L’ispirazioneper il postd’oggi mi vienedal calendario da tavolo(o portatile ) di quest’anno, più precisamente dalladata del 19 marzo edito da http://www.paroledivita.orgregalatomi daun amico ( in realtà è un amicodi amici )di religione \ credo evangelico.
La frase in questione che mi’accingo ad interpretareè questa : << Fin quando, oh pigro,te ne starai coricato ? quandoti sveglierai dal tuo sonno? >> ( Proverbi 6:9).
Ora il sonno ( e siamo tutti d’accordo) è necessario nellavita di tuttigli esseri viventi . Ma non dobbiamo esagerare , onde evitareche si passi ad un altro tipo di sonno , quellopsichico \ mentaleche ci allontana dalle nostre responsabilità .Dobbiamo essere attenti peressere padroni di se stessi ( cit musicale ),essere svegli , guardare davanti a noi e chiederci o senza ovviamente esagerare ed opprimerci / tormentarcise siamo sulla stradagiusta o a qualcuno\adi cui ci fidiamo ochiedere a Dio ( sia chesi creda in maniera laica - spiritualesiachesi creda in mododogmatico ) d’indicarci il camminoda percorrere e poi deciderecon il libero arbitrio il suo piùgrandedonose
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seguirlo criticamente oppure acriticamente oppure non seguirlo affatto e procedere percontonostro.Solo cosipossiamo evitaregli effetti collaterali(cinismo esagerato , apatia , indifferenza , edonismo , pensierounico edappiattimento edmorale \ spirituale ci portano a restareferminella nostra immobilità’checi fadiventare semprepiù pigrienon solo .Ecco quindi che senella nostra vita quotidianaooperad’artese non siamovigilanti ed attenti (vederesecondo url ) rischiamo di diventaretotalmentemorti viventi o rimanere vivie non morti che camminanochenon distinguono più : la regola dall’eccezione ( parafrasi di vecchi amici di Francesco de Gregori ), il bene dal male checi sta attorno ma soprattuttos’annidadentro di noi .Solo noi ( poi ovviamente dipende dal punto di vista :-) ) possiamo e dobbiamo prima che sia troppo tardi liberarcio quanto meno attenuare quel torpore \dormivegliachesta prendendo prepotentemente piedenon solo in noi ma nel paese ( salvo qualche sacca di resistenza semprepiù effimera ). Ma se nonci facciamo forza , se non ci scuotiamo finiremo per distruggere non solo tuttalanostravitapassando dal sonno alla morte lasciando ai posteri solo macerieed incertezze . Rendendo vanoedistruggendo\gettando viae rendendo vanoi sacrificidi lacrimee sanguefattidai nostri avichepernoi sono morti edhannosputato l’anima pernoi combattendo( re,padroni fascisti & nazisti ) osacrificandosi(emigrazionedal sudal nordo nei paesi europeidal secondodopo guerra) . E’questo che vogliamo? Io N voi non so
Lo so che potrò sembrare nostalgico visto che in questi due blog riporto storie del passato o quanto meno legate ad esso , e che dovrei come mi suggeriscono in moltii lasciarmi alle spalle il passato e guardare al futuro .In parte loro hanno ragione non si puà rimanere sempre rimanere prigionieri del proprio passato ma è altrettanto vero che dobbiamo : << Una perfecta excusa para aprender a querernos\Es mirar al pasado con ansias de futuro \ Dejar la puerta abierta a todo caminante \Porque las sendas justas se hacen entre todos (....) >> Qui il resto del testo, che poi è la colonna sonora del post d’oggi,di Una Perfecta Excusa dei Modena City Ramblers tratta dall’album Radio Rebelde 2002 ). Infatti non si può guardare al futuro e andare avanti senza aver sapere chi siamo e da dove veniamo e cercare d’integrarlo con il presente come la storia che mi accingo a riportare .
A Roma, dov'è nata e abitava, si è laureata in Filosofia all'università La Sapienza. Segnali premonitori? Ogni tanto, ma solo ogni tanto, le tornavano lampi delle vacanze estive trascorse in un paesino della Sardegna, a casa dei nonni. Da bambina era rimasta colpita dai gruccioni, uccellini coloratissimi che arrivavano insieme a lei coi primi caldi e insieme a lei se ne andavano alla fine dell'estate.
Gabriella Belloni ( foto a sinistra )
non poteva immaginare che il destino avrebbe continuato ad aspettarla lì, all'angolo tra i ricordi di un'infanzia felice e le pietre scure di Santulussurgiu. Dopo la laurea, si è trasferita a Monaco di Baviera: anni e anni a spulciare manoscritti del '500 e del '600, le mani protette da guanti per non lasciare impronte e, ulteriore sicurezza, perfino un velo di plastica trasparente per non contaminare in alcun modo quei tesori della scrittura. Appassionanti per chi, come lei, studiava le radici storiche dell'Accademia dei Lincei, addirittura sacri per il suo docente tedesco che li trattava come reliquie d'un santo.
Alla fine, quando si è trattato di dire sì o no, insomma stabilire se mettere casa e vita in Germania, Gabriella s'è fatta prendere da quelle che un grandissimo scrittore ha chiamato le intermittenze del cuore. «A Milano mi aspettava il moroso e su Milano ho fatto rotta». Ci è rimasta diciott'anni, il tempo di far crescere due figlie e coltivare la certezza che la casa dei nonni sarebbe diventata col tempo un richiamo irresistibile.
L'Antica dimora del gruccione, stupendo palazzotto di pietra lavica e antiche travi di quercia, è oggi un albergo diffuso. Si chiamano così quelle strutture ricettive nate dal restauro di vecchi edifici nei centri storici. Nessuna manomissione mattonara, semmai quel che si dice recupero conservativo. Gli alberghi diffusi (in Sardegna ne funzionano altri tre) sono nati secondo una precisa e rigorosa indicazione di legge. Il Gruccione ha dodici stanze, una sala d'accoglienza che sembra presa da un libro di Grazia Deledda, pavimenti d'epoca, camere tutte diverse. Può sembrare un paradosso ma ha un'eleganza infinitamente superiore a certi hotel smaccatamente opulenti di Porto Cervo. Il Gruccione è anche sede periferica dell'università di Scienze gastromiche (la centrale è a Pollenzo, in Piemonte), braccio operativo dello Slow Food, associazione che sostiene il consumo dei prodotti locali e manifesta una forte ideo-allergia (ideo in senso di ideologica) nei confronti dell'industria alimentare di massa. Tutto questo per dire che sarebbe banale definire il Gruccione una locanda: basta metter piede nel minuscolo giardino d'ingresso per capire che qui si respira un altro mondo dove neppure per un attimo ci si può sentire intruppati, sia pure intruppati di lusso. Gabriella Belloni, classe 1950 portata con leggerezza e distacco, indossa una kefiah verde-libico in tinta con gonna e maglione. Il giovanissimo chef (Roberto Flore, che è poi suo genero) ha invece la kefiah tradizionale bianconero-arafat su jeans e camicia. Insieme alle figlie - Lucilla e Carolina - l'albergatrice filosofa si è lanciata in una sfida difficile. Sfida che per il momento sta vincendo: mai crisi salvo due brevi momenti morti dell'anno: novembre e metà gennaio
Lei faceva tutt'altro. Ricercatrice di filosofia. «Studiavo la storia della Scienza tra '500 e '600. La scoperta del telescopio e del microscopio ha mostrato un mondo nuovo e fino allora invisibile. Per approfondire questo tema mi sono trasferita in Germania con una borsa di studio. Era la fine degli anni '70 e Monaco il simbolo di un Paese in straordinaria crescita». Perché abbandonare, allora? «La mia stagione tedesca, che definisco aurea, è durata sei anni. È stata un'esperienza indimenticabile. A ogni scadenza di contratto ero combattuta, rimandavo la partenza: il fatto è che avevo fidanzato a Milano». In Italia non c'era possibilità di lavoro? «Non creiamo equivoci: io non sono una intellettuale precaria, un cervello in fuga, un'emigrata della cultura. Ho voluto andare all'estero per approfondire: era una scelta, non una strada obbligata. Al rientro in Italia ho continuato a lavorare per la Treccani e per l'Istituto degli studi filosofici di Napoli». Com'è che ha deciso poi il trasloco in Sardegna? «È questa casa che ha deciso, non io. Mio fratello non era interessato a tenerla ( che ce ne facciamo di una proprietà in un luogo così lontano dalla nostra vita?). Io non me la sentivo di venderla: qui, le tante volte che mi capitava di venire da bambina, stavo bene. È la casa dov'è nata mia madre, dove i miei nonni mi ospitavano d'estate. Grande quanto basta (ottocento metri quadrati) per tenere in piedi una continuità della memoria fitta fitta». Insomma, s'è fatta prendere dalle intermittenze del cuore. «In un certo senso, sì. Alla fine degli anni '90 l'Unione europea ha pubblicato i bandi per la creazione degli alberghi diffusi e per la prima volta mi sono ritrovata a pensare di cambiare radicalmente esistenza». Stufa dell'altra vita? «No. Roma, Monaco e Milano mi hanno dato moltissimo. Quando però si è trattato di fare il salto e trasferirsi a Santulussurgiu, nel 2002, ho digerito tutto quello che c'era da digerire». In che senso? «Mi sono vaccinata mentalmente contro la nostalgia, contro il fantasma di un possibile ripensamento, insomma contro tutti i rischi che l'operazione comportava». Impresa titanica fare di una casa un albergo. «Complessa. Sono stati necessari quattro anni. Le pratiche richiedono tempi lunghi che possono sembrare eterni. Non dico che sia stata un'impresa titanica ma certamente non indolore». Al limite dell'impossibile. «Quasi. Per realizzare un progetto come questo occorrono determinazione e spinta ideale. La determinazione ti orienta ad andare avanti quando la burocrazia s'incattivisce, la spinta ideale è quella che ti suggerisce di mettere in pratica un'idea d'amore anziché parlarne e basta. In fondo, si tratta di uscire dalla logica dei mi piacerebbe, se potessi... ». Non si rischia di restare tramortiti nel passaggio da Milano a Santulussurgiu? «Per nulla. Non mi chiedo mai cosa può dare un luogo ma come posso scoprirlo. Amo imparare a conoscerlo, capire pian piano i meccanismi che ne regolano la vita quotidiana. A Santulussurgiu ho scoperto il cielo, le stelle che lo riempiono di notte, la terra dove metto i piedi. Non me n'ero mai accorta quando stavo fuori». Eppoi ci sono i gruccioni. «C'erano anche quando ero una bimba. Mi sono rimasti nell'anima, non li ho mai persi di vista. Ecco perché questa casa si chiama Antica dimora del gruccione».
Seminari universitari sul casizzolu, sulla carne sardo-modicana (il bue rosso): da queste parti non arrivano solo escursionisti, bikers, mitteleuropei che sperano (sbagliando) di trovare una rete aggiornata e ragionata di sentieri, itinerari segnalati con tempi di percorrenza e lunghezza. Da queste parti arriva anche chi ha un arretrato di libri da leggere, chi vuol scoprire il fascino delle stradine intorno alla chiesa del paese, le case strette e alte di un popolo che fa pochissimo rumore. Gabriella Belloni spiega ai suoi allievi la cultura del territorio, il rapporto tra lavoro e produzione, la necessità di salvarsi scegliendo la qualità. Nel suo “hotel” una camera costa 45 euro a persona (colazione compresa), con la mezza pensione si arriva a 70. Da quando ha aperto i battenti è andato tutto molto bene. «Clientela internazionale», dice lei. Ossia viaggiatori ben informati, che non si muovono a caso. E che pretendono, giusto perché non guasta, che al prezzo pagato corrisponda qualità e servizio inappuntabile. Logica slow food, per capirci: tutto può anche sembrare casuale ma non lo è mai.
Lei parla di turismo sostenibile e integrato: che vuol dire? «Il punto di partenza è operare in un centro storico che non abbia subito modifiche. Se è intatto diventa una sorta di presidio, di bandiera del territorio. A questo aggiungiamo i cibi e le ricette locali scartando il prodotto indifferenziato dell'agroindustria». Un turismo tendenza Smeralda dunque le fa orrore? «Per istinto corporativo non direi mai male dei miei colleghi albergatori. L'orrore non c'entra. Il mio tipo di ricettività ha un'altra logica, un altro stile, un rapporto molto stretto con l'ospite». Cioè? «Niente a che vedere con un grande hotel che deve trattare una clientela molto più ampia e differente. Non sono un industriale delle vacanze. Io vorrei semplicemente che questa attività mi consentisse di lavorare onestamente e mi desse una prospettiva». Gliela sta dando? «Sono impegnata insieme alle mie figlie e al fidanzato di una di loro. La cosa comincia a girare, funziona insomma. Se il territorio avesse già sviluppato una certa sensibilità saremmo a buon punto». Critiche e mugugni del paese. «Non ce ne sono che io sappia, ma è la cultura dell'albergo diffuso che deve crescere. Per quanto mi riguarda ho una stagione di quasi dodici mesi l'anno. Sotto Carnevale ho dovuto rifiutare molti ospiti». Secondo lei, i sardi sanno cosa sia il turismo? «C'è molto da fare: la distanza fra sardi e turismo resiste. Manca soprattutto il coraggio di mettersi in gioco, c'è la paura di sbagliare, sentirsi sotto esame». E di essere professionali. «Io parlo per me, non ho titoli per fare le bucce agli altri. Quando dico, ad esempio, che proponiamo prodotti locali non bleffo». In certi agriturismi la carne è polacca, il prosciutto slavo... «Quello che io garantisco al cliente lo metto per iscritto. In mancanza di prodotti locali, faccio capo al mercato equo e solidale. Mi rifornisco a Cagliari. Proposte chiare, rapporto leale col cliente: l'unico vero segreto è questo». Scusi, la sua è ricettività di sinistra? «Nel mio albergo chiunque è benvenuto. Uno che fa il mio mestiere non può fare differenze fra destra e sinistra, ci mancherebbe». Non ha risposto, signora. «Chiarita la premessa, non posso negare che ci sia una certa visione del mondo che incide sul modo di essere e di proporsi». Camere tutte diverse, tocco radical chic, no? «Fossi una radical chic non sarei venuta ad abitare a Santulussurgiu. L'albergo diffuso è qualcosa di particolare, non è un hotel con stanze vista mare oppure no ma comunque fatte tutte in serie e tutte uguali». Cosa le manca? «Niente. Lavoro volentieri con l'università di Scienze gastronomiche. Non mi sento sola: il confronto quotidiano con una clientela sempre diversa mi arricchisce». Fatta salva la poesia dei gruccioni, tornando indietro? «Non ho cambiato vita da un giorno all'altro. Ci ho pensato a lungo, ne ho discusso con le mie figlie. Ho valutato, verificato, ponderato. Dopo, soltanto dopo, mi sono corazzata contro il timore di un pentimento tardivo». E quindi? «Scegliere mi ha reso serena».
come dicevo dal titolo si celebrano in pompa magna , e i familiari delle vittime non s'oppongono nolenti o volenti , le persone che mandano ( o scelgono d'andarci perchè ci credono o vngono indottrinati oppure per lucro e facile guadagno ) al macello nelle pseudo o vere missioni umanitarie .
Ma si scordano. fin quando qualche coraggioso che sfida i tabù di stato e non , se ne ricorda come il caso di Pietro Sini eroe di Nassyria che è stato riconosciuto 4 anni dopo qui la sua storia
Forse perchè odiano gli eroi vivi, perchè posso raccontare come sono andate le cose...
mentre commemorano in pompa magna gli eroi morti...(cancellando anche la compagna, il caso di Adele Parillo compagna di Stefano Olla reggista morto a nassyria , che quell'eroe si era scelto nella vita ) perchè i morti non possono parlare ....e protestare come ha fatto lei quando fu allontanata dal Vittoriano durante le celebrazioni ufficiali perchè ha sempre detto che << Stefano (e tutti gli altri morti) non era un EROE...ma una VITTIMA. >>
Mentre i veri eroi che compiono veramente un atto eroico rischiando la vita vengono o emarginati ( vedere caso sopra ) o dimenticati come quello di cui racconto la storia nel post d'oggi
ROMA Si erano dimenticati tutti di lui, g d'Angelo Licheri, il piccolo uomo di origine sarda, “l'eroe di Vermicino”. Fu quell'ex tipografo magrissimo che 30 anni fa fece trepidare tutta l'Italia con il suo tentativo di salvare Alfredino Rampi. Licheri riuscì a raggiungere il bambino in fondo al pozzo artesiano, 60 metri sotto terra, ma non ce la fece a legarlo per tirarlo su. Walter Veltroni l'ha scovato in una casa di cura dove Licheri vive da solo, in condizioni indigenti, con una gamba amputata per il diabete. Ha raccontato la storia nel suo libro di prossima uscita “L'inizio del buio” e intanto ha avvisato il ministro dell'Interno Roberto Maroni dello stato di salute di questo eroe dimenticato. Ieri Veltroni e Maroni sono andati a trovarlo nella casa di cura San Raffaele di Velletri e gli hanno consegnato un assegno di 10mila euro, erogato dall'Associazione nazionale vigili del fuoco.
per chi non conoscesse o ricordasse o volesse ricordare tale fatto ne trova una sintesi qui
questo non è un vero libertario maun malato che magari nasconde una tendenza pedofila grave : << La pedofilia ,al pari di qualunque orientamento e preferenza sessuale, non può essere considerata un reato">>Daniele cazzo pene ... ehm .. Capezzone,Pdl,consulente di Silvio Berlusconi .
MONTEVECCHIO Vanno su e giù per i vecchi cantieri, controllano, qualche volta recuperano attrezzi e macchinari, spesso trovano piccoli gioielli meccanici abbandonati nelle discariche di ferrovecchio nascoste tra le sughere che circondano Montevecchio. Per gli angeli custodi della grande fabbrica del piombo e dello zinco, un vecchio chiodo arrugginito può raccontare una storia, la ruota di una pala meccanica diventa il simbolo di un lavoro che non c'è più, la cabina di comando ridotta in pezzi della sala dell'argano di pozzo Sartori svela una piccola rivoluzione, quando nella miniera tra Guspini e Arbus fu introdotta la meccanizzazione. Oggetti che ai più dicono poco o niente, spesso buoni per essere svenduti o depredati, secondo il destino di pozzi e gallerie chiusi da un giorno all'altro. Loro invece sanno che lì c'è scritta la loro vita e quella dei padri, e magari anche dei figli, costretti spesso ad appoggiarsi alle pensioni di chi ha trascorso anni duri sotto terra finché è stato deciso che dalle viscere dell'Isola non doveva uscire più un minerale. UN PATRIMONIO Quelli di Sa Mena hanno festeggiato da poco i dieci anni di vita. Si sono costituiti in Associazione minatori per tener viva la cultura e la memoria storica del lavoro nel ventre della terra, cioè la storia stessa dei paesi del Guspinese e dell'Arburese. Ben prima di costituirsi in sodalizio, hanno capito che era necessario darsi una mossa, subito dopo la chiusura degli impianti - dicembre 1991, una specie di tsunami sulla vita di centinaia di famiglie - per evitare che quello straordinario patrimonio di fabbricati e di archeologia industriale che si estende fino a Ingurtosu e guarda le dune di Piscinas venisse spolpato e depredato e si trasformasse, come in qualche caso è avvenuto, in un cimitero postminerario. Hanno pensato al futuro, recuperando centinaia di piccoli e grandi cimeli da esporre in un museo, per far conoscere a figli e nipoti - e magari turisti - un'epopea che non tornerà, cominciata ufficialmente quando nell'aprile del 1848 re Carlo Alberto assegnò a Giovanni Antonio Sanna la prima concessione mineraria.
MINATORE-SCRITTORE L'elenco è lunghissino. Un'infinità di piccoli attrezzi manuali, perforatrici, una vecchia fune di canapa dell'argano di Piccalinna, una miniatura di un mulino a sfere, la bilancia per pesare i minerali, la sirena di pozzo Sartori che scandiva le lunghe giornate di lavoro, ma anche gli allarmi aerei o l'annuncio di un incidente mortale. Telefoni, picconi, lampade a carburo. «Ci davano il carburo col contagocce, guai a sprecarlo», racconta Mario Fadda, vicepresidente, nato e residente a Montevecchio («Sono rimaste settanta famiglie, come fantasmi»). E poi la perforatrice a mano, la pisita , micidiale attrezzo che lavorava all'asciutto, in uso fino a metà del secolo scorso (solo più tardi arrivò la macchina a getto d'acqua, che consentiva l'abbattimento delle polveri). «Me l'hanno regalata dicendo: ecco cussa chi ha boccìu mera genti », ricorda Serafino Leo, 76 anni. «Sa perché ci regalano i vecchi attrezzi? Perché sanno che finiscono in buone mani», aggiunge il minatore autore di “Sa vida mea in sa mena” (ricordi di una vita in miniera scritti prima in sardo poi tradotto in italiano).
«Il nostro obiettivo è di tenere viva l'attenzione sul mondo delle miniere e anche di stimolare le amministrazioni, affinché si pensi a utilizzare e gestire il patrimonio restaurato anziché lasciarlo chiuso», dice Ugo Atzori, presidente dell'associazione Sa Mena, un centinaio di soci, quasi tutti guspinesi. ACCORDO STORICO Atzori ha creduto da subito alla possibilità di dare una nuova vita alle miniere. Ha fatto parte di quel manipolo di sei minatori che per 28 giorni, tra aprile e maggio 1991, si rinchiuse a 300 metri di profondità nel buio del pozzo Amsicora, mentre centinaia di compagni aspettavano in superficie, per scongiurarne la chiusura. Uscirono solo quando la Samin, società dell'Eni che gestiva le miniere, firmò un impegnativo accordo che metteva la parola fine all'epopea dei pozzi ma apriva un nuovo scenario tra Montevecchio, Ingurtosu e Funtanazza: trasformare le miniere in un'occasione turistica e culturale. Quei minatori vedevano lontano. Pensavano al futuro, ai loro figli, sulla scia di altre esperienze europee, di città e paesi che sono riusciti a sopravvivere alla fine della civiltà che tra Ottocento e Novecento ha segnato la storia e il paesaggio in Francia, Germania, Inghilterra, Belgio, Sardegna. «Pensavamo a un futuro di alberghi, ristoranti, centri sportivi, ippovie, musei. Ci hanno ascoltati? Direi di no», aggiunge Atzori. IL SOGNO-ILLUSIONE Il sogno è rimasto tale, forse adesso si è trasformato in un'illusione. E dire che Guspini aveva tracciato la strada per tempo. Edifici e percorsi restaurati (su tutti lo splendido palazzo della direzione), visite guidate nelle gallerie e nei vecchi impianti. Poi qualcosa si è inceppato. Non ci sono più idee, i soldi in cassa sono sempre meno, non c'è più la convinzione di un tempo? Chi non manca all'appello sono loro, quelli di Sa Mena, quelli della miniera. A vent'anni dalla chiusura sono sempre lì. A organizzare mostre e incontri (l'anno scorso il raduno regionale dei minatori), a raccontare ai giovani cos'era la vita nel buio delle gallerie, a proporre dimostrazioni sul lavoro, prima che storie e conoscenze vadano perdute. Su richiesta, accompagnano anche i visitatori. Continuano a proporre iniziative, invitano i minatori ad aderire all'associazione e portare il loro contributo, stimolano le amministrazioni a rompere gli indugi: «Regione, Parco geominerario, Comunità del parco, cioè i Comuni, devono uscire dalla fase di stallo - afferma Ugo Atzori - noi come sempre offriamo la massima disponibilità». Sono stati loro a far nascere il primo nucleo del museo minerario, senza il loro contributo il regista Gianfranco Cabiddu non avrebbe potuto girare le immagini del documentario - con centinaia di comparse - che nelle intenzioni doveva costituire la spina dorsale del percorso multimediale da offrire ai turisti. Ma il progetto si è misteriosamente bloccato. E dire che in quei giorni sembrava che Montevecchio fosse tornata a vivere. «Purtroppo era una finzione, solo apparenza», dice Egidio Cocco, esperto di minerali e amministratore dell'Associazione. L'ESEMPIO DI ROSAS I minatori in pensione continuano a credere che il futuro sia qui, tra Montevecchio e Ingurtosu, dove l'unica novità in questi anni è stata la scommessa, finora vinta, di tanti agriturismo e bed and breakfast che accolgono visitatori incantati da questi paesaggi ma spesso spaesati perché non trovano un punto di ristoro o di informazioni aperto. Si guarda con un misto di ammirazione e rammarico all'esperienza di Narcao, dove l'amministrazione comunale ha avviato la riconversione della miniera di Rosas coinvolgendo i minatori in pensione: il vecchio impianto è accogliente, ci sono un bel museo e il percorso multimediale, bar, ristorante, le case degli operai ospitano i turisti a prezzi ragionevoli. «Il Comune di Narcao ha avuto massima fiducia nei vecchi minatori», afferma Atzori. EMOZIONI E RIMPIANTIMontevecchio, miniera di emozioni , recitava lo slogan di un tempo. Ora l'emozione sta lasciando il posto al rimpianto per il tempo sprecato. Eppure la suggestione, per chi visita questo straordinario patrimonio di archeologia mineraria, è sempre la stessa. E poi ci sono loro, gli angeli custodi di Montevecchio e dintorni. Controllano e vigilano. Salvano, quando possono, ricordi e cimeli. Pensionati con una sola passione: non far morire la loro vecchia miniera.
Ho capito finalmente! Per fare carriera politica bisogna essere collusi con la mafia o comunque essere almeno indagati per corruzione aggravata!! Ecco dove ho sbagliato...ed io ad insistere sull'onestà e sulle capacità e la prova è questa
Alla fine Francesco Saverio Romano è diventato ministro per le Politiche agricole ma le riserve di Giorgio Napolitano già palesate da indiscrezioni di stampa nei giorni scorsi si sono tradotte un minuto dopo il giuramento in una nota ufficiale. E del tutto inusuale.
Romano, accompagnato dal premier Silvio Berlusconi, dal sottosegretario Gianni Letta e dalla famiglia ha recitato la formula di rito nella sala della Pendola del Quirinale: cerimonia brevissima e molto sobria. Atmosfera totalmente formale, Capo dello Stato e premier non si scambiano neppure una parola. Pochi minuti dopo ai giornalisti è stata consegnata una nota nella quale si afferma senza mezzi termini che il presidente della Repubblica "ha espresso riserve sulla ipotesi di nomina dal punto di vista dell'opportunità politico-istituzionale". Romano è infatti indagato per concorso esterno in associazione mafiosa - procedimento per il quale il gip non ha accolto la richiesta di archiviazione avanzata dai pm palermitani e dovrà decidere nelle prossime settimane - e a suo carico c'è anche un procedimento per corruzione aggravata nato dalle rivelazioni di Massimo Ciancimino.
Detto questo per il Capo dello Stato, in base a come Napolitano ha sempre interpretato i suoi poteri, non "c'erano impedimenti giuridico formali che giustificassero un diniego" alla nomina. Nomina chiaramente e ripetutamente caldeggiata dal Cavaliere per assicurarsi l'appoggio dei 'Responsabili' di Romano determinanti per la tenuta della maggioranza e la sopravvivenza del governo.
Un passo indietro degli uomini di Romano significherebbe per il governo, chiamato ad assumere decisioni importanti a cominciare dalla questione Libia, il rischio molto concreto di una débacle.
I dubbi del Colle sull'opportunità politica della nomina restano e infatti Napolitano ha auspicato "che gli sviluppi del procedimento chiariscano al più presto l'effettiva posizione del ministro". Nota di fronte alla quale Romano si dice dispiaciuto perché a suo giudizio "non riflette il pensiero del capo dello Stato" anche perché si afferma che lui è "imputato" ma questa - ha sottolineato - è una "inesattezza".
L'opposizione è andata all'attacco sul caso. Per il Pd tutta la vicenda "ha dimostrato la debolezza del presidente del Consiglio che, per puntellare la sua malandata maggioranza, ha dovuto sottostare ad un vero e proprio ricatto". "La nomina di Romano - ha commentato da parte sua il presidente dei deputati dipietristi, Massimo Donadi - è sbagliata e inopportuna, per non dire di più. Un indagato per mafia non può fare il ministro". Infine, Fabio Granata di Fli ha sottolineato che "è stata evidenziata la bassezza dell'operazione politica del 14 dicembre con la conseguente nascita dei Responsabili"
in tempi di bunga bunga e meretricio sempre obbligato o ricattatorio sempre più incalzante e diffuso voglio raccontare la storia di Franca Viola di una donna coraggiosa che con i suoi NO cambiò la legge e il costume maschilista dell'epoca che permetteva nel caso di violenza \ stupro un matrimonio riparatore . Una storia che le giovani gatte morte ( metaforicamente parlando ) dei festini del vecchio bavoso che va minorenni e della sua congrega d'amici e dei loro genitori mai sazi di prebende e denaro facile sembrano ignorare o considerare retaggio del passato, disposti ad immolare le proprie figlie all'altare della celebrità e della ricchezza , gettandole fra e braccia (e non solo) potente anfitrione di turno .
La storia avvenne , ma visto il clima culturale del nuovo edonismo e del successo a tutti i costi sembra oggi , a metà degli anni ' 60 a d Alcamo in una Sicilia ( ma poteva essere una zona qualunque del meridione e del sud dell'Italia del tempo ) rurale ed arretrata ma che fu proprio grazie a Viola e a suo padre capace di ribellarsi e d ad infrangere un tabù quello "dello stupro istituzionalizzato \ legalizzato " lo Stato Italiano la supportava nel codice penale. Il vecchio articolo 544 (abrogato solo nel 1981) ammetteva il "matrimonio riparatore", considerando la violenza sessuale come un oltraggio alla morale e non alla persona. L'accusato di delitti di violenza carnale, anche su minorenne, avrebbe avuto estinto il reato nel caso di matrimonio con la persona offesa. Insomma Melodia aveva la legge dalla sua parte e soprattutto la tradizione.. E poi ridotto \ sminuto fino alla nuova legge sulla violazione sessuale agli anni '90 ( ma questa è un altra storia ) considerato dai codici come reato contro il patrimonio e non come ora contro la persona .Gli ulteriori particolari della storia sono presi da ricerche in rete .
Fra le notizie degne di menzione, in quel volgere di anno 1965, la storia di Franca Viola sembra oggi sepolta da una miriade di fatti “più importanti”: proprio negli stessi giorni infatti l’Italia viene messa in allerta da una intervista al democristiano La Pira che dalle pagine del Borghese tuona contro l’amico Fanfani: “Attenti sarà il nuovo De Gaulle!”
Fra velleità golpiste, o solo dirigiste, e il boom di vendite dei televisori (il 49% degli italiani ne possiede uno) sembra strano pensare che una vicenda personale, piccola piccola, accaduta oltretutto laggiù, in Sicilia terra di emigrazione e malavita (basti pensare alla torinese La Stampa che tuona: “Attenti i criminali sono tutti figli di immigrati”) ed accaduta a una giovane di 18 anni possa essere ricordata per anni e diventare anzi l’alba di un nuovo atteggiamento delle donne verso leggi retrive e assurde oltre che discriminanti
Ammesso per legge il matrimonio riparatore (art.544), considerata la violenza sessuale un oltraggio alla morale e non alla persona, è chiaro che Franca Viola, 18 anni, residente a Alcamo, non possa desiderare altro che sposarsi dopo essere stata rapita e tenuta nascosta per otto giorni da un guappo del paese, tale Filippo Melodia.
Il giovane infatti, respinto dalla ragazza, ha una bella pensata: la rapisco, la violento e poi la sposo ( magari mi faccio aiutare da 12 amici caso mai dovesse ribellarsi). E anche se lei dovesse opporsi, il padre acconsentirà, ne va dell’onore di una famiglia.
nella foto grande dietro le sbarre i rapitori e sotto a sinistra lei foto presa da n °1 BBC di history aprile 2011
Ma le cose non vanno proprio così, e forse una “questione privata”, per dirla con il titolo di un libro di Fenoglio uscito proprio quell’anno, diventa una questione pubblica che più pubblica non si può.
Il padre finge di acconsentire alle nozze e concorda, con i Carabinieri di Alcamo, una trappola: quando il Melodia scende in paese attorniato dai suoi ‘bravi’ e con la donna al seguito, scatta la trappola: ad attenderli c’è il padre con i Carabinieri. Filippo Melodia viene condannato a 11 anni di carcere ridotti poi a 10.
Nel 1968 Franca Viola sposerà, adesso si per scelta, il giovane Giuseppe Ruisi. Melodia invece, uscito dal carcere nel 1976, finirà assai male: il 13 aprile del 1978 si ‘scontra’ con una lupara e muore.
Nel 1970 anche il cinema onorò Franca Viola e il regista Damiano Damiani girò con Ornella Muti il film La sposa più bella.
Il 26 dicembre 1965, all'età di 17 anni, Franca Viola, figlia di una coppia di coltivatori diretti, venne rapita (assieme al fratellino Mariano di 8 anni, subito rilasciato) da Filippo Melodia, un suo spasimante sempre respinto, imparentato con la potente famiglia mafiosa dei Rimi, che agì con l'aiuto di dodici amici. La ragazza venne violentata e quindi segregata per otto giorni in un casolare al di fuori del paese; fu liberata con un blitz dei carabinieri il 2 gennaio 1966.
Secondo la morale del tempo, una ragazza uscita da una simile vicenda, ossia non più vergine, avrebbe dovuto necessariamente sposare il suo rapitore, salvando l'onore suo e quello familiare. In caso contrario sarebbe rimasta zitella, venendo additata come "donna svergognata".
All'epoca la legislazione italiana, in particolare l'articolo 544 del codice penale, ammetteva la possibilità di estinguere il reato di violenza carnale, anche ai danni di minorenne, qualora fosse stato seguito dal cosiddetto "matrimonio riparatore", contratto tra l'accusato e la persona offesa; la violenza sessuale era considerato oltraggio alla morale e non reato contro la persona.
Ma, contrariamente alle consuetudini del tempo, Franca Viola non accettò il matrimonio riparatore. Suo padre, contattato da emissari durante il rapimento, finse di acconsentire alle nozze, mentre con i carabinieri di Alcamo preparavano una trappola: infatti, quando rapitore e complici rientrarono in paese con la ragazza furono arrestati.
Subito dopo il fatto, la famiglia Viola, che aveva contravvenuto alle regole di vita locale, fu soggetta ad intimidazioni: il padre Bernardo venne minacciato di morte, la vigna fu rasa al suolo ed il casolare annesso bruciato.
Il caso sollevò in Italia forti polemiche divenendo oggetto di numerose interpellanze parlamentari. Durante il processo che seguì, la difesa tentò invano di screditare la ragazza, sostenendo che fosse consenziente alla fuga d'amore, la cosiddetta "fuitina", allo scopo di mettere la propria famiglia di fronte al fatto compiuto per ottenere il consenso al matrimonio.
Filippo Melodia venne condannato a 11 anni di carcere, ridotti a 10 e a 2 anni di soggiorno obbligato nei pressi di Modena. Pesanti condanne furono inflitte anche ai suoi complici dal tribunale di Trapani, presieduto dal giudice Giovanni Albeggiani. Melodia uscì dal carcere nel 1976 e venne ucciso, nei dintorni di Modena, da ignoti con un colpo di lupara il 13 aprile 1978.
Franca Viola diventerà in Sicilia un simbolo di libertà e dignità per tutte quelle donne che dopo di lei subirono le medesime violenze ed ebbero, dal suo esempio, il coraggio di "dire no" e rifiutare il matrimonio riparatore.
Franca Viola si sposò nel 1968 con il giovane compaesano Giuseppe Ruisi, ragioniere, con il quale era fidanzata, che insistette nel volerla sposare, nonostante lei cercasse di distoglierlo dal proposito per timori di rappresaglie. La coppia ebbe due figli: si trasferì a vivere a Monreale per i primi tre anni di matrimonio, per poi tornare ad Alcamo.
Giuseppe Saragat, Presidente della Repubblica, inviò alla coppia un dono di nozze per manifestare a Franca Viola la solidarietà e la simpatia sua e degli italiani. In quello stesso anno i due sposi vennero ricevuti dal papa Paolo VI in udienza privata.
Il regista Damiano Damiani, nel 1970, realizzò il film La moglie più bella, ispirato alla vicenda e interpretato da un'esordiente e giovanissima Ornella Muti.Franca Viola ha due figli e una nipote e vive ad Alcamo.
Passeranno ancora sedici anni per l'abrogazione di quella norma inutilmente invocata a propria discolpa dall'aggressore: l'articolo 544 del codice penale sarà abrogato dall'articolo 1 della legge 442, emanata il 5 agosto 1981, che abolisce la facoltà di cancellare una violenza sessuale tramite un successivo matrimonio.
Ora care ragazze che volete fare le veline e non , prendete esempio da questa storia di una ragazza ( all'epoca dei fatti ) che Personaggio simbolo della libertà e dell'emancipazione femminile, fu la prima donna a rifiutare il matrimonio riparatore con colui che l'aveva violentata. coraggiosa che ha cambiato non solo le leggi ma anche i costumi che ora rischiano di essere nuovamente messi indiscussione dal vostro accondiscimento che vi portare ad accettare passivamente le brutture imposte da vili .
Concludo questo mio sfogo consigliandovi la lettura , io ho pianto dall'inizio alla fine , di quest'opera di Massimo Carlotto che descrive ampiamente e benissimo il mondo di ruby e company , scritto in tempi non sospetti e prima degli scandali sessuali del nostro ( anche se io non l'ho votato è stato democraticamente eletto ) presidente del consiglio . Ecco la trama << Il racconto teso e vibrante di una "quotidiana" tragedia familiare. Sullo sfondo la Torino dei quartieri operai che operai non sono più. L'arrivo e la difficoltà di convivenza con gli extracomunitari. La mancanza di lavoro. La totale assenza di prospettive di vita di "qualità": la pensione, la difficoltà di sbarcare il lunario quando non si è più produttivi. L'essere consumatori, comprare per essere vivi. L'assenza di strumenti culturali per opporsi allo squallore dell'esistenza. La tv modello e unico sbocco e sfogo. Lo stato che non è più in grado di garantire diritti e servizi cosicché le contraddizioni esplodono all'interno della famiglia. >>
e lasciandovi alla canzone iniziale di Renato Zero che poi è anche la colonna sonora del post d'oggi .Non so che altro dire se non le parole della stessa Franca Viola che dovrebbero servire da monito allle ragazze d'oggi :
<<
Non fu un gesto coraggioso. Ho fatto solo quello che mi sentivo di fare, come farebbe oggi una qualsiasi ragazza: ho ascoltato il mio cuore, il resto è venuto da sé. Oggi consiglio ai giovani di seguire i loro sentimenti; non è difficile. Io l'ho fatto in una Sicilia molto diversa; loro possono farlo guardando semplicemente nei loro cuori
In questi giorni facendo , uso inernet e l'email da un pc esterno al mio , un po' di pulizia nella posta eletronica , eccovi alcune email riguardanti il mio post sui 150 del nostro amato\ odiato bel paese
dici che non c'era niente da festeggiare e poi sei caduto anche tu nella trappola delle celebrazioni .
Sei un ipocrita sputi ed insulti la patria e poi la celebri ? sei ipocrita ( questa la pubblico interamente perchè mi fa troppo ridere in quanto la persona non ha capito un di me o è di quelli che guargente con i paraocchi dell'ideologia ) << come la sinistra che si scopre patriotica. Mi fate amaramente ridere per non dire peggio per come all'improvviso vi coprite patriotici . Quandi Fino a pochi anni fa, a parlare di patria e tricolore eravamo noi di destra .Infatti fino all'anno scorso ,vedere l'ìopera da lei citata nel suo post precedente ,chi parlava più del Risorgimento? Quest'anno è di moda riempirsi la bocca ed esternarlo , forse perchè èil 150° anniversario del nostra amata patria.
L'anno prossimo tornera'nell'oblio. Non si erano mai viste persone di sinistra inneggiare al tricolore, ma solo insultarlo. Ma adesso c'è¨ la Lega e quindi: "Contrordine Compagni! Viva il tricolore!"Se non è ipocrisia questa caro Amico .>>
Inoltre mi è stato chiesto : << Dici d'essere sardo prima che italiano e poi celebri l'oppressore o non metti insieme alla bandiera tricolore neppure una sarda ? chde cosa c'è da festeggiare 80 anni di Savoia, 20 di fascismo, 50 di DC, quasi 20 di fra falsa opposizione e berlusconismo.
Non c'è molto di cui esser fieri ma ci fu un momento in cui davvero "sentimmo l'amor per la patria nostra". W la resistenza, w la lotta partigiana, w l'Italia antifascista!
Inn parte è vero quello che dicono quelli che mi dicono cosa ci sia da festeggiare e quello che dicevo nel post precedente su cosa è stato per noi Sardi .Infatti Scrisse Antonio Gramsci nel 1920, sull'Ordine Nuovo, queste parole: "Lo stato italiano è stato una dittatura feroce, che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti".
Non Aveva tutti i torti . Ed è anche vero che il Risorgimento non fu per niente o quasi una "rivoluzione di popolo",in quanto quelli che loro furono furono emarginati ed isolati dopo essere stati usati e che fu usato dalla monarchia sabauda per costruire sì uno stato unitario, ma nell'interesse di una borghesia gretta e ottusa, subito pronta ad allearsi con i latifondisti meridionaliopposizione e, reazionari e sanfedisti. Il fascismo nacque, figlio carnale, da quella alleanza.Ma ,eppure <> come dice Giulietto Chiesa in http://www.nuovasocieta.it << potrebbe ancora essere, dopo 150 anni, una cosa diversa dall'immonda decadenza cui è stata costretta, o ( hanno chinato la testa) a cui si è assoggettata. Lo prova la Costituzione di cui si è dotata, dopo la caduta del fascismo.>>
E poiché vedo, con raccapriccio, chi sono coloro che oggi insultano il tricolore, i lanzichenecchi della Lega; e poiché vedo chi è, e di che pasta è fatto, l'eversore che guida il governo d'Italia, contro la Costituzione, allora non posso che stare dalla parte del tricolore (anche se non mi piace granche troppo retorico andrebbe riscritto , riadattato ad oggi e lasciato intatta la musica per altro bellissima , come è stato fatto con l'inno nazionjale della Csi ex Urss dove la musica è rimasta intatta ma ma hanno cambiato il testo = dee della Resistenza, che quella Costituzione promosse.Hon ricordato , scondinando nelle celebrazioni lo ammetto il 150esimo anniversario del nostro Paese: per difendere la sua unità (contro gli organizzatori potenziali della guerra civile) ; la sua democrazia (anche se così tanto minacciata e rimessa indiscussione da 60 anni a questa parte ); quel poco di giustizia sociale che ancora resta (anche se così tanto offesa).
Tornando a Gramsci: è un "casamatta", nella quale difenderci e dalla quale, appena possibile, riorganizzare la controffensiva contro chi offende e vuole riscrivere anzichè studiarla a 360°nel bene e nel male la storia
Per quanto riguarda la mancata esposizione della bandiea sarda con quella tricolore , non l'ho fatta perchè : 1) non ne avevo , e non ne ho trovato ; 2) non sapevo se usare quella classica istituzionalizzata erroneamente dallla dc e poi di nuovo dalla pdl o quellla riformata da Soru ( qui e qui maggiori news sulla diatriba ) oppure quella dell'albero sradicato insegne del regno giudicale d'Aborea che si ribella all'aragona .E poi sinceramente , non è mica necessario un simbolo o ( in questo caso ) una bandiera per dimostrare la propria identità .
Per quanto riguarda il tricolore è dovuto alla mia è una resistenza antropologica-culturale prima ancora che politica. Mi rivolta l'idea maniacale di doversi proteggere da tutto, odio il dogmatismo delle tradizioni (radici di questo e di quello da tutelare a tutti i costi ), prendo a calci dalla mattina alla sera il concetto fascista di identità chiusa , irrido il timore dell'alterità in qualunque forma si presenti, specie se è quella umana, detesto il culto del lavoro (il "fare") come sostanza etica dello stare insieme mi offende ( anche se non sono da qualche anno tanto praticante ) vedere la religione ridotta a marcatore identitario ed usata a proprio uso e consiumo per giustificare un ideologia xenofoba e razzistica Tutto l'impianto ideologico del leghismo incarna alla massima potenza il contrario del mondo che cerco di costruire. Questa resistenza è patrimonio civile di molti sul territorio italiano, e so che tanti ( me compreso ) hanno messo il tricolore alla finestra non tanto per dimostrare di essere italiani, quanto per affermare simbolicamente di non essere leghisti.Infatti << (...) Camminavo per le strade notturne di Santarcangelo di Romagna al ritorno da una conversazione pubblica con Emiliano Visconti nella biblioteca comunale, e parlavamo proprio di come la presenza di istanze razziste e incivili, distruttive del più elementare stare insieme da persone umane, abbia costretto persino un internazionalista come lui, uno che non ha mai subito il fascino della retorica della patria e di quel che si porta dietro, ad aver voglia di tricolore, manco fosse il solo scudo rimasto contro la deriva xenofoba e reazionaria che sta alla base della spinta popolare leghista.( .... dalla nota su fb diMichela Murgia ) . Infatti io che consideravo e ancora lo faccio nonostante tutto
E poi --- qui mi rivolgo alla lettera di ***** che mi accusa d'ipocrisia --- del risorgimento la sinistra ne ha sempre parlato di risorgimento ed patria non in maniera manifesta e acritica folkloristica usata per giustificare le guerre imbelli e colonialistiche ed imperialistiche ( come si diceva un tempo ) cioè sintetizzando : << (...)nei miti eterni della patria o dell' eroe (...) nei campi di sterminio dio è morto,coi miti della razza dio è morto >>. Mentre la sinistra e non solo ha un concetto diverso di patria ( anche se io credo che bisogna parlare di patrie vista la diversità da regione a regione ancora da li avvenire e da costruire ) ecco come ( riporto solo l'ultimo che in sintesi a mio avviso li rappresenta tutti di cui trovate i video nei vari url ) noi della sinistra vediamo la patria : il piave (12 ) bella ciao, il sentiero ( dei Mcr ) ,linea gotica ( ex Csi ) viva l'italia ( de gregori ) povera patria ( di battiato )
Ieri 17 marzo ho visto il nabucco di Giuseppe Verdi , rinunciando senza gosso sacrificio , tanto la si può volendo rivedere in rete alla più noiosa e soporrifera ( non per gli argomenti trattati , ma per i soliti ospiti chiamati ad intervenire ) trasmissione di Annno zero che ormai vedevo tra un abiocco o zapping e l'altro per le vignette di Vauro
Essa è stata l'occasione per avvicinarmi senza pregiudizi e a 360° alla Lirica . Riavvicinarmi perchè sono cresciuto in una famiglia che mi ha trasmesso ( i miei nonni paterni ed i loro parenti e fratelli almeno quelli che ho conosciuto direttamente o indirettamente tramite mio padre , ed mia zia materna ) la passione , anche se in realtà , forse causa testi oltre che i miei problemi d'udito e culturali ( infatti la lirica va seguita con un testo ) ne ascoltavo e mi lasciavo trascinare da alcuni pezzi come l'atto III del nabucco
o dalle musiche o dalleinterpretazioni tipo quelle della Callas .Ascoltandolo e leggendo i sottotitoli dell'opera di Verdi n in questione affermo che le opere classiche non sempre sono stuchevvoli e barbose .L'opera in questione sarà pure bibblica e avrà la collocazione di un'autorità di tipo religioso, l'inflessibile pontefice Zaccaria, a capo della fazione ebrea. Una prospettiva non condivisa da Verdi, la cui simpatia e il cui interesse di drammaturgo vanno soprattutto verso le figure più complesse e tormentate del tiranno babilonese e di Abigaille.Infatti pochi forse sanno che, in origine, il nome dato da Giuseppe Verdi alla sua opera fosse
"Nabuccodonosor" ma, data la lunghezza dello stesso sulla locandina, venne diviso in due righe e cioè "Nabucco" e, a capo, "Donosor" ma la gente faceva caso solo alla prima riga. Da qui la diffusione del nome dell'opera fino ad oggi come del "Nabucco".Ed il tema risorgimentale è indiretto ed incentrato soprattutto su due fatti .Il primo il famosissimo coro Va', pensiero, sull'ali dorate, intonato appunto dal popolo ebreo. Il resto del dramma è invece incentrato sulle figure drammatiche del re di BabiloniaNabucodonosor II e della sua presunta figlia Abigaille. Il secondo che il librettista Solera aderì alla battaglia risorgimentale da posizioni neoguelfe.
Ma d'altronde quando un regime o una dominazione straniera controlla anche la cultura e tutte le forme d'epressioni artistiche bisogna giocare sul filo di lana ed usare la fantasia onde evitare censure ed repressione .
Molto curata la contestualizzazione storico\culturale fatta in studio fra un atto e l'altro.Un opera di grande passione civile specie nel coro del terzo atto e se ci pensiamo di grande attualita , nel se ci pensiamo bene come dimostra sia da questo videoe quello riportato sotto
Da profano ed impedito problemi d'udito e un insegnate caprone e stizzosa di educazione musicale alle medie le musiche e le interpretazioni dei cori e dei singoli personaggi mi sono piaciuti e mi hannpo emozionatoproprio come quando Julia Roberts in prettywoman.viene portata all'opera da Richard Gere Concludo affermando che è una delle opere , più intese della cultura del nostro amato-odiato risorgimento e più attuale che mai
"Esce di mano a lui che la vagheggia/prima che sia, a guisa di fanciulla/che piangendo e ridendo pargoleggia,/l'anima semplicetta che sa nulla,/salvo che, mossa da lieto fattore,/volentier torna a ciò che la trastulla" (Purg., XVI).
Buon compleanno, Italia. Giovine Italia. Sei ancora come quella fanciulletta descritta da Marco Lombardo. Sei "un'anima semplicetta che sa nulla", e che "di picciol bene in pria sente sapore", smarrendosi poi, come nel giardino dell'Eden dopo il peccato di conoscenza. Così, d'improvviso, prima ancora di diventare adulta, ti sei ritrovata vecchia, stanca, spogliata e sterile. "Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?". Hai la Costituzione più bella del mondo, e per quella fame inesperta di vitalità diffusa e infantile permetti pure che la dileggino. E ne ridi, o te ne disinteressi esausta. I tuoi sono i peccati dell'inesperienza e dell'accidia, eppure la tua storia è antica. Culla d'Europa, si diceva con qualche ridondanza. Ma sei restata in culla. Hai accettato di farti violentare da oppressioni, dittature, atarassia e ti sei ninnata in quello stato di soggezione in cui ti ha mantenuto la gerarchia ecclesiastica. Ventre molle d'eterna madre, per una figlia mai svezzata. Italia che oggi vorremmo tornare a definire patria; vocabolo scrostato dagli orpelli nazionalistici e reazionari in cui l'aveva confinato il fascismo e scandito - assieme al celebre Inno del giovane Mameli - nei cori di chi, oggi, si batte per salvare lo Stato di diritto, l'eguaglianza delle leggi, la parità tra i cittadini. Italia che, per questo, sarebbe molto più Matria, e se lo fosse, oggi, ci troveremmo in un grembo adulto, cosmopolita, fecondo. E l'avevano compreso non solo le grandi figure di Garibaldi, Cavour e Mazzini, ma le stesse protagoniste di quegli anni, ancora integre per la scoperta: Anita Garibaldi Ribeiro , prima rivoluzionaria che moglie dell'Eroe. Prima brasiliana che italiana, e per questo, più fortemente nostra. L'unica donna tumulata nel Gianicolo, emblema dell'Indipendenza, è un'extracomunitaria, consorte di un uomo forse troppo vasto per un mondo solo: gliene occorsero, in effetti, addirittura due. Italia terra d'oppressi e perciò in prima fila accanto agli oppressi di tutti i tempi: lo affermava Mazzini e oggi quell'Italia dovrebbe stare accanto ai rivoluzionari arabi e a tutti i popoli che si battono per la democrazia. Non stupisce che a quest'idea di nazione, ma non di nazionalismo, siano del tutto estranee la sindachessa di Milano Moratti e la sua alleata Lega, che l'altro ieri ha preferito rimanere alla buvette mentre in Consiglio comunale, si eseguiva l'Inno di Mameli; mentre la cosiddetta prima cittadina si esibiva dalla sgallettata Barbara D'Urso, a Pomeriggio Cinque, ballando una sfrenata Waka waka. A quest'ultimo personaggio non dedichiamo una riga in più. La sua stretta e particolaristica visione, del resto, è arcitaliana, anzi, italiota: di quell'altra Italia che si rifiuta di crescere, di quell'Italia pargoletta, ineducata, afasica, di quell'Italia levantina e pigra, malgrado si fregi di sano realismo padano. L'Italia adulta, invece, è ancora accennata. In Anita, ma anche in Cristina Trivulzio di Belgiojoso , femminista, politica, scrittrice, e in un uomo, quel Salvatore Morelli , mazziniano, che condivideva col suo maestro, l'insegnante che amava la chitarra, l'idea che una nazione non può essere davvero libera senza il contributo delle donne.
Buon compleanno, Italia. Sei un disegno incompiuto che vorremmo, anzi vogliamo, completare già qui, ora, in questa vita.
N. B.: Nelle foto di questo servizio, alcuni momenti della mostra Italia Donna, realizzata dall'associazione Riciclando e ospitata a Bresso (Milano), nei locali dell'ex-ghiacciaia.