Cerca nel blog

16.1.25

La ragazza della palude (Where the Crawdads Sing)

Ogni tanto la rai trasmette oltre le fiction delle cose interessanti e di spessore . Il caso  del  film    andato in onda ieri ( e come sempre massacrato dall'invadente pubblicità nonostante il lauto canone ) su rai 1 di La ragazza della palude . 
Esso è  Tratto dal romanzo best seller di Delia Owens, La ragazza della palude,appunto . La    colonna  sonora   del film    conta  su un brano originale scritto e interpretato da Taylor Swift, "Carolina"(video sotto  ) .  Un  film  tratto  da   una  storia     vera    come     dice   quest  articolo   di  : << La ragazza della palude: la vera storia che ha ispirato il film  >> di Cinefilos.it  ? 




Sembra      di    si    visto che     come  dice ancora   l'articolo      prima citato  e  la  trama   da  me       riportata  sotto       L’istinto di sopravvivenza sopra ogni cosa. Così lKya (  la  protagonista  )   del film   è diventata grande  riuscendo   a   riuscita a superare le difficoltà della sua vita . 
Tratto , dicevamo , dall’omonimo bestseller di Delia Owens, pubblicato in Italia da Solferino, il film è un thriller drammatico diretto da Olivia Newman, già dietro la macchina da presa di serie tv come Chicago Fire e Fbi. Scritto da Lucy Alibar, è prodotto da Reese Witherspoon.
La quale, a proposito del successo inaspettato del film, ha dichiarato: «La ragazza della palude non era nei radar di molte persone, ma è un ritorno al vero cinema. È un’esperienza di cuore e anima su pellicola con bellissimi set e costumi e attori meravigliosi».Dopo la morte di Chase, Kya viene dunque accusata di omicidio, ma  La ragazza della palude si conclude con la sua assoluzione. Anche se in realtà Kya nera innocente (come svela la  spiegazione del finale  fatta  sempre  da  https://www.cinefilos.it/ ), è difficile non fare il tifo per lei dopo tutto quello che Chase le ha fatto passare. Il film intreccia dunque una storia complicata che potrebbe in un certo senso essere legata alla vita reale dell’autrice Delia Owens. Proprio come Kya, la Owens è infatti un’autrice che ha preso una tragedia e l’ha trasformata in qualcosa di più grande di lei. Anche se non è indispensabile per la visione del film, conoscere la storia vera che sembra aver ispirato questo racconto aggiunge un ulteriore livello alla trama.
Daisy Edgar-Jones in La ragazza della palude (2022) foto ufficio stampa

 (foto ufficio stampa)

La trama di “La ragazza della palude”

Barkley Cove, Carolina del Nord, ottobre 1969. Mentre la natura esplode i tutta la sua bellezza e varietà, due ragazzi si imbattono in una macabra scoperta nella palude fangosa: il corpo senza vita di Chase Andrews, il miglior quarterback che la città abbia mai avuto.Ma la colpevole perfetta è facile da individuare per gli abitanti della cittadina. Kya Clark è una giovane donna maltrattata, abbandonata e ostracizzata che sopravvive da sola dopo una vita di stenti e di angherie. Fin da quando è piccola su di lei girano voci atroci che l’hanno costretta, di fatto, a vivere isolata in mezzo alla natura. La ragazza della palude, la chiamano per schernirla. Ora, finalmente, l’ossessione degli abitanti della città si è trasformata in convinzione e 25 lunghi anni di odio e ostilità culminano nell’accusa più facile. Riuscirà questa volta Barkley Cove a essere giusta nei confronti della ragazza della palude?

Il trailer del film

Il cast di “La ragazza della palude”

Il cast è capitanato dall’attrice inglese Daisy Edgar-Jones, diventata una star mondiale grazie al fenomeno tv Normal People. E che ha lavorato duramente con una dialect coach per padroneggiare l’accento del sud degli Stati Uniti parlato dal suo personaggio, Kya. Un tipo di sforzo che noi non cogliamo perché i nostri film sono sempre doppiati.Accanto a lei due giovani attori in rampa di lancio. Il primo è l’americano Taylor John Smith, che interpreta Tate: si è fatto apprezzare nel ruolo di John Keene nella serie Sharp Objects e nel film Civil War (2024) accanto a Kirsten Dunst. L’altro è il britannico Harris Dickinson, che nello stesso anno è stato protagonista anche del film Palma d’oro a Cannes, Triangle of Sadness di Ruben Östlund e che è attualmente al cinema con Nicole Kidman nell’erotico e scandaloso Babygirl.Da segnalare la presenza del veterano David Strathairn nella parte dell’avvocato Tom Milton.

Taylor John Smith and Daisy Edgar-Jones in La ragazza della palude (2022) foto ufficio stampa

 (foto ufficio stampa)

un film bello e  profondo   


15.1.25

Lo scudo penale per la polizia e le chat degli agenti: «Basta indietreggiare, vogliamo mano libera contro i comunisti di m…»








occhio qui c'è aria di #golpe da parte delle #ForzeDellOrdine come nel lontano 1963 con il #generaledelorenzo


«Non ci fanno lavorare», dicono le forze dell'ordine. Che chiedono il «pugno duro» nei confronti di chi va in piazza. Le aggressioni e le critiche ai vertici. Fino al ministro
C’è chi vuole mano libera contro «i comunisti di merda». E chi dice che «non ci fanno lavorare». Mentre il governo Meloni lavora allo scudo penale per la polizia, per evitare l’indagine automatica nei confronti degli agenti in caso di fatti di piazza (ma anche di omicidio), le chat delle forze dell’ordine diventano bollenti. Le immagini di Bologna e Roma, con gli assalti alla polizia dei manifestanti per Ramy Elgaml, fanno rabbia: «Basta pagare di tasca nostra e basta indietreggiare! Contro la violenza pugno duro, regole chiare e certezza della pena!».
Pugno duro
A parlare delle chat di poliziotti e carabinieri è oggi il Fatto Quotidiano. Lo scudo penale riscuote grande successo, mentre i dubbi del presidente della Repubblica Sergio Mattarella non vengono granché apprezzati. C’è chi se la prende con l’ex capo della polizia Franco Gabrielli, che ha criticato le modalità dell’inseguimento dei carabinieri nell’incidente che ha portato alla morte del 19enne egiziano. E c’è chi elogia il comandante dei carabinieri Salvatore Luongo e l’attuale capo della polizia Vittorio Pisani. I quali hanno sottolineato che «la libertà di manifestare è uno dei semi vitali della democrazia e abbiamo il dovere di garantirla». Prima di aggiungere che «i comportamenti illegali e violenti vanno perseguiti» e manifestare apprezzamento per «la compostezza e l’equilibrio» dei loro uomini.
Le aggressioni
Agenti e militari hanno ricevuto oggetti e petardi. Alcuni si sono fatti male. Non hanno indietreggiato ma non hanno nemmeno reagito. E questo adesso sembra essere l’errore contestato ai superiori. Ovvero quello di aver usato la mano leggera nei confronti dei manifestanti. Ovvero giovanissimi arrabbiati, in parte stranieri di seconda o terza generazione, organizzati in gruppi e collettivi studenteschi e non, senza punti di riferimento solidi nemmeno nei centri sociali, che rischiano le botte e i processi. Il rischio di incidenti gravi ora è dietro l’angolo. I poliziotti si lamentano perché ormai chiunque li riprende con il telefonino.
La dashcam
C’è anche chi contesta l’uso delle telecamere della gazzella che inseguiva Ramy. «Ho detto mille volte di non usarle quelle telecamere, non ce lo possiamo permettere», dice un esperto ufficiale dell’Arma. E c’è chi critica il ministro Matteo Piantedosi per la circolare ai prefetti che indica le zone rosse nelle grandi città. Ieri ha parlato uno dei poliziotti in servizio a Bologna: «Non ho mai visto una cosa del genere. Non ho mai visto tavoli di ferro, sedie, contro di me. Ho visto i miei colleghi feriti: uno con una spalla lussata, un altro con un dente rotto, un terzo che dall’alba di domenica sente un fischio nell’orecchio: un bombone gli è esploso sotto i piedi. A me hanno lanciato una bottiglia in faccia. Le immagini le avete viste tutti, ma credetemi: un conto è vederle, altro è starci in mezzo».
L’adrenalina
E ancora: «Avevo l’adrenalina a mille… Non sono neanche riuscito a dormire dopo aver “staccato”. Per inciso: ho staccato alle quattro del mattino. Avevo preso servizio alle 18 del giorno precedente, quando era iniziato il corteo da piazza Maggiore». Difficile dimenticare: «Sono ancora, come posso dire, disturbato. Ho ammaccature ovunque. E devo continuare a lavorare, scrivere decine di carte. Perché il nostro lavoro è questo. Ma c’è un limite a tutto. Nel senso: fate qualcosa, altrimenti ci ammazza

Giovanni Damiano ucciso perché smascherò i «baroni» della medicina che volevano pagamenti illeciti: l'omaggio all'eroe sconosciuto

https://www.msn.com/it-it/  corriere  della sera  

«Papà era nato a Milano, si era laureato in Agraria alla Statale, lavorava nella sede dell’associazione regionale degli allevatori e quel giorno, il 12 dicembre 1969, era in ufficio vicino a piazza Fontana: quando esplose la bomba, l’onda d’urto fece esplodere i vetri della sua stanza, le schegge gli arrivarono sulla scrivania. Rimase segnato da quell’evento, e da quelli che vennero dopo, le manifestazioni sempre più violente nelle strade, la tensione. Aveva conosciuto mia mamma a Saluzzo durante il servizio militare, e così maturò la decisione di andare a vivere in provincia. Io e mio fratello siamo nati a Milano,
eravamo piccoli, facevamo le scuole elementari, ci trasferimmo. Papà sentiva un pericolo e voleva proteggere la sua famiglia. Era come se cercasse di sfuggire a un destino. Non ci è riuscito».
Milano ha un (altro) eroe borghese che non ha mai conosciuto e non ha mai ricordato. Il titolo rimane nella storia della città per Giorgio Ambrosoli, l’avvocato ucciso dalla mafia nel 1979. Un eroe borghese è il capolavoro del giornalismo narrativo italiano che Corrado Stajano dedicò ad Ambrosoli. Amedeo Damiano invece venne assassinato a Saluzzo, in provincia di Cuneo, nel 1987: morì cento giorni dopo che due uomini gli avevano piantato cinque proiettili nelle gambe. Era direttore della Asl e aveva denunciato in procura il sistema marcio che dentro l’ospedale.
Giovanni Damiano è suo figlio, è nato a Milano nel 1972, oggi è consigliere comunale a Saluzzo, la cittadina dove, dopo il trasferimento della famiglia, nacquero anche un altro fratello e una sorella. Ricorda: «Ho conosciuto Stefano Ambrosoli, il nipote dell’avvocato, e ci siamo ritrovati in queste caratteristiche molto milanesi che avevano sia suo nonno, sia mio papà: rettitudine morale come elemento di identità, una certa grinta e serietà nel fare il proprio lavoro seriamente, valori profondi portati nell’impegno pubblico. Quella di papà era una carica politica, era un democristiano vecchio stampo, stimato per le sue capacità, ma certo non amico di tutti, non frequentava circoli e cene, sui principi era intransigente».
Gli assassini di Amedeo Damiano sono stati condannati per omicidio preterintenzionale: di fatto, una rapina finita male; sono state condannate anche le persone che lui aveva denunciato dopo la sua «inchiesta» personale e solitaria sull’ospedale. Cosa accadeva? «Il servizio sanitario nazionale era stato istituito da pochi anni. In provincia la gente aveva un rispetto sacro dei medici, un timore reverenziale, una forte soggezione. Molti baroni così continuavano a farsi pagare per prestazioni a cui invece i pazienti avevano diritto gratuitamente. Significa approfittare del proprio ruolo a danno di uomini e donne più deboli, senza strumenti culturali per ribattere, nel momento critico di un problema di salute. Persone semplici ingannate da persone potenti. Questo per papà era inaccettabile. Così presentò quella denuncia».
La provincia può rivelarsi molto più subdola, ambigua, pericolosa della grande città, soprattutto per chi non è organico. Oggi, oltre che dalla famiglia, la memoria di Amedeo Damiano è custodita e raccontata da «Libera Piemonte». La storia dell’eroe borghese milanese ucciso a Saluzzo torna a Milano 38 anni dopo grazie al lavoro di un giovane drammaturgo, Chicco Dossi, e di un attore, Christian La Rosa, che da stasera al 19 gennaio portano in scena al Teatro della Cooperativa uno spettacolo/monologo che si intitola Senza motivo apparente.
Racconta Giovanni Damiano: «Di Milano ricordo la ruota panoramica alle Varesine, la nonna abitava in via Appiani. Papà è stata la prima vittima di un omicidio politico nella sanità. È stato ucciso per aver denunciato malaffare e corruzione: che pochi anni dopo, con Tangentopoli, sarebbero esplosi proprio nella sua Milano. La sua storia e il suo sacrificio vanno ricordati perché l’omicidio è di tanto tempo fa, ma i problemi per i quali è stato assassinato sono ancora attuali. Pensiamo a quanti appetiti possano generare volumi di denaro pubblico così enormi. Noi dalla vicenda di nostro padre non abbiamo mai avuto alcun riconoscimento da parte dello Stato, né da qualsiasi istituzione. E certamente non parlo di un riconoscimento economico. Dobbiamo dare atto a nostra mamma di essere stata lei davvero eroica, a tenere insieme i pezzi di una famiglia devastata, con quattro figli che all’epoca avevano un’età tra i 2 e i 17 anni, e che hanno iniziato a fare mille domande, a cui lei non aveva risposta, e neppure lo Stato».
A partire dalla «fuga da Milano», la storia di Amedeo Damiano è densa di coincidenze suggestive e drammatiche. A Saluzzo, il 27 settembre 1920, era nato Carlo Alberto Dalla Chiesa, figlio dell’allora capitano dei carabinieri nella cittadina. Il generale e prefetto, poi assassinato dalla mafia nel 1982, a Milano guidò storiche indagini contro il terrorismo.
Nell’ospedale di Saluzzo, quando era sotto la sua responsabilità, il dottor Damiano aveva fatto appendere ovunque questo cartello: «Le prestazioni mediche e le analisi sono a carico del servizio sanitario nazionale e non devono essere pagate».

Se volete solo ergastoli cambiate la Costituzione



premetto che Facci non mi piace per niente ma qui ha fatto un ottima provocazione contro quelli che dicono che l'ergastolo è disumano sia quelli che avendo scarsa o nessuna della sistema legislativo italiano ( qui possiamo colmare le lacune ) non esiste , perchè si è subito liberi .


Questa classe politica e questo Paese dovrebbero decidere, una volta per tutte, se vogliono mantenere l'articolo 27 della Costituzione oppure no. Non c'è retorica nel chiederlo, dovrebbero decidere e basta, e lo si scrive, ora, a margine dell'indignazione bipartisan che ha accompagnato la condanna «solo» a 30 anni e quindi non all'ergastolo per Salvatore Montefusco (nella foto), autore del duplice omicidio di due donne (sua moglie e la figlia di lei) con motivazioni «choc» ritenute «offensive» o addirittura «un vulnus nelle fondamenta che

reggono il nostro ordinamento». Questo, praticamente, a opinione dell'intero arco parlamentare: e ci limitiamo a citare il ministro Eugenia Roccella, Mara Carfagna e Mariastella Gelmini di Noi moderati, Laura Ravetto della Lega, Maria Elena Boschi di Italia viva, Valeria Valente del Partito democratico, Marilena Grassadonia di Alleanza verdi e sinistra e, infine, Carolina Morace dei Cinque Stelle: otto donne, e sia detto che c'è qualcosa di culturalmente stucchevole nel fatto che a parlare siano state solo loro, e non, significativamente, degli uomini: decida il lettore se c'è un errore da qualche parte, se ci sia un troppo il silenzio oppure, dall'altra, una forma di sindacalismo che impone di dover dire qualcosa a tutti i costi.Ricominciamo da capo. In Italia, una condanna a 30 anni oppure a un ergastolo ordinario corrispondono quasi alla stessa cosa, visto che l'ergastolo corrisponde proprio a 30 anni di carcere (e non a «fine pena mai») in virtù dell'articolo 27 della Costituzione secondo il quale la pena «deve tendere alla rieducazione del condannato». Non piace? Basta cambiare l'articolo 27. In entrambi i casi, 30 anni o ergastolo, si prevede che il detenuto lascerà il carcere con anticipo e questo per via delle varie buone condotte, semilibertà, condizionali e permessi premio che a loro volta sono inseriti nel solco dell'articolo 27 della Costituzione, che beninteso, basta cambiarlo. Stiamo dicendo, non fosse chiaro, che prendersi l'ergastolo oppure 30 anni in pratica è la stessa cosa, soprattutto se di anni se ne hanno 72 come il condannato per duplice omicidio: il quale, bene che vada, dovrebbe uscire di galera poco meno che centenne. Non solo: è un assassino che era incensurato, che ha confessato e che ha avuto un certo contegno processuale: e questa, per i codici, è sostanza, non parole, non fanno parte di un giudizio morale come quello emesso in coro sulla sentenza: poi possono non piacerne le motivazioni, o il modo in cui sono state scritte, ma non c'è decisione o condanna che nei tribunali non corrisponda a una regola, a un comma, a un'attenuante o a un'aggravante o a un'esimente; la legge è questa cosa qui, non è qualcosa che debba corrispondere alla «evoluzione culturale necessaria» come ha detto forse la più autorevole delle commentatrici citate, secondo la quale serve una lotta contro «la cultura patriarcale». Le sentenze non devono essere educative: sono le pene che devono esserlo, e se non piace (o non funziona) basta cambiare l'articolo 27 e trasformare la funzione del carcere in «retributiva», com'è negli Stati Uniti, dove non ha senso prevedere indulti e semilibertà e condizionali e permessi vari: ma basta dirlo, e allora ditelo. La nostra legge e la nostra Costituzione (sempre lui, l'articolo 27) dicono che il carcere sarebbe teso a scoraggiare le recidive, cioè a convincere che di delinquere non valga la pena: se non piace, basta trasformare la galera in una punizione o in un impedimento fisico a delinquere (all'americana, appunto) e farla finita con indulti e semilibertà e condizionali e permessi vari, e non si deve andare per il sottile neanche con le perizie psichiatriche. Infine, a proposito di arretramenti o progressi culturali, va fatto sull'espressione «femminicidio»; se andate su un qualsiasi motore di ricerca, scoprirete che un sacco di gente si chiede a quanto ammonti la pena per femminicidio: considerarla una battaglia vinta, beninteso solo «culturale». Perché, nella realtà, l'assassinio di una donna è punito come l'assassinio di un uomo: articolo 575 del Codice. Anche qui: se non piace (come non piacque a una parlamentare di centrodestra, che per il femminicidio propose l'ergastolo) allora da capo: basta cambiare la Costituzione. Ma ditelo. Fatelo. A voi la palla.


e soprattutto per i non iscritti ai partiti organizzatevi una raccolta di firme referendaria .






14.1.25

L’Amore rimosso. Arte e omosessualità di ©️ Cristian A. Porcino Ferrara

 premetto che    ho  visto  solo   primi   15  minuti    la  fiction  di leopardi   poi  , l'ho  abbandonata    perché  mi  stava  annoiando   .  Però   da   quel  poco  che   ne  ho  visto   concordo con l'amico  e e  compagnodistrada  Cristian Porcino Ferrara .  Il problema da  lui evidenziato    nell'articolo sotto riportato   può    e dev'essere  esteso alla  letteratura  

  da   Le Recensioni del Filosofo Impertinente

La Storia dell'arte non è purtroppo immune a riscritture postume. 

Riscontro un destino quasi comune nelle biografie di due dei suoi più importanti esponenti: Michelangelo Merisi detto il Caravaggio e Michelangelo Buonarroti. Intorno a Caravaggio sono state create diverse sceneggiature di film e fiction quasi tutte improntate a sottolineare l'eterosessualità del Merisi. Sono stato sempre dell'avviso che se si vuole raccontare la vita di un artista non bisogna omettere la sua vita privata ma la censura scatta solo e soltanto quando si tratta di artisti omosessuali. 



Si tenta di scovare tracce inesistenti di cosiddetta "normalità" per sgomberare il campo dall'idea di ammirare, celebrare e studiare un genio "non normale". Nel 2025 certa stupida umanità organizza e classifica ancora il mondo e gli homo sapiens con concetti inutili e fuorvianti. 



Provate a guardare alcuni film su Caravaggio e noterete lo stesso livellamento eterosessualista. Unica eccezione il capolavoro cinematografico di Derek Jarman che ovviamente i più sconoscono perché fin troppo esplicito sull'argomento.


Questa censura ovviamente accade in tutti i campi dell'arte e di questo ho scritto anche nel mio libro Sulle tracce dell'altrove

(...)

Perfino nelle mostre troviamo didascalie farlocche che ci dipingono l'artista tormentato per delle donzelle di cui l'illustre soggetto si era perdutamente innamorato. Della vita sessuale o sentimentale di Merisi ben poco sappiamo ma allora perché non tacere del tutto anziché ritrarlo come il solito tombeur de femmes? Per tollerare la sua attrazione verso gli uomini lo si deve necessariamente ritrarlo come bisessuale. 

Questo è il compromesso a ribasso per renderlo più accettabile agli occhi dei più. 



In quanto insegnante mi domando se siamo certi di voler censurare e trasmettere contenuti distorti ai nostri discenti solo per compiacere perbenisti stupidi e omofobi che della verità e del Sapere se ne infischiano bellamente.


Pensiamo a Michelangelo Buonarroti che amò Tommaso de' Cavalieri e a cui dedicò alcuni versi a sfondo erotico. Per molti storici risulta difficile immaginare un genio dell'arte mondiale cimentarsi in opere poetiche e pittoriche ispirate e dedicate ad un uomo. L'omosessualità, ovviamente, non è contemplata. In linea con il diktat voluto dai nostalgici del ventennio bisogna raccontare dell'amore michelangiolesco per Vittoria Colonna mai esistito.

Per lui si invocano prove che a parere di alcuni non ci sono ma che ovviamente servono solo per certificare la sua non omosessualità e non la sua presunta eterosessualità. Per quella non servono prove perché data per scontata. Michelangelo era amico di Vittoria e con lei condivideva un'affinità elettiva che non sfociava di certo nell'erotismo né tantomeno nel sentimento amoroso. 



Il simbolismo michelangiolesco è evidente. Se sì guardano con attenzione le sue opere scorgiamo che quasi ogni donna dipinta o scolpita ha i tratti maschili e non quelli tipicamente femminili. Questo non ha nulla a che vedere con le stupidaggini che tentano di etichettare Michelangelo come machista e maschilista. (...) 


Senza scomodare Freud che lo analizzò e studiò a fondo è più che evidente che il genio fiorentino per tutta la vita ricercò tracce maschili in ogni cosa da lui raffigurata. (...) 

Si cerca di rimuovere infatti che Buonarroti si formò presso Marsilio Ficino, filosofo omosessuale, e che ebbe diversi relazioni con uomini da lui stesso citati: Gherardo Perini, Giovanni da Pistoia, Pietro Urbano, Antonio Mini, Luigi Pulci jr, Benedetto Varchi, Giovannangelo detto "il Montorsoli", Febo dal Poggio, Cecchino Bracci, Francesco Amadori detto l'Urbinate. 

[...]

Ma questa sorte o mistificazione tocca ancora oggi anche a Giacomo Leopardi. Dopo la recente fiction Rai che ha riaperto il dibattito sull'orientamento sentimentale del poeta di Recanati è bastata la dichiarazione del regista Sergio Rubini per smorzare l'entusiasmo.

Quest'ultimo ha dichiarato a Tvblog.it: "Non penso che Leopardi fosse omosessuale. Amava profondamente le donne: c’è agli atti il fatto che avesse molta difficoltà ad esprimere i suoi sentimenti verso Fanny e faceva delle ‘prove’ usando Ranieri. L’ho fatto anche io da giovane. Non abbiamo voluto raccontare nessuna deviazione, ma un’amicizia profonda che sfocia sì in un bacio, ma è il bacio che è Leopardi vorrebbe fare a Fanny”.


L'opera d'arte non ha genere o orientamenti sessuali ma gli artisti e le artiste  sì. Purtroppo a noi si chiede sempre una prova tangibile dei nostri sentimenti quasi a doverci scusare della nostra esistenza.



Un Leopardi omosessuale, secondo l'opinione di qualcuno, lo renderebbe meno ammirabile scolasticamente o forse impegnato in una fantomatica teoria gender per indottrinare i nostri allievi. Meglio continuare con la commedia ad uso e consumo dei conservatori. Se tutt’oggi ci spaventa o crea imbarazzo affrontare in classe il racconto dell'Amore tra Achille e Patroclo figuriamoci la storia tra Leopardi e Ranieri. L’11 dicembre 1832 Giacomo Leopardi scriveva così all’ “amico”: «Ranieri mio, tu non mi abbandonerai per' mai, n' ti raffredderai nel'amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi desidero ardentemente che tu provvegga prima 'ogni cosa al tuo benessere: ma qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo, che noi viviamo 'uno per 'altro, o almeno io per te; sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia. Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sar' eternamente tuo».

In conclusione vi consiglio di soffermarvi su queste frasi senza aggiungere null’altro se non un’altra frase del Nostro: “Il mondo ride sempre di quelle cose che, se non ridesse, sarebbe costretto ad ammirare; e biasima sempre, come la volpe, quelle che invidia”.


                                                  ©️ Cristian A. Porcino Ferrara




13.1.25

INCHIESTA mafia ed eloico sardo 3 puntata Vento di infiltrazioni, intercettazioni & pizzini Guerra di ‘ndrangheta per la spartizione dei trasporti, coinvolta l’impresa delle notti nel porto di Oristano

  

puntate  precedenti 
 https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2025/01/ndrangheta-storie-pericolose-di.html





CRONACA SARDEGNA  INCHIESTA  3  puntata  

unione    sarda  13 gennaio 2025 alle 14:10

 
                                            Mauro  Pili 

Vento di infiltrazioni, intercettazioni & pizzini Guerra di ‘ndrangheta per la spartizione dei trasporti, coinvolta l’impresa delle notti nel porto di OristanoLe parole sono testuali, strappate ai muri di cemento armato blindato in una cella arsa dal caldo afoso del carcere di Opera, estrema periferia sud di Milano. Lì, in quel camminamento d’aria, non soffia nemmeno un filo di vento. Pareti grigio-topo, destinate a togliere il respiro anche all’ultimo dei boss, quello più cruento della storia di mafia. Le microspie ambientali lo assediano, come se gli avessero conficcato un microchip sottocutaneo. Registrano ogni respiro nel quartier generale dei capimafia confinati nella periferia della Padania. È il 30 agosto del 2013.
Capo dei capi
Chi striscia i piedi in quel quadrante apparentemente d’aria è nientemeno che il Capo dei capi, «la belva», quel Salvatore Totò Riina, capace di schiacciare un pulsante maledetto con l’inpunt di un “pizzino”. Le stragi di Capaci e via D’Amelio, quelle che uccidono Falcone e Borsellino, sono l’epitaffio della sua carriera criminale. In quel “passeggio” lo ascoltano in molti: c’è Alberto Lorusso, compagno di passi nel bunker di Opera e soprattutto loro, le cimici digitali. È il Padrino in persona che racconta del “picciotto” che in molti immaginano come suo erede: Matteo Messina Denaro, il figlio di «Zuù Cicciu». Parla colorito e non usa il bon ton per descrivere il suo allievo-traditore, Messina Denaro, colui che si era ribellato agli ordini del Capo dei capi.
Pali della luce
Nel passeggio-confessionale Riina racconta: «Questo qua, (Matteo Messina Denaro n.d.r.) questo figlio che lo dà a me per farne.., per farne quello che doveva fare, è stato quattro cinque anni con me, andava bene. Minchia… , poi si è messo la pala della luce, la pala della luce in tutti i posti pale ‘e luce. Ed è finita.., ed è finita! Ed è finita! È finita la luce…». È il passaggio più violento del distacco tra il Capo dei Capi e il suo successore mai riconosciuto. Tradimento senza appello, scolpito sull’altare più alto, quello del "disonore” dei Capimafia. Quelle “pale ‘e luce” nient’altro sono che pale eoliche, le stesse che hanno rimpiazzato il business di mafia in ogni nuova “terra promessa”, Sardegna compresa.
La svolta eolica
È duplice il tradimento che la “Belva” rimprovera a Matteo Messina Denaro: essersi messo in contrasto con altri “uomini d’onore” e perseguire affari che esulano totalmente dalla storia criminale della mafia. A “U‘Siccu”, il nome in codice di Denaro, Riina non gli perdona di essersi buttato a capofitto sull’affare eolico trasformando “Cosa Nostra” in una Società per azioni per vento e affari. A verbalizzare e tradurre le parole di Riina è Salvatore Bonferraro, sostituto commissario di polizia: «Riina aveva confidato al suo compagno di detenzione la propria disillusione per il comportamento tenuto dal Matteo Messina Denaro il quale, pur avendo delle ottime “qualità criminali”, essendo stato “istruito” proprio dal Riina non aveva interamente messo a frutto gli insegnamenti ricevuti, preferendo dedicarsi al settore eolico (“pali della luce"), restandosene al sicuro all'estero con la fidanzata».
Vento sul maxi processo
I verbali del maxi processo Stato-Mafia hanno un capitolo tutto dedicato al vento: «Il signor Messina a cui faceva (Riina) riferimento era sicuramente Messina Denaro Matteo. La vicenda a cui si riferiva era legata alle pale eoliche. Lui in quel periodo, sia il Messina Denaro, unitamente a Vito Nicastri, soprannominato il re dell’eolico in Sicilia, si stavano interessando della zona in special modo del trapanese, per mettere dell’eolico. E quindi la vicenda a cui si riferivano era proprio questa delle pale eoliche, e il soggetto appunto era Messina Denaro Matteo».
Elettricista di M. Denaro
L’uomo dell’antimafia circoscrive fatti, uomini e stati d’animo: «In questa circostanza il Riina era molto adirato, anche nei confronti di Messina Denaro Matteo, perché lui in quel momento, ecco, a dire di Riina si stava impegnando principalmente in attività economiche… eolico…». Il pubblico ministero non lascia la presa: «C’era un tale Nicastri in qualità di prestanome nel settore dell’eolico?». L’ispettore è categorico: «Sì, è stato arrestato in qualità di prestanome di Matteo Messina Denaro». È un cambio radicale del paradigma mafioso: l’addio alla stagione stragista di Riina, il tradimento del codice di Cosa Nostra e, soprattutto, la svolta eolica, la nuova frontiera degli affari di U’Siccu. È sul vento, da Trapani a Ploaghe, nel nord dell’Isola di Sardegna, che gli affari di mafia si moltiplicano nel nome di Cosa Nostra. Quello di Matteo Messina Denaro è il primo vero sbarco eolico-criminale nella terra dei Nuraghi, ritenuta erroneamente inespugnabile.
Ciancimino a Is Arenas
Le sequenze di mafia e le infiltrazioni, poi, si moltiplicano da nord a sud dell’Isola: dai denari di Vito Ciancimino, scovati nel 2009 nelle pieghe delle società offshore pronte a gestire lo sbarco eolico, sventato, nel mare della costa oristanese, davanti a S’Archittu sino al rischio di possibili infiltrazioni all’interno della «Eolo Tempio Pausania srl per la ritenuta comunanza di interessi tra questa e Vito Nicastri, contiguo ad ambienti mafiosi». Gli uomini della Dia avevano accertato che in precedenza «il socio unico della Eolo Tempio Pausania di Verona risultava essere un’impresa con sede all’estero».Da Tempio a Barumini
Per i magistrati altro non era che «un complesso intreccio di vicende societarie, facenti capo a Veronagest e riconducibili in ultima analisi alla stessa figura del Nicastri». Un pericolo infiltrazioni inquietante capace di sbarcare sino alla Reggia Nuragica di Barumini. È nei progetti eolici che la vorrebbero circondare, infatti, che compaiono nomi altisonanti legati a questa storia.
Volo pesante
Il tutto riconducibile agli atti della Procura antimafia di Palermo dai quali emerge un volo su un jet privato per Tunisi con a bordo una compagnia “pesante”: Gioacchino Lo Presti di Alcamo (indagato tra le altre cose per aver favorito la latitanza di Alessandro Gambino), dello stesso Vito Nicastri e Filippo Inzerillo. Con loro anche l’uomo che risulta essere coinvolto nei progetti eolici da piazzare davanti alla Reggia nuragica di Barumini.
Allarme rosso
Storie inquietanti che da sole dissolvono l’idea di una terra inespugnabile, capace di respingere ogni incursione criminale. Così non è stato, così non è. Lo raccontano i fatti, le prove, le inchieste delle Procure e i processi. Tutte ragioni che dovrebbero indurre ad alzare, senza tergiversare un solo attimo, il livello di attenzione e di allarme, considerato che l’Isola è letteralmente sotto attacco. Quei progetti per innalzare in Sardegna 3.000 pale eoliche terrestri, trasformando la terra dei Nuraghi in un’immensa zona industriale, dovrebbero già di per sè imporre monitoraggi serrati e senza omissioni.
“Circo” eolico
A partire da quanto avviene da mesi nelle strade sarde, divelte senza regole, chiuse e protette dallo Stato per far passare le colonne marcianti del grande “circo” del vento. Lo abbiamo scritto nelle precedenti puntate: mezzi ciclopi carichi di gigantesche pale eoliche scortati dagli apparati statali, ma dichiaratamente, e scandalosamente, senza autorizzazioni multiple come si evince dai documenti allegati nei provvedimenti di chiusura delle strade. Identificazione senza appello per chiunque tenti di manifestare la propria contrarietà allo sfregio dell’Isola, ma silenzi strabici per chi, venuto da oltre Tirreno, imperversa senza un minimo controllo alla guida di quei bisonti eolici della strada.

Indignazione
E non può non destare quantomeno sorpresa, se non indignazione, il fatto che si stesse facendo passare nel silenzio assoluto la storia recente della ditta venuta da lontano chiamata a svolgere i trasporti delle pale per il parco eolico di Santu Miali alle pendici del Monte Linas, nel territorio di Villacidro, e di Domusnovas, davanti al Marganai.
Carte processuali
In migliaia di pagine processuali, comprese le sentenze della Cassazione di questi ultimi mesi, si possono leggere stralci giudiziari da far rabbrividire: «Per come emerso, all’epoca dei fatti, Di Palma Riccardo, insieme al defunto fratello Antonio, amministrava La Molisana Trasporti S.r.l. (la società che gestisce i trasporti delle pale per Villacidro e Domusnovas n.d.r.), svolgendo un ruolo operativo, che ne implicava la frequente presenza nei cantieri e la pragmatica gestione dell'attività di trasporti. La sua responsabilità, in termini di compartecipazione morale agli atti estorsivi e di illecita concorrenza posti materialmente in essere da Evalto e da Trapasso (Giovanni, capo del clan n.d.r.) nei confronti di Runco Carlo, emerge dalla serrata serie di intercettazioni, di epoca antecedente, contemporanea e successiva a quanto occorso, che lo ha visto co-protagonista, insieme all'Evalto, delle vicende per cui è causa, tanto che egli viene menzionato quale sostanziale "referente" dell'affare anche nelle conversazioni intercorse tra Evalto ed il fratello Antonio».
Accordi con ‘ndrine
I giudici lo scrivono espressamente: «Da quanto si evince, infatti, le strategie illecite di Evalto per dare concreta esecuzione a quanto deciso dagli "ingegneri" (il nomignolo dei boss) e per imporsi quale competitor nell'ambito dei trasporti del Parco Eolico Vestas, aggirando norme, rapporti contrattuali in essere ed in generale qualsivoglia tipo di ostacolo, venivano concordate con Di Palma Riccardo…».
Matrimonio per pochi
La sentenza del Tribunale di Crotone racconta e conferma: «Sulla perfetta conoscenza da parte del Di Palma dell'appartenenza di Evalto alla 'ndrina Mancuso e del rapporto di quest'ultimo con "l'ingegnere di Cutro", Trapasso Giovanni, non vi possono essere dubbi, in quanto in numerose delle conversazioni, sopra citate e riportate, l'Evalto faceva riferimento ad incontri avuti con entrambi gli "ingegneri" ed alle direttive ed indicazioni ricevute da costoro. Non bisogna, altresì, trascurare - ad ulteriore conferma dello stretto legame Evalto-Di Palma-cosche 'ndranghetiste - in primo luogo, che Evalto Giuseppe e Di Palma Riccardo, in data 16.06.2012, si recavano insieme, con l'auto aziendale intestata a La Molisana S.r.l. al matrimonio di Trapasso Leonardo, figlio dell'ingegnere", evento a cui certo non era invitato chiunque, ma solo persone vicine al Trapasso». Ora, con il silenzio di molti, la “Molisana Trasporti srl” trasporta, con la scorta dello Stato, le pale eoliche in terra sarda.

Anche la ministra Roccella si indigna per la sentenza dei giudici di Modena: «Nella sentenza elementi preoccupanti» p


ma guarda tu ogni tanto la Roccella dice delle cosa condivisibili . Infatti la stessa ministra si indigna per la sentenza dei giudici di Modena: «Nella sentenza elementi preoccupanti» 
Uno che aveva già picchiato diverse volte moglie e figlia che lo avevano già denunciato e quello che noi chiamiamo STATO è rimasto fermo... e scrivono pure queste sentenze che danno giustificazioni alla violenza..che sentenza squallida .  Infatti   è Particolarmente inquietante come motivazione; esistono gli psicologi per gestire rabbia e conflitti di coppia, esistono gli avvocati per separarsi, ed esiste ovviamente il divorzio e il rifarsi una vita! Chi gli diceva di rimanere incollato a loro ? oltretutto le ha massacrate davanti al figlio minore!
Ora   Concordo   ,nonostante   le  notevoli differenze  politico  \  culturali      , una volta  tanto  , con quanto   ha  dichiarato   sempre   a  Open  dalla   stessa ministra 


«Leggeremo ovviamente il testo integrale della sentenza, ma se ciò che emerge dagli stralci pubblicati oggi venisse confermato, il pronunciamento della Corte d’Assise di Modena nei confronti dell’uomo responsabile dell’uccisione della moglie e della di lei figlia conterrebbe elementi assai discutibili e certamente preoccupanti che, ove consolidati, rischierebbero non solo di produrre un arretramento nell’annosa lotta per fermare i femminicidi e la violenza maschile contro le donne, ma anche di aprire un
vulnus nelle fondamenta che reggono il nostro ordinamento». Queste le parole della ministra per la famiglia Eugenia Roccella in merito alla decisione dei giudici della Corte d’Appello di Modena nei confronti di Salvatore Fusco. L’uomo è stato condannato a 30 anni di carcere e non all’ergastolo per aver ucciso sua moglie Gabriella Trandafir, 47 anni, e la figlia di lei Renata, 22 anni. Un duplice femminicidio, avvenuto il 13 giugno 2022 a Cavazzona di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena, per cui l’uomo ha agito perché spinto «dalle nefaste dinamiche familiari che si erano col tempo innescate». Una decisione che ha fatto indignare anche il giornalista televisivo Gianluigi Nuzzi, che tratta da sempre casi di cronaca nera 
«Non credo sfugga a nessuno la pericolosità di ragionamenti di questo tipo»
«Il problema – prosegue la ministra Roccella – non è la comminazione della pena, non è la sua entità, non sono le valutazioni processuali proprie dell’esercizio della giurisdizione. Ciò che colpisce è il ragionamento a monte che sembrerebbe aver orientato la Corte, per la quale, a quanto si legge, ‘la situazione che si era creata nell’ambiente familiare‘ avrebbe ‘indotto‘ l’imputato ‘a compiere il tragico gesto‘, con la conseguenza di una ‘comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto reato’». «Non credo sfugga a nessuno – sottolinea la ministra – la pericolosità di ragionamenti di questo tipo, fondati su un nesso causale in grado di ‘indurre‘ per motivi ‘umanamente comprensibili‘ una duplice uccisione. Se si affermasse un principio di questo tipo – conclude Roccella -, lo sforzo di promozione di quel cambiamento culturale che tutti vogliamo non compirebbe certo un passo avanti ma ne farebbe molti indietro».


Questo   è   uno  dei  casi  in cui   il  voler  comprendere    s'avvicina  a  giustificare  un crimine  .  

L’ultimo bambino di Auschwitz: Filippo Boni incontra Mandić, che il 2 marzo 1945 chiuse i cancelli del lager

 




Roma, 13 gennaio 2025

  da   https://www.msn.com/it-it/channel/source/Quotidiano.Net

L’autostrada sfila all’ora del tramonto e nell’aria c’è puzza di bruciato. Qualcuno ha incendiato sterpaglie al confine tra l’Italia e la Slovenia, dove finisce Trieste e un tempo iniziava il mondo non allineato del maresciallo Tito, prima della caduta del muro di Berlino e della fine del comunismo. (...) Il cielo è pallido, in una pausa di questo lungo viaggio verso Opatija, in Croazia, dove vive Oleg Mandić, il bambino sopravvissuto ad Auschwitz che il 2 marzo 1945, insieme all’Armata Rossa, chiuse i cancelli del lager. Ci sta aspettando. Mia figlia dorme profondamente sul sedile posteriore, mia moglie è vicino a lei. Osservo il suo profilo delicato, ascolto il suo respiro; in questo parcheggio dell’Italia orientale, in un crepuscolo di fine estate, ha il potere di trasformare tutto in una nevicata indefinita e senza tempo, che ogni cosa seppellisce di tenerezza. Già. In fondo è questo il potere dei bambini. Seppellire tutto di tenerezza, salvare da ogni male l’uomo adulto e qualsiasi sua pulsione verso l’abisso. I bambini sono la nostra salvezza. Poco fa, quando ho chiesto a un tizio di questo autogrill se sapesse quanti chilometri mancassero ad Abbazia, lui mi ha risposto preciso, in un italiano macchiato di slavo, e poi un po’ incuriosito mi ha chiesto cosa cercassi laggiù. Gli ho spiegato che presto avrei dato voce all’ultimo bambino sopravvissuto ad Auschwitz, che vive là. Lui si è accigliato e perplesso mi ha risposto: “L’ultimo bambino di Auschwitz? Ancora? Dopo ottant’ anni, si parla ancora dei bambini di Auschwitz?”. Ho finto di non sentire. Ho abbassato gli occhi, mi è venuto un conato di vomito e mi sono allontanato, ferito, più che indignato. Non è l’unico a cui ho sentito fare riflessioni di questo tipo nel tempo, dimostrazione che lo spettro del male assoluto è tutt’altro che sconfitto.Sul sedile della mia auto, vicino a mia figlia che dorme, un quotidiano accartocciato dal vento scrive che anche ieri, a Gaza, sono morti dieci bambini e altrettanti sono sotto le macerie, e molto probabilmente non usciranno vivi. Nell’attacco terroristico di Hamas contro Israele lo scorso 7 ottobre 2023 vennero uccisi, insieme a 1400 persone innocenti, decine e decine di bambini inermi. Tra l’ottobre 2023 e il 31 agosto 2024 tra i circa 34.000 nomi di vittime presenti nell’elenco del ministero della Salute di Gaza, 11.300 sono bambini, il 30% dei quali aveva meno di cinque anni. Di questi, circa 710 avevano meno di dodici mesi, il 20% di loro sono nati e morti durante la guerra. Altri 2800 piccoli uccisi ancora non sono stati riconosciuti. Ma non è solo a Gaza, oggi, nell’autunno del 2024, che i bambini vengono massacrati. In Ucraina, su oltre un milione di vittime, 575 sono bambini. Poi c’è la Siria, lo Yemen, l’Afghanistan, la Repubblica Democratica del Congo, Haiti, l’Ecuador, la Nigeria, il Mozambico, il Burkina Faso, il Benin, il Sudan, il Mali, il Pakistan, l’Honduras, Puerto Rico e altri ancora. Un bambino su cinque, nel 2024, sulla terra, vive in aree interessate da un conflitto. Molti sono nati sotto le bombe e non sanno cosa significhi vivere in pace. I bambini non iniziano mai nessuna guerra e non hanno mai il potere di decretarne la fine. I bambini le subiscono e basta, le guerre.Eppure, di fronte a tutto questo, molti oggi si chiedono se ha ancora senso parlare di Auschwitz, del male assoluto, degli adulti e dei bambini finiti nel vento attraverso i camini. Durante la Seconda guerra mondiale, i nazisti massacrarono un milione e mezzo di bambini circa. Molti di loro bruciati nei campi di sterminio, nel punto più profondo dell’orrore assoluto. I più ottimisti si illusero che dopo Auschwitz il mondo sarebbe cambiato. È stato così solo in piccolissima parte, purtroppo. È forse scomparso l’abominio dei campi di sterminio, ma l’esecro dell’uomo sull’uomo, le atrocità, le violenze, le discriminazioni e i genocidi non sono mai finiti. Per questo motivo ho trascorso mesi e mesi nel doloroso e complesso tentativo di calarmi nell’animo e nel cuore di Oleg Mandić e di interpretarne la vita, il sentire, la voce; scrivere di un bambino e di una madre del passato, soprattutto di quel passato, per i bambini e le madri del futuro. È così che ha preso vita questo libro. Per un atto d’amore e d’umanità. E perché credo sia più difficile rinunciare all’amore che alla vita.
Ho scritto questo libro per tutti i derelitti della terra. L’ho scritto per i dimenticati, per i soli, per i perseguitati, per quelli che hanno perso l’ultimo treno. L’ho scritto per chi non ha più voce e per chi voce non l’ha mai avuta, oppure gli è stata tolta. Ho scritto questo libro per tutte le vittime di tutti i genocidi e di tutte le guerre della storia. Tutte. Nessuna esclusa. Quelle di ieri e quelle di oggi. Soprattutto per i bambini. (...) Ho scritto questo libro per Oleg Mandić, l’ultimo bambino uscito vivo da Auschwitz, per i suoi occhi azzurri, per la sua esistenza straordinaria, per come ama sua moglie; per il modo in cui riesce ancora a guardare il mare dalla terrazza del suo studio, a novantun anni compiuti, nonostante tutto. Ho scritto questo libro perché il bambino che lui fu siamo tutti noi. Ho scritto questo libro per parlarti della grandezza di tutte le madri della terra, nel cui grembo si rigenera la speranza. Già. È soprattutto di speranza che dovrebbe esser fatto, il futuro. Ho scritto questo libro perché è il più grande inno all’amore e alla pace che potessi mai scrivere per mia figlia. (...) Dorme sul sedile posteriore, accanto a un giornale accartocciato che parla di guerre, in questo viaggio che profuma di salvezza. E respira. Respira. Respira.

Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti

   Dopo  la  morte  nei  giorno scorsi  all'età  di  80 anni   di  Maurizio Fercioni ( foto sotto  a  sinistra )  considerato il primo t...