Un ulteriore conferma della semre pià diffusa [ SIC ] analfabetizzazione ed ignoranza culturale tanto da scambiare un personaggio lartistico letterario poi ripreso a scopo comerciale promozionale con un influencer
Il Fatto Quotidiano
LEONARDO BISON
Non c’è pace per la povera “venereitalia23”, la Venere del Botticelli in versione influencer creata dal ministero del Turismo l’anno scorso, che avrebbe dovuto rilanciare l’immagine del Paese mangiando pizza e andando sugli sci. Dopo le ormai arcinote polemiche e sfottò, e dopo due mesi di silenzio del profilo Instagram – l’unico social attivato nell’ambito della campagna pubblicitaria costata 9 milioni – tra giugno e agosto, ormai il profilo pubblica con relativa regolarità, anche per evitare critiche (“la Venere non era in pausa, era in giro” si era giustificata Santanchè in commissione alle Camere a novembre, per spiegare il silenzio estivo). La resa grafica e linguistica lasciano ancora a desiderare, i like ai singoli post variano da poco più di 300 a oltre 90 mila, segno che alcuni di essi vengono “pompati” con investimenti mirati.
Ma il problema che la Venere che fu del Botticelli si trova ad affrontare ora è un altro: sotto ognuno dei post, oltre a qualche decina di commenti in italiano – di norma ironici – ella viene letteralmente assaltata da centinaia di commenti molesti, tutti in inglese, degni dei peggiori bar. “Wow, sei bellissima”, “hai il fidanzato?”, “mi piacciono i tuoi capelli”, “sembri una star del cinema”, “ero in cerca di una come te, dove sei stata?”. Per restare sulle più gradevoli. Perché poi si passa a “hot”, “so hot”, “hot hot hot”, o “wicked” (traducibile con “perversa”, “viziosa”), fuochi, baci, bacetti. Ci sono così tanti uomini che non sanno distinguere tra una modella e un quadro rinascimentale modificato? Con ogni probabilità no, dati i nomi degli utenti, da kennaxxx a fakei_d5816 fino a kingshit (“re m**da”, per chi non pratica l’inglese), e la ripetizione ossessiva di messaggi simili o identici: si tratta di migliaia di utenti falsi (bot, nel linguaggio dei social), che si usano abitualmente per aumentare le interazioni nei profili commerciali. Ma che, in questo caso, non sono in grado di capire quello che stanno commentando (nel post di San Valentino, ad esempio, per qualche motivo le chiedono, in sequenza, quanto costi e come possano comprare il vestito che indossa). La conseguenza, è che la Venere simbolo dell’italia nel mondo, in quello che è un profilo ufficiale del ministero, è trattata alla stregua di una modella bisognosa d’attenzioni: chissà se questo è un uso “compatibile con il suo carattere storico o artistico”, come recita la legge, che vale per i cittadini, ma meno per i ministeri.
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che dire aggiungere qa quanto è già stato detto sulle cariche vili ( i cortei soprattutto quello di Pisa era acifico e disarmato ) della polizia a Firenze ed Pisa ? la risposta e riassumibile in questa battuta presa da Spinoza.it :
Piantedosi ha fatto identificare così tanta gente che se lo incontri è lui che ti saluta LA PALESTRA/MATTEO CAPPONI
ricevo come di consueto il whatsapp di Emiliano Morrone autore dell'articolo che trovzte sotto . Ed ogni volta che leggo sia le sue anteprime come quella d'oggi
È stata appena pubblicata, in apertura, l'intervista con Andrea Crobu, fotografo veneto di origini sarde che filma il mare e i laghi della Calabria per conto di un marchio internazionale della pesca sportiva. Il professor Crobu parla della bellezza della natura
calabrese rovinata da distese di spazzatura, della diffusa rassegnazione al brutto che si registra in Calabria, dei pericoli dell'autonomia differenziata, dell'inutilità - a suo avviso - del ponte sullo Stretto, della scomparsa dell'antimafia civile e dell'urgente bisogno, secondo la sua analisi, di una nuova classe dirigente, capace di impedire il consumo di suolo, imporre l'eguaglianza nei diritti e fermare lo spopolamento della regione.
mi acccorgo che è una dei pochi cronisti locali che racconta della sua bella terra , purtroppo assainata da: l'Andrangheta , dall'immigrazione selvaggia ( vedere nell'archivio mia intervista ad Emiliano per il suo libro la società sparente ) , dalla speculazione ( leggerre l'articolo sotto ) senza scadere in provincialismo . Infatti egli riesce a mettere in atto lo slogan ( in realtà è una necessità \ sfida vitale sempre più reale di reazione ad una globalizzazione assassina e neo liberista ) << pensare globale agire locale >> ( cit da mia dolce rivoluzionaria degli Mcr ) . Ma ora basta parlare lasciamo la parola all'articolo
da https://www.corrieredellacalabria.it/223/02/2024 – 9:30
di Emiliano Morrone
Si esprime attraverso immagini, ma stavolta fa eccezione. Andrea Crobu è un fotografo veneto di origini sarde, un videomaker che filma la natura calabrese per campagne pubblicitarie di un celebre marchio della pesca sportiva. Da diversi anni, il professionista – che parla cinque lingue e fa il globetrotter grazie alla propria intelligenza fulminea e passione per l’ambiente – riprende pescatori, albe e tramonti sopra il mare della Calabria, il cielo terso, le luci e i colori accesi della regione. «È una terra – spiega Crobu, quarantaduenne – dalle acque pescose, dalla bellezza ancora sconosciuta, ideale per questo mio lavoro. È però grave – aggiunge – che i suoi tesori naturali debbano convivere con lo squallore prodotto dagli uomini, con montagne di immondizia e cemento che ne violentano il paesaggio, ne mortificano la storia e ne compromettono il futuro».
Calabria “terza” patria
Laureato in Comunicazione, Andrea, anche esperto di informatica, tecnologie e applicazioni digitali, ha un radicato debole per la Calabria, che considera la sua terza “patria” dopo il Veneto e la Sardegna. Nel 2007 e più avanti, infatti, si inserì nel movimento antimafia che, nato a Catanzaro sull’onda emotiva dell’inchiesta giudiziaria “Why not”, riportò al centro del dibattito pubblico nazionale i temi della legalità, della trasparenza e della partecipazione alla vita politica. Non solo, allora Andrea insegnava discipline umanistiche e scientifiche a Verona, in una scuola regionale per muratori in cui teneva spesso lezioni coinvolgenti sui princìpi della Costituzione, a partire dall’eguaglianza nei diritti, sulla lotta culturale alle mafie e sull’importanza dell’impegno delle nuove generazioni per cambiare il sistema pubblico italiano. Tra l’altro, nell’ateneo veronese organizzava incontri sul coraggio della verità, di foucaultiana memoria, con il gruppo “Legalità e Giustizia”, interno alla rete antimafia del Nord.
Il curriculum
Prima di dedicarsi alla videografia, Andrea, che conosco e cui darò dunque del Tu nell’intervista odierna, si era occupato di mappature, tramite droni, dei danni alle colture venete e, per un lungo periodo, della creazione, con sofisticati cad, di modelli tridimensionali di protesi per bambini disabili. Nel suo curriculum, poi, è solito scrivere frasi che colpiscono, tipo «frequenta e tormenta fiumi e torrenti alpini in cerca di trote, temoli e salmerini» oppure «specializzato nell’inseguimento dei tonni». Il suo sguardo sulla Calabria è perciò privilegiato, perché, pur non avendoci vissuto, ne ha potuto esaminare da vicino pregi e difetti, potenzialità e paradossi, con il desiderio spontaneo, disinteressato, del riscatto civile, economico e sociale dei cittadini calabresi. «Dal bagnasciuga in avanti la Calabria è splendida, dal bagnasciuga indietro è problematica. Perciò – racconta Andrea – i miei committenti mi hanno chiesto di tagliare l’immagine, in modo da non mostrare che cosa c’è dietro la spiaggia, piena di distese di spazzatura. Allora ho dovuto alterare la ripresa, per non far vedere l’entroterra. È terribile».
È un guaio?
«A causa dell’invasione dei rifiuti, non riesco a scattare una foto, non riesco a trovare un’inquadratura in cui non ci siano resti bruciati, flaconi di candeggina e roba diffusa ovunque. Questo rende molto difficile il mio compito e sono obbligato a levare delle sequenze. Per dirti, salendo e scendendo da Cutro, a ogni curva c’è una discarica abusiva che è terrificante da far vedere. È come se ci fosse un cantiere permanente in cui le persone si trovano a vivere. Le case incompiute con la gente dentro le vedi solo lì. Dunque, ho una pressante sensazione di amarezza. Ma com’è possibile? I calabresi pagano le stesse tasse che pago io, perché non hanno una buona strada, perché non passa qualcuno a togliere quei rifiuti? Soprattutto, perché lì buttano schifezze? La spazzatura è l’espressione più ricorrente del brutto che rovina qualsiasi foto, qualsiasi immagine. Allora, devo filmare dal bagnasciuga all’orizzonte».
Mostri una Calabria truccata?
«Per forza, io vendo immagini, quindi finzione. Ti senti sollevato quando sei sulla barca e ti allontani dalla riva per goderti i tuoi 16 metri quadri, se hai una barca grande, oppure quattro metri di ordine, pulizia, libertà ed efficienza, se ne hai una piccola».
Vai molto in giro, per esempio in Scandinavia e in Messico. Il bagnasciuga come linea di confine è, a tuo avviso, un elemento distintivo della Calabria?
«Gli scandinavi credono nell’“estetica Lego”: tutto pulitino, lindo e pinto. Ma va anche detto che lì non c’è nessuno: la Scandinavia è grande; la Svezia è due volte e mezza l’Italia e ha un sesto della popolazione. In Italia, invece, abbiamo uno sviluppo di tipo medioevale, in sostanza con un paese a ogni giornata di cammino. Quindi abbiamo una popolazione diffusa, piuttosto che concentrata. Pertanto, non abbiamo grandi estensioni selvagge tra un paese e l’altro. Da qui origina la difficoltà di gestire territori con la densità abitativa dei paesini sparsi. Non è semplice fornire servizi moderni su una mappa medievale: organizzare la raccolta rifiuti su un territorio così ampio è molto più complesso che organizzarla a Città del Messico. Poi c’è l’indecenza collettiva di mollare la spazzatura ai lati della strada, di buttarla dappertutto; non che non ci sia anche altrove, per carità, ma in Calabria si nota tanto».
Che cosa è, disprezzo per gli spazi pubblici, è un rifiuto dell’ordine che rinvia all’epoca preunitaria?
«No, è semplicemente un’abitudine al brutto. Cioè: tu sei cresciuto, hai visto quell’ambiente per tutta la tua infanzia, che dunque ora reputi normale. Ti sembra invece strano quando vai altrove e non lo trovi: lì ti rendi conto della differenza. Io sono cresciuto in Veneto, dove la raccolta rifiuti è qualcosa di maniacale: i cassonetti non esistono più, c’è il sistema porta a porta più totale e ogni tanto ti trovi un biglietto in tasca e non sai dove buttarlo perché non ci sono neanche i cestini. Perciò devi portarlo a casa e metterlo nella carta che raccoglieranno fra tre giorni. Così, impari a gestire la permanenza del tuo rifiuto, prendi coscienza perché sai che, se non lo smaltisci il giorno del recupero, rimane con te e non sparisce premendo un pulsante. Quando sei circondato da ordine e pulizia, la presenza di spazzatura diventa ingombrante a livello mentale: ne senti proprio il peso, ti dà fastidio che ci sia quella lattina che hai in mano e devi buttarla un altro giorno».
Allora?
«È un’esperienza terrificante l’incontro con una piazzola di sosta zeppa di rifiuti o con la spiaggia coperta di plastiche, di oggetti che può aver portato il mare ma nessuno ha raccolto. In Sardegna, che pure non ha un’economia florida, non esiste la stessa situazione della Calabria: lì non ho mai trovato i sacchetti di spazzatura sulla spiaggia, neanche nelle zone meno sviluppate economicamente».
Hai fatto discorsi simili con le persone che hai incontrato in Calabria?
«Ultimamente no. Ma in passato ho lavorato a Sibari, con appassionati di pesca che avevano girato in lungo e largo il mondo. Avvertivano il disagio, il disgusto per l’indecenza della spazzatura nella Sibaritide, ma da due settimane il servizio di raccolta non funzionava e quindi ogni chilometro c’era una pila di sacchi alta da due a tre metri. I calabresi pagano le tasse ma hanno servizi peggiori. È un’assurdità; in un contesto del genere, tuo figlio non può crescere serenamente. In ogni società, l’aspetto fondamentale è il trattamento dei propri rifiuti. Ai bambini si insegna subito a stare puliti. Del resto, pensa al discorso del filosofo Slavoj Žižek sull’eliminazione dei rifiuti. Žižek allude al tratto politico della Francia, quando ricorda che “il buco del gabinetto francese è posto sul retro per nascondere le feci alla vista e scaricarle il più velocemente possibile”».
Che cosa intendi dire?
«Quando vedi che il settore pubblico non ti passa nemmeno la pulizia, capisci che ci sono dei riflessi pesanti. Poi vai a pesca e scopri che tanta gente butta in acqua le cassette di legno oppure le esche. Questo è ciò che più mi colpisce ogni volta che vengo in Calabria. Ci soffro: mi fa stare male vedere in queste condizioni il vostro territorio, che è di un fascino unico, non solo dal punto di vista orografico. Poi c’è l’abusivismo edilizio. A Torre Melissa hanno recentemente demolito un palazzo mostruoso».
Che cosa spinge alla cementificazione?
«C’è una bulimia irrefrenabile nell’edilizia che consuma il territorio, forse per cercare di imporre un modello di sviluppo che non funziona. Poi c’è un’archeologia industriale, in Calabria, lasciata a decomporsi, senza piani di smaltimento. Questa situazione esiste anche in Sardegna. Se tu costruisci uno stabilimento e poi fallisce, l’edificio rimane lì a decomporsi organicamente. Si aspetta che la terra lo inghiottisca e magari ci vogliono 200 anni. Ci sono saline abbandonate che sono lì, stabilimenti vecchi che sono lì, restano lì. Non viene imposto al proprietario di ripristinare il decoro dell’ambiente».
Per esempio?
«Prima di arrivare a Crotone, vedi dinosauri industriali in attesa di diventare scheletri. A poco a poco crolleranno e chissà per quanto tempo rimarranno. Per molti che li guardano, però, sembra normale che quelle strutture si decompongano così. La bruttezza non viene portata via in alcun modo e tu ce l’avrai davanti alla faccia per tutta la vita».
Che cosa diresti al presidente della Regione, che sta provando a dare un’altra narrazione della Calabria, con grossi investimenti nella promozione del turismo?
«È una buona idea, che indica dinamismo. Tuttavia, prima di andare a stimolare la domanda, bisogna creare l’offerta. Io non posso arrivare in un luogo in cui devo fare attenzione a che cosa fotografo, se no poi la foto è brutta perché si vede la spazzatura. Prima devi pulire per terra, poi fai venire gli ospiti. Prima devi essere sicuro che ci siano servizi dappertutto, perché il territorio calabrese è stupendo, ma non possiamo visitarlo sotto forma di campeggio selvaggio o pensando di andare in un paese sperduto, in cui devi portarti tutto da casa».
In pratica?
«All’aeroporto di Lamezia Terme, per esempio, devi ancora fare la coda per prendere l’aereo: spesso trovi aperto un solo banco per il check-in e non è automatizzato il trasporto dei bagagli. Per non parlare, poi, della differenza abissale che c’è tra la costa tirrenica e quella ionica. Sul Tirreno c’è l’aeroporto con i voli quotidiani, c’è il treno più o meno veloce che arriva, c’è l’autostrada eccetera. Per attraversare la Calabria da est a ovest, non c’è verso di prendere un mezzo. Se in treno devo andare dall’aeroporto di Lamezia a Torre Melissa, impiego sei o sette ore, ammesso di atterrare in una fascia oraria in cui questo treno esiste. È un problema condizionante: sei vincolato al possesso dell’automobile. Quando accade in un posto geograficamente piccolo, vuol dire che non c’è un’infrastruttura di supporto al cittadino; vuol dire che, finché non ha l’auto, un ragazzino non esce dal suo paese».
Con quali conseguenze?
«Esiste questo tipo di sottosviluppo che impedisce la crescita di mentalità moderne, di idee imprenditoriali anche diverse, basate su approcci meno distruttivi del territorio. In Calabria hai la fortuna, paradossalmente, di essere arrivato nel 2024 senza aver avuto il boom economico vero e proprio. Hai qualche scheletro industriale rimasto dalla seconda metà del Novecento, quando ancora si produceva industrialmente e con infrastrutture ancora peggiori di quelle di adesso. Ora potresti osservare che la tecnologia è andata avanti e che potremmo fare roba molto più bella partendo da zero».
Bisogna dunque ripartire da una visione differente?
«La Calabria non è il Veneto, che deve raddoppiare la ferrovia costruita in età austriaca, che ha l’infrastruttura dell’800 e deve riuscire a riadattarla. Perché devo impiegare 45 minuti da Torre Melissa a Crotone, se rispetto i limiti? I limiti sono così bassi perché si sa che le strade non sono all’altezza di sopportare velocità più elevate. Allora, ogni giorno perdi tanti minuti per fare qualcosa. Fortunatamente, adesso la copertura del cellulare è molto buona. Paradossalmente, però, è quasi peggio, perché se tu sei povero e hai la televisione e Internet per guardare il mondo, ti rendi conto della tua condizione. Magari ti domandi perché il tuo coetaneo del Nord ha la scuola con il videoproiettore di ultima generazione, con strumenti e strutture a modo, e tu sei invece ridotto così. Perché in quel posto c’è lo skate park, la pista ciclabile eccetera, e in Calabria a malapena un parchetto?».
Però potresti sembrare prevenuto, se non addirittura razzista.
«No, io mi sento calabrese e lo dico in senso costruttivo, per contribuire a un cambio di mentalità. Quello che mi fa più male, quando vengo in Calabria, è vedere che spesso i cittadini sono trattati come servi. Allora, uno che cosa fa? Quando non ha accesso a beni e servizi, compra simboli tipici del capitalismo: l’iPhone 15 e quelle piccole cose che può acquistare individualmente perché non ha il treno ad alta velocità. Per me, Roma è a tre ore da dove vivo. So che alle sette del mattino prendo il treno, alle dieci sono lì per lavoro, faccio quello che devo, alle 13,30 riprendo il treno e alle 16 sono a casa. Provaci da Crotone, dato che la distanza è la stessa!».
I collegamenti sono un argomento della vecchia retorica sulla Calabria?
«Se tu dovessi disegnare una mappa della regione, non sulla scala geografica ma su quella dei tempi di percorrenza da un posto all’altro, la Calabria sarebbe grande come l’Inghilterra, in cui per andare da nord a sud tu impieghi giorni. In Calabria, è inconcepibile che uno vada dalla punta nord a quella sud e ritorni in giornata. Solo che questo problema, secondo me, non viene percepito per abitudine e rassegnazione. Non è un limite soltanto calabrese, ma di tutte le regioni che hanno il sottosviluppo. Quando lavoro in Messico, in aeroporto viene a prendermi un uomo che in tutta la vita non è mai uscito dalla provincia di residenza, in quanto non ha i mezzi per farlo. Viene a prendermi in auto e torna indietro. In vita sua non ha mai visto il mare, eppure ce l’ha a due passi».
In Calabria c’è, a tuo avviso, l’altra faccia della medaglia?
«Dal punto di vista ambientale, fortunatamente, dove non riusciamo a mettere le mani la Calabria è spettacolare. Sott’acqua, nei laghi della Sila, è un capolavoro. Ci sono cose incredibili, i fiumi sono pieni finché non riusciamo a metterci le mani. Quindi, tu stai andando disparatamente in cerca di zone di sottosviluppo totale, naturalmente preservate, dove non siamo ancora riusciti a mettere le mani. In Calabria hai l’impressione che tutto quello che c’è di bello da vedere non è stato fatto dall’uomo, oppure è stato fatto minimo due secoli fa».
Ormai sono tanti anni che conosci la Calabria.
«Io e te andiamo indietro di 15 anni, anzi, 17».
Allora ti interessavi di legalità e giustizia. In Calabria quanto pesa, con i tuoi occhi di oggi, la criminalità organizzata? Quanto pesa, invece, la rassegnazione, l’abitudine, la mentalità dominante?
«Sono arrivato a convincermi che l’etica sia estetica, che il valore del bello e del brutto siano reali e abbiano un’importanza esistenziale molto alta. La criminalità organizzata produce essenzialmente bruttezza: produce bruttezza morale, ritardo nello sviluppo economico, bruttezza nelle infrastrutture, bruttezza in tutto. Quando tu travalichi norme e leggi volte a tutelare la pubblica decenza, non puoi che vivere in uno stato di degrado e povertà. Se in Calabria uno prendesse 5mila euro al mese come responsabile di turno in officina, e se dunque fosse pagato come in Svezia, non penserebbe di avvicinarsi alla criminalità organizzata. Anzi, si terrebbe a distanza e ne sarebbe disgustato».
Brutto è male, allora.
«La ’ndrangheta si nutre del senso di impunità, della percepita assenza dello Stato cui si sostituisce. Solo che non si sostituisce come una comunità autosufficiente che vuole bene alla sua terra e tutela il proprio territorio, ma si sostituisce come mentalità predatoria, con un’idea talmente medievale dello spazio pubblico che può essere riassunta così: se è bello dentro casa mia, non importa che fuori ci sia lo schifo. I boss avranno la villa lastricata di oro e avorio, ma all’esterno devono fare i conti con l’immancabile spazzatura ai lati della strada, perché anche loro sono frutto di quel tipo di realtà, anche loro sono cresciuti così. Quindi hai gente che muove miliardi nello squallore. Ricordiamoci gli episodi di San Luca, quando siamo scesi giù per la prima volta: sotterranei pieni di ogni lusso e fuori la miseria totale. La ricerca della ricchezza privata a scanso della povertà pubblica produce questi paradossi. Quando in un paese con le strade bucate vedi Cayenne che girano, diffida di chi li guida».
Che cosa pensi dell’autonomia differenziata?
«Vivo nel terrore di questa prospettiva. Pensavo che fossero deliri propagandistici, ma questi sono sinceramente convinti. Se passa, i presidenti di Regione potranno privatizzare la sanità, se vorranno. Inoltre, potranno assumere i professori, potranno riscrivere i programmi scolastici e prendere decisioni terribili. L’autonomia differenziata è il frutto di un indecente accordo tra le tre forze di governo. Meloni prenderà il premierato per avere più potere; la Lega prenderà la secessione che ha sempre inseguito e porterà a casa le autonomie locali, che altro non sono che la secessione. Dal canto suo, Forza Italia, che finalizzerà l’attacco storico ai magistrati e alle leggi sul controllo della spesa, otterrà la depenalizzazione dei reati di abuso d’ufficio. Quindi penso tutto il male possibile dell’autonomia differenziata, specie perché condanna regioni come la Calabria, storicamente massacrate, alla perpetuazione del sottosviluppo più totale».
Che cosa pensi del ponte sullo Stretto?
«Metti che sia ingegneristicamente fattibile e che, schioccando le dita, magicamente domattina ce l’abbiamo. Dove stiamo andando? Arriviamo in Sicilia e poi ci mettiamo sei ore per raggiungere Palermo, perché non c’è l’autostrada in mezzo. Facciamo il passaggio per i treni e poi di là non c’è la ferrovia. Prima porti Calabria e Sicilia a un livello di sviluppo degno del ventunesimo secolo, con l’alta velocità sia in fibra ottica che in treno, con l’autostrada normale eccetera, poi fai l’infrastruttura stratosferica di collegamento tra le due realtà».
Negli anni 2007-2008 c’era una grande attenzione per la Calabria, c’erano i movimenti antimafia e in Rai si parlava molto di legalità. È finita per sempre quella stagione?
«Quella stagione è stata segnata da quello che mi piaceva definire “consumo civico”, nel senso che piaceva leggere di antimafia. C’è stata un’epoca d’oro in cui la lettura di libri e la frequentazione di iniziative specifiche erano viste come buone attività da portare avanti. Però, nel lungo periodo, abbiamo sperimentato che era soltanto una moda, che non ha prodotto quel risultato elettorale che si sperava arrivasse in virtù dell’impegno della società civile. Allora c’erano le trasmissioni di Santoro e nasceva “Il Fatto Quotidiano”. Tuttavia, quei contenuti non sono entrati nel mainstream. Noi non abbiamo speranza contro il potere di altre forme televisive, contro i reality, contro lo sport, contro tutte le altre forme di distrazione che esistono. L’antimafia funziona a seguito di eventi clamorosi».
Cioè?
«Se domattina la camorra fa saltare Gratteri, mi auguro che non accada mai, allora si ha una nuova situazione di antimafia, una nuova stagione di impegno civico, di disgusto e sdegno collettivo. Però le mafie questo l’hanno capito e stanno attente. Finché non c’è il grande caso nazionale, l’interesse per l’antimafia è limitato a qualche serie tv. Insomma, c’è stata la stagione di “Gomorra” e quella di “Suburra”, ma paradossalmente quelle serie hanno contribuito a glorificare il criminale, che viene visto come un eroe invece che come portatore di male».
Quindi, spostandoti dal bagnasciuga verso l’interno, non vedi soluzione per la Calabria?
«Io vedo una grossa opportunità nel fatto di aver aspettato così tanto per poter investire nello sviluppo: ti eviti gli orrori degli anni ’80 e ’90, quindi in Calabria c’è uno spazio interessante, se la regione riesce a esprimere una classe dirigente illuminata che capisca che non resterà più nulla, fra 30 anni, continuando con la mentalità dominante. Andiamo incontro a un inverno demografico: nei prossimi 20 anni verrà archiviata la generazione dei nati fra il ’50 e il ’60, che è la più numerosa della storia italiana. In Calabria, che ha un’alta percentuale di pensionati, ci sarà uno spopolamento folle. Se la classe dirigente non vedrà oltre la prossima tornata elettorale, si troverà a governare una regione vuota. Se poi passa l’autonomia, io la vedo molto dura; specialmente se si lascia mano libera alle realtà locali, che sono meno controllate delle realtà nazionali». (redazione@corrierecal.it)
A volte mostrarsi senza fltri e senza accorgimeti digitali cioè come si è realmente s'ottiene di più senza essere eroi (cit)è il caso di Sarah Nicole Landry, conosciuta anche come The Bird’s Papaya sui social media, sta guadagnando milioni di fan promuovendo l’empowerment femminile.
Nel suo profilo Instagram, che conta già più di 2 milioni di follower, Sarah di solito pubblica contenuti positivi sul suo corpo per aiutare le donne ad amarsi.
Recentemente, la madre di quattro figli è diventata virale dopo aver pubblicato ( vedere foto a sinistra ) un selfie allo specchio,
in cui appare in bikini, mostrando le sue smagliature, la cellulite e l’eccesso di pelle a causa delle gravidanze.
“Non ho mai visto smagliature o cellulite in pubblicità o online. E poi, un giorno, ho iniziato a farlo. Sembrava elettrizzante. Guarigione, persino. Adoravo identificarmi. Adoravo sentire che potevo vedermi negli altri”, ha scritto lei in didascalia.
“Mi ci sono voluti anni per allontanarmi dall’immagine degli altri. Dalle passerelle e dai programmi TV. Dai miliardi di persone che camminano su questa terra con me. Quanto è liberatorio essere solo il riflesso di se stessi.”
Il post, che ha già ricevuto più di 44.000 mi piace, ha commosso gli utenti di Internet. “Sono molto grata a te e per aver mostrato tutte le tue parti. Molto di quello che dici sembra uno specchio per me. Grazie”, ha commentato un utente di Instagram “Sei bellissima! E che ispirazione!”, ha detto un altro. “Un giorno avrò questa fiducia. Un giorno”, ha affermato un terzo. “Vedere qualcuno con un corpo simile al mio… È per questo che sono qui”, ha festeggiato un altro utente di Internet.
“Sei bellissima! E che ispirazione!”, ha detto un altro. “Un giorno avrò questa fiducia. Un giorno”, ha affermato un terzo. “Vedere qualcuno con un corpo simile al mio… È per questo che sono qui”, ha festeggiato un altro utente di Internet.
Ma i nostri rapressentanti politici sanno usare ( o lo fano usare ai loro adetti stampa ) il web solo per propaganda o spargere diusinformazione ed odio verso i loro avversari ? il caso della Gaffè non sa che la maggior parte delle informazioni e delle campagne pubblicitarie passa prima per la rete che per la televisione e i giornali ? la gaffè del ministro dei traporti ed infrastrutture che per ascusarsi specifica che i filmati non sono ancora andati in onda sulla tv pubblica né è stata definita la loro effettiva programmazione.meglio il silenzio piuttostoi che una ..... del genere
Infatti È polemica sui nuovi spot del Mit per promuovere la sicurezza stradale mettendo in risalto comportamenti pericolosi tra quelli che creano maggiori incidenti stradali: l’uso di droghe, la distrazione per i telefonini, l’alta velocità. I ragazzi usati per raccontare gli episodi, cercando di fotografare momenti di euforia, sono quasi sempre senza cintura. Ma i filmati saranno cambiati, assicura il regista Daniele Falleri che si dice rammaricato, mentre il ministero delle Infrastrutture e Trasporti specifica che i filmati non sono ancora andati in onda sulla tv pubblica né è stata definita la loro effettiva programmazione. I tre spot resi noti dal ministero sono tutti e tre centrati sui comportamenti scorretti di una comitiva di ragazzi e ragazze che entrati in macchina in un caso fumano uno spinello, nel secondo caso si distraggono guardando un cellulare e nel terzo decidono di fare una corsa viaggiando ad alta velocità. Alla fine dello spot l’immagine si sdoppia: da una parte si vede il comportamento errato e l’incidente; dall’altra parte invece il diverso esito della serata se il guidatore rifiuta di fumare lo spinello, chiede di non essere disturbato o, come nel terzo caso, proprio non accende il motore e invita a prendersi una pizza. «Non fai la scelta giusta, fai l’unica possibile», dice alla fine il pilota-testimonial Giancarlo Fisichella. Ma in nessuna delle diverse situazioni i protagonisti dello spot indossano le cinture di sicurezza. Sul tema, che raccoglie molte critiche sui diversi canali social, si è acceso anche l’interesse della politica. È intervenuto il capogruppo del Pd in commissione vigilanza Rai Stefano Graziano per chiedere al dipartimento per l’editoria di bloccare la nuova campagna sulla sicurezza stradale. Lo stesso fanno con una nota un gruppo di deputati del M5s che attaccano Salvini: «Guardando bene la pubblicità», affermano i deputati pentastellati, «tutte le persone nell’auto sono senza cinture di sicurezza allacciate. Uno spasso: è la mesta conferma che Salvini e sicurezza stradale sono due rette parallele destinate a non incontrarsi mai».È quindi intervenuto il regista che ha spiegato l’intento e annunciato alcune modifiche. «Rammaricano», ha affermato Falleri, «le polemiche sugli spot riguardo la sicurezza stradale, che sono stati realizzati unicamente con l’obiettivo di sensibilizzare i giovani su alcuni comportamenti della vita di tutti i giorni, senza edulcorazioni. L’intento di questi filmati è e rimane educativo, apporteremo quindi alcune modifiche affinché gli spettatori non vengano distolti dall’unico obiettivo che ci sta veramente a cuore: sensibilizzare tutti a contribuire, ognuno nel suo piccolo, a salvare vite umane».
Mantova Utilizzano come barbecue un’opera d’arte costata 150mila euro e poi scappano a gambe levate dai vigili urbani
Quei bravi ragazzi di Suzzara. “Hanno utilizzato un’opera d’arte da oltre centomila euro come barbecue per una festa e solo all’arrivo di una pattuglia della Polizia locale se ne sono andati, lasciando anche rifiuti tutt’intorno”, si legge sull’ansa. Succede appunto a Suzzara, in provincia di Mantova: “In rete è finito un filmato della festa che un gruppo di giovani aveva organizzato sull’installazione artistica Sweet Home dell’artista Umberto Cavenago, collocata nell’area golenale del Po denominata San Colombano. I ragazzi erano saliti su quell’opera d’arte che assomiglia ad una barca coperta e hanno acceso un barbecue, costruito con alcuni massi raccolti intorno, per grigliare della carne”. Al di là della sensibilità artistica, l’opera ha un valore economico: “L’installazione in ferro era costata 153mila euro, di cui 103 finanziati dal Piano per l’arte contemporanea 2020, un progetto promosso dal ministero della Cultura, e gli altri 50mila sborsati direttamente dal Comune di Suzzara”. Buoni per farci la griglia. Article Name:Mantova Utilizzan
Roma Scappa dopo un lifting ai glutei da 20mila euro. Il chirurgo: “Restituisca almeno i drenaggi”
Stira il sedere e scappa. A Roma una 38enne accumulatrice seriale di chirurgia estetica si è data alla macchia dopo un impegnativo intervento di lifting ai glutei. Un’operazione durata sei ore e che sarebbe costata circa 20mila euro, ma la donna non ha saldato la parcella (solo un anticipo di mille euro) e ha preferito una “fuga rocambolesca – scrive Repubblica – con i drenaggi, le protesi e la guaina pur di non pagare quanto dovuto. Poco ha potuto fare il personale sanitario che l’ha vista dileguarsi a bordo di un’auto dove, presumibilmente, l'aspettava il compagno”. Il medico che l’ha operata è stato costretto a denunciarla e a chiederle pubblicamente, sui social, “di restituire almeno i quattro drenaggi”. La signora è recidiva: “Da una breve ricerca il chirurgo ha scoperto che la donna era già ‘ricercata’ da un altro collega al quale avrebbe rubato un trattamento di medicina estetica con acido ialuronico di filler alle labbra”. In quel caso fuggì “con la scusa di dover andare a prendere la borsa nell'auto
Croazia A Zagabria c’è il “Museo delle relazioni interrotte”, dove si conservano i ricordi delle storie d’amore finite male
A proposito di San Valentino, un’idea curiosa e romantica arriva da Zagabria, dove si può visitare un “Museo delle relazioni interrotte”. Lo racconta la Reuters: “Una crosta causata da un vecchio incidente in moto. Un abito da sposa mai indossato. Una gamba protesica. Un’ascia. Mentre il mondo celebra San Valentino, un museo a Zagabria ha raccolto oggetti che commemorano storie a volte bizzarre di amore perduto”. Il museo è stato fondato nel 2006 in pieno centro, è gestito da privati e “ha migliaia di pezzi, alcuni ordinari, altri strani, ciascuno emblema di una storia d’amore morente”. Come ha spiegato il cofondatore, Drazen Grubisic, “non sono gli oggetti, ma le storie ad essere intriganti ed emozionanti”. La protesi, per esempio, apparteneva a un veterano di guerra che si era innamorato di un impiegato del ministero della Difesa dopo l’operazione alla gamba. “Questo è un museo sull’amore – ha detto Grubisic –. Quando un rapporto finisce, c’è una prospettiva nuova”. Article Name:Croazia A Zagabria c’è il “Museo delle relazioni in
Perù A San Valentino un poliziotto si traveste da orsetto di peluche per arrestare due donne narcotrafficanti
Poliziotti puccettosi per combattere il narcotraffico. Succede in America Latina. “La polizia peruviana – scrive La Stampa – ha usato un trucco approfittando di San Valentino per catturare una donna spacciatrice: un poliziotto si è travestito da orsacchiotto che porta messaggi d’amore e ha attirato l’attenzione della donna che la polizia sospettava detenesse la droga. Quando la donna è uscita i poliziotti l’hanno fermata e perquisito la casa, trovando sacchi di droga già divisa in dosi e pronta al consumo. L’operazione è avvenuta nel nord di Lima, a San Martin de Porres. La polizia ha arrestato anche un'altra persona. Le due donne, una madre e sua figlia, sono state accusate di spaccio di droga”. Nel video si vede l’orsetto bruno di peluche, con un palloncino a forma di cuore, accovacciato di fronte alla casa della pusher con le zampe spalancate. Dopo pochi secondi l’infido plantigrado le salta addosso e la ammanetta. Vatti a fidare.
Firenze Un bambino di 3 anni dimenticato per un’ora e mezza nello scuolabus, si fa liberare suonando il clacson a ripetizione
Un bimbo di 3 anni è stato dimenticato per più di un’ora all’interno dello scuolabus a Gambassi Terme, in provincia di Firenze. Cose che possono capitare, in fondo, tanto più che è stato lo stesso fanciullo intraprendente a farsi liberare attaccandosi al clacson del bus, finché qualche adulto non si è finalmente accorto di lui. “Suonando da solo insistentemente il clacson del mezzo”, scrive Today, “il piccolo è riuscito a farsi notare da una passante che ha immediatamente dato l’allarme. La donna ha chiesto aiuto al personale della scuola primaria che ha liberato il bambino”. Non vinceranno il premio di scuola dell’anno. “L’autista non si sarebbe accorto che il piccolo era ancora a bordo e aveva parcheggiato il mezzo nelle vicinanze di un istituto scolastico. Da quanto riportato è rimasto dalle 8 alle 10:30 circa all’interno del mezzo. Dopo essere stato liberato, è stato portato a scuola e sono stati avvertiti i genitori, il sindaco di Gambassi Terme ha promesso che sarà individuato il responsabile.
Amsterdam Piovono vermi in cabina, il volo è costretto a invertire la rotta: “È colpa di un pesce andato a male”
Sembra la sceneggiatura di una piaga biblica, ma è solo un volo della Delta da Amsterdam a Detroit, durante il quale decine di “vermi sono letteralmente caduti sulla testa dei passeggeri” (lo riporta il sito di Sky Tg24). La colpa è di un passeggero “che ha portato del pesce marcio sull’aereo, collocato in un bagaglio a mano riposto poi in una cappelliera”. Nella carne guasta sono proliferati i vermi che poi sono piovuti sulle teste dei passeggeri durante il viaggio. Non dev’essere stata la migliore delle esperienze. “Philip Schotte, originario dei Paesi Bassi e residente in Iowa, ha raccontato ai media di aver visto almeno una dozzina di vermi cadere su una donna, proprio durante il volo. ‘Ho provato realmente disgusto’, ha detto, rivelando come gli assistenti di volo abbiano rintracciato i vermi nella borsa di un passeggero situata nella cappelliera, dove hanno trovato un pesce avvolto in un giornale”. L’aereo ha invertito la rotta ed è tornato all’aeroporto di Schipol.
Stati Uniti La sfida dell’influencer da 400mila follower: “Mangio pollo e uova crude per 100 giorni consecutivi”
Il mondo, lo sappiamo, pullula di cretini e i social ne sono lo specchio deformante. Tra i più recenti eroi digitali spicca il nome di John, un uomo che ha avuto il buonsenso di omettere il suo cognome, ma è diventato famoso per aver lanciato e documentato questa sfida: mangerà pollo crudo per 100 giorni consecutivi, o almeno fino a quando non finirà all’ospedale. Il Raw Chicken Experiment (Esperimento del pollo crudo) è seguito da oltre 410mila follower. Lo apprendiamo da Leggo: “Nel corso dei giorni (ha scavallato il trentesimo, dr) il protagonista ha condiviso video e foto di sé stesso mentre gusta pezzi di pollo crudo – siano essi cosce, filetti, o persino un intero volatile con tanto di interiora – accompagnati da salse piccanti e uova altrettanto crude”. Un autentico imbecille. “John paragona il sapore del pollo crudo a quello del sashimi giapponese, suggerendo che, se preparato correttamente, può essere considerato un’alimentazione sicura e prelibata. Un altro beneficio è disgustare le persone e farle incazzare”.
IN MERITO ALLA RAPPRESENTAZIONE della tragedia delle foibe, presentata come un accadimento che visse di una storia a sé stante, senza un prima accuratamente dimenticato dalla destra neofascista e di governo italiana )è bene ricordare che senza la velleitaria e incosciente aggressione bellica di Mussolini, le Foibe non avrebbero avuto motivo di accadere e l'istria e la Dalmazia sarebbero tutt’oggi territorio italiano. In attesa, purtroppo, che anche in Italia le scuole abbiamo libri di storia scritti dal governo .
ANTONELLO SERRA
SE OGGI QUALCUNO PUÒ PERMETTERSI di affermare che anche i 30mila morti di Gaza (donne e bambini compresi) sono ascrivibili alla ferocia di Hamas per l’attacco del 7 ottobre scorso, allora la sua tesi su Mussolini come responsabile storico e morale anche delle foibe può avere una sua ragione. Io non credo invece che, per vicende come queste, ci si possa affidare solo a fredde e quasi aritmetiche ricostruzioni di colpe originali e pressoché assolute. Semmai, vale la pena ricordare che il 10 febbraio, Giorno del ricordo, è dedicato oltre che alla memoria delle foibe, anche all’esodo giuliano-dalmata avvenuto per l’entrata in vigore dei trattati di pace e per il trasferimento di quei territori sotto la sovranità della Jugoslavia. Una conseguenza, questa sì, netta e precisa delle scelte del regime fascista. Quanto alle foibe, su di esse da anni si sta compiendo
anche un’operazione politica che vorrebbe farne quasi un contraltare alla Giornata della memoria del 27 gennaio che, deve essere ben chiaro, non ricorda solo la Shoah, ma anche le complicità del fascismo italiano, e dunque anche di una parte di italiani, per lo sterminio nazista degli ebrei. Ecco, io penso che proprio nell’irrisolta questione del riconoscimento pieno di ciò che è stato il fascismo si nascondano le cause di cortocircuiti storici come quelli che lei, gentile lettore, sottolinea. E sempre su questo argomento, credo valga la pena leggere il libro dello storico Eric Gobetti, “E allora le foibe?” (Laterza editore, 2023) che, senza negare la tragedia, smonta invece speculazioni, dati e circostanze false e falsificate e, soprattutto, l’uso retorico del tentativo di una sorta di “rivincita” impossibile.
Ha ragione tale sindaco . Qui non si tratta di razzismo ma : di coerenza e di buon senso .Se una persona che decide di prendersi la cittadinanza italiana e risiede per 20 anni senza conoscere la lingua tanto da non capire cosa gli viene chiesto di giurare non la merita . A prescidere che sia un sindaco di un ideologia opposta alla mia , ha perfettamente ragione
Il sindaco di Pontoglio l'ha fatto di nuovo. Il leghista Alessandro Pozzi ha negato la cittadinanza a una donna marocchina, residente in Italia da 21 anni. Era successo già nel 2022, con una donna di origini indiane. Con un lungo post sui social, Pozzi ha spiegato che «è stata un gesto doveroso, di rispetto verso i cittadini di origine straniera che sono diventati italiani e si sono integrati nella nostra comunità».«Questa signora, residente in Italia dal 2003 (21 anni), ha purtroppo dimostrato, non solo di non possedere il livello minimo di conoscenza della lingua italiana, ma, ancor più preoccupante, durante la cerimonia ha mostrato difficoltà nel capire la richiesta di pronunciare il giuramento richiesto dalla normativa. Come vostro rappresentante, e ancor prima come pubblico ufficiale, è mio dovere udire il giuramento dell'intervenuto: questa signora, dopo tre richieste, non è riuscita a pronunciarlo - ha scritto -. Negare la cittadinanza è stata una conseguenza inevitabile».Continua Pozzi: «Non sapere nemmeno rispondere ad un semplice "Come ti chiami?", dopo oltre 20 anni, solleva non solo legittime preoccupazioni pratiche, ma anche interrogativi più ampi sulle barriere che potrebbero esistere nel processo di integrazione, sia a livello familiare che sociale. È preoccupante pensare che una donna possa trascorrere così tanto tempo in Italia senza acquisire una conoscenza minima della lingua del paese ospitante, ciò solleva dubbi sulla reale inclusione nel corso di questi anni. Mi pare evidente che non abbia mai voluto integrarsi e partecipare ai corsi di italiano offerti, messi a disposizione anche dal mio Comune dove non era tra gli iscritti. Nemmeno a quelli di Chiari. Questo sarebbe stato il "primo passo" necessario, in virtù della richiesta di ottenimento della cittadinanza.
Quarant’anni fa l’attentato al Rapido 904 spezzava vite e cambiava destini. Anche quello della famiglia Taglialatela, dimezzata dall’esplosione. Nella settimana in cui la Procura di Firenze è tornata a indagare sui responsabili della bomba, Gianluca Taglialatela racconta la sua storia di sopravvissuto e il suo bisogno di verità
Il 1984 era stato un anno felice per la famiglia Taglialatela, vivevano a Ischia e non avevano pensieri o problemi. Papà Gioacchino la mattina lavorava in Comune e il pomeriggio faceva il geometra; mamma Rosaria aiutava suo padre nel ristorante di famiglia; Gianluca, che era in terza media, appena poteva correva a giocare a tennis e Federica, che aveva solo 12 anni, era quella che le maestre chiamavano “una bambina modello”, educata, sorridente, bravissima a scuola. Per Natale avevano deciso di lasciare l’Isola per andare a sciare a Livigno, ma pur avendo passato giornate a telefonare a tutti gli alberghi, non avevano trovato posto. Così avevano deciso di andare a passare le feste dai parenti che abitavano a Milano, gli zii che erano scappati al Nord dopo il terrore del terremoto del 1980. A Milano avrebbero festeggiato anche i 14 anni di Gianluca che li compiva il giorno della Vigilia. Il regalo però glielo avevano già dato a Ischia: una nuova racchetta da tennis. La teneva stretta quando alle 12:55 del 23 dicembre 1984 il Rapido 904 partì dal binario 11 della stazione di Napoli.
Alcune fotografie della famiglia Taglialatela
Appena saliti si erano sistemati nel primo scompartimento della carrozza di seconda classe, ma era tutto bagnato e puzzava, allora decisero di cambiare e si spostarono di due scompartimenti. Gianluca si era portato la radiolina e fino all’arrivo a Roma ascoltò la telecronaca di Juventus-Napoli. Aveva vinto 2-0 la Juve allenata da Trapattoni, il gol del raddoppio lo aveva segnato Michel Platini. Era il primo anno di Maradona al Napoli e nonostante le grandi speranze la squadra ancora non era decollata. Il treno era pienissimo e si riempì ancora di più a Roma, c’era gente seduta sulle valigie e per terra, in corridoio. I Taglialatela si misero a giocare a carte. «Quando il treno si è fermato alla stazione di Firenze – ha raccontato la signora Rosaria - io sono uscita dallo scompartimento per fumare una sigaretta e mio marito è sceso per comprare un pacco di biscotti ai ragazzi. Nel corridoio non c’era più nessuno, il treno si era svuotato, mi sono messa al finestrino a osservare la gente che scendeva, poi ho visto un signore che appoggiava due borsoni scuri nella reticella portabagagli del corridoio. Io ero di fronte al mio scompartimento, c’erano i miei figli e una ragazza che mangiava una mela. Guardavo quell’uomo robusto, aveva un cappotto cammello e un basco sulla testa, e non capivo perché mettesse le sue borse all’esterno dello scompartimento e non dentro. Poi è arrivato mio marito, siamo entrati dentro, abbiamo dato i biscotti ai ragazzi e il treno è ripartito verso Bologna. Ci siamo rimessi a giocare a carte e dopo dieci minuti, un quarto d’ora, mentre eravamo in galleria, è successo quello che è successo».
Quello che è successo è che alle 19:08, mentre il Rapido 904 percorreva la Grande galleria dell’Appennino, ci fu una terribile esplosione che uccise 16 persone e ne ferì 267. Un attentato voluto dalla mafia, nel momento in cui Tommaso Buscetta aveva cominciato a parlare con il giudice Giovanni Falcone. «Si parlava, si rideva, e in una frazione di secondo tutto è cambiato. Sono stato investito dal calore, dai detriti, scaraventato lontano. Ricordo il buio. Come nei film c’è stato un momento di silenzio totale, poi gemiti, urla, richieste di soccorso. Siamo stati tanto tempo là sotto, un paio d’ore, io ero bloccato e ustionato dall’esplosivo. Avevo perso il senso del tempo. Federica era di fronte a me, non la vedevo e non l’avrei mai più vista, ma sentivo i suoi capelli con la mano. Erano bruciati». Gianluca Taglialatela oggi ha 53 anni, vive a Milano dove ha una pizzeria di fronte all’Arco della Pace. È rimasto solo lui di quella famiglia felice. Fino allo scorso anno c’era anche mamma Rosaria, ma è mancata ad aprile, a 82 anni. Rosaria è stata testimone nel processo che condannò all’ergastolo Pippo Calò, il cassiere della mafia, e fino alla fine della sua vita ha chiesto di conoscere tutta la verità, convinta che molte cose non fossero chiare. Proprio questa settimana si è saputo che, quarant’anni dopo, la Procura di Firenze è tornata ad indagare sull’ipotesi – già emersa allora – che nella strage ci fossero complicità da parte di elementi dell’estrema destra neofascista ed esponenti dei servizi segreti. Gianluca ha letto della nuova inchiesta dai giornali e ancora una volta è tornato a sperare: «Abbiamo sempre pensato che fosse una strage nera e di mafia, la verità che abbiamo è parziale, è bene che qualcuno abbia ancora voglia di scavare». Anche se la sua vita non potrà cambiare. «Ero un bambino cresciuto in un’isola felice e poi in un istante, il giorno prima di compiere quattordici anni, tutto finisce, tutto si tronca. Tante volte ho pensato al caso tragico che ci aveva messo su quel treno e in quella carrozza, le probabilità erano meno di quelle di vincere al Lotto. Poi penso che se non avessimo cambiato scompartimento io non sarei qui a ricordare: in quello bagnato da cui ce ne siamo andati non si è salvato nessuno».
I mafiosi, che avevano azionato il comando della bomba quando era in galleria per massimizzare l’effetto dell’esplosione, puntavano ad una strage ancora più grande. In quel momento il Rapido 904 avrebbe dovuto incrociare il treno che arrivava da Parigi, ma non successe perché era in ritardo. «ll primo ricordo della mia seconda vita è il risveglio sotto la lampada del tavolo operatorio dove mi stavano dando dei punti in faccia. Ricordo queste luci negli occhi. Poi tornai più volte nella sala operatoria perché le lamiere mi avevano tagliato l’avambraccio, ma un’equipe pazzesca del Rizzoli di Bologna riuscì a rimetterlo insieme. Papà e mamma vennero ricoverati all’Ospedale Maggiore e dimessi dopo un mese. Venivano a trovarmi dei parenti, ma nessuno mi diceva nulla, non sapevo che mia sorella non ci fosse più, non mi dissero dei suoi funerali. Piano piano cominciai a capire le cose, anche se non mi facevano vedere la televisione. Ho scoperto solo molto tempo dopo che Federica, che aveva 17 mesi meno di me, era morta. Aveva sbattuto lo sterno contro il tavolinetto su cui giocavamo a carte e quello l’aveva uccisa». Gianluca ricorda ogni secondo, ogni faccia e ogni nome di quel ricovero durato ben sei mesi: «Ricordo ancora la caposala Erminia: io stavo bene all’ospedale perché mi coccolavano e mi facevano sentire al sicuro. Non volevo uscire più. Non volevo tornare nel mondo di fuori». Il mondo di fuori gli avrebbe fatto ancora più male, due anni dopo: per i postumi dell’esplosione, sarebbe morto anche suo padre. Della famiglia felice erano rimasti solo in due, ma si rimboccarono le maniche: Gianluca a 17 anni lasciò la scuola per lavorare come cameriere.
Il Parco Pineta degli Atleti, alle spalle della casa della famiglia Taglialatela a Ischia, dove Federica e Gianluca giocavano da bambini
«Ma non ho mai pensato di essere una vittima e nel mio dramma mi reputo anche fortunato, ho quattro figli, un bel lavoro e sono arrivato a 54 anni. È un altro il problema: mi porto dietro un terribile senso di colpa di essere sopravvissuto. Ancora oggi non riesco a parlare di mia sorella senza commuovermi, e una delle mie figlie porta il suo nome». A estrarre Gianluca dalle lamiere del treno fu un giovane volontario arrivato da Bologna, di nome Stefano: «Pensa che ogni Natale, da trentanove anni, mi chiama per gli auguri. Gli sono infinitamente grato di avermi tirato fuori da quell’incubo». La nuova esistenza di Gianluca trovò una forma quando lo zio gli chiese di prendere nuovamente il treno per Milano: «Erano passati esattamente dieci anni, avevo messo un po’ di soldi da parte facendo il cameriere e poi il barman di notte tra Ischia e Napoli, e lo zio mi convinse ad investire i miei risparmi nella “pizza del futuro”. Mi feci coraggio e ricominciai dalla città in cui non eravamo mai arrivati». Gianluca si accende quando parla della pizza sottile e digeribile che fa, da allora, nel suo locale che si chiama “Taglialà”. È soddisfatto della sua vita. «Devo tantissimo a mia madre, una donna d’altri tempi. È riuscita ad avere una forza incredibile, aveva perso la figlia e il marito ma non l’ho mai vista piangere. Era piena di schegge di vetro dappertutto, che le sono uscite per anni dalla pelle, e rimase gravemente ferita all’occhio sinistro, ma è stata capace di vivere e mi ha lasciato libero di viaggiare e di andare nel mondo. Non voleva che rimanessimo chiusi in casa a piangere. A metà degli anni Novanta cominciò una relazione con un uomo di Roma e insieme aprirono una scuola di ballo. Lei, che amava ballare da sempre, si era messa a studiare e aveva preso un diploma per insegnare il liscio. Quando quella storia finì tornò a Ischia dove per anni ha gestito un piccolo albergo di dieci camere sul mare». Parliamo a lungo, ma di Federica Gianluca non riesce a dire quasi nulla. Alla fine del nostro incontro mi suggerisce di chiamare la loro professoressa di matematica e scienze delle medie, si chiama Sandra Malatesta e vive ancora ad Ischia. «Lei, da allora, porta avanti il ricordo di Federica con tutti i bambini dell’Isola. Ha un amore infinito per mia sorella».
La professoressa Sandra, che ha insegnato per 43 anni, non si è fatta pregare, mi ha raccontato con infinita dolcezza di quella sua alunna, e poi mi ha mandato un piccolo scritto che riporto qui: «Federica frequentava la seconda media, sezione O, della scuola Scotti di Ischia. Io la conoscevo fin da quando aveva due anni perché ero andata ad abitare, da fresca sposa, nello stesso condominio. Federica e Gianluca venivano spesso a giocare a casa mia e poi me la ritrovai in classe in prima media. Un giorno di quel mese di dicembre 1984, nell'intervallo, Federica ci disse che sarebbe andata con la famiglia a Milano per le vacanze di Natale a trovare gli zii. Non lo disse con entusiasmo. Era scocciata, voleva restare a Ischia a giocare a tombola con le amichette del palazzo. I compagni la presero in giro dicendole che era fortunata. Il 22 dicembre, ultimo giorno di scuola prima delle vacanze, entrando in classe per le due ultime ore, notai la cattedra piena di rose e cioccolatini. Mi dissero che Federica il giorno prima aveva voluto organizzare una festa e regalare fiori e dolci a tutti i professori. Fui sorpresa e le sorrisi. Era una ragazzina bella e allegra. Sapeva fare le imitazioni e spesso la mettevamo in piedi su un banco e lei cominciava. L'ultima ora facemmo una festa mettendo i banchi contro le pareti e con il mangiadischi ascoltammo musica e ballammo, ascoltammo soprattutto Terra Promessa di Eros Ramazzotti, il suo idolo. Ci salutammo e lei mi disse che aveva cucito dei brillantini sulla gamba dei jeans così non sarebbe sembrata un maschietto, visto che aveva tagliato i capelli corti corti. Il 24 mattina andai con mia madre al mercato del pesce e vidi tanti capannelli di persone che parlavano tra di loro. Mamma chiese cosa fosse successo. Ci raccontarono che era scoppiata una bomba su un rapido partito dal binario 11 della stazione di Napoli e diretto a Milano e che a bordo c’era anche una famiglia di Ischia. Mi sentii svenire e dissi a mia madre: “È morta Federica”. Cominciò uno dei giorni più brutti della mia vita. Federica non si trovava, di lei non si aveva nessuna notizia. Nel pomeriggio la Protezione Civile diede a me e alla professoressa di italiano Susi Pacera il numero dell'ospedale di Bologna. Chiamammo e ci passarono l’obitorio, ci dissero che era rimasto solo un ragazzino con i capelli corti da riconoscere. Io dissi soltanto di guardare se avesse dei brillantini sui jeans. Dopo poco dissero di sì. La bara con Federica arrivò alla chiesa di Portosalvo il 28 dicembre e sopra c'era l'orsacchiotto che aveva sullo zaino di scuola. Io mi avvicinai e le promisi che finché sarei vissuta avrei parlato di lei, ogni anno e in ogni classe. Non ho mai smesso di farlo».