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23.7.25

essere per l'eutnasia o suicidio non è solo assassinio o andare contro la volonta di DIO ma anche una libera scelta se continuare a soffrire o porre fine alle sofferenze

 


Sono stato accusato per le mie prese   di  posioi in merito tali argomenti  in particolare  gli ultimi  due  post : quello    su  Archie Battersbee  e quello su Laura Santi   di  leggittimare  un omicidio    o     d'andare  contro  la  volonta  di Dio  . Ecco   la mia  risposta     diretta  ai  secondi  e  indirettamente  a  primi  . 

Lolly Mu
Lo so che mi darete addosso, ma non mi importa.
Chi si toglie la vita consapevolmente,
non potrà mai riposare in pace
Non illudiamoci.
Anche se a molti non piace sentirlo, solo Dio è padrone di dare e togliere la vita, non spetta all'uomo farlo
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Sere Nena
Lolly Mu ma hai letto?da anni soffriva di sclerosi multipla !hai mai visto una persona affetta di sclerosi multipla?dove e' il tuo Dio quando arrivano queste pene infernali?poi sei libera di pensare ciò che vuoi ma lei non si giudica
Giuseppe Scano @Lolly Mu -
Vero . però bisogna rispettare e non giudicare e condannare chi ha scelto- e messo in atto d'andare contro Dio per porre fine alle sue sofferenze . Serve anche rispetto oltre che una legge seria che permetta di poter scegliere se si vuole rimanere in vita attaccati alle macchine o dipendere in tutto da gli altri ( come l'ex attore
Bruce Willis, peggiorano le condizioni dell’attore: non può più parlare né muoversi
oppure morire con cure palliative oppure potersi come el suo caso darsi e farsi dare l'eutanasia \ suicidio assistito .



Di  solito     sia   fra i  pro che   i  contro   suicidio assistito     o  eutansia    c'è  un  po'  di  confusione   che   coinvolgere   tutti noi ,  sottoscritto compreso  .Provismo a fare  chiarezza  visto    che  la differenza tra eutanasia e suicidio assistito è sottile ma cruciale, soprattutto dal punto di vista giuridico
e pratico. Ecco una panoramica chiara  chiesta    a  Copilot   (  IA  di bing.com  )  :

🧠 Definizioni di base

  • Eutanasia: è l’atto con cui un medico o un’altra persona somministra direttamente un farmaco letale a un paziente che ne ha fatto richiesta, per porre fine alle sue sofferenze.

  • Suicidio assistito: consiste nel fornire al paziente i mezzi (come un farmaco letale) affinché sia lui stesso ad auto-somministrarselo, in modo autonomo  .

🔍 Differenze principali

AspettoEutanasiaSuicidio Assistito
Chi compie l’atto finaleIl medico o un operatore sanitarioIl paziente stesso
Ruolo del pazientePassivoAttivo
Legalità in ItaliaIllegale (è considerato omicidio del consenziente)Parzialmente legale in casi specifici  
Requisiti mediciRichiesta esplicita, patologia irreversibile, sofferenza intollerabileGli stessi, ma con capacità di auto-determinarsi

⚖️ In Italia

  • Eutanasia attiva è ancora considerata reato.

  • Suicidio assistito è stato depenalizzato dalla Corte Costituzionale nel 2019, ma solo se:

    • il paziente ha una patologia irreversibile,

    • soffre in modo intollerabile,

    • è dipendente da trattamenti vitali,

    • è pienamente capace di decidere .

💬 Un esempio pratico

Nel caso del suicidio assistito, il medico può preparare il farmaco, ma non può somministrarlo. Il paziente deve essere in grado di farlo da solo, anche solo premendo un pulsante.


1  https://www.laleggepertutti.it/594477_eutanasia-e-suicidio-assistito-differenza
2   https://www.vidas.it/approfondimenti/differenza-tra-eutanasia-e-suicidio-assistito-cosa-dice-la-legge-sul-fine-vita/
3  https://www.eutanasialegale.it/approfondimenti-eutanasia/suicidio-assistito-eutanasia-differenza/

  Iincuriosito   dalla  proposta    della IA      : <<  Se vuoi, posso anche spiegarti la differenza tra eutanasia passiva e sedazione palliativa altre due pratiche spesso confuse. Vuoi approfondire anche quelle?  >>  ho scelto    d'approfondire  sia  per  me  che   per  me     che  per  voi   l'argomento  accettando  tale    domanda <<  Qual è la relazione tra eutanasia e cure palliative?  >>

La relazione tra eutanasia e cure palliative è complessa e spesso oggetto di dibattito etico, medico e sociale. Sebbene entrambe si occupino del fine vita, hanno obiettivi profondamente diversi:

🌿 Cure palliative: vivere fino all’ultimo respiro

  • Scopo: alleviare la sofferenza fisica, psicologica, sociale e spirituale del paziente.

  • Principi: affermano la vita e considerano la morte come un processo naturale.

  • Non accelerano né ritardano la morte.

  • Approccio: accompagnano il paziente e la sua famiglia, promuovendo dignità e qualità della vita.

⚰️ Eutanasia: anticipare la fine

  • Scopo: porre fine alla vita di un paziente su sua richiesta, per evitare sofferenze insopportabili.

  • Modalità: tramite somministrazione attiva di farmaci letali.

  • Obiettivo: interrompere la vita, non accompagnarla.

🔄 Differenze fondamentali

AspettoCure PalliativeEutanasia
FinalitàAlleviare la sofferenzaTerminare la vita
Ruolo del medicoSupporto e accompagnamentoAgente attivo della morte
Etica medicaBasata su non-maleficenza e beneficenzaDibattuta e controversa
Legalità in ItaliaGarantite dalla legge (L. 38/2010)Attualmente illegale

🧭 Posizioni a confronto

Molti professionisti delle cure palliative ritengono che l’eutanasia non sia compatibile con il loro approccio, perché rischia di trasformare il fine vita in una scelta obbligata per chi si sente un peso. Le cure palliative, invece, offrono un’alternativa dignitosa alla sofferenza, senza ricorrere alla morte come soluzione.

 1 https://www.tempi.it/cure-palliative-suicidio-assistito-non-compatibili/
 2 https://www.adhocnews.it/cure-palliative-e-suicidio-assistito-due-strade-inconciliabili/


con questo   è  tutto    se Dio viuole  e  i carabiieri   lo permettono 




22.7.25

uguaglianza nella diversità

 Credere che tutti gli uomini siano uguali ha portato molti altri uomini vistosamente diversi a dover lottare perchè venisse accettata la propria diversità. Questo ha comportato ancor di più la creazione di gruppi o sotto/sopra gruppi di uomini con il risultato di dare palese rappresentazione della non uguaglianza della specie umana. Se prendiamo consapevolezza del fatto che tutti gli uomini sono invece diversi e unici allora finalmente appianeremo le differenze accettandoci come esseri tutti uguali. DIVERSI TUTTI.


w l'italia tutta intera , Italia campione d'Europa Under 20 basket battuta la Lituania in finale ma ai salvinisti e ai vannaciani non piace . indovinate il perchè

  in sottofondo

L’Italia ha vinto gli Europei under 20 uomini di basket battendo in finale la Lituania per 83-66. Gli azzurri tornano a vincere una medaglia d’oro dopo quella conquistata nel 2013 e dopo quella del 1992 (allora però la categoria era Under 22).


Un successo netto, meritato, sofferto, raggiunto giocando un torneo di sostanza, qualità e sacrificio. Un trionfo colto giocando la finalissima con otto effettivi per via dei quattro infortuni che hanno falcidiato la squadra all’arrivo a Creta.
Molti di loro non hanno i tratti dell’italianità” secondo i principi di esimi intellettuali come l’ex generale Vannacci.
Hanno nomi come Atamah, Airhienbuwa, Osasuyi. Oppure si chiamano David Torresani come il ragazzo nella foto, sono nati a Milano, hanno la pelle nera e l’accento meneghino.
E allora capita che orde di depensanti abbiano passato il tempo che questi ragazzi trascorrevano sul parquet a vincere a vomitare insulti razzisti ed  exenofibici  di ogni genere e tipo.
Poi, quando infine Torresani e compagni hanno vinto il titolo battendo in finale la Lituania per 83-66, i commenti sono all’improvviso cessati (  o  quasi ) e loro sono diventati eroi, azzurri.
E, a quel punto, il ragazzo nella foto, è entrato su Instagram e ha rivolto a tutti loro un commento che è un saggio d’intelligenza e ironia su come si risponde ai razzisti.
“Grazie per i commenti razzisti, ci avete dato la carica".Grandissimo.
Che bella questa nuova Italia che sta nascendo, che vince in campo e sculaccia in modo sublime vannacciani e vannaccini fuori dal campo.Mi sa che coloro che    dicono che    non sono italiani  ci dovranno fare l’abitudine. 

Laura Santi, morta con il suicidio assistito in casa a 50 anni: era malata di sclerosi multipla. Si è autosomministrata il farmaco

Ritorno a palare  dopo il post  sulla    vicenda   di     Archie Battersbee    bambino  di   12 anni   d'eutanasia  \  suicidio assistito  .   Il caso è quello   di Laura  Santi  consigliera generale dell’Associazione Luca Coscioni, nata nel 1975, era affetta da oltre 25 anni da una forma progressiva e avanzata di sclerosi multipla, che ha iniziato il suo decorso progressivo nel 2014, fino ad arrivare alla forma attuale: Laura è morta oggi - 22 luglio - a casa sua, nel capoluogo umbro dopo essersi auto-somministrata un farmaco letal . Uno dei pocho casi    a cui stato  permesso  di farlo  senza  dover  andare  in Svizzera  . Infatti se n’è andata a casa sua, Laura Santi, nel suo letto. A 50 anni, di cui metà trascorsi col corpo quasi completamente paralizzato (a parte il collo e tre dita della mano destra) da una rara e progressiva forma di sclerosi multipla.Qui tutto il suo calvario per poter ottenere il suicidio assistito . Lei se n’è andata perché così ha voluto lei, auto-somministrandosi il farmaco letale, e insieme liberatorio, attraverso il suicidio medicalmente assistito.È stata una sua precisa scelta, come sempre dovrebbe essere in un Paese degno di essere chiamato civile. Nel quale sua permesso seza che il tuo diritto scelta sia sottoposto ad un oddissea giuridica burocratica come la sua .


Il poter scegliere fra cure palliative o uetanasia \ suicidio assistito , se vivere attaccato alle macchine o porre fine al proprio calvario .Infatti leggo sulla bachgeca di Lorenzo Tosa che
Le sofferenze negli ultimi tempi erano diventate per lei “intollerabili”, come ha ricordato il marito, con lei fino all’ultimo istante.Laura Santi era una giornalista, una collega, una che con le parole ci sapeva fare. Le sue ultime, affidate all’associazione Luca Coscioni, sono da brividi. Il suo testamento.

"La vita è degna di essere vissuta, se uno lo vuole, anche fino a cent’anni e nelle condizioni più feroci, ma dobbiamo essere noi che viviamo questa sofferenza estrema a decidere e nessun altro. Io sto per morire. Non potete capire che senso di libertà dalle sofferenze, dall'inferno quotidiano che ormai sto vivendo. O forse lo potete capire. State tranquilli per me. Io mi porto di là sorrisi, credo che sia così. Mi porto di là un sacco di bellezza che mi avete regalato. E vi prego: ricordatemi".
Lo stiamo facendo in tanti. Lo faremo. Buon viaggio Laura. Ora sei libera.





Quello che, e qui concludo , non capisco è come la Chiesa e un certo Stato si debbano arroccare contro queste decisioni ! Ammazziamo milioni di persone con le guerre, senza far nulla, e poi, soprattutto la Chiesa ( e la capisco ) , trova immorale un'azione simile ! Ma a mio avviso L'immoralità è anche nel veder morire milioni di uomini, donne, bambini, e girare la testa da un'altra parte o lanciare apelli che poi cadono nel vuoto !


21.7.25

anche questi sono servizi sociali Pulmino con persone disabili precipita nel torrente, l'assessora si tuffa e li soccorre: «Ho fermato l'emorragia alla gamba di un ragazzo»

 L'incidente nel Vicentino, a rimanere ferite 8 persone. Ilaria Sbalchiero è infermiera di professione: «Uno di loro se la caverà in qualche giorno, un altro è in miglioramento. Sei sono usciti dal pullman con le loro gambe. I soccorritori sono stati straordinari»


È ancora visibilmente scossa Ilaria Sbalchiero, assessora ai servizi sociali e alla protezione civile del Comune di Recoaro Terme, ma anche infermiera. È stata tra le prime a intervenire sabato 19 luglio, quando un pulmino con a bordo ragazzi con disabilità dello spettro autistico è precipitato nel torrente Agno, lungo via della Resistenza. Poteva essere una tragedia immane, ma grazie anche al suo sangue freddo, e a quello di altri soccorritori, si è evitato il peggio.

Assessora Ilaria Sbalchiero, come ha vissuto quei primi minuti concitati?
«Ero di passaggio, per caso, perché stavo andando a casa. Ho visto della gente affacciata all’argine e mi sono fermata subito perché ho capito che c’era qualcosa che non andava. Quando ho realizzato cosa fosse accaduto, sono scesa insieme a una dottoressa per prestare aiuto e sono entrata nel torrente restando in contatto con il 118. La scena era devastante: il pulmino distrutto, i sedili divelti, ragazzi bloccati all’interno».

Qual è la cosa che l’ha scioccata di più?
«Che erano capovolti ed era impossibile entrare nel pulmino. Per me è stato un miracolo perché a pochi metri il torrente diventava più profondo e avrebbero potuto annegare».

Che situazione ha trovato una volta giunta sul posto?
«I ragazzi, per fortuna, erano tutti coscienti. Ma era difficile comunicare con loro, trattandosi di giovani con disturbo dello spettro autistico. Dovevamo capire se ci fossero emorragie o traumi seri, ma serviva delicatezza. L’autista, seppur ferito, ci ha aiutato. Una delle operatrici era invece in condizioni più gravi e doveva essere soccorsa immediatamente».

Cosa ha fatto a quel punto?
«Mi sono qualificata come infermiera e ho dato istruzione per bloccare un’emorragia a una gamba di uno dei ragazzi. Ho chiamato i soccorsi, ma erano già stati avvisati. Mi hanno fatto domande specifiche, se i ragazzi fossero coscienti, se respiravano e altre domande tecniche. Sono arrivati davvero prestissimo».

Qual è stato il momento più difficile da affrontare?
«Sicuramente l’impatto visivo. Dall’alto ho visto solo lamiere accartocciate. Ho pensato al peggio. Ma poi, quando ho riconosciuto i volti dei ragazzi, spaventati ma vivi, mi sono fatta forza. È stata un’emozione fortissima».

Come giudica la risposta dei soccorsi?
«Straordinaria. Voglio dirlo chiaramente: tutte le forze in campo hanno lavorato in modo rapido, coordinato ed efficace. In momenti del genere, ogni secondo è fondamentale, e qui è andato tutto nel migliore dei modi, per quanto possibile».

Cosa le rimane oggi di quell’esperienza?
«Tanta emozione e anche un senso di gratitudine. Poteva finire molto peggio, invece è andata bene, con qualche piccolo problema gestibile. A mente fredda, posso dirlo: è stato un miracolo. Ma anche un esempio di umanità e collaborazione è un lavoro di squadra eccezionale con Suem, che mi auguro venga ricordato».

Ha sentito qualcuno dei ragazzi?
«Mi hanno chiamato stamattina. Un ragazzo se la caverà in qualche giorno, un altro è in miglioramento. Sei sono usciti dal pullman con le loro gambe. La cosa importante è che in un incidente così grave, non sia accaduto il peggio. Io ho fatto solo il mio dovere, devo ringraziare i colleghi per la loro professionalità che ancora una volta hanno messo a servizio di chi aveva bisogno».

Domusnovas, il ricamo diventa terapia: successo per il progetto “La Quercia” Tra i protagonisti dei laboratori con gli ospiti delle Rsa anche la signora Delfina Melis, ancora abilissima con ago e filo alla veneranda età di 102 anni

Oltre a essere come ho raccontato in « Trend Fashion Tatreez, il ricamo tradizionale che custodisce la storia della Palestina: quando la resistenza passa da ago e filo. Dalle sue radici ai collezionismo » e in « La ragazza che con ago e filo, seduta ai tavolini di un bar di Roma, aiuta il popolo palestinese a sopravvivere. .... »Il ricamo  è strumento di cura dell’anima e della mente

DA   www.cagliaripad.it

A Domusnovas si è conclusa con un grande successo la prima edizione del progetto “La Quercia”, percorso di ricamo terapeutico ideato dalla socia Orsola D’Ambrosio e promosso dall’associazione I Fili emozionali di Alma in collaborazione con la Fidapa Sulcis. Un’iniziativa che ha coinvolto tutti i 54 ospiti delle Rsa del paese, la Residenza Santa Maria Assunta e la Residenza del Parco, e che ha visto 34 partecipanti cimentarsi per 5 settimane in un laboratorio dedicato al ricamo su lino. Guidati da esperte e volontarie, gli anziani hanno realizzato ciascuno una quercia personale, ricamata a mano con ago e filo su una fettuccia di tessuto, simbolo di forza, radici e rinascita. I singoli lavori sono stati poi uniti in un unico mosaico tessile che sarà presentato ufficialmente domani, alle 17.30, con una cerimonia presso la Residenza Santa Maria Assunta. Tra le protagoniste del progetto anche Delfina Melis, originaria di Gonnesa, che con i suoi 102 anni è diventata il simbolo dell’iniziativa. Con entusiasmo e precisione ha ricamato la sua opera, partecipando attivamente al laboratorio. “Gli anziani, per ragioni oggettive sono fragili, a volte non del tutto autosufficienti o non del tutto autonomi e a questo stato fisico non di rado si unisce la mancanza di una rete familiare o amicale” spiega l’ideatrice Orsola D’Ambrosio. “Ciò li porta a isolarsi. Il nostro progetto, dunque, viene loro incontro, proprio perché non si sentano soli o abbandonati”. “La Quercia” ha rappresentato molto più di un’attività ricreativa: è stata un’esperienza di stimolazione cognitiva, benessere emotivo e socialità. Un progetto che ha saputo intrecciare fili di memoria, pazienza e cultura, lasciando un segno profondo in chi vi ha preso parte.




STACCARE LA MACCHINE Può ESSERE UN GESTO D'AMORE Archie Battersbee aveva 12 anni E VIVeVA DA 120 GIORNI ATTACCCATO ALLE MACCHINE

 Archie Battersbee aveva 12 anni, in stato vegetativo dal 7 aprile scorso, quando la mamma Hollie lo ha trovato in casa, incosciente, con una corda al collo, forse - ha dichiarato lei - “dopo una sfida online con gli amici, forse su Tik Tok”.Ieri, dopo 120 giorni di agonia in coma irreversibile, dichiarato dal London Royal Hospital cerebralmente morto dai medici e senza alcuna possibilità di risveglio, i giudici hanno dato il via libera ai medici
per staccare le macchine che lo tenevano - solo clinicamente - in vita.
Una decisione durissima e sofferta ma che ha liberato Archie da un corpormai ridotto a mera prigione.I genitori hanno combattuto fino all’ultimo contro la decisione, hanno addirittura parlato di “esecuzione di un bambino”.Per carità, nessuno può comprendere fino in fondo la reazione di una mamma e un papà davanti a una tale tragedia simile Ma, di fronte all’evidenza, non esiste un gesto di umanità ed empatia più profondo che lasciare un figlio libero di andare, di sfuggire a una non-vita. Credo non ci sia atto d’amore più grande. Doloroso ed enorme

VOLEVO UCCIDERE TUTTI MA POI HO PERDONATO . LA STORIA DELL'EX SEQUESTRATO GIOVANNI GLORIO

  DA 

GIOVANNINO GLORIO

«Mi hanno chiuso in un baule, bendato e incatenato», rievoca il protagonista della nostra storia. «Salvo grazie all'agente segreto Nicola Calipari, dopo la liberazione coltivavo un'ossessione omicida». «Ora, finalmente, ho fatto pace con me stesso»

Rapito a 14 anni: volevo uccidere tutti, ho perdonato

«Avevo solo 14 anni quando fui rapito. E in quel baule dove mi rinchiusero, senza ossigeno e con gli occhi coperti, erano rimasti tutti i miei fantasmi. Mi ci misero con la forza, fu un male sia fisico sia mentale. Tanto che, nella mia testa, quella cosa è poi diventata la mia prigione per 31 anni e non solo per quei terribili 31 giorni». Giovannino Glorio riparte da quel drammatico 16 novembre 1993. I sequestratori entrarono nell’abitazione romana dei genitori, li presero a calci e pugni e «io mi sono ritrovato con la faccia per terra, legato».

 Il padre, Giovanni, era un facoltoso industriale nel settore cosmetico chimico. Pagò un riscatto di 2 miliardi e 200 milioni di lire per riavere il figlio amatissimo, nato dopo la perdita a soli 6 anni di un maschietto, per leucemia fulminante. Glorio, 45 anni e un lavoro nel settore immobiliare, ha ora scritto un libro autoprodotto: Libero come il vento (su Amazon), «perché oggi questo sono». «Paradossalmente, quando mi liberarono cominciò il mio periodo buio. Ho iniziato a sentire un brivido di rancore che mi percorreva la schiena. Odiavo le persone, anche quelle che mi amavano, e odiavo me stesso».

È comprensibile dopo il trauma terribile che le era toccato.

«Tutto ha avuto inizio dopo un incidente in auto. Avevo 22 anni, ho affrontato due interventi al volto. Quando sono uscito dall’ospedale sentivo addosso un’ossessione omicida, una rabbia incontrollata. Avevo realizzato che la mia vita stava andando a rotoli, sia sul piano sentimentale sia universitario: non avevo dato neanche un esame. Così passavo ore a consultare riviste di armi, non uscivo di casa, non rispondevo al telefono. Pianificavo il modo migliore per uccidere. Volevo farmi giustizia e il rancore mi

stava intossicando». 
Quando sentì il primo istinto omicida?

«A scuola. C’era un bullo che mi perseguitava con violenza e, ogni giorno, pretendeva che gli pagassi la colazione

umiliandomi. Alla fine reagii dandogli una testata in pieno volto. Fui sospeso. In quel momento il mio odio si era materializzato».

Giovannino, come l’hanno trattata durante il sequestro?

«Ero sempre incatenato con la benda sugli occhi, in una stanza buia. Ogni tanto mi buttavano un panino sul letto per mangiare. Quando dovevo fare i bisogni, mi allungavano le catene così da poter arrivare al bagno chimico lì vicino. Mi sono trovato anche con una pistola alla tempia, in un video messaggio destinato a mio padre: il riscatto chiesto inizialmente era di 5 miliardi di lire, ma lui non ne aveva. Allora s’innervosirono, volevano tagliarmi un orecchio».

Le trattative diventarono complicate.

«Per arrivare ad arrestare i malviventi, il magistrato fece inserire una microspia nella valigetta con i soldi. Ma i rapitori costrinsero mio padre a buttare giù da un ponte la valigetta e così la microspia si ruppe. Quando i sequestratori se ne accorsero, iniziarono a minacciarmi di morte. E a minacciare i miei familiari. Allora intervenne l’agente segreto Nicola Calipari (ucciso nel 2005 in Iraq nel tentativo di riportare a casa la giornalista Giuliana Sgrena, ndr): è l’uomo che mi ha salvato».

È rimasto in contatto con Calipari dopo la liberazione?

«Sì. Veniva a trovarmi, s’interessava a come stessi: aveva capito che qualcosa non andava. È stato molto protettivo».

Nelle sue pagine parla dei fantasmi del passato che per tanto tempo l'hanno tenuta prigioniero.

«Da quasi un anno vado dallo psicologo che è stato fondamentale per scrivere questo libro: dovevo tirare fuori i miei traumi. Lui mi ha detto: “Chiamali con un nome”. E io: “Sono i Bastardi Infami”. “Va bene”, mi ha risposto. Piano piano, giorno dopo giorno, mi accorgevo che non abitavano più nella mia testa. E finalmente sono uscito dal mio passato, dal baule dei rapitori».

Ma come ha potuto superare l’ossessione omicida?

«Mi ha aiutato uno sguardo. Durante

l’università, tutti i giorni facevo colazione nello stesso bar. E fissando lo specchio dietro al bancone, vedevo alle mie spalle sempre un uomo che mi osservava in silenzio. Ogni sacrosanta mattina. Alla fine l’ho riconosciuto: quelli erano gli occhi del mio carceriere e il suo era uno sguardo che chiedeva perdono. Non voleva altro. Poi mi sono ricordato che durante la prigionia aveva mostrato un po’ di compassione per me: ero pur sempre un ragazzino».

E lei lo ha perdonato?

«Sì, ho perdonato tutti. Soprattutto lui. Ma prima di arrivare al perdono, parola fino ad allora non contemplata nel mio vocabolario, ho compiuto errori nella vita sentimentale, professionale e con i miei figli. L’odio m’impediva di vedere tutto il bello della vita».

Lei è tre volte padre. Nel 2019, i fantasmi l’hanno portata anche a perdere la responsabilità genitoriale.

«Me l’hanno tolta a causa di un gesto di rabbia. Per due anni e mezzo sono stato allontanato dai miei figli e nei primi dieci mesi non li ho potuti vedere. Poi li incontravo una volta a settimana in una stanza, con un assistente sociale».

Che rapporto ha oggi con i suoi figli?

«Condividiamo una bellissima intesa e spesso mi chiedono del mio passato. Io sono cauto. Hanno 17, 14 e 12 anni. Vorrei che crescessero liberi da ogni emozione negativa e sicuri di se stessi. Consapevoli che non si può vivere rinchiusi in un baule».

Com’è riuscito a conquistare la libertà che dà il titolo al suo libro?

«Guardandomi dentro, cercando di capire chi fossi e dove avessi sbagliato, perché ne ho sbagliate parecchie».

Ma lei era condizionato da un trauma, non può farsene una colpa.

«Dovevo accorgermene prima. Ho sbagliato tanto nel mio matrimonio, con lei che era una surfista e mi ha trasmesso l’amore per il mare e il vento, e anche nella mia seconda relazione (con la nota attrice Simona Cavallari, ndr). Sotto il profilo sentimentale sono stato un disastro. In queste donne vedevo una possibile soluzione ai miei traumi, come se dovessero salvarmi dallae sofferenze. Ma l’amore non è questo. Ero una persona irrisolta per amare».

Quanto tempo è durata la sua relazione con Simona Cavallari?

«Quattro anni, fino a giugno 2023. E dopo quattro mesi dal nostro incontro, convivevamo già. Per Simona esistevo solo io, mi ha dato tantissimo. Ma alla fine non riuscivo più ad andare d’accordo con lei. Non ero capace di valorizzare quello che provava per me. È finita così. Non ci siamo più visti né sentiti».

Un giorno, improvvisamente, è andato via di casa per raggiungere Assisi.

«Lì ho cominciato a scoprire la fede. Ho camminato scalzo. Ho passato la notte al freddo, in un angolo della città, assieme a un altro pellegrino che mi ascoltava e raccomandava di cambiare completamente l’approccio alla vita. Ora, nella chiesa che frequento al Divino Amore, c’è un sacerdote che parla spesso di “perdono”. Vado ad ascoltarlo due volte alla settimana e mi si è aperta l'anima. È quello di cui avevo bisogno. Il mondo ora lo vedo a forma di cuore e con tutti i suoi colori. Sono diventato veramente libero solo quando ho imparato a perdonare».

L’acqua, il vento del suo libro. Lei pratica il wing-foil, una disciplina vicina al surf con la tavola che si alza in volo grazie a una vela.

«È una sensazione meravigliosa di libertà, quasi mistica. Con i miei figli stiamo per partire in camper, direzione Sardegna: andiamo a prendere il vento».

Mi tolga una curiosità, Giovannino. Il libro finisce con una «Grazie a Lei perché ha messo fine al mio ultimo brivido d’odio». Chi è questa persona?

«Simona. Lei con la L maiuscola. Mi ha aiutato a rinascere e spero che con questa intervista le arrivi il mio pensiero».

Gli uomini acetteranno un ruolo femminile ? Appello agli uomini per imparare l’uso del telaio. Poche le artigiane rimaste


Da
La Nuova Sardegna
Nuoro 19.7.2025

La tradizione   I tappeti di Sarule rischiano di scomparire, l’arte tessile cerca nuove mani: anche 
Appello agli uomini per imparare l’uso del telaio. Poche le artigiane rimaste
                                                di  Luca Urgu
     

Sarule C’era un tempo - ormai lontano - in cui bastava percorrere le strade di Sarule per sentire il suono del pettine in legno sul telaio. Raccontano che in paese ce ne fosse praticamente uno in ogni casa. Di una tipologia particolare, quello verticale. Una rarità nell’area del Mediterraneo. Ebbene, quello era rumore sordo e ripetitivo che accompagnava il lavoro - quasi a dettarne il ritmo - delle tessitrici. Una sorta di colonna sonora, una musica scesa oggi notevolmente di decibel. Eppure l’arte del tappeto della burra sarulese resiste grazie alle artigiani che si contano sulle dita di una mano. Animate dalla grande passione per un’arte antica che ha i suoi colori, trame che rimandano alla tradizione. Un mondo affascinante dove negli ultimi anni i designer guardano con sempre maggiore interesse e allo stesso
tempo l’universo dell’arte. Ora a lavorarci per creare la burra, il famoso e pregiato tappeto di Sarule interamente realizzato con la lana di pecora, sono rimaste in poche.
Carmela Brandinu, 56 anni, è una di loro. La donna racconta la sua infatuazione per la tessitura, un amore mai sopito malgrado negli anni, le vicende e le fortune legate a quest’arte siano state alterne. «Si, io ho iniziato da piccola, ho imparato da ragazzina, Poi ho continuato un corso all'Isola, ho lavorato nella cooperativa che esisteva in paese e al centro pilota. Quando questa esperienza si è conclusa ho continuato in privato», racconta l’artigiana che ha anche indossato l’abito di insegnante nei corsi realizzati in paese dalle amministrazioni comunali. «La passione per fare il tappeto è sempre viva, perché è un'arte che una volta che si impara non si dimentica e ci si augura sempre di tramandare alle nuove generazioni». Le ultime amministrazioni comunali hanno realizzato dei corsi seguiti da una dozzina di persone.


Altri contributi stanno arrivando dal Gal Barbagia Mandrolisai. «Siamo pochissime a saper lavorare la burra. Io e la mia amica siamo tra le più giovani. Sarebbe un peccato disperdere questo patrimonio di conoscenze», dice Carmela che insieme al figlio Fabio, ha costituito una cooperativa “Il telaio”. E apre al mondo maschile che storicamente sia a Sarule che anche negli altri centri storici della tessitura, non ha mai partecipato come forza lavoro. Insomma una sorta di parità di genere da telaio che abbatta nuove barriere. «Certo che si. Può essere anche un lavoro fatto da un ragazzo, l'importante è che abbia la passione di lavorare al telaio, di stare sempre seduto, di imparare tutti i meccanismi del tessere. Ben vengano gli uomini sono bene accetti», rimarca Carmela Brandinu.
Per il sindaco di Sarule Maurizio Sirca l’apertura verso l’universo maschile dall’artigiana è intrigante. «Sicuramente scardina un po' la visione del lavoro di genere è un'apertura interessante da guardare di buon occhio. Segno di una società che cambia e dove i ruoli diventano sempre più intercambiabili e complementari anche nel mondo delle professioni», dice il primo cittadino. «L’obiettivo è comune e per raggiungere il risultato serve un fronte compatto e trasversale. Ben venga la collaborazione tra uomini e donne. La speranza da sarulese è che questo appello venga raccolto con curiosità ed entusiasmo. In effetti sono i requisiti che servono per preservare e far vivere sempre con maggiore forza un’attività secolare evitando che scompaia e che possa generare reddito. A questo punto possiamo dire grazie alle donne ma a questo punto speriamo in un futuro di poter di rivolgere lo stesso rimngraziamento agli uomini che hanno creduto e investito in questa nobile e straordinaria arte», ha concluso Maurizio Sirca.


per chi volesse aprofonire
https://sardinias.it/guida/tappeti-sardi

20.7.25

diario di bordo n 137 ANNO III Dichiarato morto dopo due infarti si risveglia mentre attendono il carro funebre ., Uomo contro AI: la vittoria dopo 10 ore di programmazione ., L’ex schiavo che chiese al precedente padrone gli “arretrati” di 52 anni di lavoro .,

Evidentemente non era giunto il suo momento l'unico comment che mi sento di fare leggendo su Redazione Tgcom24 tramite ms.it questa notizia

Dichiarato morto dopo due infarti si risveglia mentre attendono il carro funebre | Ecco cos'è la "sindrome di Lazzaro"


Il cuore si era fermato, i soccorritori avevano interrotto le manovre e l'eliambulanza era già stata fatta rientrare. Ma dopo 30 minuti di apparente morte, un uomo di 78 anni si è improvvisamente risvegliato nell'ambulanza, chiedendo delle figlie. È successo a Tarquinia, in provincia di Viterbo, e secondo i medici si tratta di un caso rarissimo: la cosiddetta "sindrome di Lazzaro". L'uomo, ora ricoverato in condizioni stabili, aveva subito due infarti e due arresti cardiaci. Un evento eccezionale che apre interrogativi sulla morte apparente e sulla necessità di maggiore cautela nei protocolli di rianimazione.Cosa è successo nell'ambulanza a Tarquinia Il drammatico episodio è avvenuto la sera del 18 luglio nella frazione Marina Velca, sul litorale viterbese. L'uomo, di origine libica, ha accusato un grave malore mentre si trovava nella sua abitazione. I sanitari del 118 sono intervenuti d'urgenza, tentando a lungo la rianimazione. Dopo due arresti cardiaci e oltre mezz'ora di tentativi, i medici hanno constatato il decesso e hanno interrotto le manovre. Il corpo è rimasto nell'ambulanza in attesa dell'arrivo del carro funebre, mentre l'eliambulanza Pegaso, inizialmente allertata, è stata rimandata indietro. Poi, l'inatteso: l'uomo ha riaperto gli occhi e si è sollevato, domandando delle sue figlie. I soccorritori hanno immediatamente ripreso i controlli e lo hanno trasferito in ospedale. Ora è ricoverato, cosciente, e le sue condizioni sono considerate stabili.Il ferimento del carabiniere durante i soccorsi Nel corso dell'intervento, si è verificato anche un incidente a margine. Un carabiniere giunto sul posto per agevolare le operazioni di soccorso è stato aggredito dal cane dell'anziano, un animale di grossa taglia che il personale veterinario stava tentando di catturare per metterlo in sicurezza. Il militare è stato ferito ed è stato trasportato anch'egli in ospedale. Le sue condizioni non destano preoccupazione, ma l'episodio ha contribuito ad aumentare la concitazione in una serata già fuori dal comune.Cos'è la sindrome di Lazzaro e perché è così rara La cosiddetta "sindrome di Lazzaro", o ritorno spontaneo della circolazione (ROSC), è un fenomeno medico estremamente raro in cui un paziente riprende le funzioni vitali dopo la cessazione delle manovre rianimatorie. Il nome deriva dall'episodio biblico in cui Lazzaro torna in vita dopo quattro giorni dalla morte. I primi casi documentati risalgono agli anni Ottanta, e da allora sono stati registrati solo una manciata di episodi simili nel mondo. Secondo gli esperti, non si tratta di miracoli, ma di dinamiche fisiologiche complesse, ancora oggetto di studio nella medicina d'urgenza.Le spiegazioni mediche: perché il cuore può ripartire Le ipotesi principali che spiegano il ritorno alla vita in casi come quello di Tarquinia si concentrano su fattori come la ventilazione meccanica e l'effetto ritardato dei farmaci. In alcuni pazienti, l'aria intrappolata nei polmoni durante la rianimazione può impedire al cuore di funzionare correttamente: quando la ventilazione si interrompe, la pressione si riduce e la circolazione può riprendere. Altri medici sottolineano come l'adrenalina somministrata durante le manovre possa impiegare minuti a raggiungere il cuore. Inoltre, squilibri metabolici o alterazioni dell'equilibrio elettrolitico possono talvolta auto-correggersi, riattivando spontaneamente il ritmo cardiaco.Quanti casi nel mondo: i numeri ufficiali Secondo uno studio internazionale del 2020 condotto da ricercatori come Les Gordon, Mathieu Pasquier e Hermann Brugger, i casi documentati di sindrome di Lazzaro sono circa 65 in tutto il mondo. Nella maggior parte di questi, il ritorno alla circolazione si verifica entro 10 minuti dalla sospensione delle manovre rianimatorie. Circa un terzo dei pazienti sopravvive con esiti neurologici favorevoli, mentre gli altri presentano danni cerebrali o decessi successivi. Il caso di Tarquinia, per la durata eccezionale dell'assenza di segni vitali (30 minuti), rappresenta un'eccezione alla media clinica finora osservata.


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  da    HDblog.it tramite   msn.it

Uomo contro AI: la vittoria dopo 10 ore di programmazione






Se è ormai evidente che l'intelligenza artificiale sta compiendo passi da gigante anche nel campo della programmazione, un evento recente ha riacceso il dibattito sul confronto tra uomo e macchina. Mentre strumenti come GitHub Copilot sono ormai utilizzati da oltre il 90% degli sviluppatori e i modelli di AI dimostrano capacità di codifica sempre più sofisticate, un programmatore polacco ha compiuto un'impresa che presto potrebbe diventare storia: battere un'avanzata intelligenza artificiale di OpenAI in una competizione diretta.
L'arena di questa sfida è stata Tokyo, durante le AtCoder World Tour Finals 2025, una delle competizioni di programmazione più esclusive al mondo, che invita solo i primi 12 talenti globali. In un match speciale intitolato "Humans vs AI", OpenAI, in qualità di sponsor, ha schierato un suo modello di AI personalizzato per affrontare i migliori programmatori umani. La gara, una maratona di 600 minuti, richiedeva di risolvere un unico e complesso problema di ottimizzazione, un tipo di sfida che non ha una soluzione perfetta, ma solo risposte progressivamente migliori. A prevalere, al termine di una prova di resistenza estenuante, è stato Przemysław Dębiak, conosciuto con il nickname "Psyho".



L'ex dipendente di OpenAI ha ottenuto la vittoria con un punteggio di 1.812.272.558.909, superando di circa il 9,5% il modello di intelligenza artificiale, che si è comunque piazzato al secondo posto con 1.654.675.725.406 punti, davanti ad altri dieci programmatori umani di altissimo livello. "L'umanità ha prevalso (per ora!)", ha scritto Dębiak su X (precedentemente Twitter), confessando di essere "completamente esausto" e "a malapena vivo" dopo aver gareggiato per tre giorni con pochissimo sonno. La sua vittoria gli è valsa un premio di 500.000 yen, equivalenti a circa 3.000 euro.
Questa sfida ricorda la leggenda americana di John Henry, l'operaio che nell'Ottocento sfidò e vinse contro un martello a vapore, morendo però per lo sforzo immane. Allo stesso modo, la vittoria di Dębiak rappresenta il trionfo dell'abilità e della resistenza umana spinte al limite. Egli stesso sembra consapevole della natura temporanea di questo successo, un'affermazione significativa in un'epoca in cui la tecnologia avanza a un ritmo senza precedenti.
Da parte sua, OpenAI ha definito il secondo posto come una pietra miliare per i modelli di AI nelle competizioni di programmazione. Un portavoce dell'azienda ha sottolineato come eventi di questo tipo siano fondamentali per testare la capacità dei loro modelli di ragionare strategicamente, pianificare a lungo termine e migliorare le soluzioni attraverso tentativi ed errori, proprio come farebbe un essere umano.


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da Storia Che Passione. tramite msn.it




L’ex schiavo che chiese al precedente padrone gli “arretrati” di 52 anni di lavoro








Da qualche anno ormai due ricercatori di Harward, Allen G. Breed e Hillel Italie, pubblicano saggi di carattere storico-sociologico in cui approfondiscono un campo di studi abbastanza inedito: quello dell’umorismo schiavile. Avvicinandomi alla tematica, sono incappato in quello che ritengo essere l’esempio perfetto capace di descrivere a pieno la tematica. Si tratta di una lettera, recante la firma di Jourdan Anderson e datata 1865. Nella missiva, Anderson, un ex schiavo del Tennessee, libero solo dal 1864, risponde ad una proposta di lavoro avanzata – incredibile a dirsi – dal precedente padrone. Se già di per sé il contesto è alquanto ironico, assume contorni possibilmente più sarcastici quando si analizza il contenuto della lettera. Lo faremo assieme quest’oggi, anche per dare credito ad una microscopica corrente di studi che ritengo sinceramente valida e degna di essere pubblicizzata.






Il riferimento cronologico avrà acceso nella vostra testa una spia, e non vi si può dire nulla: il 1865 è un anno tipicamente importante per la storia dell’Occidente, in particolare per quella degli Stati Uniti d’America. Terminata la guerra civile, con esito favorevole per gli stati del nord, si andò incontro allo smantellamento – progressivo e non istantaneo, come spesso erratamente si tende a credere – del sistema schiavistico americano. Sì, agli atti la ratifica del XIII Emendamento della Costituzione nel dicembre del 1865 abolì formalmente la schiavitù. Eppure questi sono processi che nella praticissima quotidianità tendono ad esprimersi secondo tempistiche più dilatate.
La dimostrazione letterale di questo fondamentale assunto si trova spesso inscritta nei testi storici aventi per oggetto l’abolizionismo e tutte le sue sfaccettature: libertà formale non significava libertà sostanziale. Nel periodo post-bellico, al quale la storiografia anglofona si riferisce col termine Recostruction (Ricostruzione), molti ex proprietari di schiavi cercarono di riassumere al proprio servizio la cara buon vecchia manodopera a costo zero. Spesso con forme contrattuali apparentemente legittime, ma in realtà coercitive o svantaggiose. Ed è in questa esatta casistica che si inserisce la vicenda di Jourdan Anderson, della proposta lavorativa del precedente padrone e della splendida lettera di risposta.
Ma chi era Jourdan Anderson? Quale fu la sua storia e quali le dinamiche che lo condussero nel 1865 a rispondere nella maniera più epica possibile al nostro rinnovato datore di lavoro? Jourdon Anderson era un afroamericano nato già in catene intorno al 1825, da quel che sappiamo nello Stato del Tennessee. Fu schiavo della famiglia del colonnello Patrick Henry Anderson, proprietario terriero e probabilmente anche proprietario di una piantagione nella contea di Big Spring, vicino Nashville.




ex schiavi capanna piantagione America

Nel 1864, mentre le truppe unioniste penetravano il ventre molle del Sud, un gruppo di soldati in giubba blu incontrò Jourdon e lo liberò. Così egli si trasferì a Dayton, Ohio, insieme alla moglie Amanda e ai loro figli. In Ohio fece lavori di fortuna: prima il cocchiere, poi servitore. Pur sempre in condizioni di dignitosa libertà, ricevendo un salario regolare.
Nell’agosto del 1865, il colonnello P.H. Anderson, probabilmente in difficoltà economiche dopo la fine del conflitto secessionista e la liberazione dei suoi schiavi, scrisse una lettera a Jourdon, chiedendogli di tornare a lavorare nella sua tenuta. La missiva originale non è sopravvissuta. Al contrario, la risposta che Jourdon scrisse è stata conservata, resa pubblica da un quotidiano di Cincinnati e per questo divenuta celebre.
Leggendo il contenuto, si possono notare diversi peculiarità; spunti di riflessione se volete. Anzitutto l’oramai libero Jourdon sembra contento di ricevere le attenzioni del colonnello. Penna alla mano, prosegue descrivendo la sua vita a Dayton, che scorre lenta ma serena, normalmente insomma, come quella di un comune cittadino americano. Poi dice grazie a chi ha potuto assaggiare il novizio sapore della libertà (un maresciallo generale di Nashville).




ex schiavo tombe di Jourdan e Amanda Anderson

Ma è con l’attacco “…mi sono sentito spesso a disagio nei vostri confronti” che Jourdan dà il via ad un capolavoro di ironia mordace. Dopo il sottile rimprovero, l’ex schiavo si finge disposto a tornare, ad una condizione però: il pagamento retroattivo dei salari non ricevuti nei 52 anni di lavoro non retribuiti. Praticamente chiede gli arretrati per lui (32 anni di lavoro) e la moglie (20 anni di lavoro).Segue l’estratto integrale del testo: “Mandy dice che avrebbe paura di tornare da voi senza qualche prova che siate disposti a trattarsi in modo giusto e gentile. Abbiamo concluso di testare la vostra sincerità chiedendovi di mandarci i salari per il tempo che vi abbiamo servito” – prosegue l’ex schiavo – “Confidiamo che il buon Creatore vi abbia aperto gli occhi sui torti che voi e i vostri padri avete fatto a me e ai miei padri, facendoci faticare per voi per generazioni senza ricompensa”.
Slave Humor, umorismo schiavile, in tutta la sua magnifica spontaneità. Per molti anni ci sono stati dubbi sull’autenticità della lettera. Qualcuno ha ipotizzato che fosse stata scritta da un giornalista bianco come pezzo satirico. Tuttavia, ricerche storiche – alcune delle quali recentissime – hanno confermato l’esistenza reale di Jourdon Anderson e di sua moglie Amanda.

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