10.7.13

La vera enciclica di papa Francesco


Strana fisicita', quella di Bergoglio. Assai diversa da quella poderosa di Wojtyla e da quella rarefatta, marmorea di Ratzinger. Forse sarebbe più corretto parlare di presenza. Bergoglio, insomma, c'è. Non per tutti: per ognuno. Come ha osservato acutamente Enzo Bianchi, Giovanni Paolo II parlava alle folle, Francesco ai singoli. È il parente che ti ritrovi a casa. Non sorprende abbia chiesto di far rimuovere la statua in suo onore inaugurata in Argentina due settimane fa. Non è lui, non vuole essere lui l'oggetto d'un culto. Il Pontefice è un pontiere verso una meta altra.

Rinunciando a essere monumento, Bergoglio accentua quella sua fisicita'. La umanizza maggiormente. Diviene, vuol essere, soggetto.
Due giorni fa, a Lampedusa, la sua fisicita' mi è apparsa così duale. Sembrava più giovane, e nel contempo già in declino. Più che un Papa, ricordava un prete. Lo sguardo affilato e mesto. Quasi buttato là, quel fisico, con una certa malandata trascuratezza, come nella foto in metropolitana divenuta celebre dopo l'elezione al soglio. Ritorna l'immagine del parente casalingo. Fors'anche, appena uscito da una casa di degenza. 
Bergoglio papa, a Lampedusa, l'ho percepito così. L'ho vissuto in quella sua folgorante, dolcissima, semplice e perciò dura, difficile omelia. L'ho avvertito nei sorrisi dispensati ai migranti, per una volta non più clandestini. Sorrisi partecipi ma sempre discreti, quasi timidi, perché di fronte a chi ha tanto sofferto anche l'amore deve declinarsi con sapienza e non limitarsi a un banale moto dell'animo.
Ma l'occasione non era lieta, non voleva esserlo e non lo è stata. Il Papa "parente" si è dimostrato tale soprattutto nel lancio della corona di fiori nel Mediterraneo. Non per la platealita' del gesto. Ma perché, ancora una volta, egli ha saputo spostare, decentrare l'attenzione. Si è messo al centro restando in periferia. Il protagonista non era lui, ma l'acqua e, sotto quell'acqua, altri fisici, altri corpi mai più emersi. Destinati a non aver volto né nome. Bergoglio non ha voluto lasciare nemmeno quei corpi totalmente soli.  
Ed era triste, impotente. Per se', come rappresentante di un mondo che ha permesso quella sconfitta, quell'anonimato di corpi disperati.
Ha letto la scritta a spray colorato sul lenzuolo svettante sul fusto di una raffineria: "Benvenuto tra gli ultimi". Semmai, un bentornato. Perché il posto "naturale" di un Papa dovrebbe essere quello. L'istituzione si siede al tavolo dei potenti, si pasce di diplomazia, politica e affari. Il corpo del Papa, cioè a dire del padre, del parente casalingo, sta in penombra tra le mura domestiche, pronto ad accorrere al più flebile richiamo.
Gli ultimi. Oltre, non si va. Oltre Lampedusa, non è più Europa. O non è forse "soprattutto" Europa?
Lampedusa è chiarore potente. Non esiste aurora, a Lampedusa: solo un abbacinato indaco, perenne come il deserto. Lampedusa è radice. Sì, questa è l'Europa, qui la principessa fenicia del mito torna a svelarsi. Il cuore ascoso del continente più artificiale del mondo non si trova negli uffici della BCE, cattedrali anch'esse, ma d'un dio minore, freddo e impersonale. Pulsa qui, in quest'angolo che invece è un'agora', una piazza immensa, dove la maggior parte degli uomini esige il suo diritto a esistere con dignità. Gli ultimi saranno i primi? Quando si realizzerà questo futuro?
Perciò la porta di Lampedusa ricorda tanto quella degli schiavi imbarcati sulle negriere verso lo sfruttamento e la morte. Perciò Bergoglio ha usato proprio questo termine, schiavitù, e ha chiesto scusa e ha denunciato, perché non basta commiserare, non basta piangere. L'umanitarismo non è più sufficiente, occorre umanità. La preghiera si fa quindi anche politica, vale a dire arte della polis, torna a essere quell'agora' nella quale si discute, ci si confronta e si chiedono cambiamenti. Anche radicali. Quell'espressione papale subito rimbalzata di luogo in luogo, "globalizzazione dell'indifferenza", non poteva essere più indovinata e terribile. Implica necessariamente un mutamento di prospettive, un'azione. Nella visione del Papa, abbandonare Dio significa confondere il bene col male, ritenere normale l'intollerabile. Ed è quanto finora abbiamo fatto, in perfetta coscienza, verso i "migranti" ma, in fondo, verso ognuno di noi. Bergoglio non è un irenista né un demagogo. Non lo è, osserva qualcuno, anche per la sua vicenda personale, a sua volta figlio d'immigrati ecc. Probabile. Ma per giungere alle sue conclusioni basterebbe prendere sul serio il Vangelo. Anteporre il calcolo alla totalità dell'uomo non è realismo, ma solo grettezza e ottusità. Quando Dio abbraccia l'uomo ne conosce i limiti, i tradimenti e le mancanze. E, nonostante questo, lo accoglie. Si fida di lui perché sa che è, può essere, anche altro, perché in fondo ha solo quest'uomo imperfetto da amare.
I "migranti" non sono né tutti buoni, né tutti santi. Non lo è nessuno di noi, però. Non siamo numeri da statistica. Diveniamo migranti perché noi stessi abbiamo creato un sistema economico, sociale, storico che ci reifica. È giunto il momento, ed è questo, di gridare una simile verità.
E la verità colpisce inesorabile. Non meraviglia la stizza di esponenti della destra italiana, convinti papisti fino all'altro ieri e pronti a stipulare patti d'acciaio col Vaticano in nome dei "valori non negoziabili" (aborto, famiglia tradizionale, bioetica, crocifissi da brandire negli uffici pubblici...). Oggi improvvisamente si riscoprono paladini della laicità, arrivando a rimproverare il Papa di ingerenza. Un conto sono le prediche, un conto la politica, si lascia sfuggire, nel suo italiano da Bar Sport, un rabbioso Cicchitto, senza conoscere il significato né dell'uno né dell'altro vocabolo (per sorvolare sul concetto di laicità, evidentemente troppo complesso per i governanti nostrani). Quanto alla Lega, l'esponente di punta del razzismo e della xenofobia più marcati, la stizza si è già tramutata in odio nello sgangherato lessico di Boso, ormai apertamente fascista: "Me ne frego delle parole del Papa, io quando un barcone affonda sono contento". Costoro erano i chiassosi fautori dell'"Europa bianca e cristiana". Dai loro frutti si sono riconosciuti, non occorreva aspettarne la prova. Non sono i soli, però.
Il Vangelo di Bergoglio - il Vangelo - suscita repulsione nei benpensanti d'ogni specie. Di qualsiasi credo politico. Tra gli amanti delle soluzioni semplici e facili. I manichei. Quelli pronti ad additare il nemico, che naturalmente è sempre l'altro, fuori e lontano da noi, ben visibile, diverso anche somaticamente, perché i luoghi comuni sono pure razzisti. Così, non pochi cosiddetti laici-razionalisti-progressisti si trovano oggi affiancati alle destre nel sentimento di stizza e odio verso il Papa. Qualcosa non ha funzionato. E sotto sotto rimpiangono i "bei tempi" in cui si poteva attribuire al Vaticano qualsiasi nefandezza, tuonare inorriditi e compiaciuti contro la pedofilia di certi preti nascondendo così dietro l'alibi delle sacre sottane la propria totale mancanza di senso morale, la connivenza o almeno l'accettazione di una società fondata su consumismo ed edonismo e, dunque, intrinsecamente monadica, strutturata su rapporti di forza e squilibrio dove i soggetti indifesi (bambini, donne, immigrati...) diventano cose da godere, o sfruttare, a proprio esclusivo piacimento. L'eliminazione del sacro non ha reso l'uomo più libero ma piuttosto meno umano, in balia di pulsioni solitarie e totalizzanti cui obbedire come a un imperioso padrone. Ecco, a costoro una Chiesa che li mette di fronte alle proprie responsabilità non può che disturbare. E reagiscono. "Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi tu vinci" diceva Gandhi. Siamo tra la seconda e la terza fase. Circolano ancora i filosofi disincantati, i sapientoni, gli scettici professionisti, che con una smorfia sprezzante, pur se sempre meno tranquilla, cercano di liquidare i gesti di Bergoglio come marketing, strategia, piacioneria. Ma, accortisi di perdere terreno e consensi, alcuni di loro hanno già cominciato ad alzare la voce, se non a sbraitare, e allora i toni, persino le argomentazioni, collimano pericolosamente con quelli di Cicchitto e Borghezio: "Paga l'Imu! Prenditeli tu in Vaticano! C'è lavoro solo per noi! E poi, insomma, se dobbiamo dirla tutta questi 'estracomunitari' a me sono sempre stati !...". L'ipocrisia disvelata provoca un cortocircuito delle coscienze. Squarcia il velo delle false certezze. Don Milani direbbe: "Li fa stare col culo stretto".
Per questo la vera enciclica, il vero documento programmatico del pontificato di Bergoglio non è l'algida "Lumen fidei" redatta quasi totalmente da Ratzinger. Lo è, se s'intende il motivo profondo delle scelte di Francesco, né progressiste né conservatrici, non di destra né di sinistra, ma interamente immerse nel Vangelo. Perché - è sempre Bergoglio a ricordarcelo - "la Chiesa non è un'Ong". E, d'altro lato, è lo stesso Vangelo a imporre delle scelte, a prendere "una parte" - don Tonino Bello chiamava Maria "donna di parte": la parte degli emarginati, dei tribolati e dimenticati, cfr. Magnificat -: e non tutte le parti sono neutre e indifferenti - non "globalizzate". Preghiera chiede azione: forse per questo Gesù non ha lasciato scritto niente. Si è trasmesso a noi tramite testi altrui, ma per incontrarlo veramente dobbiamo arrivare alla sua persona. Ognuno di noi. Come ha tentato di fare, per un lunghissimo e storico giorno, il papa Francesco, ma soprattutto l'uomo Bergoglio, in quell'ultimo straccio di mare, di fronte a bare liquide e mute.

fino a quando il Pd cederà ai ricatti della Pdl e si faranno invece gli interessi dell'Italia e non di una persona ?

 forse  quando  saremo come  la  grecia o come l'argentina    di tre  anni fa  . Non si lamentino  facendo gli  gnorri  se  alle prossime elezioni  Grillo prenderà più voti


Parlamento Bloccato: Rissa in Aula videoDopo la decisione della Cassazione sul processo di Berlusconi sono iniziati i problemi

Il Pdl ha deciso di bloccare i lavori a Camera e Senato, all'inizio il PD era contrario, ma poi..
Poi si é votato e il PD ha votato a favore.
Di fatto il parlamento è stato bloccato a causa dei guai del Presidente del Pdl, in quandto il PDL aveva ricattato il Governo così: " O si ferma il parlamento per un giorno o cade il Governo".


le immagini del video sotto 




 parlano da sole non vale la pena di sprecare parole e dire le solite ovvietà su un pd allo sbando i dissidenti senza ..... che s'illudono di poter cambiare rotta dall'interno


9.7.13

Genoveffa, storia a lieto fine di una tartaruga marina sfortunata. da prigioniera all'acquario d'alghero a libera in mare

  Unione sarda  
Martedì 09 luglio 2013 17:53

Prioginiera" per 35 anni in una piccola vasca dell'acquario di Alghero. Adesso per Genoveffa, così era stata ribattezzata la tartaruga marina, inizia una nuova vita con la speranza che presto possa tornare tra le onde del mare.
Genoveffa, storia a lieto fine di una tartaruga marina sfortunata





Ha un lieto fine la travagliata storia di un esempplare di Caretta caretta che nei giorni scorsi è stata sequestrata dal Corpo forestale dello Stato all'acquario di Alghero.
Dopo le visite e i controlli alla clinica veterinaria Duemari di Oristano, adesso Genoveffa si trova al Cres di Torregrande (il Centro di recupero delle tartarughe del Sinis), dove sarà rimessa in sesto con l'obiettivo di liberarla in mare, non appena le sue condizioni lo consentiranno.
LA STORIA - L'esemplare femmina di Caretta caretta era stata catturata nelle acque del Mediterraneo nel 1977, prima che entrasse in vigore in Italia la Convenzione di Washington (Cites) per la tutela di specie animali e vegetali in via di estinzione.
Da allora Genoveffa è stata relegata in una vasca per l'esposizione al pubblico. Un ambiente che, secondo gli uomini della Forestale, "è privo dei requisiti minimi necessari per garantire le idonee condizioni bio-etologiche e di conservazione della specie oltre che quelle basilari di benessere come la temperatura controllata e il ricambio adeguato dell'acqua".
LA BATTAGLIA - Già due anni fa, la Caretta caretta era stata sequestrata dal Corpo Forestale della Regione. Un quadro clinico preoccupante, uno stato nutrizionale inadeguato avevano reso necessario il trasferimento urgente dell'animale nel Centro di recupero specializzato di Torregrande.
Otto mesi più tardi, però, il Tribunale di Sassari aveva disposto il dissequestro e l'esemplare era stato restituito al proprietario dell'acquario. C'era stata quasi una sollevazione popolare, manifestazioni, mobilitazione sui social network e a livello internazionale. Una battaglia combattuta su più fronti fino ai recenti sviluppi.
IL BLITZ - Un controllo eseguito in collaborazione tra il Servizio Cites Centrale di Roma del Corpo forestale dello Stato, il Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, l'Unità Operativa per la tutela degli animali del Ministero della Salute, con la collaborazione di un team di veterinari specializzati.
E nei giorni scorsi il Corpo forestale dello Stato ha strappato Genoveffa a quell'ambiente infelice da cui viveva da quando aveva pochi anni di età. Dal sopralluogo effettuato all'acquario di Alghero è emerso uno stato di generale degrado. La vasca che ospitava la tartaruga era ancora priva dell'impianto di termoregolazione, della luce diretta del sole e delle lampade UVB.
L'acqua nella vasca era torbida, tanto che saranno analizzati alcuni campioni. "Il carapace della tartaruga appariva deforme, opaco e rivestito da uno strato di alghe, aspetti tipici di soggetti con gravi carenze nutrizionali provocate dalle pessime condizioni ambientali", aggiungono dal Corpo Forestale.
LA DENUNCIA - Dopo aver acquisito anche il parere dei medici veterinari, il proprietario dell'acquario è stato denunciato per maltrattamento e detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura. L'uomo, inoltre, dovrà rispondere anche per l'offerta in vendita e l'utilizzo per fini di lucro dell'esemplare in assenza della prescritta documentazione Cites.
La sentenza del 2012 del Tribunale di Sassari aveva legittimato la detenzione dell'esemplare, poiché catturato prima della Convenzione di Washington, ma non il suo utilizzo per fini commerciali. Dalle indagini sarebbe emerso che il responsabile, invece, avrebbe anche tentato di vendere la tartaruga.
L'ALLIGATORE - Nell'acquario era tenuto anche un esemplare di tartaruga alligatore, appartenente ad una specie considerata pericolosa per la salute e l'incolumità pubblica. Non c'erano le necessarie autorizzazioni, così anche questo rettile è stato sequestrato. Entrambe le tartarughe sono state trasferite presso un Centro di Recupero specializzato di Torregrande, Oristano.

Valeria Pinna

Molto eloquente  anche il  commento a tale  articolo  :<<  Torna presto alla liberta'.Tante altre tartarughe vivono la stessa condizione,sono quelle acquatiche americane che comprate nei negozi,piccole quanto una moneta da 2 euro ma che nel giro di pochi anni diventeranno grandi 30 cm,che vengono alimentate in modo scorretto a gamberetti secchi(devono mangiare pesce crudo di acqua dolce e altro) e che una volta troppo cresciute se non muoiono prima verranno liberate nei laghetti cagliaritani o ancora peggio in natura,prima di comprarle pensateci molto bene. >>

Bulgaria, la “protesta dimenticata”: un movimento che i media non raccontano


A Sofia i manifestanti scendono in piazza  contro la nomina di un oligarca a capo della sicurezza nazionale. Dai corteo un unico slogan: “Non sono pagato per manifestare, vi odio gratis”. Nel fanalino di coda dell’Europa, da un mese va avanti una mobilitazione quotidiana dei cittadini. Ma i media mainstream non sono interessati.
Bulgaria protesta
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Bulgaria protesta
IL NUOVO VOLTO DELLA PROTESTA – In queste settimane gli occhi del mondo intero sono rimasti fermi, impietriti di fronte alle violente manifestazioni di dissenso che hanno incendiato il mondo arabo. Da Instanbul al Cairo il denominatore comune della protesta  è stata la rabbia della piazza nei confronti dei governi nazionali, incapaci di rispondere al bisogno di democrazia rivendicato più volte dall’intera collettività.  Ma ad oggi l’epicentro delle contestazioni si sposta più ad Est, precisamente nelle piazze di Sofia, antica capitale della Bulgaria. A distanza di 5 mesi dalle contestazioni di febbraio che avevano coinciso con le dimissioni dell’esecutivo Borisov, centinaia di bulgari sono tornati a manifestare. Da circa un mese e precisamente dal 14 giugno, le proteste vanno avanti initerrottamente.
Bulgaria protesta
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Bulgaria protesta
Questa volta, il motore della mobilitazione non risiede soltanto nella comune sfiducia dei cittadini nei confronti della classe politica, ma assume tutte le caratteristiche di unacontestazione a sfondo morale volta a depurare la politica dalla latente piaga della corruzione.  Infatti, soprattutto degli ultimi anni, la storia bulgara è stata marcata da una fitta catena di scandali concernenti la collusione di importanti esponenti politici con potenti e ricche famiglie di oligarchi. Ne è un esempio il caso Bulgartbac, società pubblica che gestisce la produzione di tabacco, risalente al 2007 . Secondo il quotidianoDnevnik, l’intera vicenda fu incentrata su una battaglia segreta volta ad ottenere il controllo di circa 60 milioni di euro, che ogni anno senza essere registrati sparivano dalle casse dell’industria del tabacco per arrivare a quelle dei partiti. In quest’occasione, molti tra le file del partito socialista bulgaro tremarono.
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Delyan-PeevskiL’UOMO NEL MIRINO DELLA PIAZZA -Ma la ragione più profonda del malcontento dei manifestanti è da ricercarsi nella decisione dell’attuale esecutivo di nominare Delyan Peevsky a capo dell’Agenzia per la sicurezza nazionale, giunta proprio lo scorso 14 giugno, quando i cittadini si sono riuniti di fronte al parlamento. Il buon Peevsky è infatti l’emblema forse più significativo del contaminato sistema politico sopra descritto.
32 Anni, deputato dal 2009 con il DPS, Peevsky è anche il figlio di Irena Krasteva, proprietaria della più grande gruppo mediatico bulgaro. Un personaggio influente in diversi settori della vita del Paese, che non si sa come, o forse si sa, a 21 anni diventò membro del consiglio di amministrazione del porto di Varna, in seguito fu costretto ad abbandonare questa posizione per mancanza di titoli di studio richiesti.
Ma fu nel 2005 che fece il salto di qualità. Dopo essere stato per alcuni anni investigatore venne infatti nominato vice-ministro alle Situazioni di emerenza. Perse la poltrona a causa delle accuse di concussione nel contesto dello scandalo Bulgartabac, ma poi venne assolto per assenza di prove e reintegrato. Insomma tutto normale. Se non fosse che la candidatura a deputato di Peevsky fu preceduta dall’approvazione di una legge d’urgenza che ha riformato radicalmente l’agenzia di sicurezza bulgara DANS, al vertice della quale sarebbe stato destinato Peeevsky. Questa  da semplice struttura di analisi dei rischi sarebbe stata infatti investita di poteri di polizia e di indagine. Tutti requisiti, secondo i detrattori, pensati e disegnati appositamente per giovane e influente deputato.
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Bulgaria protesta
PASSO FALSO PER IL GOVERNO TECNICO - Il movimento di protesta si chiama “Dance with me”, da ciò l’hashtag #ДАНСwithme: ДАНС è infatti l’acronimo bulgaro di Dipartimento di sicurezza nazionale. La decisione di porre quest’uomo al vertice di un organismo così importante, definita dal leader socialista Stanishev come “una scelta fuori dagli schemi” ha rappresentato l’ennesimo passo falso per il governo tecnico, guidatoPlamen Oresharsky. Il neo-premier, presentatosi ai bulgari come un tecnico, capace di risolvere con austerità e moderazione i più urgenti problemi del Paese, era riuscito a riaccendere la speranza di cambiamento nella cittadinanza. Ma a seguito del caso Peevsky, ogni aspettativa positiva nei suoi confronti è stata stroncata.
Oltre a mettere in serio pericolo la maggioranza risicata di cui gode in Parlamento, il Presidente, per cercare di limitare il danno ha dovuto fare pubblica ammenda di fronte alle piazze gremite di manifestanti furiosi, scusandosi, per quello che lui stesso ha definito un “grave errore”. Ma l’elemento forse più grave per il primo ministro è quello di aver dato l’impressione di aver perso il controllo della situazione e di essere in balia di quegli stessi interessi economici e oligarchici che si era riproposto di arginare.
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LA PROTESTA DIMENTICATA - La Bulgaria, forse uno dei Paesi più arretrati del vecchio blocco socialista si aggiunge a una lunga schiera di nazioni che scendono in piazza per manifestare contro il loro governi. Ma ciò che forse colpisce di più della contestazione bulgara, definita da molti “la protesta dimenticata”, per lo scarso riscontro che ha avuto a livello mediatico, è il carattere o meglio la forte personalità della piazza. La“danza” cominciata dai giovani bulgari che non vedono un futuro davanti a sé sta contagiando tutto il popolo bulgaro. E le ragioni non mancano: la Bulgaria è il Paese con il più basso reddito pro capite della Comunità Europea (400 € al mese) e il costo per l’elettricità è raddoppiato, tanto che gran parte dello stipendio di un cittadino medio è utuilizzato per pagare luce e riscaldamento. A far da contraltare alla miseria dei più è l‘ostentata opulenza di oligarchi e mafiosi, che troppo spesso stanno tra le le fila di Stato, servizi segreti o polizia, come Peevski.
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Malgrado la corruzione rappresenti il tallone d’Achille e si sia dimostrato impermeabile anche all’ingresso del Paese nell’Unione Europea, i bulgari rifiutano questo sistema. Non guardano a questo al clientelismo consolidato come la norma, non guardano passivamente alla corruzione come risultato del “così fan tutti”, non restano imbambolati di fronte agli scandali che umiliano il loro Paese. Ma al contrario reagiscono. Non si fanno fermare dalla frustrazione del fallimento preannunciato di un governo tecnico e scendono per le strade della Capitale rivendicando un ideale di Nazione giusta, capace di costruire la propria democrazia non sullo spettro del compromesso ma sulla forza della buona politica.
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Giulia Molari

Intervista Donne e spot, cambiamo marcia intervista di Francesca Sironi a una delle pioniere dell'advertising italiano, Anna Maria Testa.




Dopo la denuncia di Boldrini sull'abuso del corpo femminile nella pubblicità parla una delle pioniere dell'advertising italiano, Anna Maria Testa. Che dice: usare lo stereotipo 'velina' fa male all'economia (08 luglio 2013)
Auto, yogurt, telefonini. Vacanze, gelati, spedizioni postali. Non importa il prodotto quanto il mezzo. E nelle pubblicità italiane il mezzo è quasi sempre lo stesso: la donna. Non la donna scienziato, esperto, dottore, astronauta. Ma la donna "Fidati, te la do gratis", "Montami a costo zero", "Metti il tuo pacco in buon mani", oppure zitta, un bell' arredo, un porta-qualcosa utile per una radio come per una marca di vestiti.
E se a maggio il tema dell'abuso dell'immagine femminile in tv era stato sollevato dalla presidente della Camera Laura Boldrini ( «Serve porre dei limiti all'uso del corpo della donna nella comunicazione», aveva detto l'ex portavoce dell'Unhcr: «Basta all'oggettivazione, perché passa il messaggio che con un oggetto puoi farci quello che vuoi»), ora a rispondere è una delle più famose pubblicitarie d'Italia, Anna Maria Testa. «La nostra televisione espone molto le belle ragazze, ma rappresenta poco l'universo delle donne», sostiene la titolare di "Progetti nuovi", che ha dedicato a questo tema il suo intervento alla riunione annuale dell'Upa - utenti pubblicitari associati: «E' l'Osservatorio di Pavia a dirci, per esempio, che tra gli esperti intervistati nei TG italiani l'86 per cento è uomo». Solo il 14 invece appartiene al "sesso debole".
Il punto, sostiene Testa, non è quindi inquadrare meno tanga in primo piano o proibire le scollature in tv, quanto «mostrare più scienziate, più imprenditrici, più professioniste, più manager: è importante che le donne entrino a pieno titolo, e non solo da veline, nella rappresentazione che di se stesso dà il nostro Paese. Abbiamo bisogno di meno stereotipi e più modelli di ruolo». Proprio contro gli stereotipi la pubblicità potrebbe avere un ruolo importante, se invece di continuare a usare tette, sguardi e gambe femminili come una macelleria iniziasse a riflettere la realtà italiana in modo diverso: «Chiariamo una cosa: educare non è compito della pubblicità. Devono farlo le famiglie, la scuola, le istituzioni. Ma la pubblicità può e oggi forse dovrebbe dare una mano, perché è una forma efficace, pervasiva, di comunicazione e perché è espressione delle imprese che sono» o dovrebbero essere «la parte attiva del paese, quella proiettata verso la crescita, il futuro».
Anche se qualcosa sta cambiando, negli spot televisivi gli stereotipi sono ancora lì, ben saldi, «E non parlo delle pubblicità offensive: quelle che possono essere condannate dal Giurì, e che giocano sporco sulla provocazione sessuale per conquistare una notorietà da scandalo. Per fortuna, si tratta quasi sempre di fenomeni marginali. Sto parlando della pubblicità mainsteam delle grandi marche. Quella che davvero orienta l'immaginario collettivo del paese» e che ancora rappresenta la donna come la madre che porta in tavola la cena, che è in ansia per il bucato dei bambini, che in fondo appartiene a un modello non così lontano da quello con cui negli anni '50 sono state vendute milioni di lavatrici: «C'è un intero universo femminile e familiare da raccontare», continua Testa: «Nel 2011, in Italia, su 546mila nuovi nati il 25 per cento era da genitori stranieri, il 7,7 da madri over 40 e il 24 da mamme non sposate. Tra i trentenni, circa una ragazza su 4 e meno di un uomo su 6 sono laureati. E più di metà delle donne fra i 25 e i 50 anni che hanno figli lavora».
Tutte figure che nei nostri spot entrano poco. Ma i messaggi non potranno rimanere solo questi, conclude Anna Maria Testa, soprattutto se le imprese vorranno continuare a vendere: «Secondo l'indagine Cermes Bocconi del 2012 le donne attuano o influenzano oltre il 94% degli acquisti di prodotti per la casa, alimentari, cosmetici e oltre il 64% di quelli di banche, assicurazioni, utenze e automobili». E probabilmente sono più contente a farlo se non si vedono spiattellate sul cofano ma al volante.
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Anna Maria Testa

la foca monaca resiste e vuole restare in sardegna


Non date soldi ai clandestini": il cartello sulla 130 ad Assemini

anche il  nazismo e poi a  ruota il fascismo con le leggi razziali  iniziarono cosi  , questo è l'unio commento    che mi sento di fare   sui tale  fatto



Non date soldi ai clandestini":
il cartello sulla 130 ad Assemini





Legata a un cartello stradale la scritta contro chi vende mercanzia ai semafori.
"Non date soldi ai clandestini, tanto vi entrano lo stesso a rubare in casa". Scritto nero su bianco su un pezzo di cartone poi legato con del fil di ferro a un cartello sulla strada 130, all'altezza di Assemini. Strada, appunto, molto frequentata dai "clandestini" cui si riferisce la scritta, gli stessi che cercano di vendere fazzoletti, accendini e non solo agli automobilisti.


lascio  che a commentare  per me   sia  la mia amica  fb  Naza Xaxa   che  dice   quello che vorrei dire  io in questo momento  e  che  ho ripetuto più  volte  sia  in questo blog    quando ancora  si chiamava cdv.splinder.com  

Leggendo certi post, onestamente, mi scende il latte alle ginocchia,oltre a venirmi rabbia.
Italiani che sputano veleno con gli stranieri che vengono qui a cercare fortuna.
Si,è vero che non viviamo nell'oro,e lavoro non ce nè per nessuno,ma guardate un attimino indietro nel tempo.In periodo di guerra non siamo andati via per caso?
In America Latina ci saranno si e no 30 milioni di italiani, che partirono a cercare fortuna,e vennero considerati dei puzzoni fannulloni,proprio come molti ora dicono degli stranieri.
Molti che parlano dei casini che procurano gli stranieri...la mafia per esempio chi la portò nel mondo?
Per tanti l'italiano puo' avere la libertà di andarsene,gli altri qui non ci devono essere..bah.
Gli stranieri vengono considerati fannulloni,ma quasi tutti quelli che tanto hanno da dire non andrebbero a raccogliere patate,preferiscono dire che non c'è lavoro.
E si criticano stranieri,clandestini,chi chiede l'elemosina.
Dare un euro a un poveraccio non mi fa diventare povera,e spero che nella vita non mi capiti mai una cosa simile...ma nessuno cerca di mettersi nei panni delle disgrazie altrui.
Io sono cittadina del mondo e ritengo che lo siano tutti.
Attenzione al troppo veleno razzista,se in Italia continua cosi' voglio vedere se rimanete qui o...fate come quelli che tanto criticate.

8.7.13

Massimo A. Alberizzi ( corriere della sera ) «L'Ordine dei giornalisti? È un carrozzone da buttar via»

unione sarda 7\7\2013
In Italia c'è una potentissima lobby di cui si dice poco, anzi niente: è l'Ordine nazionale dei giornalisti, una casta che per misteriose ragioni trova poco spazio su quotidiani e televisioni. Rispetto a quella dei magistrati (ma anche dei notai o degli avvocati) appare piuttosto timida a parlare di sé. E a parlare comunque: basti dire che da anni si discute di riformare l'accesso alla professione ma la questione resta sospesa, surgelata a perdere.
Nel nostro Paese i giornalisti si dividono in due categorie: pubblicisti e professionisti. I professionisti sono quelli che esercitano il mestiere a tempo pieno, alle dipendenze di una testata. Per essere definiti professionisti debbono affrontare un esame di Stato che prevede uno scritto e, se si riesce a superarlo, l'orale. Una leggendaria bocciatura porta il nome di uno dei più importanti scrittori italiani del '900: Alberto Moravia.I pubblicisti svolgono altri mestieri e si occupano di giornalismo come secondo lavoro, non scrivono con la frequenza dei loro cugini professionisti e, soprattutto, non fanno parte di una redazione. Qualcuno dice che è sbagliato chiamarli giornalisti, bisognerebbe trovare un altro termine per non creare confusione. Altri, in genere talebani della Casta, li definiscono addirittura giornalisti di serie B. Piaccia o non piaccia, sono però la spina dorsale dell'Ordine.Massimo (Arturo) Alberizzi, storico corrispondente dall'Africa per il Corriere della Sera, è leader di un gruppo ( Senza bavaglio ) che si batte per l'abrogazione dell'Ordine, considerato «costoso, inutile, corporativo, fuori dalla Storia, poco trasparente». Sessantacinque anni, due figli (uno ingegnere informatico in Kenya; l'altra - bocconiana - lavora per una Ong in Namibia), Alberizzi aveva programmato tutt'altro destino. Sognava di fare il chimico e intanto collaborava col Corriere. Quand'è scoppiato il caso Seveso, il giornale l'ha assunto in via definitiva. Prima ha lavorato alla Cronaca delle province, poi è passato agli Esteri e da lì ha spiccato il volo.Nel 2003 il Consiglio di sicurezza dell'Onu lo ha reclutato in un team di esperti incaricato di investigare sul traffico d'armi in Somalia, tre anni più tardi - sempre in Somalia - è stato sequestrato dagli islamici su commissione di signori eritrei della guerra. Deve il ritorno in libertà allo sceicco Hassan Dawer Aweis, che gli americani considerano («sbagliando») un terrorista.A sentir parlare di Ordine dei giornalisti, Alberizzi si carica di ironia e indignazione. Lo considera molto peggio d'un qualsiasi ente inutile e ritiene sia arrivato il momento di celebrargli il funerale. «Così smetteremo di essere una corporazione e diventeremo una categoria moderna e pulita».

Perché ce l'ha con l'Ordine dei giornalisti?
«Prima di tutto perché l'Ordine dei giornalisti non è fatto da giornalisti. Attualmente gli iscritti sono centodiecimila, sessantamila negli Stati Uniti, quarantamila in Francia. A dilatare le fila sono i pubblicisti».
Cioè?
«Gente che nella vita fa altro: commercialisti, avvocati, farmacisti ma anche panettieri, venditori di vernici, pr e così via, mestieri diversi, dignitosi e legittimi per carità ma che niente hanno a che vedere col giornalismo».
Com'è strutturato l'Ordine?
«Tenetevi forte: ha un Consiglio nazionale composto da 150 membri (75 professionisti e 75 pubblicisti). Ogni seduta costa più o meno 150mila euro. Le trasferte nella sede nazionale, a Roma, prevedono un rimborso di 250 euro al giorno tra alberghi e pranzi e una diaria quotidiana di 150 euro».
Cosa fa l'Ordine?
«Diciamo prima quello che non fa. Conta al suo interno commissioni e gruppi di lavoro a cui partecipa gente che non ha mai scritto un articolo o fatto un titolo. Gente che arriva a Roma spesata di tutto e con l'aggiunta della diaria. Evidente l'obiettivo: incassare le prebende dell'Ordine».
E lei è furiosamente contrario.
«Quattro colleghe del mio gruppo, Senza bavaglio , sono state elette di recente. Hanno il compito di verificare quello che succede e denunciare questo scandalo che è sotto gli occhi di tutti senza però che nessuno alzi un dito e magari protesti».
Ce l'avete con l'elefantiaco Consiglio nazionale?
«Come si fa a parlare di Casta e fingere di non averla in casa propria? In Campania e Calabria c'è un numero di pubblicisti che raggiunge quello di Milano e Roma, come se la capitale dell'editoria fosse laggiù».
Tra poco arriverà la selezione: laurea obbligatoria per iscriversi all'Ordine.
«Abbiamo un'opinione decisamente opposta. Siamo contro l'imposizione della laurea per esercitare il giornalismo e contro l'obbligo di frequentare (prima dell'esame) un corso a pagamento organizzato dall'Ordine dei giornalisti, vera e propria gabella che favorisce mafie e consorterie, balzello inutile e costoso a carico dei più deboli, i praticanti, ossia gli aspiranti professionisti».
Sospetta inciuci?
«Peggio. Tant'è che renderemo pubblico l'elenco di coloro che siedono nei Consigli regionali o in quello nazionale dell'Ordine e contemporaneamente hanno incarichi retribuiti nelle scuole di giornalismo. Chiederemo a costoro che si dimettano, in nome dell'etica e del buonsenso».
Cosa rimprovera alle scuole dell'Ordine?
«Sono troppe. Non rispondono ad alcuna esigenza se non quella di foraggiare consorterie e lobby. La maggior parte va chiusa e non se ne devono aprire di nuove».
E la formazione professionale?
«A garantirla bastano e avanzano le facoltà universitarie, già di per sé esorbitanti rispetto alla domanda di nuovi giornalisti e al numero di disoccupati».
Niente da ridire almeno sull'esame di abilitazione.
«Lasciamo stare. Cercheremo di imporre criteri trasparenti per la nomina dei commissari. Nel futuro dell'Ordine ci sarà battaglia: siamo stufi di marchette e di chi se ne avvantaggia. Vogliamo che sia resa pubblica la condizione giuridica delle varie sedi: di proprietà o in affitto?, chi c'è dietro un eventuale acquisto e a quanto ammonta il conto?»
Non salvate niente.
«Abbiamo fatto nostra una riflessione di Joseph Pulitzer: non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sé non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri. Questo chiediamo a chi fa giornalismo, questo pretendiamo dall'Ordine».
Ma l'Ordine...
«L'Ordine non esiste in nessun Paese occidentale avanzato. Qualcosa di simile c'è in Polonia e Portogallo, che non rappresentano grandi esempi sul fronte della libertà di stampa».
Dunque abrogazione?
«Nel 1945 Luigi Einaudi si espresse con queste parole contro l'istituzione dell'Ordine: giornalisti sono tutti coloro che hanno qualcosa da dire o si sentono di esprimere la stessa idea che gli altri dicono o presentano male. L'albo, poi, è un comico nonsenso. Non esiste un albo dei poeti, non può esistere un albo di giornalisti. È chiaro cosa voleva dire Einaudi?»
Provi a spiegarlo.
«In un Paese democratico nessuno deve avere il diritto di decidere chi può fare il giornalista e chi no. È pensabile che occorra una sorta di patente per poter esercitare questo mestiere? All'estero, è stato ripetuto fino alla nausea, l'Ordine non esiste e spesso non esiste neppure il valore legale del titolo di studio».
Da noi invece?
«Da noi per fare il giornalista vogliono rafforzare i controlli, alzare le barriere. Tutti laureati dunque, come se la laurea garantisse a priori qualità che un diploma universitario non sarà mai in grado di dare, per esempio la faccia tosta necessaria a costringere i familiari di un morto ammazzato a consegnarti la sua fotografia o la forza per tenere a bada un direttore che ti chiede di violare la deontologia professionale».
Quindi?
«L'obbligo della laurea è un alibi per chi sostiene di aver risolto in questo modo l'accesso alla professione. Basterebbe invece che non venissero assunti gli amici, gli amici degli amici, i raccomandati o i fedeli anziché i bravi, i preparati, i volenterosi. Non è un caso che nel mondo anglosassone si parli di condizione professionale anziché di professione e basta».
Con quali regole?
«Semplice. Quando stai esercitando il mestiere a tempo pieno per una qualunque testata (e senza obbligo di laurea o di esami) sei nel pieno di una condizione professionale, titolo che perdi non appena smetti di lavorare o cambi mestiere. E soprattutto lo perde chi passa dal giornalismo alla politica».
Intanto stanno emergendo nuove figure professionali.
«Si tratta dei citizen journalist, cittadini qualunque che, all'occasione, diventano reporter. Hanno invaso il web, i blog, i dibattiti on line. Non a caso la Bbc o Sky lanciano appelli per ricevere informazioni dal basso: inviateci le vostre foto, i vostri video, le vostre testimonianze...»
Sono i giornalisti del futuro?
«Non lo so ma ai colleghi che si preoccupano dei controlli sull'attendibilità del Citizen journalism vorrei far presente che sui nostri giornali e sulle tv assistiamo a un boom della cattiva informazione e disinformazione, servilismo, scopiazzature, subordinazione al marketing, cronache trash».
Ma l'Ordine, se ravvisa (ammesso che ravvisi), può intervenire?
«Cane non mangia cane. Guardate com'è andata a finire la storia del giornalista Renato Farina che lavorava per i Servizi segreti col nome di agente Betulla. L'onestà, la correttezza di un giornalista non può essere affidata ad altri giornalisti».
E a chi, sennò?
«Un redattore che siede nel Consiglio dell'Ordine può davvero giudicare il suo direttore?, può giudicare il collega che al giornale gli siede nella scrivania a fianco? Per non parlare di pressioni e spinte indebite».
In conclusione, l'Ordine è da buttare?
«L'Ordine è una roccaforte di potere, un carrozzone, nonché una catena di montaggio che sforna a ripetizione nuovi giornalisti senza arte né parte. Nelle scuole ci sono evidenti commistioni d'interesse tra consiglieri dell'Ordine che fanno gli insegnanti negli istituti che loro stessi hanno contribuito ad avviare. È un vero scandalo che non riguarda i singoli ma l'istituzione in quanto tale».
Seppellito l'Ordine, che fare?
«Il controllo sui mass media dovrebbe essere affidato a un organismo nuovo, una sorta di Gran Giurì dell'Informazione, nel quale sia rappresentata la società intera, i giornalisti devono essere in minoranza e la politica tenuta fuori dalla porta».
Che farebbe il Gran Giurì?
«Avrà compiti di tutela della deontologia e onestà dell'informazione, terrà un elenco di giornalisti e avrà il potere di infliggere sanzioni a giornalisti, direttori, editori».
E se invece non succede niente?
«La nostra professione continuerà a sprofondare sempre più nella burocratizzazione, nel fiscalismo e soprattutto nella soggezione al potere politico ed economico».




Ieri chiusura della kermesse del festival di Gavoi 2013 con Simonetta Agnello Hornby La letteratura insorge Stop al femminicidio

per  approfondire
da  la  nuova sardegna estate del  8\7\2013

di Fabio Canessa INVIATO A GAVOI 
Femminicidio. La parola ricorrente dell'ultima giornata del festival letterario di Gavoi è un termine brutto, nel suono e nel significato. Uno strano neologismo, brutale ma efficace che dà risalto a un problema che troppo spesso si è tentato e si tenta di dimenticare: la violenza domestica, quella subita dalle donne da padri, mariti, fidanzati, conoscenti. Spesso tra le mure di casa, luogo immaginato o che fa comodo immaginare sempre perfetto, felice. Ne parlano anche al festival Michela Murgia, che con Loredana Lipperini è autrice di "L'ho uccisa perché l'amavo. Falso!", e Simonetta Agnello Hornby (protagonista ieri sera dell'incontro che ha chiuso la decima edizione del festival organizzato dall'associazione l'Isola delle Storie) che quel male quasi tenuto nascosto o comunque sottovalutato l'ha voluto raccontare. Proprio "Il male che si deve raccontare" si intitola l'ultimo libro che l'autrice, siciliana di nascita e inglese d'adozione, ha scritto con il contributo di Marina Calloni. Libro dunque di denuncia, ma che si concentra anche sulle possibilità di cosa fare per diminuire i casi femminicidio, spesso preceduti da casi di violenza domestica, da molestie. L'esempio da seguire arriva dall'Inghilterra. Da una donna di colore entrata in Parlamento, Patricia Scotland, capace poi da ministro della Giustizia di lanciare un efficace piano d'azione contro la violenza domestica. Con i dati in diminuzione delle vittime che dimostrano il ruolo che possono avere le istituzioni.


 La domanda è ovviamente se anche in Italia sarà possibile. Al pessimismo di tanti Simonetta Agnello Hornby risponde con la speranza, necessaria, da alimentare con una politica di piccoli passi: «Partendo dal basso, da noi, dai piccoli paesi dove è più facile iniziare a muoversi- dice l'autrice-avvocato che racconta di come la sua professione e la sua voglia di raccontare storie scrivendo siano legate: «Parlo di ingiustizie, di quello che vedo, che conosco. Sui bambini o sulle donne. Ho sulla coscienza due clienti donne maltrattate che sono state uccise. Forse in quel momento potevo fare di più. Si dice spesso che sono problemi causati da un rapporto d'amore malsano, ma non è la parola giusta amore. Si dovrebbe dire potere, è quello che distrugge». Un impegno sia letterario sia più pratico per Simonetta Agnello Hornby
che scansa però la parola femminista: «Non mi piace, però noi donne siamo di più, viviamo di più, e credo che dobbiamo unirci per raggiungere degli obiettivi». Argomento doloroso, ma necessario da affrontare. La scrittrice siciliana però regala al pubblico di Gavoi non soltanto la sua conoscenza del fenomeno, anche la sua simpatia. Nessun moderatore, si rivolge direttamente alla gente, come sempre tanta presente a Sant'Antiocru. Elogia i sardi, la cultura dell'isola, Michela Murgia e il suo amico e conterraneo Andrea Camilleri che proprio la Sardegna ha voluto recentemente omaggiare con l'attribuzione della laurea honoris causa all'università di Cagliari.