serena, mi piace il mio lavoro".

"Adesso vivo felice con i miei droni"


Le piaceva meno ed era meno serena, quando dal 2006 al 2010, ha lavorato nell’ufficio di una falegnameria, tra segreteria e piccola amministrazione, sola con il suo capo perché lo stabilimento era fuori, qualche metro più in là. Il capo, prima tranquillo, un amico credeva Lara, poi sempre più arrogante: portami l’acqua, occupati del cane, prendimi le sigarette, se ti dà noia il fumo vattene fuori io non smetto, finché passa a chiederle incessantemente rapporti sessuali con espressioni volgarissime, mimiche oscene e prepotenti tentativi di "mani con le unghie gialle di nicotina" pesantemente addosso, nonostante i rifiuti di lei: "Se dico no, è no". Ma lui neanche prendeva nota. Fino a sbatterla contro il muro e rapinarle con la forza un bacio.
Per un po’ di tempo lei resta bloccata mentre sprofonda nel disgusto. A bloccarla il fatto che "allora ero piena di dubbi, ora ho imparato a fidarmi di me stessa", "il timore di non essere creduta, le donne tacciono per timore di non venir credute" e, soprattutto, il mutuo: "Avevo appena comprato casa, avevo fatto anni di lavori interinali, era il mio primo lavoro a tempo indeterminato, volevo pagarmici la vita".
Lara sprofonda, non dorme la notte, piange al suono della sveglia, ha la colite. Poi la misura è colma, "io non sono nata per servire, la mamma era una femminista e il babbo un sindacalista". Si ammala, nella psiche e nel corpo. Ma un bacio violento e la frase «o mi ubbidisci o ti sbatto fuori a calci» fanno scattare la molla. Al diavolo il mutuo, basta: "Sono scoppiata e meno male. Non volevo guardarmi allo specchio e non trovare più la Lara che ero". Va alla Cgil che le trova un’avvocata, l’avvocata capisce che dietro all’esclusivo racconto della prepotenza padronale c’erano anche le molestie sessuali, "quelle di cui allora non si parlava e io non sapevo che anche le parole sono molestie che si possono denunciare. Anche ora, spesso non si sa. Invece sapere aiuta a vincere".
Lara stava male, sindacato e avvocata la mandano a Pisa a medicina del lavoro, al centro per il disagio lavorativo. Due giorni di esami e test medici e psicologici. Esce fuori tutto, anche le molestie. A Lara viene riconosciuta la malattia professionale, lei denuncia, parte il processo penale per mobbing e molestie sessuali, l’azienda la licenzia in tronco e parte anche il processo civile per licenziamento senza giusta causa, lei vince l’uno e l’altro. "Sono procedure lunghe, estenuanti. Ma io ero forte perché mi credevano, bisogna credergli alle donne. Ho ripreso fiducia in me, in tribunale l’ho guardato spavalda ma lui ha abbassato gli occhi. No, non lo odio, l’odio consuma chi lo prova. Mi basta avercela fatta, non sentirmi codarda e lui impunito. Ancora oggi ti insegnano ad avere paura, che se sei donna sei debole, ma se non alzi la testa e stai zitta ti senti complice".
Poi. "Poi non trovavo lavoro. Se spiegavo cosa era successo, mi sbattevano fuori. Il mutuo, i soldi che non c’erano. Ma non avevo più paura. Ero uscita dall’inferno vittoriosa e rinforzata, ho iniziato a spargere curriculum come volantini". Ed ecco il lavoro e "il piacere del lavoro". Prima all’aeroporto "e mi sono vista sfilare davanti il mondo". E adesso in una società che lavora per il Nuovo Pignone, a occuparsi di una flotta di droni. "Sono una delle prime donne a pilotarli, devi sapere dove puoi o non puoi andare a quale altezza, come funzionano i droni in condizioni climatiche diverse, a che velocità li puoi spingere. È affascinante perché è qualcosa che inizia ed è in divenire".
Lara esce dal lavoro, per la passeggiata prima di tornare a casa, "ho fatto tutto da sola e sono soddisfatta. Comincio a non ricordare il passato".

7.3.21

donne coraggio





Lei è una di quelle che resta. Lo fa per amore della sua terra. Per amore della sua gente. Per amore di chi si trova a vivere sulla sua stessa terra, ma senza avere diritti. Lo fa perché ama la Calabria, la piana di Gioia Tauro con tutte
le sue contraddizioni. Lo fa contro le ingiustizie. Celeste Logiacco, sindacalista di strada e Segretario Generale della Cgil della Piana, lo fa perché è cresciuta così e non può essere diversa da se stessa. 
Perché restare?
«Scegliere di restare in Calabria vuol dire non rinunciare a costruire il tuo futuro nella terra in cui sei nata e cresciuta, vuol dire senza alcun dubbio preferire una sfida, con te stessa e con l’ambiente che ti circonda. Una sfida al presente, che diventa una speranza per il futuro. La speranza che questa terra, nella quale è più difficile restare che andar via, cambi, affinché i giovani non siano più costretti a cercare altrove prospettive e lavoro. Una terra, ricca di cultura, arte, storia e di bellezze naturali, che ha in sé le potenzialità necessarie per risollevarsi, migliorare, cambiare. Ma anche la speranza di “servire” a qualcosa, di contribuire a far andar meglio le cose, rifiutandone la semplice accettazione, la rassegnazione, o peggio ancora l’incapacità di cambiare. Sono i calabresi a dover cambiare la Calabria. Perché ci sono cresciuti, perché la conoscono, perché come me la amano in modo viscerale. So perfettamente che il cambiamento non avviene dall’oggi al domani, che niente migliora da sé, ma ciascuno di noi, decidendo da che parte stare, ha una sua, seppur piccola, ma indispensabile, parte nella storia della nostra regione, del nostro Paese. Sta a noi prenderci cura della Calabria e fare in modo che questa speranza non si trasformi in rassegnazione».







Quando hai preso la decisione di seguire le orme di tuo padre? 
«In Cgil dal 2006, dopo un anno di Servizio Civile e l’avvio dello sportello immigrazione, a febbraio del 2014 vengo eletta Segretario Generale della Flai Cgil della Piana di Gioia Tauro, a luglio del 2017 Segretario Generale della CGIL della Piana di Gioia Tauro, riconfermata il 20 ottobre 2018. Prima donna segretaria sia della Flai che della Cgil territoriale della Piana. Sono cresciuta in una famiglia di lavoratori, per me “luogo” assoluto di confronto e ricarica, in cui si respira la cultura del lavoro, la fatica insieme alla rivendicazione di migliori condizioni, la difesa dei diritti collettivi prima ancora di quelli personali. Il mio percorso di studi era ben lontano dal sindacato, ho studiato arte, prima al Liceo Artistico e poi all’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria, ma fin da piccola i miei genitori e in particolare mio padre, ferroviere iscritto Cgil da oltre quarant'anni, mi hanno fatto crescere secondo i valori della legalità e della giustizia; mi hanno fatto capire quanto è importante esserci e lottare per l'affermazione dei diritti di tutti; quanto sia necessario spendersi, ognuno per le proprie competenze, per provare a cambiare ciò che non va».


Donna in trincea in Calabria: più difficoltà in una scelta sola. Quanti ostacoli hai trovato? 
«Lavorare per la Cgil e nella Cgil non è un mestiere come un altro, ma è, e per me è diventata, una ragione di vita. Nel 1957, nel suo ultimo discorso alla Camera del lavoro di Lecco, Giuseppe Di Vittorio affermava: “La nostra causa è veramente giusta, serve gli interessi di tutti, gli interessi dell’intera società. Quando la causa è così alta, merita di essere servita, anche a costo di enormi sacrifici”. Per questo quando si ha la piena consapevolezza di servire una grande causa, una causa giusta, le difficoltà passano in secondo piano. È la causa che ti dà la forza e ti spinge a continuare, l’amore viscerale per questa terra, l’orgoglio di essere una donna calabrese, una donna del Sud, così come la convinzione, la visione e la certezza di poter ricostruire a piccoli passi un percorso collettivo di consapevolezza, di rivendicazione e dignità del lavoro; i risultati si ottengono con fatica e determinazione, è questo che importa, malgrado in tanti e in molte occasioni mi abbiano chiesto “ma chi te lo fa fare?”. Ovviamente sono consapevole dei rischi ai quali posso andare incontro, ma la determinazione e la voglia di lottare per riaffermare il diritto ad un lavoro ed ad una vita dignitosa di tutti, anche di tutti coloro che al di là del colore della pelle e dalla provenienza vivono nella Piana di Gioia Tauro mi porta a continuare. Non smetterò di sostenere, insieme alla CGIL, le ragioni del lavoro, della dignità sociale e della legalità, convinta che legalità significhi lavoro e di conseguenza normali condizioni di vita e inclusione».

Qual è stata la vittoria più bella?
«Da quando ho l’onore, oltre che l’onere, di dedicarmi alla difesa dei lavoratori, di chi spesso non ha voce, degli ultimi del territorio che rappresento, tante sono state le difficoltà incontrate, ma ancor più numerose le vittorie ottenute: dare piena applicazione al valore dell’uguaglianza, del rispetto delle regole e della legalità significa far prevalere le ragioni del lavoro e dei bisogni reali delle persone. Unire il mondo del lavoro, organizzare i disorganizzati vuol dire rendere visibili gli invisibili, soprattutto in un territorio difficile come la Piana di Gioia Tauro. Per questo la nostra attività si avvale del sindacato di strada, uno strumento d'azione sul campo essenziale per l'affermazione dei diritti e delle libertà, una pratica allo stesso tempo innovativa quanto antica. Una modalità e una sperimentazione fortemente voluta dalla FLAI CGIL e dalla CGIL per entrare sempre più a contatto con i lavoratori, in particolare con quelli che si muovono ai margini del sistema economico, affinché possano conoscere i propri diritti, le tutele di cui possono beneficiare e godere di più servizi. Tra le finalità prioritarie della nostra azione l'impegno costante per la riaffermazione della legalità nel mondo del lavoro quale presupposto per il riconoscimento dei diritti essenziali di cittadinanza. Per queste motivazioni, uscendo dalle sedi tradizionali del sindacato, numerose sono state nel corso degli anni le attività sul territorio, tra queste quella dello sportello informativo itinerante, punto d’ascolto e tutela su servizi, occupazione e famiglia rivolto alle donne migranti con la volontà di promuovere le politiche di genere e la realizzazione del principio di parità e non discriminazione. L'obiettivo è quello di prevenire e contrastare i fenomeni di emarginazione sociale, discriminazione e violenza sulle donne, potenziando l’attività CGIL con i servizi territoriali e le istituzioni al fine di garantire un sistema integrato di intervento. Partendo dalla Camera del Lavoro, tutto questo nasce anche dalla volontà di aprire nuovi spazi di socialità e di partecipazione per le donne: spazi reali dove potersi incontrare, “prendere parola”, restituire valore ai propri vissuti diventando parte attiva della vita del territorio in quanto cittadine pienamente titolari di diritti».

Qual è il tuo sogno? 
«Stiamo perdendo la capacità di sognare eppure l’Italia è costellata di straordinarie esperienze di cambiamento. Vorrei che dalla Piana di Gioia Tauro, dalla Calabria, arrivasse un messaggio diverso, di fiducia e speranza, di una regione bellissima, ma dalle mille contraddizioni, che cerca riscatto. Una terra fatta anche di esperienze concrete di chi è riuscito a ritornare, di giovani che, come me, hanno deciso di rimanere, di non lasciare la propria terra».

Di cosa c'è bisogno ora nella tua terra?
«Siamo la punta dello stivale, in cui la stratificazione delle disuguaglianze, aggravate ora ancor di più dalla pandemia, rappresenta il consolidamento di situazioni di estrema marginalità e povertà. Ciò che prevale è la percezione dell’abbandono e del disimpegno della politica da troppo tempo distratta e lontana dai reali problemi che caratterizzano questo territorio. Una terra dove l’agricoltura e il porto, snodo chiave nel cuore del Mediterraneo e del Mezzogiorno, rappresentano due realtà di primaria importanza all’interno del tessuto economico, sociale e lavorativo. Qui, dove giorno dopo giorno si perde qualcosa, dove il diritto all’istruzione, alla mobilità, alla salute e alle cure non è garantito in modo uniforme ed equo, i giovani, fuori dal processo produttivo e senza alcuna prospettiva, sono costretti ad andare via. Questa “emorragia sociale” causa il crescente spopolamento dell’intera Piana e ne impoverisce ancor di più le aree interne. Adesso per evitare che la crisi sanitaria, ora crisi sociale ed economica, non accresca ulteriormente le disuguaglianze, bisogna agire con responsabilità e determinazione, rimettendo al centro le persone e i loro bisogni. Ora più che mai abbiamo bisogno di una visione comune, di prospettive, di esperienze positive, dell’impegno di tutti e per far sì che questo avvenga è necessario che la rete delle realtà sane del territorio diventi sempre più stretta e ricca. Le forme di resilienza e creatività messe in campo negli anni sono la prova delle enormi potenzialità del nostro territorio.  Lo sviluppo e il riscatto della Piana di Gioia Tauro si concretizza, infatti, anche attraverso il sostegno agli imprenditori sani,  quali ad esempio Nino De Masi e Gaetano Saffioti, di giornalisti come Michele Albanese, di preti coraggiosi come Don Pino Demasi e tanti altri, figli di questa terra, compagni di viaggio, simboli di legalità della società che resiste e che testardamente ha deciso di dire no alla ‘ndrangheta e alla criminalità organizzata. Abbiamo bisogno di lavoro che si crea costruendo una cultura alternativa a quella mafiosa, non cancellando tutele e negando diritti. Solo con il contributo di tutti, ognuno per le proprie responsabilità, capaci di non rassegnarci, ma promotori di un’idea di Piana e città metropolitana che guardi al Mediterraneo, questa parte estrema del Sud potrà essere protagonista del cambiamento e del rinnovamento del Mezzogiorno e del Paese. Citando le parole del Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, sono convinta che quella contro la ’ndrangheta è una battaglia che è possibile vincere, nella speranza di trovare una forte convergenza sociale e politica su una battaglia di civiltà contro mafie e corruzione, due mali endemici che costituiscono una gravissima minaccia per il presente e il futuro di questa terra e del nostro Paese».                                                              




C’era una volta un paese fantasma...

Un borgo fantasma rinasce grazie all’audacia di un gruppo di donne legate alla propria terra

Gio 26 Nov 2020 | di Marzia Pomponio | sezione  Bella Italia




Un borgo medievale di circa duecentocinquanta anime, in gran parte anziani, con esercizi commerciali chiusi da oltre dieci anni, neanche un bar dove accogliere i turisti per un caffè, le abitazioni abbandonate da chi ha pensato di cercare fortuna altrove. Montelaterone, frazione di Arcidosso in provincia di Grosseto, alle pendici del Monte Amiata, in Toscana, sembrava ormai un paese fantasma a causa dello spopolamento iniziato tra gli Anni ’60 e ’70, destinato
a fare scomparire le radici della prima infanzia e giovinezza dei suoi abitanti, che lì da generazioni sono nati e cresciuti. Tra questi Stefania Cassani, 61 anni, tecnico radiologo presso l’ospedale di Grosseto, mamma di due ragazzi, che con otto donne di età e formazione diverse, ma unite dallo stesso legame alla propria terra, per contrastare lo spopolamento ha dato vita nel 2019 alla cooperativa di comunità “Il Borgo”, di cui è presidente. 



Una realtà imprenditoriale nata grazie ai fondi della Regione Toscana e l’Unione Europea, progettata dagli abitanti che sono produttori e fruitori di beni e servizi pensati per la promozione economica e sociale del territorio, insieme ad aziende e produttori locali. La cooperativa, che opera in collaborazione con il comune di Arcidosso, ha sede in un
immobile concesso dalla Curia, dove è stato aperto un ostello con 21 posti letto. Il cuore pulsante è il circolino “La Brizza”, un bar, l’unico nel paese, che è anche uno spaccio alimentare in cui trovare i prodotti tipici del posto, come olio e castagne, e un luogo dove gli anziani possono trascorre il tempo in compagnia, le mamme lasciare i propri bambini per brevi periodi, ognuno può accedere ai servizi internet grazie a una postazione digitale o svolgere attività culturali come presentazione di libri e mostre. 
«Montelaterone  era diventato un paese fantasma, ma avevo promesso agli anziani che ora non ci sono più che avremmo fatto qualcosa per salvarlo. Siamo partiti da piccole cose: lo spaccio alimentare, il pagamento delle bollette, sostituendoci a quei servizi che nel tempo sono scomparsi, come le Poste», ha dichiarato la presidente e promotrice del progetto, Stefania Cassani. La cooperativa in poco più di un anno di vita sta crescendo e al progetto dell’ostello si sono affiancate altre piccole realtà imprenditoriali, come l’Albergo diffuso, case messe a disposizione dai proprietari per l’affitto turistico, 






e la Bottega della Salute, per rispondere alle esigenze sanitarie, soprattutto dei più anziani, con servizi quali il ritiro dei referti medici, la prenotazione al cup di visite specialistiche, l’acquisto di farmaci, la convalida della tessera sanitaria, il pagamento del ticket, servizi che si sono intensificati in tempi di Covid con la distribuzione delle mascherine e la consegna degli ordini dei medicinali e della spesa alimentare . 
« Dopo tanti anni di vuoto è stata una grande scommessa, in cui però credevamo. Spesso chi veniva da fuori ci diceva che eravamo un po’ pazze. Effettivamente per scegliere un percorso del genere ci vuole un po’ di follia», dichiara la presidente, alla quale si deve la rinascita del piccolo borgo dove è tornata l’occupazione e soprattutto i turisti, attratti dai caratteristici vicoli stretti, i castagneti, l’offerta di un turismo escursionistico, archeologico, sportivo, attento alla sostenibilità e alla tutela ambientale. Montelaterone racconta la storia di una comunità che ha saputo fare squadra per sopravvivere ed è diventata ormai un unico nucleo familiare.          





quattro volte Mahmood di ©Daniela Tuscano

 


6.3.21

perchè da uomo festeggio l'8 marzo . esso non è solo mimose ma anche donne che hanno svecchiato l'italia e i suoi costumi come Rosita Lanza di Scalea

Alcuni miei lettori   , leggendo miei post  sul'8  marzo mi dicono  : <<  ma come  odi le giornate   palla  e  poi  celebri  l'8 marzo >>   se  si  fanno ,   anche   [ SIC ] delle  donne    la  rai non lom fa  incorporare  . lo    trovate  qui   .
"Per lei era fondamentale e prioritario “liberare” le donne dei quartieri popolari da sudditanza maschile e pesanti discriminazioni da genere. Nel 1961 trasformò la sua casa in una sorta di Consultorio dove insegnava alle sue concittadine le nozioni fondamentali di educazione sessuale. Insegnò loro l’uso del diaframma e di altri metodi contraccettivi per evitare gravidanze indesiderate e per sottrarle ad eventuali rudimentali aborti praticati dalle cosiddette “mammane”."
nota introduttiva Katia Menchetti utente del gruppo Facebook I-Dee da cui ho preso l'articolo , sotto riportato di https://vitaminevaganti.com/2021/02/27

L’EDUCAZIONE SESSUALE DI ROSITA LANZA DI SCALEA

Istruzioni cannula vaginale 

Tra queste, in Sicilia, ricordiamo Rosita Lanza di Scalea, che,inoltre, si impegnò quotidianamente per eliminare i tanti tabù che costituivano forti ostacoli all’emancipazione femminile .
Era nata a Palermo, il 3 Febbraio 1909, da Valentine Rousseau Portalis, di nobile discendenza e da Giuseppe Lanza di Scalea che fu l’ultimo sindaco della città, prima dell’avvento del fascismo. Come si usava a quei tempi, suoi insegnanti furono dei precettori privati e ciò costituì un grave rammarico per Rosita che avrebbe voluto frequentare la scuola pubblica. Dopo gli studi partecipò a un corso di formazione per crocerossina e in quell’occasione incontrò un giovane medico Filippo Fiorentino con cui convolerà a nozze nonostante l’ostilità della sua famiglia che avrebbe desiderato un genero aristocratico e non di estrazione borghese. Non fu un matrimonio felice e lei, per allontanarsi dal marito, per un paio di anni spostò la sua residenza in Nord Italia. Rosita era una donna molto colta che parlava perfettamente l’inglese. Sin da giovanissima, aveva uno spiccato senso di solidarietà e, dopo lo sbarco anglo-americano in Sicilia, ottenne dalle Forze Alleate vari incarichi tra cui quello all’assistenza all’infanzia nella sua città. Nel 1953 la troviamo militante nell’Alleanza Democratica Nazionale e poi nel Partito Socialista Italiano. Si iscrisse anche all’UDI partecipando attivamente. Per lei era fondamentale e prioritario “liberare” le donne dei quartieri popolari da sudditanza maschile e pesanti discriminazioni da genere. Nel 1961 trasformò la sua casa in una sorta di Consultorio dove insegnava alle sue concittadine le nozioni fondamentali di educazione sessuale. Insegnò loro l’uso del diaframma e di altri metodi contraccettivi per evitare gravidanze indesiderate e per sottrarle ad eventuali rudimentali aborti praticati dalle cosiddette “mammane”.  

Set di diaframmi prodotto dalla ditta Larré di Denver, Colorado (1950 circa) 

Le battaglie di Rosita continuarono, insieme a tante altre, per ottenere il referendum sul divorzio e quello sull’aborto. Sfidò dunque la legge allora vigente che fu in seguito abrogata molti anni dopo. Anche l’istituzione dei consultori avvenne soltanto nel 1975, ben quattordici anni dopo la costituzione del suo “privato e informale” consultorio. Una vita spesa interamente a favore delle donne ed anche della pace. Infatti già alla fine degli anni Cinquanta aveva partecipato ad Helsinki al Convegno dei Partigiani della Pace e nel 1961 alla prima” Marcia della Pace” a Perugia. Sempre nel 1961 fondò a Palermo un’associazione che aderiva alla ”Associazione Italiana per L’Educazione Demografica” (AIED), organizzando convegni e seminari. Questa sua attività la portò in giro per il mondo arricchendola di competenze specifiche che metterà a disposizione di tutti e tutte. La sua vita si spegne il 7 Settembre del 1984. Rosanna Morozzo della Rocca e Vincenzo Borruso ne hanno tratteggiato il profilo nel dizionario “Siciliane” a cura di Marinella Fiume. A Palermo una via porta il nome di suo padre ma per lei nessuna intitolazione.

concludo con questa  vignetta   presa   da fb 






è possibile che un caffe costi meno di 1.10 € ? il caso bar Ideal di Alia, paesino a 80 km di curve da Palermo dimostra di Si . basta volerlo

   è  possibile   che  un caffe costi  meno  di  1.10 €   ?  questa  storia      presa  dal  settimanale www.oggi.it     del  4\3\2021    dimostra  di  Si  . basta    volerlo  


  •                                    di Andrea Greco

    Persino il commissario Montalbano farebbe fatica a scoprire il segreto dei prezzi del bar Ideal di Alia, paesino a 80 km di curve da Palermo. Un caffè costa 30 centesimi; un’arancina 1 euro, come un trancio di pizza; una torta da un chilo 12. Prezzi che chi vive in una grande città non vede sui listini da quando in tv il sabato si guardava Fantastico e in strada i parcheggi erano pieni di 127 Fiat.

    «NOI CI SIAMO PER TUTTI»


    LA TITOLARE Alia (Palermo). La signora Maria D’Amico, 56, al bancone del bar Ideal, in cui lavora col marito Giuseppe.

    Persino il commissario Montalbano farebbe fatica a scoprire il segreto dei prezzi del bar Ideal di Alia, paesino a 80 km di curve da Palermo. Un caffè costa 30 centesimi; un’arancina 1 euro, come un trancio di pizza; una torta da un chilo 12. Prezzi che chi vive in una grande città non vede sui listini da quando in tv il sabato si guardava Fantastico e in strada i parcheggi erano pieni di 127 Fiat.

    «NOI CI SIAMO PER TUTTI»

    Eppure, la signora Maria D’Amico, che da 30 anni non si muove da dietro il bancone, giura che non ci sono segreti né magie, e riassume tutto in poche parole: «Io, mio marito e i miei figli, per far quadrare i conti lavoriamo per otto: far quadrare i conti tenendo i prezzi bassi è possibile solo se si fanno sacrifici e non ci si risparmia, ma le soddisfazioni sono tante». Senza dubbio, ma se con spirito meneghino chiediamo perché non alzano un po’ i prezzi per avere margine, la signora Maria quasi si offende: «Quando mio suocero aprì questo bar/pasticceria, negli Anni 60, decise che tutto doveva essere di qualità ma economico. La filosofia era rinunciare a un po’ di margine ma permettere a tutti di entrare nel nostro bar e passare cinque minuti di relax. Il bar in un paese ha anche una funzione sociale, tenere i prezzi alti significa rinunciare a una parte di clientela, escludere chi guadagna poco, e io questo sgarbo ai miei paesani non lo voglio fare». Una battaglia ideale, ma faticosissima da combattere. Ogni mattina Giuseppe Perrone e il figlio Benny iniziano a impastare alle quattro. La signora Maria e la figlia Santina
    dormono un paio di ore in più, ma alle 6 e mezza aprono. E poi avanti fino a sera. «A volte, d’estate, chiudiamo alle 2 di notte. Saliamo a casa, che è sopra il bar, una doccia, qualche ora di sonno e poi suona la sveglia e si ricomincia. Io ormai il sole lo vedo così di rado che basta un solo raggio per scottarmi la pelle». Il “bar più economico d’Italia” sta diventando famoso. Qualcuno arriva dai paesi vicini, sia per i dolci rinomati nella zona, sia per vedere da vicino questo piccolo portento, realizzato a colpi di sacrifici. Ai titolari tutto questo non può che fare piacere, e quando alla fine gli facciamo la domanda più ovvia, ossia se sono loro ad avere i prezzi troppo bassi o sono gli altri ad averli troppo alti, la risposta è secca: «Che vi devo dire? Penso che tanti prima di alzare i prezzi dovrebbero provare ad alzarsi un po’ prima alla mattina e mettersi al lavoro. Anche quello è un modo di far tornare i conti».

    «Sono l'ultima abitante del paese dove sono nata. Vivo all'antica, coi gatti, senza gas né elettrodomestici. Ma non mi sento sola»

    Vive senza gas, elettrodomestici e soprattutto in  solitudine . È la storia di  Anna , ultima abitante del borgho di Mossale Superiore, in p...