12.12.21

L’incredibile storia di Amedeo Guillet, il Lawrence d’Arabia italiano

Questa  storia    " tropicale  "  che  vi  propongo oggi  mi ha  aiutato ad  evadere    dalle  basse temperature    della  scorsa   settimana


La guerriglia contro gli inglesi, la fuga rocambolesca dall’Africa, l’amicizia con l’ufficiale nemico Harari, il servizio diplomatico nel dopoguerra. La vera storia di


Amedeo Guillet, premiato infine da Ciampi come un simbolo dell’Italia repubblicana

Si siede alla sua scrivania. Sul piano del tavolo è depositato un pacchetto. Lui lo apre. Dentro c’è uno zoccolo di cavallo in argento con un’iscrizione: “Sandor. Berbero grigio, 12 anni. Max Harari, Asmara – Giugno 1942”. C’è anche una foto: si vede il bel primo piano di un cavallo grigio affacciato alla porta del suo box. E una dedica autografa a penna: “Ad Amedeo, in ricordo del meraviglioso cavallo che fu causa della nostra amicizia”. Ad Amedeo… ma chi è Amedeo? E chi è la persona che gli invia questo oggetto così particolare ?  Facciamo un salto indietro nel tempo. Adesso siamo nel 1909. È il 7 febbraio, giorno in cui a Piacenza nasce Amedeo. Amedeo Guillet. Famiglia nobile di origine sabauda. Il piccolo Amedeo cresce e diventa ragazzo dall’animo sensibile e creativo: quando è il momento di fare la prima scelta terminata l’età della spensierata adolescenza è indeciso tra la carriera musicale e quella militare. Ma la carriera militare presenta un vantaggio esclusivo, ai suoi occhi: permette di rimanere a contatto con i cavalli praticamente ventiquattr’ore al giorno. La sua passione. I cavalli, certo: elemento fondamentale e imprescindibile dall’inizio alla fine di una vita intera. Amedeo Guillet esce dall’Accademia Militare di Modena con il grado di sottotenente nel 1931. Il Monferrato e le Guide i primi due reggimenti di cavalleria in cui presta servizio, probabilmente con l’idea di dedicarsi (anche) allo sport equestre come molti suoi colleghi d’arma: non dimentichiamo che in questo momento storico, infatti, l’equitazione agonistica è quasi esclusivamente cosa di militari. Ma il destino decide diversamente: nel 1935 Amedeo Guillet viene trasferito in Africa, dove nel mese di ottobre comanda un plotone impegnato nelle prime operazioni della guerra colonialista d’Etiopia e in dicembre viene ferito gravemente a una mano. Ed è a partire da questo momento che la sua vita smette di essere simile a quella di tanti altri ufficiali dell’esercito italiano per diventare la storia di un romanzo. Nel 1937 Amedeo Guillet è in Spagna dove comanda un reparto di carri della divisione Fiamme Nere e poi un reparto di cavalleria marocchina durante la guerra civile spagnola; successivamente ritorna in Libia, quindi nuovamente in Eritrea dove prende il comando del Gruppo Bande Amhara, un’organizzazione militare che riunisce uomini di origine etiope, eritrea e yemenita. È qui che nasce il mito: nel 1939 durante un’operazione militare il suo cavallo viene colpito e ucciso e lui, illeso, ne monta immediatamente un altro per continuare la carica, ma anche questo secondo povero cavallo cade vittima del fuoco; Amedeo Guillet imbraccia allora una mitragliatrice e continua a piedi la battaglia senza alcuna protezione fino a conquistare il sopravvento sulle formazioni nemiche. I soldati indigeni che avevano combattuto con lui, sbalorditi per la sua apparente invincibilità, lo soprannominano Comandante Diavolo, ignari di consegnare così alla leggenda un ‘titolo’ che segnerà ormai per sempre la vita di questo personaggio straordinario. Quando gli inglesi conquistano Asmara nell’aprile del 1941, Amedeo Guillet prende una decisione folle: se anche l’Italia si fosse arresa, lui avrebbe continuato la ‘sua’ guerra. E così accade: Guillet si spoglia della divisa dell’esercito italiano, raduna una formazione di suoi fedelissimi soldati indigeni e inizia una guerriglia senza quartiere, efficace al punto che gli inglesi mettono sul suo capo una taglia enorme. Invano, però: nessuno lo tradisce in nome del denaro, a conferma di quanto questa sorta di Lawrence d’Arabia italiano fosse amato dalle popolazioni locali. Ma in ottobre dopo una continua ed estenuante serie di operazioni Guillet capisce che non avrebbe più potuto andare avanti ulteriormente: significativo il fatto che la decisione di porre termine alla guerriglia venga da lui presa dopo la cattura del suo cavallo grigio Sandor da parte del maggiore Max Harari, l’ufficiale inglese responsabile delle attività di ricerca del temibile Comandante Diavolo.

Amedeo Guillet dunque libera i suoi soldati e si nasconde a Massaua sotto la falsa identità di Ahmed Abdallah al Redai, cosa resa possibile anche dalla sua capacità di parlare perfettamente l’arabo. Da lì raggiunge lo Yemen, inizia a lavorare come palafreniere nelle scuderie della guardia del re, l’Imam Yahiah, il quale lo prende a benvolere fino a nominarlo precettore dei suoi figli nonché istruttore delle guardie a cavallo yemenite.
Nel giugno del 1943, dopo aver trascorso un anno intero alla corte dell’Imam Yahiah, Amedeo Guillet riesce a imbarcarsi su una nave della Croce Rossa italiana per infine rientrare in Italia dopo due mesi di navigazione. Grazie alla sua grande esperienza e alla sua conoscenza delle lingue, viene assegnato al Servizio Informazioni Militare per dedicarsi a operazioni molto delicate contro gli alleati angloamericani. Quando però l’8 settembre viene dichiarato l’armistizio, Amedeo Guillet ripudia Mussolini, rimane fedele al re d’Italia e si trasferisce a Brindisi dove si erano installati i componenti della famiglia reale. Amedeo Guillet diventa un agente segreto formidabile ed è proprio a lui che si deve un’operazione diplomaticamente di grande significato nel processo di riappacificazione tra Italia ed Etiopia: il recupero della corona del Negus, prima confiscata dalla Repubblica di Salò e poi nelle mani dei partigiani, e quindi riconsegnata al suo legittimo proprietario.

Finisce la guerra. Dopo il referendum che trasforma l’Italia da Stato monarchico in Stato repubblicano Amedeo Guillet – coerente con il suo giuramento militare di fedeltà alla corona Savoia – rassegna le dimissioni dall’esercito e diventa un cittadino italiano al servizio della Repubblica. Inizia così la sua seconda vita. Si laurea in Scienze Politiche, vince il concorso per entrare nella carriera diplomatica, nel 1950 è segretario di legazione all’ambasciata del Cairo, nel 1954 viene trasferito in Yemen dove ritrova i figli del vecchio Imam che lo accolgono come chi ritorna a casa dopo anni di lontananza, nel 1962 viene nominato ambasciatore e destinato ad Amman dove può condividere la grande passione per i cavalli e per l’equitazione con re Hussein di Giordania (padre della principessa Haya, che sarà presidentessa della Federazione Equestre Internazionale dal 2006 al 2014), nel 1967 è ambasciatore in Marocco, nel 1971 in India, per infine raggiungere il termine della carriera diplomatica nel 1975 e quindi stabilirsi in Irlanda in mezzo ai suoi amati cavalli.

Nel 2000 insieme allo scrittore irlandese Sebastian O’Kelly (autore della biografia di Guillet uscita nel 2002 con il titolo “Amedeo”), Guillet ritorna in Eritrea: viene ricevuto dal presidente della Repubblica che lo accoglie come un suo pari. Poi arriva il 2 novembre di questo stesso anno: il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, conferisce ad Amedeo Guillet l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Militare d’Italia, uno dei più prestigiosi riconoscimenti previsti nel nostro Paese. Infine il 16 giugno 2010 il Comandante Diavolo ci lascia per sempre.

Questa per sommi capi e in estrema sintesi la vita di Amedeo Guillet. Ma tra le tante storie dentro questa straordinaria storia, ce n’è una che non può non emozionare chi vive per i cavalli e con i cavalli. La storia di un pacchetto che un giorno viene recapitato sulla scrivania dell’ambasciatore Amedeo Guillet. Una storia che sembra una favola, invece è la realtà di due persone che prima di essere soldati - e nemici - sono stati gentiluomini nell’animo. Loro: Max Harari e Amedeo Guillet. Proprio loro: il maggiore britannico e il Comandante Diavolo, cacciatore e preda a turno l’uno per l’altro sulla scena dell’Africa Orientale. Ebbene: negli anni Cinquanta, grazie anche all’attività diplomatica di Guillet, i due ‘vecchi’ nemici si incontrano, e tra loro nasce un’amicizia forte come solo l’aver condiviso quel pezzo di storia tremendo avrebbe potuto rendere possibile, seppure da acerrimi rivali. Un’amicizia vissuta nel nome di un cavallo: Sandor. Sì: perché è ovviamente Max Harari il mittente del pacchetto che un giorno viene recapitato sulla scrivania dell’ambasciatore Amedeo Guillet. Sulla scrivania del Comandante Diavolo.



11.12.21

L'alfabeto delle mafie. D come Donne di mafie

ecco   la   4  puntata       trovate  sotto  insiemne  ad  altri  link  per  chi  vuole   approfondire  l'argomento  donne  e  mafia   a  fine  post   le  altre     dell'alfabeto delle mafie.  di repubblica.it  





È ampiamente noto che le donne delinquono molto meno degli uomini, in tutti i tempi, in tutte le circostanze, in tutte le società, all'interno di tutti i contesti criminali. Questa macroscopica differenza la si può notare nelle statistiche dei reati, a partire dall'assoluta predominanza dei maschi tra i condannati e tra i detenuti nelle carceri italiane. 



Nel 2017, gli uomini rappresentavano l'84,5% dei condannati in maniera definitiva. Tale percentuale saliva al 91,5% nel caso di rapine, al 93,2% per violazione delle leggi relative alla produzione e vendita di stupefacenti e al 95,8% per omicidio volontario.
Secondo, poi, i dati forniti dall'amministrazione penitenziaria per il 2019, su un totale di 58.163 detenuti negli istituti di pena italiani, le donne erano 2.402, pari solo al 4,12% dell'intera popolazione carceraria. E anche dopo la drastica riduzione dei carcerati a seguito della pandemia (da 61.230 di febbraio 2020 a 53.697 a febbraio 2021) la percentuale di donne non è cambiata, il 4,2% del totale. La serie storica delle rilevazioni condotte dal 1991 a oggi ci mostra che questo tasso è rimasto attestato nel tempo su un valore pressoché stabile, con piccole oscillazioni che non incidono sul dato generale: il crimine in Italia (come in altre nazioni) è essenzialmente un problema di uomini. Per quanto riguarda i reati di mafia la presenza femminile sembra essere ancora meno incisiva: su 7.106 detenuti al 31 dicembre 2017 per associazione di stampo mafioso (in base all'articolo 416 bis del codice penale) le donne erano solo 134, cioè meno del 2% del totale. Eppure l'opinione pubblica avverte da alcuni decenni la sensazione di una crescita esponenziale della criminalità femminile, sensazione dovuta ad alcuni clamorosi episodi di cronaca nera che hanno portato alla ribalta donne assassine, così come da decenni si registra una maggiore presenza femminile nel mondo mafioso (addirittura ai vertici di alcuni clan) segnalata da numerose fonti investigative. E in diversi settori dell'informazione e degli studi accademici si attribuisce questo maggiore protagonismo femminile nel mondo del crimine a un effetto patologico dei processi di emancipazione delle donne che sta sempre più coinvolgendo le società occidentali, e non solo.Erano state proprio studiose femministe ad avanzare questa ipotesi e questa previsione, in particolare Freda Adler e Rita Simon. La prima in Sisters in crime del 1975 partiva dalla constatazione che la donna era meno delinquente dell'uomo perché completamente asservita a lui, senza ruoli né opportunità per svolgere un suo autonomo pensiero criminale. La sua previsione era la seguente: solo quando la donna raggiungerà lo stesso stato sociale dell'uomo, quando nei fatti potrà godere degli stessi diritti e avrà lo stesso spazio e le stesse opportunità dell'uomo, solo allora sarà maggiormente protagonista anche delle statistiche criminali.Rita Simon, nel suo saggio Women and crime, uscito nello stesso anno, affermerà che il tipo di criminalità che si sviluppa in un dato luogo e in una data epoca è dovuta al tipo di struttura sociale che c'è in quel tempo e in quel luogo. Con l'emancipazione delle donne, e quindi con la modifica della struttura sociale, si verificheranno più reati femminili rispetto al passato. In realtà queste profezie non si sono adempiute: l'epoca contemporanea ha fatto registrare sì un'evidente emancipazione femminile a cui non ha corrisposto un aumento della criminalità femminile. Perché? quantità di testosterone dei giovani uomini. Il testosterone aumenta nell'adolescenza e nella giovinezza e diminuisce nel corso della mezza età. Ed è un fatto statistico che i maggiori crimini si commettono tra i 20 e i 40 anni. A tale riguardo,  Steven Pinker nell'importante saggio Il declino della violenza sostiene che la cosiddetta "legge della violenza" (in base alla quale i violenti sono maschi in giovane età) è più facile da documentare che da spiegare. Se è dimostrabile, infatti che l'evoluzione della specie ha reso gli uomini più violenti rispetto alle donne, non è altrettanto chiaro perché i giovani debbano essere più violenti dei vecchi. In fondo i giovani hanno davanti a loro molti più anni di vita degli anziani, e ciò dovrebbe consigliare maggiore cautela nell'uso di metodi che potrebbero precludere la possibilità di godersi i più lunghi anni a disposizione.
Gli anziani, invece, potrebbero essere spinti ad imprese criminali più temerarie proprio per il poco tempo che gli resta da vivere. Ma considerazioni matematiche sulla durata della vita non hanno molto valore in fatti di violenza! Insomma, il testosterone può giustificare una maggiore aggressività ma non necessariamente stabilire un nesso di conseguenzialità con la criminalità. E non va dimenticato che molti crimini economici non sono caratterizzati affatto da comportamenti aggressivi.
Altri studiosi hanno segnalato che le donne sono meno violente degli uomini per il loro essere madri, cioè per essere state abituate a prendersi cura degli altri, a sostenere la vita piuttosto che a toglierla. Ma è indubbio che le donne hanno avuto anche storicamente meno opportunità di delinquere a causa del loro ruolo secondario nella vita sociale, economica e nella gerarchia dei poteri. Insomma, nonostante le statistiche criminali le assolvano quasi completamente, non si può affermare con sicurezza che le donne siano "geneticamente non devianti", sebbene alcuni studiosi lo continuino a pensare.

Nel caso delle donne condannate per fatti di mafia, le statistiche hanno potuto registrare una loro presenza a partire dagli anni successivi all'entrata in vigore del 416 bis, avvenuta nel 1982. Nel maxi processo di Palermo avviato da Giovanni Falcone su 460 imputati solo 4 erano donne. E bisognerà aspettare il 1989 per la prima applicazione a una donna del reato di associazione mafiosa, ma già nel 1995 saranno 89 le donne coinvolte per questo reato. Secondo la studiosa Alessandra Dino c'è una spiegazione per questa più lenta applicazione del reato associativo alle donne: il loro comportamento veniva considerato dagli stessi magistrati come semplice "favoreggiamento" dei familiari coinvolti in attività mafiose.
E poi, il fatto che le donne non potevano affiliarsi ufficialmente ai clan mafiosi (essendo questa prerogativa riservata solo ai maschi) rendeva più complesso contestare loro il 416 bis. Ma via via che procedeva l'azione degli apparati dello Stato rivolta ad intaccare stabilmente l'impunita storica dei mafiosi, e a mano a mano che si emanavano nuove leggi in grado di attaccare le proprietà e i beni illegalmente accumulati, avveniva anche un "disvelamento" del ruolo femminile all'interno delle famiglie mafiose, prima non considerato rilevante ai fini penali.
Dunque, un ruolo importante le donne lo hanno da sempre giocato all'interno dei circuiti mafiosi, ma esso si è reso più palese quando sono state applicate norme nuove che scombussolavano vecchi equilibri e vecchie modalità di comportamento all'interno dell'agire mafioso. Ad esempio, è indubbio che dal 1982 in poi lo sgretolarsi dei vertici mafiosi con centinaia e centinaia di arresti di capi e dei loro immediati successori hanno aperto la strada a ruoli più visibili di comando per madri, mogli e figlie, che prima svolgevano funzioni meno appariscenti. Così come l'applicazione del carcere duro per i capi-mafia (e con colloqui meno frequenti riservati solo ai parenti stretti) ha di colpo offerto all'universo femminile mafioso un ruolo centrale nei confronti degli affiliati in libertà, sia nel trasmettere gli ordini ricevuti sia nel sostituire i vertici in attesa di un loro ritorno in libertà.
Ombretta Ingrascì nel suo libro Donne d'onore: storie di mafia al femminile ha giustamente evidenziato che è stata la detenzione dell'uomo il presupposto fondamentale affinché la donna esercitasse un "ruolo pregnante all'interno dell'onorata società".  Infine, il sempre maggior numero di sequestri dei beni ha spinto verso l'intestazione di proprietà a membri femminili delle famiglie, e a coinvolgere le donne in strumenti finanziari sempre più raffinati per sfuggire all'individuazione dei beni accumulati con i delitti. In un'indagine di Transcrime (dell'Università cattolica di Milano) sulle aziende confiscate alle mafie, è stato messo in evidenza che le donne rappresentano un terzo degli azionisti di questa società, mentre nell'economia legale il peso delle donne è ampiamente più ridotto.
Ma se si entra più nel merito, nelle imprese mafiose della ristorazione e nel campo alberghiero la presenza femminile arriva al 52% delle azioni, al 37,8% nel settore dei trasporti e al 28,5% in quello delle costruzioni. Questo ultimo dato sembra basso, ma se lo confrontiamo con il ruolo delle donne nel campo delle imprese legali di costruzioni, il dato è sorprendente: le donne azioniste di imprese edili mafiose sono in percentuale quattro volte più numerose!
L'immagine delle donne presenti in famiglie mafiose totalmente ignare o estranee alle attività criminali dei mariti, dei padri, dei figli o dei fratelli è, quindi, assolutamente falsa. È vero che il codice della mafia è una esasperazione della virilità e dei valori maschili, e che lo stare tra soli uomini è stato da sempre un elemento coesivo per eccellenza del gruppo mafioso, ma ignorare per tanti anni la presenza femminile nelle mafie è stato un errore di valutazione.  Certo non abbiamo notizie di affiliazione di donne alle mafie, come abbiamo già scritto prima, nel senso che in generale sia in Cosa Nostra, camorra e 'ndrangheta alla donna è vietato l'accesso al rito di iniziazione che suggella l'ingresso formale nell'associazione mafiosa.  Ma la mancata affiliazione non ha precluso alle donne un'effettiva partecipazione alle attività delle associazioni mafiose. Le donne sono state coinvolte in molti settori: dalla comunicazione con latitanti e detenuti al traffico di droga e di armi, all'amministrazione dei soldi del clan, alla riscossione delle estorsioni, dalla gestione del lotto clandestino al contrabbando di sigarette, dall'intestazione di azioni al riciclaggio di denaro illecito fino alla gestione in prima persona dei clan.
Sicuramente le donne (in linea di massima) non fanno parte dei gruppi di fuoco dei clan mafiosi, e quindi non commettano direttamente omicidi e non guidano agguati contro clan avversari, ma negli ultimi anni concorrono più direttamente a deciderli e ad esserne vittime. Probabilmente l'unico caso di scontro a fuoco al femminile è quello verificatosi a Quindici in provincia di Avellino il 27 maggio del 2002, quando due fazioni contrapposte (i clan Cava e Graziano) si scontrarono a colpi di armi da fuoco usate da donne in sostituzione dei loro uomini quasi tutti in galera. Tre donne restarono uccise e una paralizzata. E l'unico caso accertato di un killer donna all'interno di organizzazioni mafiose ha riguardato Cristina Pinto, detta Nikita, la cui storia è raccontata nel docu-film Le camorriste di Paolo Colangeli.
La Pinto partecipò direttamente ad almeno tre delitti, organizzò in proprio spedizioni contro clan di camorra avversari, procurò armi e curò le basi logistiche di diversi agguati. Ma nel clan di cui fece parte arrivò attraverso il suo uomo, che era un boss di camorra. Sta di fatto che le donne entrano nelle organizzazioni di tipo mafioso per mezzo dei loro uomini, mai per avere conquistato il ruolo attraverso una selezione criminale esterna o per aver fatto apprendistato con reati di strada come scippi, estorsioni e attentati. Esse non costruiscono gruppi di mafia ex novo, o al femminile, ma sono in grado di prendere il posto dei loro uomini (mariti, fratelli, padri, figli), e di svolgerlo al meglio. Esercitano, per così dire, un ruolo "derivato" dal loro stato familiare, di supplenza ai vuoti di commando che si registrano nella vita dei loro cari, di supporto all'occultamento dei beni accumulati dalle loro famiglie criminali, e non da una palese e sperimentata attitudine alla violenza. Quando sposano i loro mariti, non sono già delle criminali affermate, ma sono ben consapevoli del ruolo che vanno ad occupare e di ciò che le aspetta.
Ma mentre in Cosa nostra e nella 'ndrangheta il ruolo delle donne non è stato mai così appariscente, anche quando sono costrette ad assumersi ruoli di vertice, le donne di camorra hanno da sempre avuto maggiore visibilità, un ruolo più evidente e rilevante all'interno dei loro clan. In genere le siciliane e le calabresi sono meno coinvolte nella devianza quotidiana di strada rispetto alle napoletane.
Vediamo alcune di queste biografie di mafiose. Angela Russo, "Nonna Eroina", viene arrestata, insieme ad altre 38 persone, nel febbraio del 1982 per associazione finalizzata al traffico di stupefacenti quando aveva 74 anni. Al momento dell'arresto rivendica il suo ruolo di corriera e boss: "Quindi secondo loro io me ne andavo su e giù per l'Italia a portare pacchi e pacchetti per conto d'altri??? (...) Dunque io che in vita mia ho sempre comandato gli altri, avrei fatto questo servizio di trasporto? Cose che solo questi giudici che non capiscono niente di legge e di vita possono sostenere."
Figlia di una famiglia mafiosa, ne abbraccia la cultura, arrivando persino a ripudiare il figlio Salvatore che decide di collaborare con la giustiziaLo definisce un "vigliacco", un "infame"... e davanti ai giudici grida: "è pazzo, altro che pentito, è pazzo signori giudici. E anche tanto farabutto da mandare in galera sua madre stessa, innocente..." e ancora, "Salvatore io l'ho perdonato, ma non so se Dio potrà mai perdonarlo. Lui sa che è condannato, lo sa che se esce lo ammazzano. Quelli non perdonano."
Maria Filippa Messina è la prima donna mafiosa al 41 bis. Arrestata nel febbraio del '95 insieme ad altre sette persone perché considerata elemento di primo piano del clan mafioso capeggiato dal marito, dal momento dell'arresto del coniuge diventa il nuovo capo. Secondo l'accusa, al momento dell'arresto stava per ordinare l'omicidio di alcuni esponenti del clan rivale, una vera e propria strage che stava organizzando nel dettaglio, definendo il commando e fornendo le armi.
Giusy Vitale è la prima donna alla quale la Procura di Palermo ha contestato il reato di associazione mafiosa e che poi ha condannato con sentenza definitiva. È stata capo mandamento di Partinico, quando i fratelli finiscono in carcere. Il suo desiderio era quello di poter diventare un capo riconosciuto dalla organizzazione mafiosa, e questo doveva rappresentare una sorta di riscatto: "Qualche volta capitava che si parlava di come una donna non può fare parte di un'associazione mafiosa a tutti gli effetti. O meglio, la donna c'è, ma non può appartenere a Cosa Nostra, anche se lei stessa ne rappresenta il pilastro che regge in pratica l'intera struttura. Ma all'arresto dei miei fratelli, divenni proprio io la reggente della famiglia. (...) Per stare con gli uomini dovevo diventare come loro, comportarmi e parlare come loro. Facevo di tutto per somigliare ad un maschio, anche se ero femmina. Volevo dimostrare che da donna, anche non potendo avere dieci amanti, potevo comunque comandare come un uomo, se non addirittura meglio. Arrivando molto più in alto di loro."
Tuttavia Giusy Vitale rimaneva pur sempre sottomessa rispetto ad alcune regole tipicamente maschiliste, infatti, ad esempio non poteva girare da sola per il paese, né andare in città senza un uomo e neppure partecipare alle riunioni da sola. Insomma era un boss ma non era completamente autonoma e non era riuscita a riscattare del tutto la sua condizione di donna. Dopo l'arresto decide perciò di collaborare con la giustizia. Dirà: "Mi sono sentita più libera in carcere che quando ero veramente libera. In carcere ho riscoperto me stessa e adesso so cosa devo fare".
Nei clan di camorra spiccano i casi di Teresa De Luca-Bossa, prima napoletana a cui è stato inflitto il carcere speciale per mafiosi; Anna Mazza, vedova Moccia, prima campana condannata al 416 bis; Maria Licciardi, prima donna a rivestire un ruolo centrale nella cosiddetta Alleanza di Secondigliano, la confederazione di clan con un'attitudine spiccata per la gestione imprenditoriale dei propri traffici in fette importanti di economia legale.
Questo ruolo appariscente di donne camorriste non è un fatto degli ultimi anni, a seguito solo delle innovazioni in materia di repressione delle mafie e di nuove norme in materia di beni illecitamente accumulati. La presenza femminile nella camorra è strutturalmente legata all'essenza stessa di questo particolare fenomeno urbano malavitoso che da sempre unisce in una sola attività l'illecito, l'illegale e il criminale, nell'Ottocento come oggi. Le donne sono state da sempre partecipi, forse più degli uomini, delle attività illegali di strada, e quando il confine labile tra illegale e criminale viene superato esse si trovano dentro la criminalità con naturalezza, come se fosse il normale proseguimento delle attività illecite.
Non arrivano ai vertici della criminalità per via propria ma attraverso le vie familiari: sono mogli, madri, sorelle, cognate, figlie di persone che rivestono ruoli nei clan. Sanno bene chi sposano e il salto economico che fanno.  Uomini e donne che si "pigliano" perché si rassomigliano. Non ci sono matrimoni "misti", cioè con uomini e donne di altri ambienti sociali. Il matrimonio non li allontana dal loro ambiente sociale, ma lo conferma. Una volta entrate nella "famiglia" ne diventano protagoniste attive non silenziose o passive custodi di una cultura di condivisione e di omertà. Non sono subalterne, non si limitano a fornire un supporto morale e sentimentale alle attività dei parenti, né di riflesso rispetto a padri fratelli mariti. Ma il loro potere diventa ancora più forte quando i loro congiunti finiscono in galera o vengono uccisi.
Il venire a mancare di colui che in famiglia garantisce il loro benessere le obbliga a prendere in mano l'organizzazione prima che siano altri a farlo. Una lunga e antica familiarità con le attività illegali, appresa fin dall'infanzia negli stessi luoghi dove l'hanno appresa i loro mariti, i loro padri o fratelli, permette loro di fare il passo verso la criminalità con estrema facilità. Infine, essendosi sposate molto presto e avendo fatto figli spesso prima della maggiore età, si sono liberate della responsabilità di crescere i figli in età precoce, molto prima dei trent'anni per dedicarsi a tempo pieno all'attività criminale.
Sono donne "forti" che non accettano di essere relegate in casa a custodire la tradizione familiare. Eduardo De Filippo ha sempre rappresentato nelle sue opere donne più forti degli uomini. Lo ricorda Gabriella Gribaudi nel suo interessantissimo libro Donne, uomini, famiglie. Napoli nel Novecento. Nella famiglia edoardiana gli uomini sono inetti, perdenti mentre si manifesta una particolare forza femminile che in alcuni casi rasenta la ferocia. Sono donne non acculturate, non scolarizzate, che si sposano, si separano, divorziano, hanno amanti e una vita sentimentale e sessuale molto vivace. Sono donne "moderne", che si truccano, si vestono secondo i canoni della moda, vogliono colpire e impressionare con il loro modo di abbigliarsi e acconciarsi, lontanissime dallo stereotipo di casalinga tutta casa e famiglia. Sono "donne di guai", spesso per colpa loro si scatenano faide, uccisioni, vendette proprio in virtù delle loro vite sentimentali "aperte" o per la loro iper-suscettibilità. Mentre le donne dei gangster sono "ornamenti ", che servono a mostrare il fascino e il potere dei boss, le donne di camorra sono pienamente coinvolte nell'attività dei loro uomini, siano essi mariti siano essi amanti.
La singolarità della camorra, infatti, è che i camorristi, rispetto ai mafiosi e agli 'ndranghetisti, si permettono molte amanti e se ne vantano. Nella mafia una condotta sentimentale e sessuale troppo trasgressiva non è concepibile: la fedeltà coniugale risponde al bisogno di non esporre l'organizzazione alle violazioni di segreti fondamentali per la tenuta della "ditta". Per un camorrista non avere amanti è quasi un disonore.
A Napoli la vita nei vicoli è promiscua, più tollerante verso l'infedeltà e verso altre tendenze sessuali. Le mamme napoletane non cercano di salvare i loro figli dalle insidie della strada, ma spesso sono esse stesse a incitarli all'illecito. Sono esse il primo anello della rapida socializzazione all'illegalità, delle vere e proprie "matrone" dell'illegalità. Gestiscono il confine labile tra sopravvivenza della famiglia e necessità di farvi fronte con l'illegalità; svettano nei mestieri tipici del rapporto sopravvivenza-illegalità quali l'usura e il contrabbando.
Il 31% delle donne detenute in Campania è coniuge o convivente con un uomo a sua volta detenuto. In genere le camorriste presenti nelle carceri campane rappresentano il 4,5% di tutte le detenute. La sociologa Anna Maria Zaccaria ha fornito in un suo studio queste statistiche: il 39% di donne di camorra è moglie o compagna di un boss, mentre il 53,8% è madre di camorristi.
Fin da quando si uniscono al camorrista sanno che probabilmente resteranno sole, come ha descritto il regista Agostino Ferrente nelle immagini reali e crude del suo film Selfie. Come i giovani che scelgono di unirsi alla camorra lo fanno nel tentativo di fare la bella vita ma mettono in conto di perderla, così anche le loro coetanee hanno consapevolezza di quello a cui vanno incontro ma vogliono rischiare. Questa è la ragione che spiega perché spesso sono proprio le donne a scendere in strada a difesa dei propri uomini e contro le forze dell'ordine durante i blitz. La questione è molto più profonda rispetto ad una idea superficiale di mera difesa del proprio uomo.
Le donne, dunque, soprattutto a Napoli città, non si occupano esclusivamente di trasmettere ai figli la cultura criminale, ma intervengono nelle attività dei clan quando ve ne sia necessità e quando siano chiamate a farlo, riuscendo ad assumere non per forza ruoli subordinati. Ai due antipodi ci sono 'ndrangheta e camorra. Sicuramente nella 'ndrangheta le donne hanno un ruolo meno attivo degli uomini; esse sono vestali della cultura mafiosa e non possono entrare nella associazione né partecipare ai riti della stessa. Se provengono da famiglia 'ndranghetista o se sono particolarmente meritevoli possono diventare "sorelle di umirtà", tuttavia non potranno mai scalare la vetta della 'ndrina.
Le donne sono invece utilizzate per sancire alleanze tra le famiglie attraverso i matrimoni. Alcune più recenti intercettazioni dimostrano che le donne di 'ndrangheta sono informate delle attività delle loro famiglie. Ad esempio alcune donne della famiglia Strangio ('ndrina di San Luca) parlano con i loro uomini detenuti di armi e droga, riferendosi spesso alla strage di Duisburg del 2007. Saveria Strangio, da quanto si apprende da una intercettazione, rimprovera i figli trasferiti a Milano perché pagano le tasse: "Ma siete pazzi? Come sarebbe a dire che avete pagato le bollette? Io non vi ho educato per farvi spendere soldi per l'acqua e per la luce!"
Maria Teresa d'Agostino, madre di Umberto Bellocco ('ndrina di Rosarno), dice al figlio (come emerge da una intercettazione): "Una volta che partiamo, partiamo tutti, ci inguaiamo tutti, pure ai minorenni... pari pari a chi ha colpa e a chi non ha colpa". Ricapitolando. Le donne sono state sempre presenti a loro modo nelle mafie assumendo ruoli diversi a seconda delle esigenze. Il loro peso nelle organizzazioni è stato a lungo sottovalutato, e solo da qualche tempo si comincia a percepirne l'effettivo valore. Esse sembrano essere state selezionate per via dei matrimoni e della parentela acquisita con alcuni capi, ma quando si presentano le occasioni sanno utilizzarle bene e si mostrano all'altezza delle circostanze. Un misto originalissimo tra arcaicità delle funzioni della donna nella società meridionale, capacità di adeguarsi ai tempi e di trovarsi a proprio agio nei circuiti imprenditoriali e finanziari. Un intreccio tra famiglia e mercato, tra tradizione e innovazione che fa delle mafie un passato feudale che si fa futuro, anche attraverso un cambiamento del ruolo delle donne.

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https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2018/12/a-rovinare-il-natale-oltre-capitalismo.html
https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2017/12/come-sopravvivere-ale-festivita.html

https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2018/01/di-nuovo-auguri.html

https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2017/12/iniiza-ad-ammorbarsi-laria-sianmo.html


 Anche  quest'anno,  anche  se  con meno  virulenza  (   forse  è ancora  presto visto che  mancano  a  natale om forse      anche     i  sovranisti    e  populisti   \  bufalisti  si  concentrano   sul covid  e  sulle sue  sue  varianti )   ,   come  gli anni precedenti  ,  iniziano    le  bufale  \ fake news  (  vedere  sopra    alcuni  miei precedenti  post  in  cito  \    riporto  quelle  natalizie  più comuni )    e  le prese  in giro   come     quella   del gruppo satirico comune di bugliano    



 se    se  leggendo    tale  nerws  



Michiedo    ma che fine ha fatto lo spirito critico che ci permetteva di distinguere le burle e le prese per il ... sedere . che aveva caratterizzato l'ambiente culturale e comico italiano fra il 1948 \1994 ? avete mandato tutti il cervello all'ammasso o in cassa integrazione se rendete per vere simili prese in giro in questo  caso   ai buonisti d'accatto che    rifiutano  di  fare  presepi  e    e recite  di natale  ,  per  non offendere  i credenti mussulmani  )  e   i   nazionalisti \  sovranisti     e farisei   (  cioè gli ipocriti difensori  della  religione   cattolica e   dei suoi  simboli  )  . Ma  soprattutto   mi  sorprende (  anche  se  non più di  tanto  )    che   un  famoso  portale    che deve  combattere   le  fake  news      false  notizie      metta  (   anche  se    ogni tanto   ammette  che  è  satira   )  un  sito  ironico  tra  i  siti bufalisti    \  di  fake news   .  Ma  soprattutto      i cosi hater  \  odiatori    e  non lo  prendano sul  serio   Infatti  

  corriere  della sera  10 dicembre 2021 | 18:27

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Apriti cielo: dall’area sovranista e reazionaria del web è partito un fuoco di fila (di invettive, non di cannoni) che si è allargato a macchia d’olio. Proprio quello che gli autori della pagina satirica si aspettavano o auspicavano. Missione compiuta. Ma ci sono volute ore per ricomporre l’equivoco. E la “notizia” è stata commentata anche da insospettabili frequentatori del web, come il giornalista sportivo Riccardo Cucchi pronto a stigmatizzare e ironizzare su quanti erano caduti nella giocosa trappola. E via con i meme con Mattarella, Giorgia Meloni, il leghista Borghi, tanto per rincarare la dose. Premio alla sintesi e all’ironia a Pippo Civati: “Parlateci di Bugliano”. Ogni riferimento a Bibbiano è tutt’altro che casuale.

  e  proprio  a tale proposito consiglio la   prima pietra  il film  di  Corrado  Guzzanti 


  politicamente e scorretto  che non risparmia     le  categorie  prima citate 




10.12.21

riscoprire il significato religioso del natale senza ferire i bambini cosi monsignore Antonio Staglianò, vescovo di Noto, spiega quello che secondo lui è il vero significato del Natale.

 
un ottima   iniziativa    quella  del vescovo   di Noto   Monsignor  Stagliano'     che  spiega ai bambini   ed  ai loro genitori  il valore del natale   non commerciale  

Il vescovo di Noto contro Babbo Natale: "Porta i regali solo ai ricchi"




"Non ho detto che Babbo Natale non esiste, ma durante un incontro con i bambini ho spiegato che Babbo Natale è un personaggio immaginario, inventato dalla Coca Cola e che trae ispirazione da un personaggio invece reale: San Nicola di Mira, un santo che portava i doni ai poveri". Così monsignore Antonio Staglianò, vescovo di Noto, spiega quello che secondo lui è il vero significato del Natale. Staglianò illustra una lettera indirizzata proprio a Babbo Natale che viene definito "facchino di regali". Per il vescovo di Noto il vero messaggio del Natale è racchiuso nella grotta di Betlemme dove Gesù Bambino nasce al freddo e al gelo.
di Alessandro Puglia

daniele bergese L'uomo che restituisce la voce ai vecchi sax

 Daniele Bergese, nel suo laboratorio a Monforte, nel cuore delle Langhe cuneesi, ha riportato in vita un mestiere che in pochi sanno ancora far bene: restaura e "migliora" sassofoni antichi. Selmer, Conn, Buescher, marchi ormai dimenticati dai moderni produttori e da chi si approccia a questo strumento per la prima volta o per studio, ma ricercatissimi dai musicisti professionisti di tutto il mondo.



"Per il loro suono così diverso da quello moderno - racconta Daniele -, originale, poetico". E così, jazzisti del calibro di Jesse Davis, Ray Gelato, Emanuele Cisi, Claudio Chiara e molti altri, fanno letteralmente la fila per vedersi riconsegnare, come nuovo, uno strumento degli Anni '20 o degli Anni '40. "A volta - racconta ancora Daniele - oltre a ricostruire pezzi ormai rotti e introvabili, a saldare, a riparare contusioni da caduta, mi viene richiesto di modificare meccanicamente gli strumenti per poterli suonare in modo moderno. E il risultato è che un sax degli Anni '40 torna a suonare musica che è nata cinquant'anni dopo la sua costruzione".


come al solito preso dalla curiosità sono andato a cercare qualcosa su di lui in rete e dalla sua pagina fb https://www.facebook.com/vintagesaxophonevolution/ ho trovato questo

I had the pleasure and honor of working for Jesse Davis this is the review he left: "I have had the pleasure in my life of knowing two of the great master technicians Sol Fromkin (NYC) and Emilio Lyons (Boston).Apart from being seasoned in the art of sax repair they both exhibited the love, passion and acute understanding of the instrument as well as what distinguishes one player from another. I am very pleased to say that Daniele Bergese embodies the same technical expertise,love,passion and acute understanding of what makes " vintage" truly special! He not only listens to the player but gives special attention to details that most would treat the same as any other saxophone. Meaning the ability to think outside the box while retaining the character of the instrument. My Zephyr Special is more "Special" after being awakened by Daniele's artistry!! "
Jesse Davis
Ho avuto il piacere e l'onore di lavorare per Jesse Davis questa è la recensione che ha lasciato:
"Ho avuto il piacere nella mia vita di conoscere due dei grandi maestri tecnici Sol Fromkin (NYC) ed Emilio Lyons (Boston).
Oltre ad essere conditi nell'arte della riparazione del sax hanno entrambi mostrato l'amore, la passione e l'acuta comprensione dello strumento
così come ciò che distingue un giocatore dall'altro. Sono molto lieto di dire che Daniele Bergese incarna la stessa competenza tecnica, amore, passione e acuta comprensione di ciò che rende il "vintage" veramente speciale! Non solo ascolta il giocatore ma dà speciale
attenzione ai dettagli che la maggior parte tratterebbe come qualsiasi altro sassofono. Ovvero la capacità di pensare fuori dagli schemi mantenendo
il carattere dello strumento. Il mio Zephyr Special è più "Speciale" dopo essere stato svegliato dall'arte di Daniele!! "
Jesse Davis

un appassionato    d  un provetto  suonatore  come  dimostra  il video riportato sotto  preso sempre  dala  sua  pagina  fb   


per  ulteriori  informazioni    ecco  come trovarlo 

340 336 0521
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quando una panchina rossa non è solo un simbolo pulicoscienza ed ipocrita .il caso MELEGNANO CONTRO LA VIOLENZA DI GENERE. LARGO 25 NOVEMBRE E UNA PANCHINA PER SILVIA

 Ecco   come dicevo  dal titolo , uno dei casi  in  cui  le  anchine  rosse   non sono  solo  ipocrisia  e pulicoscienza  .

Infatti Il 27 novembre, a Melegnano ( città metropolitana di Milano ) , la via Giuseppina Biggiogero, una delle poche intitolate alle donne, si è colorata di rosso. 

da https://vitaminevaganti.com/2021/12/04/melegnano-contro-la-violenza-di-genere-largo-25-novembre-e-una-panchina-per-silvia/

Una folla di piumini, giacche e cappotti rossi, e tanti volti con la mascherina rossa, intorno alle 11, ha riempito la piazzetta antistante. I passanti curiosi e le persone affacciate alle finestre si chiedevano che cosa si stesse per celebrare. Si trattava dell’intitolazione del Largo 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne e il femminicidio, patrocinata dal Comune di Melegnano e proposta congiuntamente dalla locale Banca del tempo e da Toponomastica femminile.

Malegnano contro la violenza di genere

Dopo i saluti di rito, alla presenza delle forze dell’ordine, ha preso la parola l’assessora Roberta Salvaderi, cui ha fatto seguito l’intervento del sindaco Rodolfo Bertoli. La presidente della Banca del tempo Teresa Bettinelli, con l’assessora Salvaderi, ha scoperto la targa. Dopo le note dell’inno d’Italia è stato letto un intervento, a nome di Toponomastica femminile e della Banca del tempo, che riportiamo nei suoi passaggi essenziali, richiamati in parte anche dai discorsi delle autorità.Oggi, intitolando questo Largo alla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile contro le donne, vogliamo in parte attuare le prescrizioni della Convenzione di Istanbul, che chiede un coinvolgimento attivo e coordinato delle istituzioni e delle associazioni nell’opera di sensibilizzazione della società su questo tema. Non dimentichiamo che Melegnano è già stata definita dal Consiglio comunale “Città contro il femminicidio” e che molto si può fare per sensibilizzare l’opinione pubblica melegnanese sul tema.

Panchina di Silvia

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Abbiamo voluto che in Largo 25 novembre fosse presente la panchina di Silvia e oggi di Silvia, l’artista che l’ha realizzata, vi vogliamo parlare. Silvia era una ragazza problematica, che si era avvicinata alla Banca del tempo insieme alla sua mamma e vi aveva trovato conforto ed accoglienza. Raccontava di essere stata abusata all’età di 9 anni e questo aveva minato il suo equilibrio e l’aveva resa più fragile. Aveva frequentato il Liceo artistico “Piazza” di Lodi ed era diventata molto brava, aveva una capacità manuale notevole e realizzava opere bellissime, ma non era mai riuscita a mantenersi un lavoro. Amava i gatti e viveva in una casa umile con la sua mamma. Con grande passione si era dedicata alla realizzazione di questa panchina, in occasione della Giornata del 25 novembre. Silvia era una giovane omosessuale, una persona non allineata e non omologata a questa società, le sue storie spesso finivano male e negli ultimi mesi della sua vita era stata ricoverata in psichiatria, dove aveva fatto coming out. Silvia si era affezionata alle donne della Banca del tempo, in particolare a una di loro che l’aveva fatta conoscere alla propria famiglia e di lei la ragazza era solita dire, con grande riconoscenza per quell’affetto insperato e che forse considerava immeritato, che questa persona era la sua seconda mamma. Silvia purtroppo non ce l’ha fatta, il peso della vita era troppo forte per lei e chissà quali ferite aveva prodotto sulla sua anima quell’abuso. Ha deciso di togliersi la vita il 5 giugno del 2018, gettandosi sotto un treno, alla stazione di Melegnano. La panchina di Silvia, che tutti e tutte potete vedere, era stata dapprima portata alla stazione, ma il posto era isolato e la posizione non rendeva giustizia all’artista autrice dell’opera. Adesso è qui, nel posto più giusto, in quel Largo 25 novembre che ricorda tutto il male fatto a Silvia e a tante altre donne.Vorremmo chiudere con una poesia molto significativa scritta per lei da una persona che l’aveva conosciuta:

Penso
al tuo sorriso timido che non si apriva,
a te che sei sempre stata così schiva,
alla tua dolce apparente insicurezza,
alla tua vita in tutta la sua durezza,
a ciò che avrebbe potuto essere e non è stato,
a perché la società, così credevi, ti ha scartato,
alla tua creatività che esprimeva il tuo travaglio,
ai tuoi pensieri e la tua mente con il bavaglio,
alle tue lotte interiori, ma, convinciti, tu eri sana,
al perché da sola hai deciso di startene lontana,
ma quando mi siedo sulla tua panchina,
ti vedo, sì, ti vedo, molto, molto vicina.

Il testo tratto da Uomini è ora di giocare senza falli  ( di  Tiziana  Ferrario   )  è stato letto dopo la Camminata silenziosa in ricordo delle vittime di femminicidio il 28 novembre in Piazza della Vittoria a Melegnano dall’attrice e regista Serena Cazzola, dopo la lettura dei nomi delle 109 vittime di femminicidio.


Ora  La strada da fare è ancora molto lunga perché è diretta verso il superamento di una disparità funzionale a una società patriarcale costruita nel corso dei secoli e che solo a livello culturale potrà essere scardinata. E i cambiamenti culturali sono molto lenti. Per realizzarli dobbiamo fare rete, tutti e tutte insieme, non solo tra donne, ma anche con quegli uomini che sono nostri alleati e che ci piace definire femministi. Ed è proprio a questi uomini che ci rivolgiamo, con le parole di una grande giornalista e scrittrice, Tiziana Ferrario: « Servono uomini nuovi, consapevoli che gli amori possono finire/servono uomini nuovi che non picchino le donne/ servono uomini nuovi che non stuprino le donne/ servono uomini nuovi che non uccidano la donna che li sta lasciando/ servono uomini nuovi che non scrivano parole di odio in rete contro le donne/ servono uomini nuovi che difendano una donna se è indipendente, libera, sicura delle proprie idee, coraggiosa, brava/ servono uomini nuovi che dicano no alla violenza contro le donne/ servono uomini nuovi che aiutino gli uomini violenti a cambiare/ servono uomini nuovi che non girino la testa dall’altra parte davanti a un’ingiustizia perpetrata ai danni di una donna/ servono uomini nuovi che non paghino per fare sesso con ragazze che potrebbero essere le loro figlie/ servono uomini nuovi che si chiedano chi sono quelle ragazze che si prostituiscono ai bordi delle strade/ servono uomini nuovi che denuncino chi riduce in schiavitù le donne/ servono uomini nuovi che non abbiano timore di esporsi quando vedono un molestatore in azione/ servono uomini nuovi che non giudichino una donna per come è vestita/ servono uomini nuovi che credano realmente nella parità in casa e nel lavoro/ servono uomini nuovi che condividano le responsabilità in casa/ servono uomini nuovi che non dicano: “Ma è lei che comanda a casa!” per giustificare il loro non fare niente/ servono uomini nuovi che ascoltino che cos’hanno da dire le donne/ servono uomini nuovi che non si sentano a disagio se le loro compagne guadagnano di più/ servono uomini nuovi che non chiedano alla madre dei loro figli di optare per il part time. Lo facciano loro!/ servono uomini nuovi che si sentano offesi quando una donna viene offesa,/ servono uomini nuovi che si dicano orgogliosi delle loro figlie/ servono uomini nuovi che restino a casa dal lavoro quando il figlio ha la febbre/ servono uomini nuovi che prendano il permesso di paternità quando nasce un figlio/ servono uomini nuovi che non facciano battute volgari sulle donne/ servono uomini nuovi che facciano rete con tutti gli altri uomini che la pensano come loro/ servono uomini nuovi che facciano crescere altri uomini nuovi/ servono uomini nuovi che non si vergognino di dire :”No, io non ci sto” quando si insultano le donne (che siano famose o sconosciute, che siano belle o brutte, che siano povere o ricche, che siano giovani o vecchie, che siano malate o in salute). Quando gli uomini vivranno la violazione di un diritto di una donna come la violazione di un loro diritto, solo allora le donne scopriranno di essere veramente libere ».  Infatti la violenza di genere, in tutte le sue forme, non si combatte solo :  dando maggiori finanziamenti alle Case rifugio o approvando ed   facendole   applicare     altrimenti e  come  non farle    e  finisce  come le grida  manzoniane    leggi come quella del Codice rosso  .,  ma   soprattutto  si   dovrebbe  combattere  soprattutto a livello culturale, organizzando nelle scuole corsi che insegnino ai bambini e alle bambine, ai ragazzi e alle ragazze a riconoscere gli stereotipi e i pregiudizi, abituandoli a quei rapporti paritari che già le Madri Costituenti avevano intuito essere alla base di una società veramente democratica. Non bisogna avere paura di parlare della violenza di genere nelle classi, di aiutare le/gli studenti a riconoscerne i segnali prima che si verifichino, non considerare le riflessioni e i laboratori sugli stereotipi retorica o tempo sottratto ai programmi, come purtroppo a volte ci si sente dire, anche da alcune/i docenti. Oggi, intitolando questo Largo alla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile contro le donne,    gli amministratori   del  comune  sopracitato   hanno  voluto    in parte attuare le prescrizioni della Convenzione di Istanbul, che chiede un coinvolgimento attivo e coordinato delle istituzioni e delle associazioni nell’opera di sensibilizzazione della società su questo tema. Non dimentichiamo che Melegnano è già stata definita dal Consiglio comunale “Città contro il femminicidio” e che molto si può fare per sensibilizzare l’opinione pubblica  sul tema  e  non ridursi a  parlarne   solo  il 25  novembre  o 8  marzo    o peggio solo davanti all'ennesimo  omicidio  \  femminicidio  . Ma  soprattutto  ad  evitare   condanna   di serie   A  (  il caso di   Greta Beccaglia   ne  ho  parlato  qui in un precedente  post    ) e B  uno  dei tanti casi  femminicidio  o  di  violenza  sulle  donne  . Mi  fermo qui  perchè non so  che altro  aggiungere  


Danyart New Quartet fiori e tempeste

Ieri è stato presentato il nuovo lavoro discografico dei Danyart New Quartet, formazione jazz capitana da Daniele Ricciu, in arte Dany...