11.12.21

L'alfabeto delle mafie. D come Donne di mafie

ecco   la   4  puntata       trovate  sotto  insiemne  ad  altri  link  per  chi  vuole   approfondire  l'argomento  donne  e  mafia   a  fine  post   le  altre     dell'alfabeto delle mafie.  di repubblica.it  





È ampiamente noto che le donne delinquono molto meno degli uomini, in tutti i tempi, in tutte le circostanze, in tutte le società, all'interno di tutti i contesti criminali. Questa macroscopica differenza la si può notare nelle statistiche dei reati, a partire dall'assoluta predominanza dei maschi tra i condannati e tra i detenuti nelle carceri italiane. 



Nel 2017, gli uomini rappresentavano l'84,5% dei condannati in maniera definitiva. Tale percentuale saliva al 91,5% nel caso di rapine, al 93,2% per violazione delle leggi relative alla produzione e vendita di stupefacenti e al 95,8% per omicidio volontario.
Secondo, poi, i dati forniti dall'amministrazione penitenziaria per il 2019, su un totale di 58.163 detenuti negli istituti di pena italiani, le donne erano 2.402, pari solo al 4,12% dell'intera popolazione carceraria. E anche dopo la drastica riduzione dei carcerati a seguito della pandemia (da 61.230 di febbraio 2020 a 53.697 a febbraio 2021) la percentuale di donne non è cambiata, il 4,2% del totale. La serie storica delle rilevazioni condotte dal 1991 a oggi ci mostra che questo tasso è rimasto attestato nel tempo su un valore pressoché stabile, con piccole oscillazioni che non incidono sul dato generale: il crimine in Italia (come in altre nazioni) è essenzialmente un problema di uomini. Per quanto riguarda i reati di mafia la presenza femminile sembra essere ancora meno incisiva: su 7.106 detenuti al 31 dicembre 2017 per associazione di stampo mafioso (in base all'articolo 416 bis del codice penale) le donne erano solo 134, cioè meno del 2% del totale. Eppure l'opinione pubblica avverte da alcuni decenni la sensazione di una crescita esponenziale della criminalità femminile, sensazione dovuta ad alcuni clamorosi episodi di cronaca nera che hanno portato alla ribalta donne assassine, così come da decenni si registra una maggiore presenza femminile nel mondo mafioso (addirittura ai vertici di alcuni clan) segnalata da numerose fonti investigative. E in diversi settori dell'informazione e degli studi accademici si attribuisce questo maggiore protagonismo femminile nel mondo del crimine a un effetto patologico dei processi di emancipazione delle donne che sta sempre più coinvolgendo le società occidentali, e non solo.Erano state proprio studiose femministe ad avanzare questa ipotesi e questa previsione, in particolare Freda Adler e Rita Simon. La prima in Sisters in crime del 1975 partiva dalla constatazione che la donna era meno delinquente dell'uomo perché completamente asservita a lui, senza ruoli né opportunità per svolgere un suo autonomo pensiero criminale. La sua previsione era la seguente: solo quando la donna raggiungerà lo stesso stato sociale dell'uomo, quando nei fatti potrà godere degli stessi diritti e avrà lo stesso spazio e le stesse opportunità dell'uomo, solo allora sarà maggiormente protagonista anche delle statistiche criminali.Rita Simon, nel suo saggio Women and crime, uscito nello stesso anno, affermerà che il tipo di criminalità che si sviluppa in un dato luogo e in una data epoca è dovuta al tipo di struttura sociale che c'è in quel tempo e in quel luogo. Con l'emancipazione delle donne, e quindi con la modifica della struttura sociale, si verificheranno più reati femminili rispetto al passato. In realtà queste profezie non si sono adempiute: l'epoca contemporanea ha fatto registrare sì un'evidente emancipazione femminile a cui non ha corrisposto un aumento della criminalità femminile. Perché? quantità di testosterone dei giovani uomini. Il testosterone aumenta nell'adolescenza e nella giovinezza e diminuisce nel corso della mezza età. Ed è un fatto statistico che i maggiori crimini si commettono tra i 20 e i 40 anni. A tale riguardo,  Steven Pinker nell'importante saggio Il declino della violenza sostiene che la cosiddetta "legge della violenza" (in base alla quale i violenti sono maschi in giovane età) è più facile da documentare che da spiegare. Se è dimostrabile, infatti che l'evoluzione della specie ha reso gli uomini più violenti rispetto alle donne, non è altrettanto chiaro perché i giovani debbano essere più violenti dei vecchi. In fondo i giovani hanno davanti a loro molti più anni di vita degli anziani, e ciò dovrebbe consigliare maggiore cautela nell'uso di metodi che potrebbero precludere la possibilità di godersi i più lunghi anni a disposizione.
Gli anziani, invece, potrebbero essere spinti ad imprese criminali più temerarie proprio per il poco tempo che gli resta da vivere. Ma considerazioni matematiche sulla durata della vita non hanno molto valore in fatti di violenza! Insomma, il testosterone può giustificare una maggiore aggressività ma non necessariamente stabilire un nesso di conseguenzialità con la criminalità. E non va dimenticato che molti crimini economici non sono caratterizzati affatto da comportamenti aggressivi.
Altri studiosi hanno segnalato che le donne sono meno violente degli uomini per il loro essere madri, cioè per essere state abituate a prendersi cura degli altri, a sostenere la vita piuttosto che a toglierla. Ma è indubbio che le donne hanno avuto anche storicamente meno opportunità di delinquere a causa del loro ruolo secondario nella vita sociale, economica e nella gerarchia dei poteri. Insomma, nonostante le statistiche criminali le assolvano quasi completamente, non si può affermare con sicurezza che le donne siano "geneticamente non devianti", sebbene alcuni studiosi lo continuino a pensare.

Nel caso delle donne condannate per fatti di mafia, le statistiche hanno potuto registrare una loro presenza a partire dagli anni successivi all'entrata in vigore del 416 bis, avvenuta nel 1982. Nel maxi processo di Palermo avviato da Giovanni Falcone su 460 imputati solo 4 erano donne. E bisognerà aspettare il 1989 per la prima applicazione a una donna del reato di associazione mafiosa, ma già nel 1995 saranno 89 le donne coinvolte per questo reato. Secondo la studiosa Alessandra Dino c'è una spiegazione per questa più lenta applicazione del reato associativo alle donne: il loro comportamento veniva considerato dagli stessi magistrati come semplice "favoreggiamento" dei familiari coinvolti in attività mafiose.
E poi, il fatto che le donne non potevano affiliarsi ufficialmente ai clan mafiosi (essendo questa prerogativa riservata solo ai maschi) rendeva più complesso contestare loro il 416 bis. Ma via via che procedeva l'azione degli apparati dello Stato rivolta ad intaccare stabilmente l'impunita storica dei mafiosi, e a mano a mano che si emanavano nuove leggi in grado di attaccare le proprietà e i beni illegalmente accumulati, avveniva anche un "disvelamento" del ruolo femminile all'interno delle famiglie mafiose, prima non considerato rilevante ai fini penali.
Dunque, un ruolo importante le donne lo hanno da sempre giocato all'interno dei circuiti mafiosi, ma esso si è reso più palese quando sono state applicate norme nuove che scombussolavano vecchi equilibri e vecchie modalità di comportamento all'interno dell'agire mafioso. Ad esempio, è indubbio che dal 1982 in poi lo sgretolarsi dei vertici mafiosi con centinaia e centinaia di arresti di capi e dei loro immediati successori hanno aperto la strada a ruoli più visibili di comando per madri, mogli e figlie, che prima svolgevano funzioni meno appariscenti. Così come l'applicazione del carcere duro per i capi-mafia (e con colloqui meno frequenti riservati solo ai parenti stretti) ha di colpo offerto all'universo femminile mafioso un ruolo centrale nei confronti degli affiliati in libertà, sia nel trasmettere gli ordini ricevuti sia nel sostituire i vertici in attesa di un loro ritorno in libertà.
Ombretta Ingrascì nel suo libro Donne d'onore: storie di mafia al femminile ha giustamente evidenziato che è stata la detenzione dell'uomo il presupposto fondamentale affinché la donna esercitasse un "ruolo pregnante all'interno dell'onorata società".  Infine, il sempre maggior numero di sequestri dei beni ha spinto verso l'intestazione di proprietà a membri femminili delle famiglie, e a coinvolgere le donne in strumenti finanziari sempre più raffinati per sfuggire all'individuazione dei beni accumulati con i delitti. In un'indagine di Transcrime (dell'Università cattolica di Milano) sulle aziende confiscate alle mafie, è stato messo in evidenza che le donne rappresentano un terzo degli azionisti di questa società, mentre nell'economia legale il peso delle donne è ampiamente più ridotto.
Ma se si entra più nel merito, nelle imprese mafiose della ristorazione e nel campo alberghiero la presenza femminile arriva al 52% delle azioni, al 37,8% nel settore dei trasporti e al 28,5% in quello delle costruzioni. Questo ultimo dato sembra basso, ma se lo confrontiamo con il ruolo delle donne nel campo delle imprese legali di costruzioni, il dato è sorprendente: le donne azioniste di imprese edili mafiose sono in percentuale quattro volte più numerose!
L'immagine delle donne presenti in famiglie mafiose totalmente ignare o estranee alle attività criminali dei mariti, dei padri, dei figli o dei fratelli è, quindi, assolutamente falsa. È vero che il codice della mafia è una esasperazione della virilità e dei valori maschili, e che lo stare tra soli uomini è stato da sempre un elemento coesivo per eccellenza del gruppo mafioso, ma ignorare per tanti anni la presenza femminile nelle mafie è stato un errore di valutazione.  Certo non abbiamo notizie di affiliazione di donne alle mafie, come abbiamo già scritto prima, nel senso che in generale sia in Cosa Nostra, camorra e 'ndrangheta alla donna è vietato l'accesso al rito di iniziazione che suggella l'ingresso formale nell'associazione mafiosa.  Ma la mancata affiliazione non ha precluso alle donne un'effettiva partecipazione alle attività delle associazioni mafiose. Le donne sono state coinvolte in molti settori: dalla comunicazione con latitanti e detenuti al traffico di droga e di armi, all'amministrazione dei soldi del clan, alla riscossione delle estorsioni, dalla gestione del lotto clandestino al contrabbando di sigarette, dall'intestazione di azioni al riciclaggio di denaro illecito fino alla gestione in prima persona dei clan.
Sicuramente le donne (in linea di massima) non fanno parte dei gruppi di fuoco dei clan mafiosi, e quindi non commettano direttamente omicidi e non guidano agguati contro clan avversari, ma negli ultimi anni concorrono più direttamente a deciderli e ad esserne vittime. Probabilmente l'unico caso di scontro a fuoco al femminile è quello verificatosi a Quindici in provincia di Avellino il 27 maggio del 2002, quando due fazioni contrapposte (i clan Cava e Graziano) si scontrarono a colpi di armi da fuoco usate da donne in sostituzione dei loro uomini quasi tutti in galera. Tre donne restarono uccise e una paralizzata. E l'unico caso accertato di un killer donna all'interno di organizzazioni mafiose ha riguardato Cristina Pinto, detta Nikita, la cui storia è raccontata nel docu-film Le camorriste di Paolo Colangeli.
La Pinto partecipò direttamente ad almeno tre delitti, organizzò in proprio spedizioni contro clan di camorra avversari, procurò armi e curò le basi logistiche di diversi agguati. Ma nel clan di cui fece parte arrivò attraverso il suo uomo, che era un boss di camorra. Sta di fatto che le donne entrano nelle organizzazioni di tipo mafioso per mezzo dei loro uomini, mai per avere conquistato il ruolo attraverso una selezione criminale esterna o per aver fatto apprendistato con reati di strada come scippi, estorsioni e attentati. Esse non costruiscono gruppi di mafia ex novo, o al femminile, ma sono in grado di prendere il posto dei loro uomini (mariti, fratelli, padri, figli), e di svolgerlo al meglio. Esercitano, per così dire, un ruolo "derivato" dal loro stato familiare, di supplenza ai vuoti di commando che si registrano nella vita dei loro cari, di supporto all'occultamento dei beni accumulati dalle loro famiglie criminali, e non da una palese e sperimentata attitudine alla violenza. Quando sposano i loro mariti, non sono già delle criminali affermate, ma sono ben consapevoli del ruolo che vanno ad occupare e di ciò che le aspetta.
Ma mentre in Cosa nostra e nella 'ndrangheta il ruolo delle donne non è stato mai così appariscente, anche quando sono costrette ad assumersi ruoli di vertice, le donne di camorra hanno da sempre avuto maggiore visibilità, un ruolo più evidente e rilevante all'interno dei loro clan. In genere le siciliane e le calabresi sono meno coinvolte nella devianza quotidiana di strada rispetto alle napoletane.
Vediamo alcune di queste biografie di mafiose. Angela Russo, "Nonna Eroina", viene arrestata, insieme ad altre 38 persone, nel febbraio del 1982 per associazione finalizzata al traffico di stupefacenti quando aveva 74 anni. Al momento dell'arresto rivendica il suo ruolo di corriera e boss: "Quindi secondo loro io me ne andavo su e giù per l'Italia a portare pacchi e pacchetti per conto d'altri??? (...) Dunque io che in vita mia ho sempre comandato gli altri, avrei fatto questo servizio di trasporto? Cose che solo questi giudici che non capiscono niente di legge e di vita possono sostenere."
Figlia di una famiglia mafiosa, ne abbraccia la cultura, arrivando persino a ripudiare il figlio Salvatore che decide di collaborare con la giustiziaLo definisce un "vigliacco", un "infame"... e davanti ai giudici grida: "è pazzo, altro che pentito, è pazzo signori giudici. E anche tanto farabutto da mandare in galera sua madre stessa, innocente..." e ancora, "Salvatore io l'ho perdonato, ma non so se Dio potrà mai perdonarlo. Lui sa che è condannato, lo sa che se esce lo ammazzano. Quelli non perdonano."
Maria Filippa Messina è la prima donna mafiosa al 41 bis. Arrestata nel febbraio del '95 insieme ad altre sette persone perché considerata elemento di primo piano del clan mafioso capeggiato dal marito, dal momento dell'arresto del coniuge diventa il nuovo capo. Secondo l'accusa, al momento dell'arresto stava per ordinare l'omicidio di alcuni esponenti del clan rivale, una vera e propria strage che stava organizzando nel dettaglio, definendo il commando e fornendo le armi.
Giusy Vitale è la prima donna alla quale la Procura di Palermo ha contestato il reato di associazione mafiosa e che poi ha condannato con sentenza definitiva. È stata capo mandamento di Partinico, quando i fratelli finiscono in carcere. Il suo desiderio era quello di poter diventare un capo riconosciuto dalla organizzazione mafiosa, e questo doveva rappresentare una sorta di riscatto: "Qualche volta capitava che si parlava di come una donna non può fare parte di un'associazione mafiosa a tutti gli effetti. O meglio, la donna c'è, ma non può appartenere a Cosa Nostra, anche se lei stessa ne rappresenta il pilastro che regge in pratica l'intera struttura. Ma all'arresto dei miei fratelli, divenni proprio io la reggente della famiglia. (...) Per stare con gli uomini dovevo diventare come loro, comportarmi e parlare come loro. Facevo di tutto per somigliare ad un maschio, anche se ero femmina. Volevo dimostrare che da donna, anche non potendo avere dieci amanti, potevo comunque comandare come un uomo, se non addirittura meglio. Arrivando molto più in alto di loro."
Tuttavia Giusy Vitale rimaneva pur sempre sottomessa rispetto ad alcune regole tipicamente maschiliste, infatti, ad esempio non poteva girare da sola per il paese, né andare in città senza un uomo e neppure partecipare alle riunioni da sola. Insomma era un boss ma non era completamente autonoma e non era riuscita a riscattare del tutto la sua condizione di donna. Dopo l'arresto decide perciò di collaborare con la giustizia. Dirà: "Mi sono sentita più libera in carcere che quando ero veramente libera. In carcere ho riscoperto me stessa e adesso so cosa devo fare".
Nei clan di camorra spiccano i casi di Teresa De Luca-Bossa, prima napoletana a cui è stato inflitto il carcere speciale per mafiosi; Anna Mazza, vedova Moccia, prima campana condannata al 416 bis; Maria Licciardi, prima donna a rivestire un ruolo centrale nella cosiddetta Alleanza di Secondigliano, la confederazione di clan con un'attitudine spiccata per la gestione imprenditoriale dei propri traffici in fette importanti di economia legale.
Questo ruolo appariscente di donne camorriste non è un fatto degli ultimi anni, a seguito solo delle innovazioni in materia di repressione delle mafie e di nuove norme in materia di beni illecitamente accumulati. La presenza femminile nella camorra è strutturalmente legata all'essenza stessa di questo particolare fenomeno urbano malavitoso che da sempre unisce in una sola attività l'illecito, l'illegale e il criminale, nell'Ottocento come oggi. Le donne sono state da sempre partecipi, forse più degli uomini, delle attività illegali di strada, e quando il confine labile tra illegale e criminale viene superato esse si trovano dentro la criminalità con naturalezza, come se fosse il normale proseguimento delle attività illecite.
Non arrivano ai vertici della criminalità per via propria ma attraverso le vie familiari: sono mogli, madri, sorelle, cognate, figlie di persone che rivestono ruoli nei clan. Sanno bene chi sposano e il salto economico che fanno.  Uomini e donne che si "pigliano" perché si rassomigliano. Non ci sono matrimoni "misti", cioè con uomini e donne di altri ambienti sociali. Il matrimonio non li allontana dal loro ambiente sociale, ma lo conferma. Una volta entrate nella "famiglia" ne diventano protagoniste attive non silenziose o passive custodi di una cultura di condivisione e di omertà. Non sono subalterne, non si limitano a fornire un supporto morale e sentimentale alle attività dei parenti, né di riflesso rispetto a padri fratelli mariti. Ma il loro potere diventa ancora più forte quando i loro congiunti finiscono in galera o vengono uccisi.
Il venire a mancare di colui che in famiglia garantisce il loro benessere le obbliga a prendere in mano l'organizzazione prima che siano altri a farlo. Una lunga e antica familiarità con le attività illegali, appresa fin dall'infanzia negli stessi luoghi dove l'hanno appresa i loro mariti, i loro padri o fratelli, permette loro di fare il passo verso la criminalità con estrema facilità. Infine, essendosi sposate molto presto e avendo fatto figli spesso prima della maggiore età, si sono liberate della responsabilità di crescere i figli in età precoce, molto prima dei trent'anni per dedicarsi a tempo pieno all'attività criminale.
Sono donne "forti" che non accettano di essere relegate in casa a custodire la tradizione familiare. Eduardo De Filippo ha sempre rappresentato nelle sue opere donne più forti degli uomini. Lo ricorda Gabriella Gribaudi nel suo interessantissimo libro Donne, uomini, famiglie. Napoli nel Novecento. Nella famiglia edoardiana gli uomini sono inetti, perdenti mentre si manifesta una particolare forza femminile che in alcuni casi rasenta la ferocia. Sono donne non acculturate, non scolarizzate, che si sposano, si separano, divorziano, hanno amanti e una vita sentimentale e sessuale molto vivace. Sono donne "moderne", che si truccano, si vestono secondo i canoni della moda, vogliono colpire e impressionare con il loro modo di abbigliarsi e acconciarsi, lontanissime dallo stereotipo di casalinga tutta casa e famiglia. Sono "donne di guai", spesso per colpa loro si scatenano faide, uccisioni, vendette proprio in virtù delle loro vite sentimentali "aperte" o per la loro iper-suscettibilità. Mentre le donne dei gangster sono "ornamenti ", che servono a mostrare il fascino e il potere dei boss, le donne di camorra sono pienamente coinvolte nell'attività dei loro uomini, siano essi mariti siano essi amanti.
La singolarità della camorra, infatti, è che i camorristi, rispetto ai mafiosi e agli 'ndranghetisti, si permettono molte amanti e se ne vantano. Nella mafia una condotta sentimentale e sessuale troppo trasgressiva non è concepibile: la fedeltà coniugale risponde al bisogno di non esporre l'organizzazione alle violazioni di segreti fondamentali per la tenuta della "ditta". Per un camorrista non avere amanti è quasi un disonore.
A Napoli la vita nei vicoli è promiscua, più tollerante verso l'infedeltà e verso altre tendenze sessuali. Le mamme napoletane non cercano di salvare i loro figli dalle insidie della strada, ma spesso sono esse stesse a incitarli all'illecito. Sono esse il primo anello della rapida socializzazione all'illegalità, delle vere e proprie "matrone" dell'illegalità. Gestiscono il confine labile tra sopravvivenza della famiglia e necessità di farvi fronte con l'illegalità; svettano nei mestieri tipici del rapporto sopravvivenza-illegalità quali l'usura e il contrabbando.
Il 31% delle donne detenute in Campania è coniuge o convivente con un uomo a sua volta detenuto. In genere le camorriste presenti nelle carceri campane rappresentano il 4,5% di tutte le detenute. La sociologa Anna Maria Zaccaria ha fornito in un suo studio queste statistiche: il 39% di donne di camorra è moglie o compagna di un boss, mentre il 53,8% è madre di camorristi.
Fin da quando si uniscono al camorrista sanno che probabilmente resteranno sole, come ha descritto il regista Agostino Ferrente nelle immagini reali e crude del suo film Selfie. Come i giovani che scelgono di unirsi alla camorra lo fanno nel tentativo di fare la bella vita ma mettono in conto di perderla, così anche le loro coetanee hanno consapevolezza di quello a cui vanno incontro ma vogliono rischiare. Questa è la ragione che spiega perché spesso sono proprio le donne a scendere in strada a difesa dei propri uomini e contro le forze dell'ordine durante i blitz. La questione è molto più profonda rispetto ad una idea superficiale di mera difesa del proprio uomo.
Le donne, dunque, soprattutto a Napoli città, non si occupano esclusivamente di trasmettere ai figli la cultura criminale, ma intervengono nelle attività dei clan quando ve ne sia necessità e quando siano chiamate a farlo, riuscendo ad assumere non per forza ruoli subordinati. Ai due antipodi ci sono 'ndrangheta e camorra. Sicuramente nella 'ndrangheta le donne hanno un ruolo meno attivo degli uomini; esse sono vestali della cultura mafiosa e non possono entrare nella associazione né partecipare ai riti della stessa. Se provengono da famiglia 'ndranghetista o se sono particolarmente meritevoli possono diventare "sorelle di umirtà", tuttavia non potranno mai scalare la vetta della 'ndrina.
Le donne sono invece utilizzate per sancire alleanze tra le famiglie attraverso i matrimoni. Alcune più recenti intercettazioni dimostrano che le donne di 'ndrangheta sono informate delle attività delle loro famiglie. Ad esempio alcune donne della famiglia Strangio ('ndrina di San Luca) parlano con i loro uomini detenuti di armi e droga, riferendosi spesso alla strage di Duisburg del 2007. Saveria Strangio, da quanto si apprende da una intercettazione, rimprovera i figli trasferiti a Milano perché pagano le tasse: "Ma siete pazzi? Come sarebbe a dire che avete pagato le bollette? Io non vi ho educato per farvi spendere soldi per l'acqua e per la luce!"
Maria Teresa d'Agostino, madre di Umberto Bellocco ('ndrina di Rosarno), dice al figlio (come emerge da una intercettazione): "Una volta che partiamo, partiamo tutti, ci inguaiamo tutti, pure ai minorenni... pari pari a chi ha colpa e a chi non ha colpa". Ricapitolando. Le donne sono state sempre presenti a loro modo nelle mafie assumendo ruoli diversi a seconda delle esigenze. Il loro peso nelle organizzazioni è stato a lungo sottovalutato, e solo da qualche tempo si comincia a percepirne l'effettivo valore. Esse sembrano essere state selezionate per via dei matrimoni e della parentela acquisita con alcuni capi, ma quando si presentano le occasioni sanno utilizzarle bene e si mostrano all'altezza delle circostanze. Un misto originalissimo tra arcaicità delle funzioni della donna nella società meridionale, capacità di adeguarsi ai tempi e di trovarsi a proprio agio nei circuiti imprenditoriali e finanziari. Un intreccio tra famiglia e mercato, tra tradizione e innovazione che fa delle mafie un passato feudale che si fa futuro, anche attraverso un cambiamento del ruolo delle donne.

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