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8.8.25

Aeneas aiuta a ricostruire i frammenti perduti delle iscrizioni latine con livelli di rapidità ed efficienza impossibili per un solo cervello umano. È un esempio di come algoritmi e reti neurali trasformeranno la nostra conoscenza dell'antichità e il futuro della ricerca

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                      L’IA vuole prevedere il passato 

     
                                  Silvia Lazzaris

L’ia Vuole Prevedere Il Passato Cover Lazzaris

Aeneas aiuta a ricostruire i frammenti perduti delle iscrizioni latine con livelli di rapidità ed efficienza impossibili per un solo cervello umano. È un esempio di come algoritmi e reti neurali trasformeranno la nostra conoscenza dell'antichità e il futuro della ricerca.Il futuro degli epigrafisti riguarda tutti, perché ci dice qualcosa su come potrebbe cambiare il modo in cui conosciamo, studiamo e capiamo il mondo. Mi attirerò qualche antipatia per il paragone che sto per fare, ma credo che il lavoro di un epigrafista sia un po’ come una partita di La Ruota della Fortuna, il programma di Mike Bongiorno in cui i concorrenti cercavano di indovinare una frase misteriosa rivelando, una alla volta, le lettere mancanti per vincere un’automobile, un viaggio o qualche altro bottino. Anche l’epigrafista ha davanti a sé un testo interrotto, spezzato, consumato dai millenni. Ma ogni lettera “indovinata” deve essere sorretta da fonti e logica storica. È qui che il paragone con Mike Bongiorno si ferma: quello dell’epigrafista è un lavoro che richiede anni di studio e una pazienza fuori dal tempo. Uno degli strumenti fondamentali per completare un frammento sono i cosiddetti “paralleli”: iscrizioni simili a quella incompleta, che aiutano a intuire cosa potrebbe essere andato perduto. I paralleli contengono somiglianze con il testo misterioso: una terminazione verbale, una formula rituale, un nome imperiale, una certa struttura grammaticale, il riferimento a una persona. A volte si trova il gemello perfetto. Un frammento trovato su una lastra di marmo a Roma potrebbe trovare il suo doppio integro in Anatolia o in Nord Africa. Se due testi si parlano si ricostruisce il senso, si traduce, si può datare, e improvvisamente si può dare voce a quello che era muto. Cent’anni fa per trovare paralleli si faceva affidamento alla propria memoria di ferro: si ricordava un’incisione vista dieci anni prima, il racconto di un collega, magari si apriva d’istinto il libro giusto. Era lavoro artigianale sporco e poetico – dunque anche molto fallibile. Poi sono arrivati i repertori, le banchedati e i motori di ricerca. E adesso c’è lui, il modello, l’algoritmo: Aeneas. Aeneas è un modello di intelligenza artificiale che a partire da un frammento, in pochi secondi, è in grado di suggerire il possibile contenuto mancante di un’iscrizione e poi proporre datazione, geolocalizzazione, e dozzine di “paralleli”. È stato progettato da un team di ricercatori guidato da Yannis Assael di Google DeepMind e dalla storica italiana Thea Sommerschield dell’Università di Nottingham. È allenato su 176.000 iscrizioni latine, e non ne dimentica mai nemmeno una. Al momento della prova ha fatto quello che ci si aspettava: ha lasciato gli umani indietro di decine di punti percentuali. In uno studio pubblicato da poco su «Nature», i ricercatori hanno chiesto a 23 epigrafisti di analizzare iscrizioni con e senza l’ausilio di Aeneas. Quando il modello e gli umani hanno lavorato per conto proprio, l’IA ha superato di gran lunga gli epigrafisti in tutti e tre i compiti: completamento del testo, datazione e attribuzione geografica. Ho chiesto a Sommerschield se questi risultati potessero essere influenzati dal modo in cui si era costruito l’esperimento – gli storici avevano solo due ore per completare lavori per cui solitamente si prenderebbero più tempo – e mi ha risposto che l’obiettivo era mettere alla prova l’utilità del modello come supporto agli studiosi, non misurare la loro obsolescenza. La vera notizia, per Sommerschield, non è la competizione tra umani e algoritmi ma il frutto della loro collaborazione. L’assenza dell’umano non è nemmeno contemplata, senza umani non si va da nessuna parte. “Il risultato che abbiamo ottenuto è il migliore che si potesse desiderare: la sinergia produce i risultati più accurati”. Nel 90% dei casi i partecipanti hanno considerato il modello un buon punto di partenza per la ricerca. Per alcuni di loro Aeneas ha addirittura “completamente cambiato” il modo in cui guardavano le iscrizioni. Forse facciamo fatica ad ammettere che, in molti settori, l’intelligenza artificiale stia mostrando di saper fare meglio di noi proprio quei compiti che da sempre associamo all’unicità del pensiero umano: stabilire nessi, capire il contesto, costruire significati. E sì, senza dubbio serviremo ancora noi per architettare e orchestrare, ma sul piano del lavoro cognitivo non è chiaro chi dei due sarà l’assistente dell’altro. Di certo, per gli epigrafisti, Aeneas è un nuovo tipo di collega. Uno che non invecchia, non dorme, non dimentica e non sbaglia quanto loro. “La capacità di contestualizzazione di Aeneas è veramente interessante” ha commentato Silvia Ferrara, archeologa e filologa classica all’Università di Bologna, che sul coinvolgimento di Google nel progetto e nello studio ha commentato “se è uno strumento per consentire ai ricercatori di fare blue sky research, ricerca scientifica libera da vincoli applicativi o commerciali, mi sembra una cosa favolosa, lodevole”. Ferrara dice che in fondo uno dei motivi per cui l’università italiana ha così pochi fondi è anche che non ha avuto la capacità o la lungimiranza di mettersi in gioco con il privato. Ben vengano le collaborazioni con chi può investire sul sapere, purchè, ovviamente – e questo Ferrara lo ripete molte volte – la ricerca sia blue sky. Senza limiti come il cielo. “Aeneas è allenato su 176.000 iscrizioni latine, e non ne dimentica mai nemmeno una. Per gli epigrafisti è un nuovo tipo di collega. Uno che non invecchia, non dorme, non sbaglia quanto loro”.Prevedere-il-passato è il nome del sito lanciato insieme allo studio pubblicato su «Nature»: predictingthepast.com. Un sito che oltre a Aeneas rende gratuito e aperto a tutti anche Ithaca (un antenato di Aeneas specializzato sui testi della Grecia antica, appena aggiornato con il progresso algoritmico di Aeneas), per la gioia di ricercatori, studenti, insegnanti, curatori museali ed epigrafisti autodidatti. Prevedere-il-passato è un nome paradossale ma efficace perché ricostruire l’antichità, quando è così remota e frammentaria, non è tanto diverso da prevedere il futuro. Richiede gli stessi azzardi, lo stesso coraggio e la stessa presunzione. Ed è particolarmente difficile quando non si parla di imperatori e conquiste ma di quello che succedeva alla maggior parte delle persone – la vita vera. “Il motivo per cui faccio epigrafia è che è una delle uniche fonti del mondo antico che riporta le voci dirette delle persone” dice Sommerschield. “Anche gli strati sociali più bassi potevano commissionare un’iscrizione elementare”. Non le voci dei generali né quelle dei filosofi. Voci che dicevano ti amo, sono nato qui, ti ricorderò per sempre, mi devi questi soldi, vieni al mio compleanno. “La vita delle donne e degli schiavi nel mondo romano non la raccontano Tucidide o Tacito” aggiunge Sommerschield, “la raccontano le iscrizioni”.I ricercatori però non hanno resistito alla tentazione di vedere come Aeneas se la sarebbe cavata con la madre di tutte le iscrizioni latine: la Res Gestae Divi Augusti. Una lastra di propaganda incisa nella pietra per rendere eterno un mito. Il racconto in prima persona di Ottaviano, poi diventato Augusto, primo imperatore di Roma, e poi diventato divino. “Volevamo testare il modello sull’iscrizione più famosa, era troppo bello per non provarci e siamo contenti dei risultati” dice Sommerschield. Le Res Gestae hanno fatto dannare gli storici per secoli: quando sono state scritte? Davvero prima che Augusto morisse, dettate da lui come vuole la leggenda? O dopo, magari decenni dopo, quando a dettare il tono era qualcun altro? Se fossero state scritte dopo allora non sarebbe Augusto a parlare. Magari Tiberio, per legittimare il suo regime rievocando un’epoca fondativa idealizzata. Aeneas ha studiato, confrontato centinaia di migliaia di testi, e nel giro di pochi secondi si è espresso. Sul portale gratuito e aperto a tutti possiamo scrutare il ragionamento del modello: si è concentrato per esempio sullo spelling di “aheneis”, che diventa “aeneis” nel primo secolo dopo Cristo e che quindi consente di diagnosticare che questo testo dovesse essere stato scritto prima. Ha fatto ragionamenti classici da storico, ma con la potenza di calcolo di centinaia di cervelli. E ha formulato due ipotesi coerenti con il dibattito storico: una colloca la stesura del testo a pochi anni prima della morte di Augusto, l’altra fino a sei anni dopo. Insomma il modello non ha risolto il dibattito, lo ha confermato. Ma il punto cruciale è che solo a partire dal linguaggio, in pochi secondi, Aeneas sia arrivato a formulare le stesse ipotesi su cui gli storici lavorano da secoli. Su altri testi di cui abbiamo la datazione precisa il margine di errore medio di Aeneas è stato di tredici anni. Non male per documenti vecchi di duemila anni. La media per gli epigrafisti, nello studio, è stata di trentuno – impressionante pure quella, a pensarci bene.Certo le iscrizioni usate per testare Aeneas venivano dallo stesso corpus di addestramento del modello. Non è un dettaglio da poco. È come interrogare un allievo poco dopo avergli fatto una lezione che gli forniva tutti i materiali utili per l’interrogazione. I dati di addestramento erano naturalmente separati da quelli per i test, ma la matrice, l’universo di interpretazione testuale, era quello. “Abbiamo lavorato tantissimo a pulire i dati, armonizzarli, eliminare i duplicati” racconta Sommerschield. “È stato un lavoro molto intenso. I dati sono fondamentali alla performance del modello”. E se i dati non ci fossero? Se ci fosse da lavorare su iscrizioni nuove, sporche, ignorate? Aeneas sarebbe ancora così brillante?  “Non lo abbiamo ancora testato su iscrizioni inedite, perché un’analisi credibile avrebbe richiesto tempo, rigore e lavoro sul campo: bisogna esaminare l’iscrizione dal vivo, confrontarla con fonti specialistiche, costruire un’interpretazione solida. Senza contare che magari qualcuno ha un parallelo chiuso dentro una scatola dimenticata e io non lo so. Possono volerci anni. In questo caso volevamo mostrare l’utilità di Aeneas ai ricercatori il prima possibile.” L’epigrafe dentro una scatola dimenticata è un dettaglio rivelatore: Aeneas è tanto intelligente quanto i dati che riceve. E la digitalizzazione delle epigrafi oggi la fanno a mano volontari, studenti, ragazzi che passano pomeriggi a catalogare iscrizioni dimenticate in qualche archivio italiano. “In questo momento la copertura storica e geografica è tutt’altro che completa,” ammette Sommerschield, “senza i dati digitalizzati dagli studenti delle università non esisterebbe nessuna intelligenza artificiale”.“Nelle discipline umanistiche resta ancora forte l’idea del genio isolato, dell’intuizione folgorante e individuale, dell’esperto solitario che interpreta e firma. Nelle discipline STEM è scontato da tempo che la conoscenza sia un processo collettivo e iterativo. L’intelligenza artificiale potrebbe erodere quel confine rigido tra umanisti e scienziati, alzato nell’Ottocento e rafforzato nel Novecento, che separa chi studia la storia da chi risolve le equazioni”.C’è anche chi sta lavorando a un tipo di intelligenza artificiale che aiuti a cominciare il lavoro epigrafico e non solo a rivisitarlo o completarlo. Ci sono casi in cui i testi sono indecifrabili e indecifrati. Vediamo solo segni, e quei segni non ci dicono nulla. Capirci qualcosa è parte del lavoro di Silvia Ferrara. Con il suo gruppo di ricerca sta addestrando un algoritmo per studiare le iscrizioni cipro-minoiche, tra le scritture più misteriose del mondo antico. Un sillabario che non abbiamo mai capito e quindi una lingua che non abbiamo mai letto – e che potrebbe aiutarci a rileggere l’antichità. A differenza di Aeneas, che lavora in un campo coltivato e sorvegliato, il modello di Ferrara opera quasi alla cieca. Cerca strutture e pattern. Cerca una logica da zero. “Voglio capire che diamine scrivevano a Cipro migliaia di anni fa” dice Ferrara. Le dico che mi ricorda Louise Banks, la linguista interpretata da Amy Adams che nel film Arrival è incaricata di decifrare la lingua degli alieni. “Ho visto il film sette volte. Quella maledetta di Amy Adams mi ha rubato il ruolo”. Il sogno di Ferrara è vedere la nascita di nuove discipline: lo studio dei testi minoici, delle iscrizioni dell’Isola di Pasqua, della Valle dell’Indo, cioè “far parlare testi che non ci parlavano più da millenni”. Non tutti però applaudono all’arrivo di questi strumenti. Molti storcono il naso. L’epigrafia, come molte discipline, si è nutrita nei decenni del lavoro di studiosi sempre più specializzati. Un epigrafista potrebbe passare la sua intera carriera a studiare iscrizioni funerarie latine del II secolo dopo Cristo trovate in Sicilia orientale. Capiamo bene che quando uno passa la sua vita a studiare un pezzetto, i suoi colleghi si vedranno bene dal contraddirlo proprio su quello. Ma è così che nascono anche gli errori e i pregiudizi, che si incrostano e si ripetono.A un certo punto in Arrival, Amy Adams cita lo psicologo statunitense Abraham Maslow: “Se l’unica cosa che hai è un martello, suppongo sia allettante trattare tutto come se fosse un chiodo”. Per molto tempo il martello sono state le singole teorie degli esperti, con tutti i rischi che comporta una voce iper-specializzata e incontestabile. Ora quel martello si è trasformato in una rete neurale, con la potenza di centinaia se non migliaia di cervelli messi insieme. Ma dovremmo chiederci: stiamo costruendo un nuovo strumento capace di farci vedere le iscrizioni con uno sguardo più sfaccettato (per smettere di vedere solo chiodi)? O stiamo semplicemente colpendo più forte con lo stesso martello? Il rischio più insidioso è che l’errore e il pregiudizio, una volta appreso da un modello come Aeneas, diventi norma. Se un modello apprende una lettura sbagliata e la riproduce all’infinito, quella lettura rischia di cristallizzarsi ancora di più come verità. L’autorità algoritmica può trasformare una teoria in dogma senza che nessuno se ne accorga. Ma se quel modello riceve in pasto idee diverse, interpretazioni diverse, scuole di pensiero diverse, allora questo rischio si riduce. Secondo Sommerschield, modelli come Aeneas possono “contribuire a democratizzare la ricerca, rendendola accessibile anche al di fuori dei percorsi tradizionali dell’epigrafia”. Con percorsi tradizionali s’intende lo studio diretto dei monumenti sul campo, la consultazione di archivi e biblioteche specializzati – un lavoro che rimane fondamentale ma per cui oggi molti studiosi faticano a reperire fondi. “Strumenti come Aeneas possono offrire un supporto concreto a chi non ha sempre la possibilità di lavorare direttamente sui monumenti, aiutando a trovare connessioni tra testi e contesti finora difficili da immaginare”.In un contesto accademico in cui l’intelligenza artificiale è ancora, per molti, sinonimo di sciatteria e mancanza di pensiero originale, questo è un esempio di come tutto dipende da come la usiamo. Può diventare una stampella che ci aiuta a fare il minimo indispensabile e ci accompagna lentamente verso la nostra obsolescenza, o una leva che ci consente di guardare più lontano, immaginare l’impossibile, trovare nuove strategie per la nostra rilevanza. Certo, usare questi strumenti significherà non affezionarsi troppo alle proprie teorie. “Ho delle idee e delle ipotesi, se riuscissimo a validarle o anche solo a falsificarle io sarei felicissima” dice Ferrara.Modelli come questi potrebbero restituire vitalità proprio a quelle discipline che più temono di esserne travolte. Nelle discipline umanistiche resta ancora forte l’idea del genio isolato, dell’intuizione folgorante e individuale, dell’esperto solitario che interpreta e firma. Nelle discipline STEM è scontato da tempo che la conoscenza sia un processo collettivo e iterativo. L’intelligenza artificiale potrebbe erodere quel confine rigido tra umanisti e scienziati, alzato nell’Ottocento e rafforzato nel Novecento, che separa chi studia la storia da chi risolve le equazioni. “Sono una delle persone che pensa che chiamarle humanities non abbia assolutamente senso” dice Sommerschield. Forse, chissà, l’era dell’intelligenza artificiale ci restituirà gli studiosi poliedrici. E forse, in questa era, gli indispensabili saranno gli umili. Di sicuro saranno i curiosi. “Molti pensano che se usi strumenti di intelligenza artificiale hai abbandonato il tuo seminato. Ma a me gli stimoli più grandi sono sempre arrivati da fuori” dice Ferrara. “Ogni tanto per farsi venire le idee migliori bisogna cambiare pollaio”.


7.8.25

Stefano Argentino suicida, il paradosso dei risarcimenti: la famiglia di lui lo riceverà, quella di Sara Campanella non avrà nulla



troppo indignato e poco lucido per commentare questa notizia da LEGGO.IT tramite Msn.it







Una vicenda drammatica che ha sconvolto due famiglie, quella di Sara Campanella, la ragazza di 22 anni uccisa lo scorso 31 marzo, e anche quella di Stefano Argentino, il 27enne reo confesso dell'omicidio, che mercoledì mattina si è impiccato nel carcere di Gazzi a Messina. Ma questo dramma potrebbe avere un seguito paradossale, che riguarda i risarcimenti: la famiglia del giovane killer potrebbe infatti avere un indennizzo dallo Stato, mentre la famiglia della vittima non riceverà nulla, o quasi.
Era ritenuto a rischio suicidio
Argentino è stato trovato senza vita nella mattinata di ieri, mercoledì 6 agosto, impiccato con un lenzuolo alle grate della finestra: era accusato di aver sgozzato in pieno centro la collega universitaria Sara Campanella, 22 anni, dopo mesi di stalking. Lei lo aveva allontanato più volte e la sera dell’omicidio aveva scritto alle amiche “il malato mi segue”. Il delitto era avvenuto davanti a molti testimoni e lei era riuscita anche a registrare con il telefono gli ultimi momenti della sua vita.
Dal giorno dell’arresto Argentino, reo confesso, era ritenuto a rischio suicidio: digiuno prolungato, depressione, colloqui con gli psicologi. Era stato posto in “grande sorveglianza”, un protocollo che prevede controllo a vista e cella singola senza oggetti pericolosi. Negli ultimi colloqui sembrava più stabile; per questo, due settimane fa, la direzione ha revocato le misure di prevenzione, riassegnandolo a una cella comune. È in questo contesto, meno controllato, che il giovane riesce a farla finita.
«Lo Stato è responsabile della sua morte»
«È il triste, drammatico, epilogo di una storia di cui si supponeva gia il finale. Sara è stata uccisa, Stefano si è tolto la vita e l’unica responsabilità è da attribuire allo Stato», ha detto mercoledì all'Adnkronos l'avvocato Giuseppe Cultrera, legale di Stefano Argentino. «Avevo chiesto una perizia psichiatrica perché avevo compreso Stefano e i suoi problemi e il gip me l’ha negata - prosegue il legale - Avrebbe potuto salvare almeno una delle due vite, invece lo Stato dovrà sentirsi responsabile del misfatto». Il problema, come ha spiegato il sindacato di polizia penitenziaria Spp, è che in Italia mancano migliaia di guardie carcerarie e non è affatto facile mantenere un detenuto in sorveglianza speciale mentre a malapena si riesce a gestire l'ordinario.
Il cortocircuito dei risarcimenti
Il 10 settembre sarebbe dovuta iniziare la prima udienza davanti alla Corte d’assise. Con la morte dell’imputato, il reato di omicidio si estingue (“mors rei”), il procedimento penale si chiude e le parti civili perdono ogni spazio processuale. Questo apre un cortocircuito etico: ora c’è la possibilità che la famiglia del suicida ottenga un risarcimento dallo Stato per omessa vigilanza, mentre la famiglia di Sara Campanella non avrà mai nessun indennizzo né da lui né dai suoi genitori. Al massimo potrà accedere al fondo pubblico per le vittime di reati intenzionali violenti.
L’Adnkronos ha contattato l’avvocato e direttore di “Giurisprudenza Penale” Guido Stampanoni Bassi, per capire cosa può succedere ora: «La famiglia del detenuto suicida può ottenere un risarcimento dallo Stato, indipendentemente dal reato compiuto o se era stato accertato o meno. L’art. 2 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo impone allo Stato di proteggere la vita di chi è sotto la sua custodia; la mancata prevenzione di un suicidio configura responsabilità civile (e talvolta penale) dell’amministrazione penitenziaria».
Il precedente di Antonio Citraro
«Il caso ricorda la sentenza 'Citraro e Molino c. Italia' della Corte di Strasburgo”, prosegue l’avvocato Stampanoni Bassi: «Antonio Citraro si era impiccato nel 2001 nello stesso carcere, il Gazzi di Messina. Dopo ben 19 anni e molti procedimenti, nel 2020, i genitori ottennero 32.900 euro perché lo Stato, pur conoscendo il rischio, non aveva impedito il gesto».
Il risarcimento "simbolico"
Il nostro ordinamento prevede un risarcimento civile, a carico del responsabile, a favore dei coniugi, genitori o figli delle vittime di omicidio, che viene liquidato durante il processo penale. Ma cosa può fare ora la famiglia di Sara Campanella? «In teoria potrebbe citare in giudizio (civile) i familiari di Stefano Argentino, ma attenzione: se non dovessero accettare l’eredità del defunto, questa strada si chiude immediatamente». Dunque l’unica via resterebbe il fondo pubblico per le vittime di reati intenzionali violenti, istituito nel 1999 e riformato varie volte per includere via via nuove categorie, dai morti di mafia agli orfani di femminicidio. «Si tratta di un indennizzo da 50mila euro, una cifra simbolica rispetto al valore di una vita umana, che si riceve al termine di un procedimento piuttosto complesso», spiega Stampanoni Bassi.
Da Stasi a Turetta, quanto versano ai familiari
La cifra è simbolica rispetto a quanto viene normalmente liquidato in questi casi. Per fare un esempio tornato di recente al centro della cronaca: Alberto Stasi in questi 16 anni ha dovuto versare oltre 850mila euro alla famiglia di Chiara Poggi, indebitandosi e lavorando in carcere. Filippo Turetta dovrà versare 500.000 euro a Gino Cecchettin, 100 mila euro ciascuno ai due fratelli di Giulia e anche 30 mila euro alla nonna e allo zio.
La famiglia di Fabiana Luzzi, uccisa a 16 anni a Corigliano dall'ex fidanzato Davide Morrone, all'epoca minorenne, riceverà 1,3 milioni di euro che dovranno essere versati dall'omicida in solido con i suoi genitori. E così potrebbe verificarsi il paradosso per cui la famiglia della vittima avrà al massimo una somma simbolica, mentre quella dell’omicida reo confesso potrebbe ricevere molto di più, a spese dei contribuenti.

in guerra LA PRIMA VITTIMA è LA VERITà . OLTRE A ISRAELE ANCHE HAMMAS CREA DEI FALSI Le foto artefatte di Gaza e la nostra indignazione selettiva



DA LETTERA43  TRAMIKTE MSN.IT 






Secondo un’approfondita inchiesta del quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung, accanto alle immagini reali e incontestabili della crisi umanitaria a Gaza, circolano anche fotografie messe in scena o decontestualizzate, utilizzate da Hamas per influenzare l’opinione pubblica internazionale. Pur riconoscendo la gravissima carenza di cibo nella Striscia, alcune immagini di bambini denutriti non riflettono la situazione attuale ma sarebbero frutto di manipolazione. In diversi casi, si tratterebbe di fotografie scattate fuori da Gaza o di ritratti di piccoli affetti da malattie croniche non legate al conflitto. Un esempio citato riguarda uno scatto ottenuto dal giornale, per il quale l’autore avrebbe chiesto ai gazawi di posare come se fossero in fila per ricevere cibo. Anche l’Associazione dei giornalisti tedeschi (Djv) ha messo in guardia le redazioni sui tentativi di falsificazione attraverso immagini giornalistiche professionali. Il presidente della Djv, Mika Beuster, ha sottolineato: «Tutte le parti coinvolte in questa guerra, inclusi i media e servizi di intelligence, stanno usando il potere delle immagini come mai prima per influenzare la percezione pubblica».



I rischi della decontestualizzazione di uno scatto

Già Oliviero Toscani metteva in guardia sulle immagini di bambini affamati o malati che, a volte, sono messe in scena o decontestualizzate per muovere a pietà. Non sono necessariamente false, diceva Toscani – che sosteneva anche una foto è «sempre vera» nella sua essenza, in quanto foto – ma i soggetti vengono posizionati e accompagnati da didascalie fuorvianti che attingono alla memoria visiva e alle emozioni del pubblico. Hamas, secondo alcuni, sarebbe maestra nel «mettere in scena le immagini», con l’obiettivo di sovrapporle nella memoria collettiva a quelle terribili della strage del 7 ottobre 2023.




Il fotografo Oliviero Toscani (foto Imagoeconomica).

Se l’indignazione diventa selettiva
Ci si scandalizza per la manipolazione delle immagini da parte di Hamas, ma non ci si sofferma sul fatto che la propaganda visiva è ormai una pratica ampiamente utilizzata da tutti, a partire dall’America di Trump e dalla Russia di Putin. Solo quando lo fa Hamas, ci si accorge che le immagini vanno sempre verificate? Mi pare che il problema non sia solo la diffusione di fake news – uno sport incoraggiato dai social che appassiona tutto il mondo – ma l’ipocrisia con cui si decide quando indignarsi. La guerra delle immagini è parte integrante dei conflitti moderni, lo scrive Toscani in uno dei fascicoli sulla Nuova Fotografia curati da lui stesso per il Corriere della Sera, prima di morire. Ma ciò che colpisce è come si denunci la propaganda di Hamas solo ora, mentre altre forme di manipolazione, magari più raffinate, vengono accettate come parte del gioco mediatico. Un altro quotidiano tedesco, la Bild, ha sollevato ulteriori dubbi citando il caso del fotografo freelance di Gaza, Anas Zayed Fatiyeh. Fatiyeh – che lavora per l’agenzia di stampa statale turca Anadolu, che fa capo al presidente Recep Tayyip Erdoğan, sostenitore di Hamas e critico di Israele – avrebbe allestito scene ad hoc enfatizzando la sofferenza palestinese, fiancheggiando così la propaganda di Hamas. Queste foto sono state pubblicate non solo dalla Bild, ma anche da testate internazionali come Bbc, Cnn e New York Magazine. Secondo il tabloid tedesco, il fotografo ha condiviso le stesse immagini sui social media, accompagnandole con messaggi apertamente anti-israeliani.




Una madre con suo figlio di due anno a Gaza (Ansa).


In mezzo a foto potenzialmente artefatti restano le vittime e le bombe vere

La guerra si combatte anche con le immagini, la distinzione tra verità e propaganda si fa sempre più sottile. Le fotografie non raccontano solo ciò che accade, ma spesso ciò che si vuole far credere sia accaduto. Questo non giustifica la manipolazione né la deresponsabilizzazione di chi la compie, ma impone uno sguardo critico e imparziale su tutte le parti in causa. Condannare la propaganda solo quando proviene dal “nemico” significa alimentare un’ipocrisia mediatica che mina la credibilità dell’informazione stessa. In mezzo a immagini potenzialmente artefatte, restano però le vittime vere e le bombe vere. E sono queste realtà – non le messinscene – che dovrebbero restare al centro della nostra attenzione e, soprattutto, della nostra coscienza.

Hiroshima e Nagasaki: 80 anni di memoria e responsabilità

leggi    anche


Ciao a tutti ☀️ vi consiglio, oltre  a  leggere  o  rileggere  sempre  sullo stesso argomento   il mio  post   precedente (  trovate  sopra  l'url )  , con il cuore questo articolo 🙏 perché possiamo fare tanto, anche per le situazioni terribili ancora in corso   ma  soprattutto  perchè « Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre.» ( Primo Levi   da “Se questo è un uomo” ) .


 da   https://senzatomica.it/approfondimenti/



Mantenere viva la memoria implica una scelta. Tra il continuo di eventi di cui è fatta la storia, si scelgono dei punti specifici da rievocare nel presente, al fine di influenzare, oggi, opinioni e azioni delle persone. Ciò va al di là dell’accurata ricostruzione dei fatti storici (premessa tuttavia essenziale alla quale attingere) perché comporta uno sforzo attivo di collegamento alla realtà attuale. L’oscura seduzione delle coscienze di cui parla Levi, ovvero la tendenza a reiterare errori del passato che già hanno arrecato innumerevoli sofferenze alle persone, è un rischio sempre attuale.
A tal proposito, una domanda importante da porsi è: quali eventi, oggi, rappresentano un’avvisaglia di tale rischio?I bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki hanno svelato la logica che può celarsi dietro la distruzione di massa provocata dalle armi nucleari. Questi bombardamenti non sono stati il risultato di una collera istintiva verso l’avversario, ma una scelta razionale con obiettivi specifici. Da una parte, c’era l’esigenza di porre fine alla guerra tra Giappone e Stati Uniti e, dall’altra, quella di mostrare al mondo la superiorità militare di questi ultimi.Di fronte a tali necessità, le coscienze erano “sedotte e oscurate” al punto da considerare l’altissimo prezzo in termini di vite umane della popolazione civile delle due città colpite come proporzionato all’importanza degli obiettivi militari prefissati. Al giorno d’oggi, i due scenari di conflitto su cui l’attenzione del mondo occidentale si sta maggiormente soffermando mettono in luce delle logiche analoghe.Nel contesto dell’invasione dell’Ucraina, lo sfatare il tabù nucleare da parte della Russia¹ dimostra la volontà di essere disposti, seppur in casi estremi, a utilizzare delle armi atomiche come mezzo per la risoluzione di un conflitto. Allo stesso tempo, quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza ci mostra come colpire la popolazione civile di un intero territorio, al punto da minacciare la sua stessa esistenza², può comunque essere considerato un danno collaterale rispetto a degli obiettivi militari. Di fronte alla manifestazione di tanta violenza da parte degli esseri umani la reazione più comune è quella di sentirsi impotenti. Il flusso incessante di notizie su questi tragici eventi finisce per rendere le persone indifferenti e apatiche. In questo contesto, la memoria può essere uno strumento in grado di riconnetterci con l’esperienza umana che vi è dietro determinati eventi storici che hanno ancora molto da insegnare rispetto alla situazione attuale.Tutto dipende, in definitiva, da come e con quali intenzioni ricostruiamo il passato.Tra le pratiche ad oggi più comuni vi sono quelle che mirano ad affiancare al concetto di memoria lo stimolo alla rideterminazione. Il “non dimenticare” diventa quindi un riconoscere e reagire all’evento. Il museo della memoria di Nagasaki, ad esempio, preserva ed espone la memoria delle vittime dell’esplosione atomica del 9 agosto 1945 promuovendo, allo stesso tempo,  la ricerca della pace e valori come il rispetto, l’empatia, il coraggio.                 Arnaldo Pomodoro, "Sfera con sfera", Nazioni Unite, New York - Credits: Senzatomica


Un obiettivo simile è stato portato avanti anche dalla mostra “La memoria degli oggetti” (2023), ospitata presso il Memoriale della Shoah di Milano. Realizzata con i fondi dell’8×1000 dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, l’esposizione è stata curata e allestita con gli effetti personali di 368 migranti naufragati a Lampedusa (Italia) il 3 ottobre 2013. Nelle intenzioni del comitato organizzativo, la mostra non doveva semplicemente farsi strumento di protesta, ma poteva soprattutto porre in risalto che, oltre i numeri identificativi, oltre la notizia, la traversata in mare è stata compiuta da esseri umani.
Sempre rimanendo in Italia, è particolarmente encomiabile la funzione che svolge la memoria, come vera e propria facoltà attiva in grado di ristabilire connessioni con il passato, al fine di dare una prospettiva di speranza in tutte le attività portate avanti nell’ambito dell’antimafia sociale. Questo è particolarmente vero in occasione del 21 marzo, Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, in cui vengono letti tutti i nomi delle persone comuni coinvolte in stragi e attentati di mafia, come anche nelle altre azioni che si traducono nella dedica di presidi o beni confiscati alle mafie a vittime di mafia.
Risuonano in questo senso alcuni estratti dell’Appello alla resilienza e alla speranza che Daisaku Ikeda ed il Premio Nobel per la Pace Adolfo Pérez Esquivel hanno lasciato in eredità ai giovani del mondo nel giugno del 2018. Per entrambi, infatti:
“Bisogna conservare la memoria perché essa illumina il presente e genera la capacità e la resilienza dei popoli per costruire nuove alternative, luci di speranza per far sì che un altro mondo sia possibile”.
Inoltre, si rivela necessario:
“Promuovere una coscienza collettiva a partire dalla memoria della storia universale per far sì che non si ripetano le stesse tragedie. Far comprendere che la Terra è la nostra casa comune e nessuno deve essere escluso da essa a causa delle proprie differenze.”
Nel celebre dialogo tra Daisaku Ikeda e Adolfo Pérez Esquivel, Ikeda (riprendendo il concetto di “coscienza critica” di Esquivel) afferma, inoltre, che l’essere umano dovrebbe sviluppare la capacità di distinguere il bene dal male, nonostante le circostanze e gli avvenimenti complessi della società rendano difficile tale distinzione. A questo scopo, Ikeda sottolinea come si sia impegnato in prima linea alla realizzazione di iniziative concrete di pacifismo e non belligeranza proprio nelle città di Hiroshima e Nagasaki, le uniche città del mondo ad aver sperimentato gli effetti distruttivi del “male assoluto”.
In risposta, Esquivel concorda su questa verità manifesta, richiamando alla mente il toccante ricordo della sua visita ad Hiroshima e la testimonianza degli “sguardi innocenti” delle donne e bambine sopravvissute all’esplosione. Ne conclude che “le armi nucleari mettono in evidenza fin dove può spingersi l’essere umano e quanto possono venire a costare le conseguenze e i rischi per le generazioni presenti e future del mondo” ³.
In onore dei valorosi abitanti di Hiroshima che si dedicano giorno dopo giorno al movimento per la pace, Ikeda scrisse: “Eppure gli oleandri di Hiroshima continuano a fiorire, per raccontare al mondo il potere dello spirito umano, la forza salvifica che germoglia dalla sofferenza e il messaggio di pace che arde sotto la cenere” ⁴.
Pochi giorni fa, in occasione degli 80 anni dal primo uso nella storia di un’arma nucleare (Trinity test, 16 luglio 1945), la Direttrice esecutiva della campagna ICAN Melissa Parke, ha ribadito con forza come 80 anni vissuti sotto la minaccia nucleare siano abbastanza, e che dobbiamo eliminare queste armi prima che loro eliminino noi. Proprio come Ikeda ed Esquivel conclusero il loro dialogo affermando che una simile tragedia non si debba mai più ripetere, anche la Direttrice Parke ha concluso il suo appello con un significativo “Never again”

Note
1. Cfr. https://www.icanw.org/will_putin_use_nuclear_weapons
2. Cfr. https://www.icanw.org/commentary_nuclearweapons_israel_gaza
3. La forza della speranza. Riflessioni sulla pace e i diritti umani nel terzo millennio., Adolfo Pérez Esquivel e Daisaku Ikeda, Esperia Edizioni, novembre 2016, pp. 169-171.
4. Il Quaderno di Hiroshima, Daisaku Ikeda, Esperia Edizioni, marzo 2013.
5. 80 Years later, the first nuclear blast is not forgotten, 16 luglio 2025, icanw.org, News, Melissa Parke, Executive Director ICAN

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata XXXVI In una situazione di pericolo,In una situazione di pericolo, lo sguardo può diventare uno strumento prezioso.

A differenza della puntata scorsa questa è in tono in quanto il modo di vedere una persona  può  depotenziare un eventuale aggressione  o una situazione  poco chiara / ambigua pronta a degenerare

 Eco l'articolo 

In una situazione di pericolo, lo sguardo può diventare uno strumento prezioso. Non si tratta solo di vedere, ma di comunicare qualcosa. Il modo in cui guardiamo un potenziale aggressore può infatti incluenzare l’esito di qualunque tipo di situazione. Uno sguardo troppo diretto può essere percepito come provocatorio, mentre uno troppo sfuggente può trasmettere paura, vulnerabilità, sottomissione. La chiave, come spesso accade, sta nella via di mezzo, un equilibrio che non è sempre facile daraggiungere.
 Prima di tutto tenete a mente che lo sguardo deve essere vigile. Chi è attento a quello che lo circonda, chi guarda negli occhi senza fissare e chi osserva il contesto con prontezza sa trasmettere sicurezza e
consapevolezza, a prescindere. Gli aggressori, in genere, individuano le loro vittime tra chi sembra distratto, spaesato o impaurito. Mostrarsi attenti, anche semplicemente con un passo deciso, senza 
guardare il cellulare, può scoraggiare un a#acco prima ancora che questo inizi. Se davanti a voi avete qualcuno che potrebbe essere pericoloso, mantenete un contatto visivo non ostile: lanciate uno sguardo breve e stabile, per fargli capire che siete presenti e attenti, anche se non lo volete sfidare. 
Occhi aperti, fermi, ma mai duri. Guardare la persona negli occhi, senza "ssarla con insistenza, può bastare per far capire che non siamo un bersaglio passivo. Al tempo stesso, non abbassate lo sguardo, perché equivarrebbe a una resa silenziosa. Evitate anche lo sguardo fisso, perché potrebbe 
scatenare una reazione aggressiva. Usate gli occhi per leggere al meglio il comportamento di chi avete di fronte e individuare una possibile via d’uscita.Infine ricordate che con gli occhi potete anche chiedere aiuto. Guardare qualcuno negli occhi tra i passanti o tra chi è accanto a voi può creare un’alleanza silenziosa, ma importante. Uno sguardo, anche nei momenti di massima tensione, è in grado di darvi la voce, anche se non aprite bocca.

Infatti   l'articolo    di Bianco  trva  conferma   in  7 modi per trasmettere sicurezza  riportato integralmente      sotto    di https://www.hays.it/

Mostra sicurezza in ogni occasione, anche quando non ti senti propriamente così, e rimarrai sorpreso dal clima di positività che creerai intorno a te. Ti stai preparando per affrontare un colloquio, il lancio di un nuovo prodotto o una riunione con un cliente importante? La fiducia in te stesso sarà un fattore determinante per la riuscita di questi progetti.




Dopo aver incontrato molti candidati in questi anni, mi sono reso conto che, anche se avevano CV molto interessanti, durante il colloquio mostravano mancanza di sicurezza. Per questa ragione ho avuto molti dubbi nel portare avanti il loro percorso di selezione.

Le persone che denotano sicurezza crescono più facilmente nell’ambiente di lavoro: esse sono infatti buoni comunicatori e non hanno difficoltà ad affrontare i problemi. Sono anche fonte di ispirazione per i propri colleghi a credere di più in se stessi, creando tutto intorno una atmosfera dinamica ed entusiasta.
Essere sicuri è una scelta

Essere una persona sicura di se’ è un atteggiamento mentale che deriva da dentro ed è accessibile a tutti. Partendo da questo punto, si può acquisire più fiducia nelle proprie capacità in 7 semplici passi:
Convincersi di farcela

Dobbiamo essere noi in prima persona a considerarci una persona con grande sicurezza, anche se questo comporta a volte di doversi auto-convincersi. Assumere tale atteggiamento permette alle altre persone di vederti come un professionista su cui poter contare. E presto, osservando il modo entusiasta con cui ti osservano, anche tu acquisirai più consapevolezza delle tue grandi capacità.
Comunicare in modo chiaro

Molti di noi pensano che la sicurezza in sé dipenda da quello che diciamo. Non è così, dipende da quello che gli altri ascoltano. Ecco perché è importante assumere un modo di comunicare chiaro e trasparente:
- Parlare in modo fermo e comprensibile
- Respirare ritmicamente e a seconda del proprio discorso
- Non “svendere” quello che si sta dicendo, utilizzando parole come “solo”, “sembra”, “forse”
- Mantenere un contatto visivo con chi ti ascolta e ricordarsi di sorridere
Avere il senso dell’humor

Pensa alle persone più divertenti che conosci. Non è forse vero che spesso sembrano anche le più sicure? Questo perché essere spiritosi significa anche assumersi dei rischi. L’umorismo, come la sicurezza in se’, è contagioso: perciò utilizzalo il più che puoi (se e quando è appropriato).
Trova un mentore

Cerca una persona di riferimento, una “guida”, che ti ricordi ogni volta dove vuoi arrivare ad essere e cosa devi migliorare ancora per diventarlo. Questo ti aiuterà molto, perché ti ricorderà ogni volta quanto tu sia ambizioso. Identifica qualcuno che possa aiutarti a crescere, seguendone l’esempio, e dirigi i tuoi sforzi nel creare un solido network.
Interpreta il ruolo

Se ti senti a tuo agio, avrai più facilità nel sentirti sicuro. Un abbigliamento curato è importante, se stai per affrontare un colloquio o se devi presentare una serata; ma quel che conta di più è che tu ti senta comodo e tranquillo. Se indossi abiti non appropriati, non farai altro che agitarti, il che trasmetterà agli altri un tuo stato di nervosismo e comporterà una mancanza di interesse in quel che dici.
Preparati

Prepararsi al meglio prima di un meeting importante o di una riunione ti aiuterà a tener a bada i nervi, a mantenere alta la concentrazione su quello che dovrai dire e, non da ultimo, ad essere più sicuro nella tua esposizione. Evitare questa preparazione significa arrivare insicuri a colloqui, riunioni o presentazioni e certamente non farai una bella figura.
Pensa positivo

Arrendersi ai pensieri negativi è una debolezza che molti hanno. Tuttavia è meglio non cascarci. Quando la tua mente inizia a pensare in negativo, trova un modo per eliminarlo immediatamente. Rinforza la sicurezza in te stesso, focalizzandoti solo su cose positive, e vedrai quanto inizierai ad avere più fiducia nelle tue capacità.

Metti in pratica questi sette suggerimenti ed inizierai a creare intorno a te una buona impressione su chiunque incontrerai. Le persone saranno trascinate dalla tua sicurezza e ben presto ti sentirai anche tu una persona di successo sul posto di lavoro.

6.8.25

DIARIO DI BORDO ANNO III SPECIALE HIROSHIMA 6 AGOSTO 1945-6 AGOSTO 2025

 


IL  video   che  trovate  sotto   quello del silenzio e la foto sopra   credo che valgano   di più di mille parole  . 


Ma anche  se  qualche parola , il minimo    giusto  per    contestualizzare   l'evento per  le  future   generazioni    visto    che   molte azioni hanno ancora arsenali atomici  pronti all'uso .Iniziamo   da 

  
tra le  tante storie  di  hibakuska ( sopravvisuti  )    ce n'è una   che  mi ha  colpito    eccovela qui senza  commenti .   da  www.vita.it 



A Hiroshima c'era una missionaria padovana, quella mattina del 6 agosto di 80 anni fa. Si chiamava Marie Xavier, al secolo Eleonora Saccardo Rasi. Sopravvissuta, insieme alle consorelle fu tra le prime a soccorrere i feriti. «Faceva così caldo che lo stagno davanti alla statua della Beata Vergine si è seccato in un colpo solo», scrive nelle lettere alla superiora



«Il 6 agosto fu il giorno del grande sacrificio». Con queste parole, scritte nell’autunno del 1945 alla madre superiora dell’Istituto delle Suore ausiliatrici delle anime del purgatorio, suor Marie Xavier racconta l’inferno piovuto sulla terra: l’esplosione della bomba atomica su Hiroshima
L’ordigno fu sganciato a circa tre chilometri dal convento in cui la religiosa svolgeva la sua quotidiana opera. In pochi istanti la bomba atomica annientò ogni forma di vita, lasciando solo uno scenario di distruzione disumana: case rase al suolo, corpi carbonizzati, urla, silenzio.
Faceva così caldo che il piccolo stagno davanti alla statua della Beata Vergine si è seccato in un colpo solo
«Alle 8.05 il cielo è diventato verde, blu come quando si fanno le fotografie al magnesio e contemporaneamente tutti i tetti, le finestre e le porte sono volati via da tutte le parti; il cielo, che prima era di un azzurro magnifico senza una sola nuvola, è diventato nero», scrive suor Marie. «Faceva così caldo che il piccolo stagno davanti alla statua della Beata Vergine si è seccato in un colpo solo».
Una vita spesa portando il Vangelo alle moltitudini
Nata a Padova nel 1905, suor Marie Xavier – al secolo Eleonora Saccardo Rasi – era figlia di Giuseppina Saccardo, a sua volta figlia di Pier Andrea Saccardo, prefetto dell’Orto botanico di Padova, e di Pietro Rasi. Bionda, con due lunghe trecce, Eleonora l’1 novembre 1922, a 17 anni, entra nel noviziato delle Suore Ausiliatrici del Purgatorio a Sanremo con il nome di suor Maria Saveria, ispirata da san Francesco Saverio. Da lui ereditò il sogno missionario: portare il Vangelo alle moltitudini. Appena ventenne pronuncia i primi voti e completa la sua formazione a Firenze, poi a Pontoise in Francia e nel 1936 parte per il Giappone: destinazione Hiroshima. Lì, nella comunità di Kusunoki-cho, fu tra le prime suore a entrare nel convento fondato l’anno precedente. Imparò la lingua, si immerse nella cultura locale, lavorò in ospedale, visitò famiglie, battezzò morenti, parlò ai giovani, vivendo il Vangelo con discrezione e instancabile carità.

                               Suor Marie Xavier (Foto ufficio stampa Ulss6 Euganea di Padova)


Sopravvivere alla bomba atomica: un miracolo
Il 6 agosto 1945, la bomba atomica colpì la città. Il convento delle Ausiliatrici fu completamente distrutto. Ma suor Marie e le consorelle, inspiegabilmente guidate da un istinto che lei stessa attribuisce al «Buon Dio», si rifugiarono dentro l’edificio pochi istanti prima dell’esplosione. Scrive la religiosa nella lettera: «Istintivamente e certamente per ispirazione del Buon Dio, siamo rientrate tutte in casa, che si stava sbriciolando da tutte le parti». E prosegue: «Umanamente parlando era una follia perché le polveri ci cadevano in testa, ma questo ci ha salvato dalle orribili ustioni prodotte da quell’unica bomba, perché è stata una sola bomba a distruggere l’intera Hiroshima». E prosegue nella lettera scritta nell’autunno del 1945: «Dei 440mila abitanti, il censimento di due mesi fa ne ha contati solo 130mila. Questo vi dice chiaramente di quale protezione siamo state oggetto». E ancora si legge nella lettera: «L’aereo ha sganciato la bomba che è rimasta in cielo sostenuta da 3 paracaduti; a una certa gradazione di calore, sotto l’influenza dei raggi, è esplosa e ha portato rovina e morte in un raggio di 35 km».
Istintivamente e certamente per ispirazione del Buon Dio, siamo rientrate tutte in casa, che si stava sbriciolando da tutte le parti. Questo ci ha salvato dalle orribili ustioni prodotte da quell’unica bomba
Dopo la tragedia, suor Marie fu tra le prime a soccorrere i feriti, accanto ai gesuiti guidati da padre Arrupe, preposito generale della Compagnia di Gesù. Rimase in Giappone fino al 1961, vivendo con e per la gente, testimone silenziosa di una ricostruzione civile e spirituale. Rientrata in Italia, si prese cura della sorella sorda rimasta sola dopo la morte della madre e del fratello, sacrificando il ritorno in missione. Poi fu destinata a Roma, a Villa Mercede, e infine a Sanremo, dove continuò a operare fra bambini, anziani e poveri, sempre con voce mite e cuore ardente. Morì nel 1994 ben cinquant’anni dopo l’apocalisse di Hiroshima.Padova a dicembre le conferisce un’onorificenza
Per tutti suor Marie era “la monaca dalla voce gentile”. La sua esistenza, segnata dalla fede, dal coraggio e da una carità senza clamore, resta una testimonianza di pace. Per questo a ottant’anni dalla bomba atomica, il prossimo 12 dicembre, in occasione della plenaria del Dipartimento di prevenzione dell’Ulss6 Euganea di Padova – il cui team ha di recente riscoperto la storia della religiosa – l’Ulss6 e il Comune di Padova le conferiranno un’onorificenza alla memoria. Un gesto che intende riconoscere il valore umano, spirituale e civile di una donna che, con umiltà e determinazione, ha saputo trasformare la sofferenza in speranza.
Nella foto di apertura suor Marie Xavier in Giappone (foto ufficio stampa Ulss6 Euganea di Padova)

mi fermo qui    con le  lacrime  agli occhi  davanti a  simili eventi    ma  condividendoquesta  riflessione trovatya  su  la  nuova  sardegna  del 6\8\2025

A 80 anni dall’atomica LA LEZIONE DI HIROSHIMA
                                          di Marco Impagliazzo

16 agosto 1945 - che qualcuno ha definito il “giorno zero”, alle 8.15 del mattino, unabomba atomicadi tipo balistico venne sganciata su Hiroshima, Il 9 agosto, alle 11.02 del mattino, una bomba atomica a implosione venne sganciata su Nagasaki. Le conseguenze furono catastrofiche. A Hiroshima
morirono circa 140mila persone da quel giorno fino alla fine del 1945, mentre a Nagasaki perirono in 70mila. Molti furono uccisi all'istante dall’esplosione e dalla forza delle radiazioni. Ungran numero di sopravvissuti all'esplosione iniziale morirono inseguito per malattie legate alle radiazioni e per la man-
canza di cure mediche. Si stima che più di 38mila bambini furono uccisi nei due bombardamenti atomici. Gli Hibakusha,cosìsi chiamano i sopravvissuti,esposti agli effetti del nucleare hanno sofferto sintomi acuti con molti decessi nelle settimane, nei mesi e anni successivi.
Datel e scarse conoscenze dell'epoca sugli effetti dell'arma atomica, gli Hibakusha hanno sofferto anche discriminazioni nel matrimonio e nel lavoro, vivendo il timore costante di trasmettere gli effetti delle radiazioni alle generazioni successive. Le esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki hanno mostrato
‘l mondo la potenza catastrofica e distruttiva delle armi nu-cleari. Eppure, da allora l'uomo ha costruito più di 70.000 armi  nucleari e condotto più di 2.000 test. Ancora oggi abbiamo più di 12.500 di queste armi, ciascuna con una potenza notevolmente superiore a quelle usate nell'agosto del 1945. Durante la Guerra
Fredda, com'è noto, lo sviluppo  e la proliferazione delle armi nucleari hanno subito un’accelerazione. Dopo un periodo di smantellamento reciproco delle due potenze maggiori (Usa e Urss oggi Russia) durante la distensione, è tuttavia aumentato il numero degli Stati provvisti di arma atomica, facendo risalire il
pericolo di minaccia nucleare.Ci sono nuove sfide e nuovi rischi: gli Stati con un arsenale nucleare continuano a considerare le armi nucleari deterrenti  strategici essenziali ma anche armidi ultima istanza atte a prevenire cambiamenti di regime o invasioni straniere. Ciò significa che alcuni Paesi cercano l'arma
atomica per garantirsi l’esistenza. Dagli anni Duemila i progressi nel processo di disarmo hanno subito una battuta d'arresto.
Il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, adottato dall'Onu nel 2017, ha cercato di porvi rimedio mirando all’eliminazione totale di tali armi. Tuttavia i paesi con un arsenale nucleare non hanno aderito al Trattato,preferendo discutere solo tra di loro, sulla base di riduzioni reciproche e maidi eliminazione totale. Il Trattato, al contrario, sottolinea la natura disumana delle armi nucleari e punta all’abolizione del nucleare sulla spinta della società civile internazionale e delle organizzazioni pacifiste.
Non c'è accordo nemmeno su quale sia la strategia migliore per evitare errori, soprattutto ora che si è entrati nell'era dell'intelligenza artificiale. Durante la crisi di Cuba del 1962 si giunse vicino alla guerra nucleare, ma ci sono stati altri momenti in cui il rischio fu grande. Ci  si può interrogare se affidare sistemi d’arma all' IA  non aumenti tale pericolo. Il modello della mutua dissuasione sembra aver perso credibilità da quando si è iniziato - come nel caso ucraino -a parlare di “arma atomica tattica”, considerandola solo un’arma più potente delle altre e banalizzando il rischio nucleare.
In realtà non ci sarà mai nessun vincitore in una guerra nucleare,anche se limitata. L'ingranaggio perverso della guerra che la rende infinita diventa ancor più pericoloso se si considera l'uso di tali armi. Tuttavia, le armi nucleari sono proibite dal diritto internazionale, al pari di quelle chimiche e biologiche. Da questo occorre ripartire, ricordando i tragici eventi di80anni fa, facendo memoria delle centinaia
di migliaia di vittime e del triste  destino degli Hibakusha.

ancora esistono i postini ? la storia di Berta Murineddu 🤔 ., i cavalli fanno miracoli il caso della campionessa equestre paraolimpica italiana Martina Mura

 LA  NUOVA  SARDEGNA  EL  5\8\2029 





5.8.25

basta con le donne e gli uomini rifatti e pieni di plastica e botulino o donne mezzo nude che usano come oggetto il proprio corpo

Apro  non ricordo se  facebook o thereas  e trovo     questa  frase


 Sono stanco di vedere facce femminili ritoccate, tette strabordanti dalle scollature in concorrenza, culi in mostra, tacchi, trucchi fetish e gesti hard da donnacce, ormai non più distinguibili da quelle del mestiere. Voglio vedere donne con la loro femminilità nei gesti morbidi e gentili, nei sorrisi aggraziati, nelle movenze seducenti, ma accennate, dalle parole dolci e decise allo stesso tempo. Dai pensieri originali e nuovi. Vorrei vedere donne indipendenti, non succubi dell'uomo a cui immolano la propria dignità, femmine dai cuori di ghiaccio fuso, compagne e amiche dell'uomo, libere e sincere. Vere....

( Charles Bukowski 19201994 )

posso  dire   che  era  uno  che  aveva  prevvisto   proprio come  i 


 

 l'influsso   dell'edonismo plastico   del  corpo  femminile  e     recentemete  anche di quello maschile   .
Concordo   con loro  fin da  quando  ero maschio alfa  . Meglio  , ovviamente      sono giudizi personali   , perchè  : 1)   non tutte  le   donne  , le  ragazzine in particolare  ,  ne  fanno  ricorso  ., 2)  cosa  e  sappiamo    perchè  ci si ricorre  .   Infatti 





.  Meglio una  donna stronza   come   un uomo⁕ o dolcemente complicate,
sempre più emozionate, delicate⁕⁕ ,  ecc
 che  una  artificiale  . Meglio una donna che   imperfezioni   che   una artificiale . Allo  stesso modo   e parlo da  ex (  o quasi   )  pornodipendente    le  donne   che    mostrano  il loto mi attraggono e  ....  ci  siamo  capiti  ma   allo  stesso  tempo   mi  sconsola   che  ogggettivano    a  tutti    i loro corpi


per  avere  qualche like   o per  far  soldi    vedi il boom    di only  fans  . 
Ora  mi diranno che  sono   bigotto   che   le  donne   devono essere  libere  di  fare quello che  vogliono . Certo  vero ma  il mio era  solo un parere  personale   . Poi ogni donna   è libera  di fare quello   che  vuole  con il proprio corpo   e  di mostrare   \ esibirlo  cioè mercificarlo o come  vuole   chi siamo noi per  decidere  per  lei  od  obbligarla   a  fare o non fare quello che  vogliamo noi  . 

⁕ voglio una  donna  - roberto vecchioni 
⁕⁕ 
Quello Che Le Donne Non Dicono- Fiorella Mannoia 


4.8.25

tenere a bada o uccidere le ossessioni ? questo è il dilemma

in sottofondo

Finalmente ho trovato la forza \ il coraggio , era da un poì' che non parlavo di me e di mettere online un mio scrritto del mio zibaldone cartaceo . Ecovi quindi un post non politico cioè non legato all'attualità .
 Come dice la psicologia « Le ossessioni sono pensieri e/o immagini mentali disturbanti, molesti o imbarazzanti, che non se ne vogliono andare, e che “martellano” insistentemente la coscienza fin dal mattino.
Tali pensieri o immagini, proprio perché contengono particolari brutti, spaventosi e spiacevoli, provocano estremo disagio e ansia. [... ]» ¹ e « [...]  Per tenere a bada le ossessioni le persone mettono a punto dei rituali, cioè dei comportamenti da poter ripetere ad ogni ossessione che riescono temporaneamente a far superare l’ostacolo dell’ossessione. [...]  »² . Infatti Le ossessioni non sono semplici pensieri ricorrenti. Sono idee, impulsi o immagini che si impongono alla mente, spesso contro la volontà. Possono essere:
  • Mentali: pensieri ripetitivi, dubbi, paure.

  • Comportamentali: rituali, compulsioni, evitamenti.

  • Emotive: attaccamenti, gelosie, rimpianti.


 un mio amico psicologo ha letto il titolo del mio post e ha detto che << La frase "Tenere a bada o uccidere le tue ossessioni" esprime un concetto forte e profondo: come gestire quei pensieri ricorrenti e invasivi che occupano la mente in modo eccessivo, spesso disturbando la serenità.>> infatti pensandoci bene la si puo vedere in due modi:

🔹 "Tenere a bada le tue ossessioni"

Qui si parla di gestione, di convivenza consapevole.Significa gestirle, non lasciarsi dominare, imparare a conviverci senza permettere che prendano il controllo della tua vita. esistono per chi sceglie questa via delle Strategie utili:
Riconoscere i pensieri ossessivi, senza reprimerli subito.
Distogliere l’attenzione con attività concrete (scrittura, sport, camminate).
Tecniche di mindfulness o meditazione per osservare i pensieri senza giudicarli.
  • Approccio realistico e sostenibile.

  • Favorisce la crescita personale.

  • Permette di trasformare l’ossessione in energia creativa.

Contro:

  • Richiede pazienza e disciplina.

  • Può sembrare una resa.

  • Non sempre funziona da sola.

 e nei casi più gravi cioe se se diventano troppo invasivi laTerapia cognitivo-comportamentale (CBT), se diventano troppo invasivi .

🔹 "Uccidere le tue ossessioni"

È una metafora più radicale: vuol dire eliminarle alla radice, spezzare il loro potere su di te. Ma attenzione: spesso non si può fare di colpo. infatti Serve Capire da dove nascono (insicurezze? traumi ? perfezionismo?). per sostituirle con pensieri più sani e realistici.Questa metafora suggerisce un taglio netto, una liberazione totale. Ma è davvero possibile?  Ecco  i

Pro:

  • Liberazione immediata (se funziona).

  • Rottura con schemi mentali tossici.

  • Atto di forza e autodeterminazione.

Contro:

  • Le ossessioni spesso hanno radici profonde.

  • Sopprimerle può farle tornare più forti.

  • Rischio di negare parti di sé che chiedono ascolto.

Ed in certi casi, affrontare le paure sottostanti attraverso un percorso psicologico e se si vuole come ho fatto io ( leggere sotto ) auto analisi ed affrontare il proprio grillo parlante . 

🔑 In sintesi:

Non sempre si possono “uccidere” le ossessioni subito, ma si possono disinnescare, rimpicciolire, neutralizzare con il tempo, la consapevolezza e, se serve, l’aiuto giusto

🧠 Esempi di ossessioni comuni:

“Devo avere sempre tutto sotto controllo.”

“Se non rispondo subito, succederà qualcosa di brutto.”
“Devo piacere a tutti.
"Devo per forza sapere / conoscere
ecc


A volte le ossessioni sono come demoni, altre volte come messaggeri. Ucciderle può sembrare liberatorio, ma tenerle a bada può insegnare molto. La vera domanda forse è: cosa vogliono da te? E tu, cosa vuoi da loro?  Gestire le ossessioni è un percorso complesso e personale. Non c'è una risposta unica, si  possono  essee  due approcci: "uccidere" (che metaforicamente significa eliminare o superare) e "tenere a bada" (gestire e controllare).
Quale approccio scegliere   dunque  ? La scelta dipende molto dalla natura delle ossessioni e dalle tue risorse personali. Spesso, un mix dei due approcci è la strategia più efficace.  Infatti A  volte  le tengo a bada  , come   in  questo caso  ,  a  volte le  trasformo o le  uccido.
In quesoi  caso  fra i diversi  modi ³  ho  scelto     quello    di dissinescarle   facendomi   sotto  forma di   dialogo\  scontro onnirico  derivato  ( ma non solo   dalla  lettura   di Martin Mystere  :  l'enigma di Napoleone  e  IL  regista  e l'imperatore (  n  424 e n  425 )  ma    con elementi  di verosomiglianza   tra il mio  Grillo parlante \  l'altro mio  io ed  IO .  

Gr (  grillo  parlante )
IO  ( io ) 

Gr.  .....  tu non sei  più  un  ragazzino  ,  hai  quasi 50 anni  . C'è  qualcosa    che    non mi  puace  in questo tuo atteggiamento . 
IO  spiegati meglio  .
Gr  voglio    dire  che  tiu sei  lasciato   convicere   ad  intrapendere  questa   nuova  avventura   in maniera  fin  troppo rapida   .
IO ma lo sai è  il mio  modo  di fare , lo si che oltre  ad essere  ansioso      sono troppo   impulsivo   ci hai   pure  scherxato sopra  
Gr Si  ma  di solito  avresti   calcolato meglio  i rischi    . invece ...
IO   ?
Gr    questra  volta    c'è   qualcosa   che  ti spinge   più  delle altre    volte  . Lo detesto dirlo  ma     ci vedo  ...
IO cosa   
Gr  l'ennessima , non saprei descriverla  diversamente  ,  ossessione  



IO .... 
Gr  proprio cosi   vedo  nei    tuoi occhi   la  tipica  luce  che assumono   quano sei vicino alla  soluzione  di  un enigma  . Forsemstro usando   un termine un po' forte  ma   quando  ti  appassioni  a dei misteri o cose  poco chiare  ti  ci butti a  capo fisso , ti    fai  prendere la mano   e   a  volte  trascuri   tutto il resto  (  come  hai  fatto  con  il G8  di Genoiva  2001  quando ha  i  colaboratro    con Carlo gubitosa  al libro inchiesta  Genova  nome per  nome  e     soprattutto  alla   contro inchiesta  di Piazza  Alimonda e la  sua  contro inchiesta   ed alri misteri    facendo  anche delle  figure  di  💩  e litigando \  perdendo  compagni di viaggio )  pur  di   saziare   la  tua sete    di sapere  .... e  io ho  paura  sia   una  di quelle  .  promettimi  che pur  cn la  tua  proverbiale  curiosità   ti   manterrai prudente  ...  e  che  starai attento anche per te stesso .
IO te lo promettto stai tranquillo .
Gr adesso raggiungiamo gli altri
IO hai paura che muoia e finisca come il protagonista della canzone morire per delle idee di de Andrè ⁕
Gr beh si , in effetti . Anche se la canzone si rifferisce a coloro che sono guidati totalmente ( non è il tuo caso ) da un ossessione finendo totalmente impegnati a raggiungere un obbiettivo , trascurando il resto e con una detterminazione che spinge a non fermarsi fin quando non lo si consegue .
IO capisco quindi   tale processo si  può  evitare    con la rinucia  e  sapedo di  No 
Gr  esatto  . 
IO per i momento  sospendiamo   tutto  
Gr  Bravo ❤😇👍🏼🧠


Quanche tempo dopo

IO     ho  trascorso  questo  periodo   di  standy  by   \ pausa    per  riflettere  sul nostro discorso  . E' vero sono  un tipo \ una  persona caparbia,detterminata,a cui piace   andare in direzione  ostinata  e  contraria   . Ma   non  mi reputo    un uomo  ottuso  , lo studio  della  conoscenza   e del sapere  , insieme al  dubbio per le   verità cioè  delle  versioni    ufficiali , e l'uso  del complottismo critico    sono sempre stati   per  me  strumenti   formidabili per  aprire  i miei  orrizonti  e  cercare  ( anche    se  oignoi tanto capita  di caderci   )   di evitare  le  Fake news  .  Infatti er  i miei post  e   condivisioni   raccolgo sempre  materiale  , mi documento   per  arrivare  al  miglior  risultato possibile  .  Perchè   ciò che  scrivere  possa   essere strumento  per  ampliare  le proprie  conoscenze  . Ecco  cosa   volevo ottenere l'altra volta . Mi  sono  detto   vero o no   chi  sono io per  dubitarne ?  voglio   davvero rischiare ?  tale  cosa  era  diventata  perme una  vera  ossessione   e rischiava   di farmi prendere   una di quelle  strade che non portano  mai   a niente    o  senza  uscita  da  non vedere   eventuali pericoli   ?   questa mia ricerca  spasmodica  era  forse    diventata  ( anzi togli pur  il  forse  )  un osessione  . E   hi  deciso   d'accantonare   il progetto . 
Gr bravo .  sapevo che  eri  in grado al 90%  di dominare  le  tue  ossessioni   . ma  vedo  chge hai  capito  che  non era il   caso   di  rischiare     cosi  tanto   .Ma   soprattutto  , come  credo che te lo  sia  chiesto     anche tu  in questa  fase di riflessione  che senso  ha   verificare  di persona ,  insomma  fare il  san Tommaso  , per  vivere  poi il resto  della  vita  se  ti dovesse  succedere  qualcosa  . Perchè hai già avuto le  tue  risposte    che  volevi e  non serve  altro  . essere  giunti  fin qui   dovrebbe   essere sufficente  a soddisfare la  tua  curosità  .  Non ne  hai  bisogno  e  soprattutto  non ne  vale  la  pena  . Essa può  avvenire  anche senza  rischiare  la pelle  o    denuncie  inutili   soltanto per  avere  una conferma 
IO  già  proprio  cosi  possiamo  rientrare per   quanto mi riguarda   non c'è  più niente  da  scoprire   . ho avuto   una  risposta   soddisfacente  



 APPROFONDIMENTI 



2.8.25

Álvaro Munera untorero che rifiuta di uccidere il.toro nella corrida

Il post era destinato ad essere pubblicato lunedi per cercare d'accirdo con me stesso e la mia lotta

contro lo scrivere  e condividere continuo  e dedicarmi a due giorni di mare. Ma il forte vento ed il mare agitato    mi hanno , almeno per ora , desistere da ciò  .
 Eccovi una storia interessante trovata su l'account Facebook  di


Durante una corrida carica di tensione, il torero Álvaro Múnera fece l’impensabile. Mentre il pubblico aspettava con il fiato sospeso il colpo finale, lui si fermò, si allontanò dal toro… e andò a sedersi sul bordo dell’arena. Calò un silenzio pesante tra gli spettatori.
Più tardi raccontò il momento che gli cambiò la vita:
“Non vedevo più il pericolo delle corna. Guardavo solo i suoi occhi. Non erano pieni di rabbia, ma di innocenza. Non stava attaccando, stava supplicando per la sua vita. Non era una lotta… era crudeltà.”
Múnera lasciò cadere la spada, abbandonò per sempre la tauromachia e iniziò una nuova battaglia: quella contro ogni forma di maltrattamento sugli animali.
Da torero ad attivista, la sua storia è una potente testimonianza di quanto possa essere trasformativa la compassione. A volte basta uno sguardo, un solo istante… per cambiare tutto.


1.8.25

Fine vita.Marina Oppelli Malata di sclerosi multipla suicida in Svizzera. La morte è una soluzione?

Dopo il caso di Laura Santi  ne ho parlato precedentemente ecco un altra storia di una scelta di suicidio assistito / eutanasia. Scelte che ovviamente, egoistiche o meno , temporanee ( vedere articolo sotto ) o definitive , non si fanno certamente a cuor leggero . Infatti se    anche  l'Avvenire  giornale cattolico   (  vedere sotto l'articolo    )   ammette  che    c'è   : « la sofferenza di migliaia di cittadini italiani. Che non vogliono dover chiedere di morire perché non ce la fanno più. ».
Ecco  quindi   siamo tutti d'accordo  che   ci vuole  una legge  che altre  alle  curae  palliative  riconosca la possibilità  di decidere tramite  testamento  bologico  a prescindere  o meno  da  un trattamento di sostegno vitale  se  uno  vuole  o non vuole  le  cure palliative  o  vuole  o non vuole   vivere  in totale o parziale    dipendenza  dagli altri  o  da  macchine   . 

Avvenire    31\7\2025

 

Due anni esatti dopo la richiesta all’Azienda sanitaria universitaria giuliano-isontina (Asugi) di accedere al suicidio medicalmente assistito, respinta per tre volte, Martina Oppelli è morta somministrandosi il farmaco letale. A differenza della sua richiesta di poterlo fare in Italia, però, la 51enne triestina affetta da Sclerosi multipla da oltre vent’anni ha cessato di vivere in un centro specializzato in Svizzera Valutando più volte il suo caso – l’ultima il 1° luglio – l’Asugi aveva verificato che non sussiste una delle condizioni fissate e ripetutamente ribadite dalla Corte costituzionale per ottenere l’aiuto alla morte
volontaria: la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, intesi non come sostegni alla vita quotidiana di una malata grave ma come presidi medici che sostituiscono funzioni vitali. Un punto fermo, per i giudici costituzionali, a garanzia di tutte le persone che si trovano in condizioni analoghe e che vanno protette da derive e scelte letali contro la loro vita, così come detta lo spirito complessivo del nostro ordinamento.A pronunciarsi contro la richiesta della donna triestina e a impedire che si suicidasse era stato anche il Tribunale di Trieste, che a fine marzo ha rigettato la sua richiesta per lo stesso motivo espresso dall’Azienda sanitaria. Due verdetti di autorità differenti – sanitaria e giudiziaria – che sono giunte alla stessa conclusione. Martina Oppelli però non ce la faceva più e ha deciso di suicidarsi ugualmente. Una scelta tragica, come ogni suicidio, davanti alla quale c’è spazio solo per il dolore e il rispetto. Lo stesso rispetto per tutti i pazienti nelle sue condizioni – e anche più gravi – che impone di riflettere sul fatto che la soluzione di morte volontaria per una malattia che si è fatta insostenibile è sempre drammatica, una sconfitta per tutti. E richiede che si evitino le consuete polemiche riflettendo piuttosto su cosa occorre fare perché situazioni come quella di Martina Oppelli si possano prevenire e la morte non diventi la via d’uscita ordinaria a casi simili. Che fare, dunque?Anzitutto ascoltare la voce dei vari malati come e per ultima la donna triestina: «Fate una legge che abbia un senso, una legge che tenga conto di ogni dolore possibile – dice rivolgendosi ai parlamentari nel suo messaggio di congedo diffuso dall’Associazione Coscioni –, che ci siano dei limiti, certo, delle verifiche, ma non potete fare attendere due, tre anni prima di prendere una decisione. In questi ultimi due anni il mio corpo si è disgregato, io non ho più forza, ma non ho più forza nemmeno di respirare delle volte, perfino i comandi vocali non mi capiscono più. Perché sono dovuta venire qui all'estero? Perché non ce la facevo più ad aspettare, non ce la facevo più. Per piacere fate una legge che abbia un senso e che non discrimini nessuna situazione plausibile. Scusate il disturbo».
E' vero , sempre secondo avvenire 
Ci sono anche storie identiche ma opposte nei loro approdi. E sono [  ? non  ci sono   dati  certi ] certamente la grande maggioranza (silenziosa). Come quella di Maria. Malata anche lei di sclerosi multipla in uno stato molto avanzato, Maria – nome di fantasia – ha recentemente portato la sua testimonianza nel corso dell’udienza alla Corte costituzionale per un caso di richiesta di eutanasia, poi dichiarato inammissibile: «La gente – aveva detto Maria – non vuole morire, mi pare assurdo che qualcuno dica il contrario. La mia vita deve rimanere inviolabile da terze persone, anche se io richiedessi in un momento di disperazione di essere uccisa. Secondo questa logica pericolosa, tutti i malati dovrebbero morire».



"Maria", la malata di sclerosi multipla che è comparsa davanti alla Corte costituzionale


Eppure, della sua voce di malata grave che chiede cure e non morte pochi si sono accorti. Perché? «Come si dice, fa più rumore un albero che cade rispetto a una foresta che cresce. Fa più notizia, e non solo – è la risposta di Maria –. Secondo me, le richieste di farla finita arrivano da persone lasciate sole, che non ricevono aiuto sufficiente. Io ho avuto la fortuna di aver incontrato le persone giuste, tra amici, sacerdoti, medici, e ovviamente mio marito. Ricordo ancora che la prima dottoressa che si era occupata di me mi aveva regalato due biglietti per un concerto, proprio per spronarmi a vivere pienamente la mia vita. È una cosa bella ma, in fondo, dovrebbe essere normale. Se incontriamo una persona sul cornicione del quinto piano la invitiamo a buttarsi o ci offriamo di aiutarla a risolvere i suoi problemi? Si evocano termini come misericordia, libertà, dignità, ma si tenta di far passare l’idea che esista una libertà di uccidersi. La dignità, quella vera, è nel poter continuare a vivere. Siamo nati per questo».
Ora    Sul caso di Martina Oppelli si era pronunciato Paolo Pesce, medico, bioeticista, collaboratore della Diocesi di Trieste e del vescovo Enrico Trevisi, che aveva spiegato come «la commissione dell’Asugi» chiamata a valutare il caso della malata triestina ha fatto «una scelta coraggiosa perché in passato, per un caso analogo, aveva riconosciuto che la sola necessità di assistenza continua per l’alimentazione, l’igiene personale, erano condizioni sufficienti per essere considerate trattamenti di sostegno vitale. La signora Oppelli, che ha già fatto apparizioni pubbliche, appare pienamente cosciente, è assistita per tutte le necessità della vita quotidiana, assume farmaci per il controllo dei sintomi legati alla malattia, ma non è, per quanto noto, legata né ad alimentazione né a idratazione, né a respirazione artificiale. Sta proprio qui il centro della questione, portato avanti dall’Associazione Coscioni. La Corte costituzionale nel 2019 aveva affermato che non è punibile chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma capace di prendere decisioni libere e consapevoli. La Corte non ha riconosciuto il diritto al suicidio assistito ma ha depenalizzato il reato di aiuto al suicidio nel caso ricorrano le suddette condizioni».Decisivo capire cosa sia un trattamento di sostegno vitale: secondo il medico triestino, «si tratta non di un semplice sostegno, ma di una vera e propria sostituzione di una funzione vitale che l’organismo è ormai del tutto incapace di assicurare autonomamente». La valutazione fatta propria anche da Asugi e Tribunale. Chiariti i termini della questione, e in attesa di capire se e come verranno recepiti in una legge nazionale, resta la sofferenza di migliaia di cittadini italiani. Che non vogliono dover chiedere di morire perché non ce la fanno più.

  concludo     rispondendo  : 1) A  chi mi dice   che  è Dio  che  decide    se  darci o toglierci la  vita  Dico  che  lui ci ha  dato  il libero arbitrio    cioè  scegliere  se   seguire  la  bibbia   e quindi   quello   che  tramite  suo figlio Gesu   e  i  suoi  profeti   ( apostoli )  e  rappresentanti  (  preti o  altri  esponeti religiosi  )  ci ha  lasciato scritto  . 2)  alla  domanda   del titolo   . Dipende  da  persona  a   persona   come riportasto anche  dall'articolo stesso . 

diario di bordo n 139 anno III Reham, rapita a 9 anni, fatta schiava da al-Baghdadi e tornata libera a 20 ., Agata pedretti, 18 anni, di Cherò (Piacenza) unica donna in azienda agricola di cherò: tra trattori e lavoro manuale in officina ., Olbia un diploma da 100 di un ragazzo con lo spettro autistico ,

da  avvenire  tramite msn.it

Reham, rapita a 9 anni, fatta schiava da al-Baghdadi e tornata libera a 20




© Fornito da Avvenire

Essere rapiti da piccoli vuol dire dimenticare volti, lingua, identità. I genitori yazidi lo temono quanto la morte: potrebbero non ritrovare mai più i propri figli. Nei ricordi offuscati di Reham Haji Hami, cresciuta nelle mani dei suoi aguzzìni, c’erano ancora i visi dei fratelli. Rapita a 9 anni da Khanasor, nel Sinjar (Iraq) ad agosto 2014, insieme a sua sorella, cinque fratelli e altri 6.700 donne e bambini, è tornata a casa 11 anni dopo, ventenne.
Ha resistito a traumi, indottrinamento e violenze, certa che non avrebbe mai più rivisto la sua famiglia: invece pochi giorni fa l’Unità di protezione delle donne (Ypj), la milizia curda femminile, l’ha trovata nel campo di al-Hol, in Siria, dove vivono 39mila sfollati radicalizzati, soprattutto le mogli e i figli dei miliziani del Califfo. «Sono rimasta con la moglie di Abu Bakr al-Baghdadi per quasi sette mesi», ha raccontato a Kurdistan24. «Alla fine, lui in persona mi ha detto che voleva che fossi sua e voleva farmi diventare sua figlia, ma che dovevo dimenticare le mie origini, la mia religione, tutto ciò che riguardava l'essere yazida».
Le commemorazioni dell’11esimo anniversario del genocidio degli yazidi, la minoranza religiosa curdofona trucidata durante l’avanzata del Daesh nell’estate 2014, con Reham sono nel segno della resilienza. Ma anche del bisogno di giustizia.
Il genocidio è in corso perché a fronte di 12mila vittime e 220 fosse comuni, ne sono state scavate solo 64, dopo l’interruzione della missione investigativa UNITAD dalle Nazioni Unite. Perché oltre 200mila sfollati, soprattutto yazidi, non hanno fatto ritorno nelle loro case (l’80% delle infrastrutture è distrutto), e i campi profughi nel Kurdistan iracheno periodicamente sono sotto minaccia del governo regionale che vorrebbe chiuderli con la scusa dell’emergenza finita. Perché manca la sicurezza: gli Accordi di Sinjar del 2020, secondo cui tutta l’area dove storicamente vivevano yazidi, cristiani, sciiti, Shabak, Mandei e Kakai sarebbe dovuta tornare sotto il controllo di Baghdad, non sono stati applicati: restano i quartier generali locali di Ybs, Unità di resistenza di Shingal (e le Ypj), legati al Pkk turco e gli sciiti delle Forze di mobilitazione popolare. Perché i tribunali iracheni, secondo la “Yazidi female survivors law” che stabilisce protezione e risarcimenti per le vittime, periodicamente condannano a morte membri del Daesh per i loro crimini (l’ultimo lo scorso 24 luglio) ma condannare a morte non è giustizia. Solo la Germania, in base al principio di giurisdizione universale, nel 2019 ha condannato all’ergastolo marito e moglie per crimini contro l’umanità: avevano ridotto in schiavitù una donna yazida e fatto morire di sete sotto il sole la figlia di 5 anni.
Non basta: anche larga parte dei fanatici e delle fanatiche che dall’Europa si unirono al Daesh restano parcheggiati il più a lungo possibile dalle cancellerie dei propri Paesi nei campi di accoglienza di al-Hol e Roj: difficile gestire la loro radicalizzazione, che indottrina anche i loro figli. E soprattutto, non c’è giustizia perché mancano ancora all’appello oltre 2mila donne e bambini, catturati per essere schiave sessuali e giovani combattenti. Molte di quelle che non tornano è per non abbandonare i figli nati dalle violenze: la comunità non può accettarli. A fine giugno sono tornati dalla prigionia anche Dima Amin, 23 anni: i suoi aguzzini l’avevano portata in Turchia. E Rawand Nayif Hamid, preso a sette anni insieme a 77 membri della sua famiglia. Anche i loro ricordi sono offuscati, ma sono stati più forti dell’indifferenza del mondo.

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da www.   Gaeta.it
 
Agata pedretti, 18 anni, unica donna in azienda agricola di cherò: tra trattori e lavoro manuale
Agata Pedretti, diciottenne di Cherò (Piacenza), rompe gli stereotipi lavorando come unica donna in un’azienda agricola, trasformando la passione per i trattori in un contratto stabile e una carriera concreta.









Agata pedretti, giovane diciottenne di cherò, in provincia di piacenza, ha scelto un percorso insolito rispetto ai coetanei. Qui, tra campi e macchine agricole, è l’unica ragazza dell’azienda dove lavora. Da sempre appassionata di trattori e meccanica, ha trovato una strada professionale lontana dagli stereotipi femminili. Dopo aver concluso la scuola superiore, è entrata nel mondo del lavoro con un contratto stabile, dimostrando che le passioni possono diventare mestieri solidi.
Un lavoro tra polvere, tute da lavoro e nessuna attenzione alla moda
Agata pedretti ha chiarito subito cosa significa per lei il lavoro: “Non ho problemi a sporcarmi le mani, non ho nemmeno il problema di farmi le unghie”. Le sue giornate passano con la tuta da lavoro addosso, a sistemare trattori e macchine agricole. Non le interessa inseguire mode o seguire le tendenze di bellezza che tante ragazze della sua età cercano di rispettare. Preferisce rimboccarsi le maniche e affrontare compiti che richiedono forza fisica e attenzione tecnica, in un ambiente dove sono quasi esclusivamente uomini. Questo atteggiamento ha fatto di lei un punto di riferimento nell’azienda di cherò, rendendo chiaro che il lavoro manuale non conosce discriminazioni di genere.
La passione che nasce in famiglia tra campi e motori
Fin da piccola, agata è cresciuta a contatto con i trattori. “Con mio papà e mio fratello, che abitano in campagna, mi chiamavano sempre a guidare trattori e a mettere mano alle riparazioni”, racconta lei stessa. Questo coinvolgimento precoce le ha permesso di sviluppare competenze tecniche e una confidenza rara con macchine complesse. La famiglia ha giocato un ruolo decisivo nel suo percorso, stimolando un interesse concreto per il lavoro agricolo in senso pratico. La quotidianità vissuta tra i campi e i mezzi agricoli ha fatto crescere in lei una passione autentica, che si è tradotta in una scelta professionale.
Dal diploma al contratto stabile: un giovane talento nel lavoro agricolo
Agata pedretti ha appena terminato la scuola superiore, ma ha già un contratto di lavoro stabile con l’azienda di cherò. Questo passo testimonia quanto la sua preparazione pratica e la sua dedizione siano state apprezzate dal datore di lavoro. Non si tratta di una scelta temporanea, ma di un investimento sul futuro di una ragazza che sa destreggiarsi con trattori e macchinari agricoli complessi. Il territorio piacentino, con la sua tradizione agricola radicata, offre spazio anche a giovani donne come agata, che dimostrano che l’esperienza e la passione possono aprire strade in settori tradizionalmente maschili.
Essere donna e tecnico in un ambiente prevalentemente maschile
Nel contesto dell’azienda di cherò, agata si distingue come unica donna tra colleghi principalmente uomini. Questa condizione l’ha portata a misurarsi con un ambiente poco usuale per una giovane di 18 anni. La sua presenza testimonia come il lavoro agricolo stia lentamente evolvendo, accogliendo figure femminili che non si sottraggono ai compiti più impegnativi. Non si limita a un ruolo simbolico: agata dimostra quotidianamente la propria competenza, affrontando problemi tecnici e interventi su trattori senza riserve. L’esperienza di una giovanissima operatrice come lei potrebbe essere l’anticipo di una più ampia partecipazione femminile nei lavori agricoli manuali, tradizionalmente riservati ai maschi.
Agata pedretti conferma nel territorio di piacenza come motivazione e preparazione si traducano in opportunità di lavoro concrete, persino in ambiti meno battuti dalle nuove generazioni e dalle ragazze. La sua storia rappresenta un esempio chiaro di come determinazione e talento sappiano fare la differenza.

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Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti

   Dopo  la  morte  nei  giorno scorsi  all'età  di  80 anni   di  Maurizio Fercioni ( foto al  centro    )  considerato il primo tatuat...