25.3.23

DanteDì 2023 - Daniela Tuscano




No, non toglietemi Dante, 

Dante 'l tosco, Dante l'errante

Dante che fa tremar le vene e i polsi

Con quel suo parlar aspro, soave, mesto e pien d'amore,

Dante avier di libertà, che va cercando Tra rischi, scandali e pugna

Dante non divino ma umano

Dante che infrange 'l cristallo

E squaderna i cieli

E tutti immilla, e ciascuno vede

Dante dall'ardir severo, dai bianchi tomi

Ché l'iride è in noi, supremo e solo

Dante padre senza prole,

Dispersa nello strazio disonesto 

Dante 'l barattiere, Dante 'l sodomita

Dante l'uom tradito 

E sposo di lussuria;

Dante che ama Dio

Sol se lo guarda

Con occhi di donna.


              © Daniela Tuscano

24.3.23

Dal Canada all’italia “Cristina ha 2 padri e una mamma vera, non un utero a nolo” ma sempre per ricchi è

Prima  di    raccontare  la  storia  di Cristina    e    i  suoi  due  padri e  una  madre         chiariamo   la   distinzione  fra   fecondazione  eterologa  e    maternità  surrogata  .  
La fecondazione assistita e la maternità surrogata sono due tecniche utilizzate per affrontare problemi di infertilità e per aiutare le coppie che desiderano avere figli.
Tuttavia, queste due tecniche non sono la stessa cosa, e spesso vengono confuse o considerate sinonimi Mentre la fecondazione assistita è ampiamente accettata e regolamentata, la maternità surrogata è spesso oggetto di dibattito e controversia . La maternità surrogata può essere vista come una forma di sfruttamento delle donne, poiché le madri surrogate sono pagate per portare avanti la gravidanza e dare alla luce un bambino per un’altra persona o coppia ma in alcuni paesi vedere storia sotto ed regolamentata e viene evitato che venga trasformato in lucro ed sfruttamento
Ovviamente    sono   o  contrario   all'utero in affitto .  Ma   allo  stesso tempo   da liberal  ed  antiproibizionista    dico   che    essa    va  normata  e non proibita  onde  evitare     che  si sconfini  in  mercimonio    (  vedere  foto    sotto   )   







Che  dire  sulla  vicenda  ?  Che  essa     anche  se   non  c'è  stata   violenza  psicologica  ,  mercimonio,  sfruttamento     è   molto   molto istruttiva ed esemplare perché  dimostra    che  la  maternità  surrogata    non è  solo  mercificazione  ed  sfruttamento   e  violenza  psicologica  ma  non  è  per  tutti  \e  ma  per  cho  può  permetterselo  Infatti  l'articolo   per   essere completo, nell'articolo  e  nella  vicenda  mancano i costi: UNA STORIA D'AMORE di ricchi, sicuramente di molto ricchi...diritti assicurati per "chi può" permetterselo  !

 



da  il  Fatto   quotidiano  del  24\3\2023                                                                                                             Selvaggia Lucarelli


Dal Canada all’italia “Cristina ha 2 padri e una mamma vera, non un utero a nolo”


Nicola e Giorgio hanno 42 e 41 anni, vivono a Milano e sono padri di una bambina di 3 anni che si chiama Cristina, nata in una cittadina sperduta nella foresta boreale canadese, grazie alla maternità surrogata. A raccontarmi questa storia piena di amore e gratitudine è Nicola, mosso dall’urgenza di spiegare cosa significhi davvero ricorrere alla gestazione per altri, nella giungla di fake news e dichiarazioni in cattiva fede di chi parla in modo sprezzante di “utero in affitto”. E anche di chiarire cosa voglia dire per
le coppie omogenitoriali, non solo da un punto di vista burocratico, l’interruzione della registrazione nell’atto di nascita dei bambini nati da coppie dello stesso sesso.

Nicola, da quanto tempo tu e Giorgio state insieme?

Ci siamo conosciuti al Sottomarino Giallo 12 anni fa. Era un locale frequentato soprattutto da lesbiche, entrambi accompagnavamo due amiche, ma alla fine ci siamo innamorati noi due. Dopo sei mesi viviamo insieme.

Cosa fate nella vita?

Io lavoro in banca, Giorgio è un architetto di interni.

Siete sposati?

Dal 2019, ci siamo sposati un mese prima che nascesse la nostra bambina.

Quando nasce l’idea di avere un figlio?

Da subito, soprattutto io ho avuto fin dal primo momento il desiderio di creare una famiglia con Giorgio e lui con me, ma non sapevano nulla di maternità surrogata. Nel 2017, per capire come funzionasse, prendiamo contatto con una coppia di papà di Milano e andiamo a fare un aperitivo insieme.

E vi spiegano l’iter.

Sì, loro avevano fatto tutto in America, noi scegliamo il Canada.

Come mai?

Per le leggi che regolano la maternità surrogata: la donna non può prendere un compenso, ma ha diritto a un rimborso spese durante la gestazione. Deve avere una situazione economica stabile e aver avuto già almeno due figli. Non si può scegliere il sesso del nascituro.

L’ovulo è della gestante ?

Assolutamente no. Una donna dà l’ovulo e un’altra porta avanti la gravidanza per evitare che ci sia la connessione genetica tra la madre biologica e il figlio.

Quante volte siete andati in Canada?

Due. La prima per fare tutte le analisi e donare il seme.

Chi dei due è il padre biologico?

Io, ma per una questione di convenienza, sono un lavoratore dipendente e dunque avrei avuto diritto al congedo di paternità.

Come avviene la scelta della donna? È lei che sceglie. In che senso?

Si prepara una scheda di presentazione, si spiega da quanto tempo si sta insieme e perché si desidera un figlio. La donna guarda le schede e sceglie. Poi ci si vede via Skype o di persona e si decide se ci si piace a vicenda.

Dopo quanto siete stati scelti? Dopo due mesi. Un’attesa prima di un’altra attesa.

Quando è arrivata la telefonata eravamo felicissimi, via Skype abbiamo conosciuto Sheena.

Chi era Sheena?

Una nail artist di 32 anni, abitava a Fort Mcmurray, una cittadina nella provincia dello stato di Alberta, famosa perché dalle sabbie bituminose estraggono il petrolio. Suo marito lavora in un’azienda petrolifera.

Perché ha scelto di essere una madre surrogata?

Lei ha due figlie, ma all’inizio pensava di non poter avere figli per un problema alle tube, cosa che le ha provocato molta sofferenza. Quando poi un ginecologo le ha risolto il problema, si è detta che avrebbe aiutato una famiglia che passava attraverso quel dolore.

Perché vi ha scelti?

In realtà pensava a una coppia etero. Poi Sheena ha visto la nostra candidatura e ha amato la semplicità con cui ci siamo descritti. Il fatto di essere italiani ha aiutato!

Quindi smentiamo i luoghi comuni per cui le madri surrogate sono delle disperate.

Ma va, lei e il marito stanno meglio di noi.

Sheena rimane incinta nella primavera 2019. Nei mesi della gravidanza vi sentivate spesso?

Sempre, tutti i giorni, ci mandava le foto della pancia.

Come avete scoperto il sesso?

Sheena è andata in un negozio e ha fatto per noi via videochiamata, una specie di gender reveal party, con i palloncini rosa!

Quando siete andati a Fort Mcmurray?

Un mese prima rispetto al parto programmato, per essere sicuri di esserci anche in caso di parto anticipato. Era fine novembre, c’erano meno 30 gradi.

E cosa avete fatto per un mese nel gelo della foresta boreale canadese?

Abbiamo vissuto in casa con Sheena, suo marito e le due bambine di tre e sei anni.

In casa con loro?

Sì, ed è stato meraviglioso. Le bambine sapevano tutto ed erano felicissime quando ci hanno visti, la mamma aveva spiegato loro che la bimba che cresceva nella sua pancia non sarebbe stata loro sorella, ma nostra figlia, aveva appeso le nostre foto sul frigo. Il marito di Sheena è un omone dal cuore d’oro. Non ci eravamo mai visti e ci volevano bene come accade tra persone che si vogliono aiutare. Cristina stava per nascere, era quasi Natale, noi portavamo le bimbe a scuola con Sheena, un ricordo indimenticabile.

Arriva il giorno tanto atteso.

Il 20 dicembre Sheena mette al mondo Cristina.

Chi c’era in sala parto?

Suo marito e io, che ho pianto per tutto il tempo.

Quando è nata la vostra bimba come è stato il distacco dalla madre biologica? Sheena è rimasta distaccata, per lei era nostra figlia, aveva seguito un percorso psicologico come prevede l’iter, è stata assistita anche in ospedale. Il marito no, lui inizialmente la chiamava my girl, come le sue bimbe, per un attimo ci abbiamo scherzato su, e se vuole tenersela?

A chi somiglia?

A mia mamma, che si chiamava Cristina. È tutto magico in questa storia.

In Canada come funziona la registrazione?

Siamo stati registrati immediatamente entrambi come genitori, Cristina ha il doppio cognome.

Quanto siete rimasti lì?

Abbiamo trascorso il Natale con loro, poi il 27 dicembre siamo andati nella Capitale dello Stato per fare il passaporto per Cristina. A metà gennaio 2020 eravamo in Italia.

E iniziano i problemi burocratici.

Per la legge canadese eravamo due papà, ma a Milano non si trascrivevano i certificati con due papà, per cui lo stato di Alberta ha rettificato l’atto di nascita.

Come è stato l’impatto qui?

Noi non abbiamo mai vissuto episodi che ci facessero sentire a disagio. Cristina è serena con i suoi coetanei, i genitori dei suoi amici non ci hanno mai guardati in modo strano, è tutto naturale.

Frequentate altre famiglie arcobaleno?

Sì, gli psicologi canadesi ce lo avevano raccomandato. Cristina deve sapere che ci sono compagni che hanno due papà o due mamme e che ci sono compagni con papà e mamma. Deve ricordarsi di essere una bambina speciale ma ordinaria.

C’è chi pensa che la maternità surrogata sia un modo “tecnico”, innaturale per avere figli.

Una nostra amica ci diceva che non riusciva ad avere figli e che il fatto di dovere avere rapporti nei giorni segnati sul calendario aveva spogliato di poesia l’idea della gestazione. Ecco, l’idea di avere figli è romantica, ma poi la realtà spesso è un’altra.

Cristina oggi per la legge ha due papà?

A settembre, quando ancora a Milano era possibile, abbiamo inserito anche Giorgio come papà nell’atto di nascita, ma è un atto amministrativo e sapevamo che poteva e mai come ora potrebbe essere impugnato in qualunque momento dalla prefettura.

Come vi fa sentire l’idea?

Da una parte la trascrizione serve per tutelarci ed è un diritto di nostra figlia e di noi genitori. Dall’altra però sappiamo che qualunque cosa accada, noi siamo una famiglia e questa è una verità che nessuno potrà mai toglierci. Noi Cristina l’abbiamo desiderata più di tante coppie etero a cui talvolta i figli nascono per sbaglio.

Sheena è rimasta nella vostra vita?

Sempre. Verrà a trovarci presto in Italia. Cristina nella sua cameretta ha una foto di Sheena con la pancia e noi due, mentre aspettavamo che nostra figlia nascesse tra i ghiacci canadesi.

Presenza costante Nostra figlia nella cameretta ha una foto di Sheena con la pancia e noi due, mentre aspettavamo nascesse tra i ghiacci

23.3.23

Addio a Lucy Salani, unica donna trans sopravvissuta ai lager nazisti

 
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C’è un soffio di vita soltanto”: il doc sulla storia di Lucy, la transessuale sopravvissuta a Dachau
Una vita simbolo di Resistenza
 
  da  
iO Donna  23 MARZO 2023
STORIE E REPORTAGE

Addio a Lucy Salani, unica donna trans sopravvissuta ai lager

Lucy Salani è stata testimone diretta di uno dei momenti più bui e tragici della storia del '900: costretta a guardare l'orrore, ha saputo resistergli con forza e coraggio ineguagliabili
di SIMONA SIRIANNI





«Sono stato bambino, figlio e figlia, soldato, disertore e prigioniero, madre, prostituta e amante. Ma qualsiasi persona sia stata, posso dire con convinzione di essere stata sempre me stessa».
Aveva 99 anni ed era l’unica donna transessuale sopravvissuta ai lager: Lucy Salani si è spenta ieri, quasi centenaria, a Bologna dove viveva.

 frame    video  Lucy Salani, l’unica trans sopravvissuta ai lager

Nata come Luciano Salani a Fossano, nel 1924, era cresciuta a Bologna come uomo omosessuale. Antifascista, dopo aver disertato sia l’esercito fascista italiano che quello nazista, è stata deportata a Dachau nel 1944.
Per tutta la vita ha raccontato gli orrori dell’Olocausto ed è considerata dal Movimento Identità Trans l’unica persona transessuale italiana a essere sopravvissuta alle persecuzioni fasciste e naziste.





Lucy Salani in una foto di scena tratta dal documentario di Gianni Amelio “Felice chi è diverso” presentato al Festival di Berlino (Ansa)


«Lucy è stata una giovane poetessa e donna transgender riuscita a sopravvivere all’orrore del campo di concentramento nazista di Dachau. La sua vita è simbolo di Resistenza e di memoria storica. Il ricordo di Lucy vive nei nostri cuori e ci spinge a lottare con ancora più forza per affermare l’immenso valore dell’autenticità delle nostre vite» scrive nel suo commiato social l’Arcigay.
Una vita in salita
Una vita tutt’altro che facile quella di Salani che, avversata anche all’interno della famiglia, ha cominciato da subito a dover fare i conti con la grande storia a causa del suo orientamento sessuale.
Erano gli anni della Seconda Guerra mondiale e il suo destino fu quello di essere arruolata nell’esercito
La deportazione a Dachau come soldato disertore
Impossibile per lei sostenere quell’impegno, tanto da cominciare una lunga serie di diserzioni e fughe e vita nell’Italia occupata, prima di essere deportata come soldato disertore in varie località del nord Italia e poi a Dachau.
Alla fine della guerra, però, sopravvissuta al lager, Salani rientra in Italia a Bologna precisamente e dagli anni Ottanta ci rimane per tutta la vita.
Lo scorso settembre, a Milano, durante la prima festa dei Sentinelli in occasione della mostra, “Homocaust” che raccontava appunto le storie di persone passate dai campi di concentramento in quanto omosessuali, Salani aveva raccontato quanto fosse stato terribile durante il fascismo essere transessuale.
«Mi picchiavano e mi facevano fare delle cose schifose. Mi imbrattavano con il catrame e mi hanno rasato. Alla fine mi hanno sparato, ma sono sopravvissuta. La mia paura più grande allora? Di essere viva»
La sua drammatica vicenda è raccontata sia nella biografia di Gabriella Romano «Il mio nome è Lucy. L’Italia del XX secolo nei ricordi di una transessuale», pubblicata nel 2009 da Donzelli Editore. Sia nel documentario “Essere Lucy” realizzato da Gabriella Romano.
Lucy Salani: «Fiera di essere un intruglio»
E tra il 2020 e il 2021 Matteo Botrugno e Daniele Coluccini girano un altro documentario dal titolo “C’è un soffio di vita soltanto” che racconta le tappe dell’intera esistenza di Salani.
Una vita esempio di combattimento, attaccamento, rivendicazione di quanto fatto, con una grande certezza: essere fiera di essere «un intruglio».
«Se questo pianeta mi ha concepito così non l’ho chiesto, è la natura che si è ribellata, non so, era indecisa fra l’una e l’altro, e sono uscita io».

22.3.23

QUEI TRE CARABINIERI. .UCCISI IN VIA SCOBAR.

Fra le  tante  storie     delle  vittime delle mafie  ce n'è  una poco   nota     essa     riguarda      LA STRAGE DEL 1983 L’appuntato Bommarito, assieme ai colleghi D’aleo e Morici, intuì l’importanza nello scacchiere di Cosa Nostra di un paese come Monreale e mise in luce complicità di politica e mafia

 

  •  da 
  • Il Fatto Quotidiano
  • » NINO DI MATTEO
  •  QUEI TRE CARABINIERI. .UCCISI IN VIA SCOBAR.

    FOTO ANSA
    “Palermo come Beirut” Così titolavano i giornali sulla lunga scia di omicidi di mafia che agli inizi degli anni 80 scosse la città

    l 13 giugno 1983, in via Scobar, tra i palazzoni senz’anima del sacco edilizio di Palermo, venivano uccisi tre carabinieri, il capitano Mario D’aleo, l’appuntato Giuseppe Bommarito e il carabiniere scelto Pietro Morici.

    L’ennesimo efferato delitto in quella Palermo infuocata e disperata dei primi anni Ottanta quando, sotto il piombo della mafia e di chi ne armava la mano, cadevano uno dietro l’altro servitori dello Stato che avevano soltanto la colpa di voler fare il loro dovere. Un triplice omicidio per certi versi dimenticato. Soffocato, quasi schiacciato nell’immaginario collettivo dal clamore di altri delitti che lo precedettero e lo seguirono di poco. Il 3 settembre 1982 era stato ucciso il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Dopo poco più di quaranta giorni dall’agguato di via Scobar, il 29 luglio del 1983, in via Pipitone Federico nel centro residenziale di Palermo, si sarebbe scatenato l’inferno con il primo attentato nei confronti di un magistrato, il dottor Rocco Chinnici, realizzato con il sistema dell’autobomba piazzata sotto l’abitazione. Le prime pagine dei giornali nazionali titolavano: “Palermo come Beirut”. Forse anche per questo, forse perché ci si stava abituando a tutto, forse perché l’opinione pubblica nazionale, da sempre distratta, scopriva poco alla volta la pericolosità di “Cosa Nostra” solo quando uccideva personaggi “eccellenti”, la feroce esecuzione di D’aleo, Morici e Bommarito passò quasi inosservata. I soliti funerali di Stato, la solita finta indignazione delle autorità, la disperazione dei parenti delle vittime, la partecipazione del Capo dello Stato Sandro Pertini alle esequie. Poi, subito dopo, l’oblio.

    E invece questo libro scritto da Francesca Bommarito, sorella dell’appuntato Bommarito, contribuisce non solo a rendere onore alle vittime di quel vile agguato, ma anche a inquadrarlo finalmente in un preciso disegno strategico della mafia corleonese e dei suoi vertici di allora, primi tra tutti Salvatore Riina e Bernardo Brusca. Un altro grande merito dobbiamo riconoscere al paziente lavoro di ricostruzione della dottoressa Bommarito: quello di chiarire a un’opinione pubblica solo sommariamente informata sull’esito dei processi che si sono celebrati, che l’appuntato Bommarito non morì “per caso” solo perché in quel momento accompagnava il suo capitano, ma perché così vollero i mandanti dell’agguato. Quei mafiosi avevano un interesse specifico a uccidere il capitano all’epoca comandante della compagnia di Monreale, ma anche a eliminare l’appuntato Bommarito; un valoroso carabiniere che aveva dimostrato di sapere alimentare le indagini antimafia più delicate con le notizie confidenziali acquisite sul territorio e con la certosina attività di verifica.

    Il giorno dopo la strage di via Scobar Leonardo Sciascia, che di mafia se ne intendeva e che la mafia aveva descritto nei suoi romanzi nelle sfaccettature più diverse, in una intervista pubblicata sulle pagine del glorioso quotidiano L’ora affermò: “Di fronte a questo nuovo delitto ci si chiede se la mafia non vuole più carabinieri a Monreale e perciò ha in programma di uccidere tutti i comandanti che succederanno a Basile e a D’aleo oppure se questo capitano come il suo predecessore sono stati uccisi perché avevano capito qualcosa”. Una dichiarazione importante, un dubbio angoscioso che prendeva spunto dal fatto che solo tre anni prima, nel maggio del 1980, era stato ucciso a Monreale il capitano Emanuele Basile, il predecessore del capitano D’aleo. Anche quella, una esecuzione impressionante per la sua forza brutale. Basile venne ucciso durante la festa del paese mentre teneva in braccio la sua bambina. Da quel delitto scaturì una vicenda processuale infinita caratterizzata da numerosi tentativi, alcuni riusciti, di aggiustare il processo nei confronti degli imputati, Armando Bonanno, Giuseppe Madonia e Vincenzo Puccio. Corruzione di giudici, intimidazioni nei confronti di togati e giudici popolari, promesse politiche di interessamento in Cassazione,

    annullamenti inspiegabili di sentenze di condanna, spietata vendetta nei confronti del giudice Antonino Saetta che, in appello, ribaltando il verdetto di primo grado, aveva condannato gli esecutori materiali e che per questo pochi mesi dopo venne ucciso con il figlio Stefano lungo la strada che collega Agrigento a Caltanissetta.

    Tutto questo ruotava attorno al processo per l’omicidio del capitano Basile. Non si comprende la centralità della questione se non si ha chiara l’importanza mafiosa del territorio di Monreale, popoloso paese alle porte di Palermo, facente parte del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato, quello dei Brusca, quello degli allora più fedeli alleati di Salvatore Riina. Quei carabinieri, pur con le limitate risorse di una compagnia di provincia, avevano avuto le intuizioni giuste, la forza e il coraggio di portare avanti indagini delicatissime che partendo dal basso arrivavano fino ai vertici dell’organizzazione mafiosa. Per questo fu prima ucciso il capitano Basile e tre anni dopo il capitano D’aleo. Sia l’uno che l’altro si erano avvalsi della preziosa collaborazione di un umile appuntato dei carabinieri, Giuseppe Bommarito, che con la sua tenacia, il suo fiuto investigativo, la sua capacità di conoscere e controllare il territorio, aveva intuito l’importanza di Monreale nello scacchiere complessivo di “Cosa Nostra” e messo in luce le complicità di politici e pubblici amministratori con i mafiosi. Per questo fu ucciso Bommarito. (...)

    Gli elementi che l’autrice mette in fila, uno dopo l’altro, indicano che Bommarito non è morto “per caso” e sono emersi negli ultimi anni grazie alla perseveranza della sorella che nelle pieghe dei processi già celebrati ha saputo trovare e valorizzare l’importanza di quel lavoro investigativo.

    Questo è un libro fondamentale perché restituisce la dovuta centralità a un delitto in parte dimenticato e aiuta a comprendere che, nella lunga teoria dei morti di mafia, non ci possono essere vittime di serie A e vittime di serie B. Tutti coloro che hanno sacrificato la loro vita per svolgere con passione, impegno e correttezza la loro “missione” meritano lo stesso rispetto. Devono essere ricordati non come esercizio di mera retorica ma con la conoscenza e la divulgazione del loro lavoro, l’analisi e l’individuazione dei moventi della loro uccisione. È per questo che il libro rappresenta una tappa importante per ricordare quanti (anche vittime del tutto sconosciute all’opinione pubblica) hanno, da veri servitori del Paese, onorato fino all’ultimo la divisa che indossavano. In Sicilia, in una terra difficile ma per fortuna anche capace di slanci, di genuine reazioni, di ribellione al sistema mafioso. Circostanze che meritano, come si fa in queste pagine, di essere ricordate e valorizzate. E ciò è ancora più bello ed emozionante quando è frutto dell’amore di una sorella, del suo senso di ribellione alle ingiustizie, della sua perseveranza nel dimostrarsi appassionata di giustizia e verità.

    LA STRAGE DEL 1983 L’appuntato Bommarito, assieme ai colleghi D’aleo e Morici, intuì l’importanza nello scacchiere di Cosa Nostra di un paese come Monreale e mise in luce complicità di politica e mafia

    nella lega c'è chi dice no iil caso Mario Conte, sindaco leghista di Treviso, ha annunciato che trascriverà all’anagrafe i figli di coppie omogenitoriali

     C’è chi dice No.

    Mario Conte, sindaco leghista di Treviso, in aperto dissenso dal leader Matteo Salvini, ha annunciato che trascriverà all’anagrafe i figli di coppie omogenitoriali, sulla scia di Beppe Sala e altri sindaci “ribelli”.Lo farà anche contro la posizione del governo Meloni e cercando un modo per superare la circolare emanata dai prefetti che blocca le trascrizioni. “Bisogna dare risposte a queste famiglie che chiedono semplicemente di vedere registrati i propri figli” ha detto. “Non ci sono figli di serie A e figli di serie B, perché qui si parla di figli, di persone, del registro dell’anagrafe, di esigenze sacrosante. Se c’è un vuoto normativo, come è evidente in questo momento, va assolutamente colmato”. Mentre Salvini straparla di utero in affitto senza neanche sapere cosa significhi, c’è qualcuno, anche in un partito bigotto come la Lega, dotato di apertura, visione e rispetto delle persone e dei loro diritti. Non condivideremo molto, ma il sindaco Mario Conte per queste parole, per questo coraggio, merita solo un applauso.

    Cosa distingue un discorso di odio da un’espressione di dissenso ?

    Il primo ha per bersaglio l’esistenza di una persona o di una categoria. Il dissenso si rivolge a parole e azioni messe in essere da chicchessia contro i diritti di qualcun altro.  (  vedere  il mio  post   sulla  vicenda    di  Lucia  Annunziata   ) 

     Di solito questa rubrica parla di persone, perché raccontare le storie singole 

    o collettive  è spesso il modo più efficace per restituire la complessità in cui viviamo e mostrare che le sue potenzialità sono alla portata di chiunque. Stavolta non sarà così, perché non conosco nessuno che vorrebbe essere raccontato nella cornice dell’odio o    se    ci  e  caduto (  come  spesso capita  anche  al  sottoscritto  )   tende  a  giustificarsi   ed  a  sminuirlo   . Avete letto bene: ho detto proprio odio. C’è un’espressione ricorrente sui giornali e nel dibattito pubblico di questi anni: è hate speech, cioè discorso d’odio, un modo di dire che sembra applicarsi a qualunque situazione in cui una persona si esprime in modo forte contro qualcosa o qualcuno. La legittimità del discorso d’odio sfiora un principio del nostro sistema giuridico che abbiamo considerato sempre inalienabile: in Italia non esiste il reato d’opinione, neanche se l’opinione è di odio. Mi si dice più volte   via  email  o nei  commenti  su  facebook   che l’apologia di fascismo è un reato di opinione e in teoria è vero, ma il principio della libertà di opinione è talmente più forte che nei tribunali le sentenze di condanna in merito sono praticamente inesistenti, anche in casi come le braccia tese agli anniversari dei caduti di Salò o la vendita di gadget inneggianti al Duce, per citare solo due degli episodi di assoluzione più eclatanti degli ultimi anni.Se dal lato giudiziario far certificare un discorso di odio come reato è difficilissimo, nel dibattito pubblico ed  mediatico  succede l’opposto: qualunque espressione di dissenso viene definita molto facilmente discorso di odio e chi pratica dissenso per mestiere – primi tra tutti gli intellettuali e i giornalisti d’opinione – viene fatto rientrare con grande facilità nella categoria degli odiatori di professione. Ma che come  fare   a  distinguere un discorso di odio da un’espressione di dissenso? In realtà   se  ci si  pensa  bene  non è affatto difficile: il discorso di odio ha per bersaglio l’esistenza stessa di una persona o di una categoria di persone. Odiare gli ebrei in quanto ebrei è un’opinione di odio, così come lo è odiare le persone omosessuali, quelle di altre etnie, le donne in quanto tali, i praticanti di questa o quella religione e, in generale, chiunque rientri nella categoria del diverso da me. Intendiamoci: non è reato odiare una di queste categorie. Ciascuno è libero di odiare chi gli pare. L’odio è un sentimento umano normale esattamente come tutti gli altri. Diffiderei di chi mi dice «io non ho mai odiato niente o  nessuno  », perché :  l'odio  come   l'amore  fanno  parte  dei nostri  sentimenti . Infatti   caratteristica fondamentale dei discorsi d’odio è infatti che essi sono pericolosi. Oltre a ferire le persone contro cui sono diretti, fungono da valvola di sfogo per pulsioni antisociali che possono dilagare. Anche se tutelare la libertà di esprimere dissenso, disagio e malcontento rimane cruciale.
    I discorsi d’odio limitano la libertà di espressione delle vittime. Infatti  l’hate speech va inteso come più di una semplice contrapposizione tra due diritti – il diritto di libera espressione da un lato e quello alla dignità dall’altro. Esso può essere più efficacemente compreso come uno stesso diritto, esercitato da due soggetti, la cui espressione in uno può limitare l’altro. Difatti l’odio calpesta la libertà di espressione della vittima, sino anche a impedirle di denunciare il reato subito, per vergogna, timore, paura di non incontrare supporto – come dimostrato anche dal fenomeno dell’under-reporting, ovvero il fatto che i reati denunciati sono di entità nettamente inferiore rispetto a quelli compiuti.
    L’odio online e le sue peculiarità
    Il documento si sofferma anche sulle modalità di diffusione dell’odio, e in particolare su quelle digitali – anche se è importante sottolineare che l’hate speech è caratteristico anche dei media tradizionali.I discorsi d’odio online hanno caratteristiche peculiari. E  poi  online, l’odio rimane attivo più a lungo, si presenta in diversi formati ed è facilitato dalla generale percezione di anonimato e impunità. Inoltre è transnazionale, il che rende più complesso individuare i meccanismi legali idonei per combatterlo. Gli algoritmi poi distorcono ulteriormente le notizie, creando dei veri e propri filtri cognitivi. Oltre al fatto che la comunicazione digitale è più veloce, e che genera effetti a catena.
    A questo si aggiunge il fatto che le piattaforme esercitano ormai un enorme potere che non è solo sociale, ma anche economico, politico e tecnologico. Sono capaci di orientare il dibattito pubblico, come fossero un organo politico. Ecco    che   sta       noi  decidere  se    alimentarlo    o  stroncarlo  sul  nascere   insomma  contrastarlo

    • Informarci  sui fatti e sui dati riguardanti il tema in questione
    • Diffondere informazioni corrette e verificabili
    • Evitare di condividere notizie false o non verificate
    • Utilizzare un linguaggio rispettoso e non offensivo
    • Evitare di generalizzare o stereotipare le persone appartenenti a una determinata categoria
    • Promuovere la diversità e l’inclusione

    oppure   come     ho più volte  suggerito in particolare   nel  post   : <<  l'odio conserviamolo per le cose importanti non per le sciochezze e trasformarlo \ incanalo in qualcosa di positivo o non coltivarlo .  [ se  non le  leggete   le  foto   le  trovate qui   e qui   ]>>   Infatti  il mondo è pieno di situazioni odiose e non avere (o più esattamente non riconoscere) le emozioni corrette per reagire a qualcosa di odioso è indice di aridità emotiva o, peggio, di irresponsabilità verso i propri sentimenti. IL  problema sociale dell’odio comincia dopo, quando chi odia  non  riesce  a controllarlo   e  cerca di progettualizzare la sua emozione e diffonderla, al fine di creare delle strutture per trasformarla in azioni lesive verso le categorie odiate. È il passaggio fondamentale per cui quella che senza organizzazione resterebbe una semplice pulsione emotiva  un  atto  individuale      che   diventa un vero e proprio atto politico  e  di massa   . Un esempio  semplice   uomo che odia le donne – diremmo un misogino patologico – è un pericolo potenziale ma se quest’uomo aprisse un forum ,  pagina  social  dove invita a unirsi a lui tutti gli uomini che provano gli stessi sentimenti e insieme stabiliscono azioni lesive contro la categoria odiata, sia  l’evoluzione dell’odio da opinione a reato sarebbe palese. Se qualcuno fondasse un partito che ha come elemento fondante l’odio verso gli omosessuali e come obiettivo politico la creazione di leggi contro la libertà delle persone Lgbt, non sarebbe difficile per nessuno riconoscere il discorso d’odio nei suoi proclami. Poiché però nessuno è (    almeno  che  non  voglio  sconfinare  nell'illegalità   )  fesso, chi progetta il proprio odio non si esprime mai esplicitamente in termini di odio, ma si propone come difensore di un bene differente, presentato come alternativo. Chi odia gli omosessuali dirà che costituisce un partito per proteggere la famiglia tradizionale, per la quale i diritti degli omosessuali sarebbero un pericolo. Chi prova odio xenofobo dirà che sta strutturando un apparato per difendere i diritti degli italiani, messi in discussione dall’esistenza stessa degli stranieri sul territorio nazionale. Chi vuole fare azioni misogine strutturali non scriverà mai in un programma che odia la libertà di scelta delle donne, ma che intende promuovere e sostenere una certa idea di donna, la sola giusta, guarda caso la sua.
    Il paradosso è che criticare  e  denunciare queste vere e proprie forme di organizzazione dell’odio viene presentato a sua volta come atto di odio e come tale addirittura portato in tribunale come diffamazione  con  il rischio   d''essere  condannato   , per cui chi osserva il dibattito pubblico da spettatore comune ha l’impressione che tutti odino tutti. Non è così. La critica politica e l’odio non sono la stessa cosa. Che si tratti di un intellettuale (  radical  chic   o meno    )  che si indigna davanti a un bambino morto in mare per la volontà politica di far mancare i soccorsi ai migranti o di tre studenti che tirano vernice lavabile alla facciata del Senato per chiedere attenzione al cambiamento climatico, questo è dissenso , non odio. Occorre riacquisire la capacità di riconoscere quel che è odio verso le persone da quello che è dissenso verso le scelte, specialmente quelle di chi governa. L’odio è un terreno di coltura da tenere sotto controllo    certo  , mentre il dissenso è un bene democratico, perché si rivolge a parole e azioni messe in essere da chicchessia contro i diritti di qualcun altro, soprattutto se chi li compie ha il potere di far diventare questi atti legge dello Stato.

    21.3.23

    Questa campagna d'odio ti rende simpatico anche chi ti sta..... Antipatico il caso Lucia Annunziata

    In queste ore Lucia Annunziata sta subendo una gogna pubblica da parte di più o meno tutta la destra in Vigilanza Rai (e non solo purtroppo), tra esposti all’Agcom e addirittura Salvini che chiede - tenetevi forte - l’abolizione del canone Rai.

    La sua “colpa”? Le è scappata una parolaccia, “ca***” ( 😂), del resto ,l a capisco. Quando ci vuole, ci vuole !!! Lei si è pure scusata subito e la ministra rideva pure.   Mi  chiedo    Perché a tutti i comici od ai politici di Destra è permesso il turpiloquio? che sarebbe scappata per altro a chiunque di fronte a una ministra per le Pari opportunità che nega l’aborto e parla a vanvera di “mercato dei bambini” ignorando e mettendoli tutti alla pari la distinzione tra fecondazione eterologa e gravidanza per altri o utero in affitto .  qui    sotto   un  breve guida    tratta da   il FQ  d'oggi



    Il tutto nelle stesse ore in cui, su Rai 1, il sottosegretario del governo Meloni Vittorio Sgarb

      da  

     [...] In venti secondi quest’individuo - che, incidentalmente, è pure Sottosegretario alla Cultura del governo Meloni - è riuscito nell’impresa di insultare in modo becero milioni di ragazze, tra cui anche sua figlia. A sua insaputa.
    Senza rendersi conto di essere riuscito a ridicolizzare, ancora una volta, solo e semplicemente sé stesso. Ma voi continuate a invitarlo sul Servizio Pubblico, mi raccomando

     dava tranquillamente delle “tr***” a tutte le ragazze nate nel 2000, senza che nessuno alzasse un sopracciglio o quasi .Una  destra , in questo caso , che si aggrappa a una cosa del genere per mettere il bavaglio a una giornalista ( servile o meno che sia ) è molto, molto, ma molto più scandalosa di una parolaccia , per la quale chi ha visto la diretta la trasmissione su rai replay , si è scusata subito dopo , è decisamente più pericolosa. Solidarietà quindi a Lucia Annunziata.

    Down problema prescinde dalla persona, perché è la persona stessa il problema di daniela Tuscano

     Anni fa alcuni strilli d’importanti quotidiani e agenzie annunciarono una conquista a tutta prima sensazionale, la scomparsa della sindrome da #trisomia21 in #Islanda, piccolo e avanzato paese dell’Europa settentrionale. “Nel paese nordico la scienza ha vinto sulla malattia”, titolava


    trionfalmente l’#Agicom; “In Islanda non nascono quasi più bambini con la sindrome di Down”, faceva eco #HuffingtonPost seguito da #Repubblica: “Sindrome di Down, in Islanda scelgono di evitarla”, frase invero sibillina, poiché nessuno “sceglie” una condizione così difficile­. Soltanto leggendo gli articoli per intero si scoperse che i medici islandesi avevano in realtà perfezionato le diagnosi di screening prenatale, consigliando vivamente alle madri di sottoporvisi al fine di diagnosticare la salute del nascituro/a con ampio margine di sicurezza. In caso di esito infausto, vale a dire se il bimbo/a presentava i sintomi della malattia, la sua sorte era quasi sempre di venir #abortito. La “scienza” pertanto non aveva affatto “sconfitto la malattia” ma i bambini, considerati non più esseri umani, ma problemi; e chi mai sceglierebbe i problemi? Se possibile li si evita; ed ecco che il titolo di “Repubblica”, inizialmente così assurdo, riacquistava tutta la sua logica. lI problema prescinde dalla persona, perché è la persona stessa il problema. E nell’evoluto mondo attuale la “scienza” non è più al servizio di quest'ultima, bensì la elimina se non risponde a precisi e irrinunciabili canoni di bellezza, efficienza, profitto. La “religione” dell’evoluto uomo è molto esigente e non prevede eccezioni, pentimenti o sviluppi. Non dà neppure il tempo di pensarci. Sul problema non bisogna farsi problemi, i tentennamenti sono inammissibili e stupidi. Quanti sono i genitori che, avendo “scelto” di fare nascere quel bambino/a, subiscono accuse e aggressioni, talora pure fisiche? L’evoluto mondo dei diritti un tanto al chilo preferisce smantellare le strutture assistenziali: onerose, fonti di problemi. Troppi rischi. Per alleggerire la coscienza bastano una giornata ad hoc e un poster variopinto.

    SE QUALCUNO VI SALE IN AUTO, TAMPONATE QUELLO DAVANTI Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco punta X°

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