7.7.21

Sebastiano Vitale Il poliziotto che fa il rapper ed La disabilità li aveva allontanati, l’arte li ha riuniti. La storia di due fratelli che hanno trovato il modo di superare le barriere

 Sebastiano  vitale    in arte    Revman   È nato a Palermo ed è cresciuto a Lecce, ma la voglia di imparare, di studiare e di migliorarsi lo hanno spinto ancora più lontano dalla sua città di nascita, infatti grazie al suo lavoro oggi Sebastiano  vive a Milano. Un  rap  secondo  https://fai.informazione.it/



Sicuramente, il cantante rap Revman è riuscito a catturare l'attenzione di un
asto pubblico con i suoi giochi di parole e le frasi veloci e accattivanti. Il suo vero nome è Sebastiano Vitale e di professione fa il poliziotto a Milano. La sua candidatura a Sanremo e la successiva ingiustificata esclusione ha fatto alzare i toni ai suoi fans.
Il rapper Revman ha un parlare veloce e accattivante che va oltre il rap.
Revman è certamente una delle più grandi sorprese della musica per ragazzi e anche per i meno giovani, poiché sta ottenendo grandi successi sulle piattaforme digitali a partire da Youtube, Facebook, Instagram, Twitter, Linkedin e tanti altri, grazie alle sue canzoni belle e appassionanti e, soprattutto ai sapienti testi caratterizzati da un vasto uso di termini "polizieschi" che vanno contro la malavita.

  Infatti     a  confermarlo    è     questa  intervista     rilasciata   a  https://www.ioacquaesapone.it/ di luglio  2021


«Ho cominciato ad appassionarmi al movimento artistico e culturale definito Hip Hop all’età di 16 anni, ballando
break dance insieme ad altri ragazzi vicino ad una chiesa, precisamente in una piazzetta che un sacerdote ci aveva messo a disposizione. A causa di un lieve infortunio procuratomi durante gli allenamenti, dopo anni di movimenti rotatori caratteristici di questa danza ho dovuto mettere in pausa la mia attività di ballerino. In quel breve periodo, però, non mi sono fermato e ho iniziato a canticchiare le canzoni sulle quali prima ballavo, capendo che cantare sulle note Hip Hop mi piaceva di più che ballarci su, così ho iniziato a scrivere i miei primi testi rap. Mi sono sempre piaciuti  i messaggi sociali contenuti in quel genere musicale, soprattutto quelli affrontati nel rap più antico».

Così è nato Revman, il tuo nome d’arte: cosa vuol dire? 
«Non ha un significato particolare. L’ho creato perché mi piace la sonorità che produce, nel tempo però ho pensato che potesse essere un acronimo in cui R sta per Rispetto, E per Energia, V per Verità, M per Musica, A per amore, N per Natura, parole che per me sono molto importanti». 

Cosa vuoi comunicare?
«Sono cresciuto in Salento, dove la musica popolare è ricca di significato e questo ha influenzato molto il mio modo di scrivere: in effetti i miei testi sono ricchi di contenuti e sensibilizzano su vari temi. Voglio trasmettere dei messaggi positivi, con la speranza che possano essere di sostegno a chi si trova in difficoltà». 

Tu sei diventato anche poliziotto. La divisa, come la musica, può essere un’alternativa alla strada?
«Far appassionare i ragazzi a qualcosa come l’arte, la cultura e la musica può dare loro un obiettivo e quindi non farli finire in brutte strade. Il rap racconta la strada mentre un uomo in divisa la vive, ci lavora. Quindi, più che un alternativa, entrambe le cose possono rappresentare degli strumenti per vedere la vita in modo differente, dalla parte della legalità». 

La tua attenzione alla legalità si evidenza anche da uno dei primi brani che hai composto. 
«Esatto. Uno dei primi brani che ho scritto è intitolato “Musica contro le mafie”. Con questo singolo ho riscosso un discreto successo e tanti sono venuti a conoscenza della mia passione per la musica rap e del mio lavoro di poliziotto. Quando pubblicai questo brano fu molto condiviso da amici, colleghi, associazioni e vari utenti del web. Con quell’estratto ho partecipato al concorso “Musica contro le mafie” dell’associazione Libera. Una parte del singolo l’ho utilizzata per dare il mio contributo per la premiazione del premio denominato Annalisa Durante, conferitomi dall’omonima associazione a febbraio 2021. L’evento attraverso diverse metrologie ha trasmesso messaggi di giustizia e rispetto delle regole». 
Nei tuoi brani tratti il tema della legalità e non solo.
«Sì. Ho scritto un brano sull’inquinamento ambientale causato dal rilascio spropositato di plastiche in natura, di Cyberbullismo e in un brano intitolato “Il gelo” ho parlato anche di quest’ultimo, intimo e freddo anno». 

Sei un ragazzo di periferia: quanto può essere pericolosa?
«Le periferie di solito sono un po’ più abbandonate e trascurate. Il Sud ha le sue trappole e penso sia difficile affermarsi se il luogo dove vivi è limitante. Alle nuove generazioni, però, voglio dire che c’è sempre un’alternativa a quella vita priva di significato che alcuni luoghi propongono. Tutti abbiamo la possibilità di essere migliori e di essere utili al prossimo e per fare questo bastano piccoli gesti quotidiani. Insieme possiamo acquisire sane abitudini che portano un beneficio comune. Io vengo dalle periferia  e ho studiato in un istituto professionale alberghiero e, pur non avendo chissà quali studi alle spalle, sono riuscito a vincere il concorso nella Polizia di Stato con il massimo dei voti in tutte le prove. Inoltre, ho continuato a fare musica e ho avuto tante soddisfazioni. Ho vinto vari premi come quello dedicato a chi tramite l’arte e la cultura ha portato lustro alle forze dell’ordine, denominato “Premio Apoxiomeno”. Un’altra grande soddisfazione è stata cantare al teatro Massimo di Palermo, il terzo teatro più grande d’Europa dopo quello di Vienna e Parigi». 

Senti che c’è stato un momento in cui la tua vita è cambiata?
«Un cambio di passo sicuramente è arrivato quando ho raggiunto la mia stabilità economica e sono arrivato a Milano. Prima però ho vissuto a Bologna, dove ho fatto il militare per due anni, questi ultimi fondamentali nel mio percorso di vita, perché mi hanno permesso di vivere in una città universitaria che mi ha fatto crescere tanto. Per un breve periodo della mia vita ho anche vissuto in Canada per poi trasferirmi definitivamente a Milano: questa città dà tante possibilità e a me piace molto». 

Vai anche nelle scuole?
«Prima del Covid sì. Faccio l’insegnate di musica rap, insegno ai ragazzi a scrivere dei testi riguardanti l’ inclusione e insieme affrontiamo diversi temi sociali. Nell’ultimo anno ho provato a incontrare i ragazzi attraverso la Dad, ma è difficile trasmettere questi messaggi a distanza. Con alcuni di loro abbiamo scritto un brano sul  tema del bullismo, sono stati bravissimi perché hanno espresso i propri pensieri, io ho sistemato i loro versi e insieme abbiamo creato una canzone. L’intero progetto è stato realizzato nell’ambito del progetto LexBulli del Comune di Milano. Quando vado nelle scuole non dico subito che lavoro faccio, rompo prima il ghiaccio attraverso la musica rap: utilizzando un linguaggio molto vicino a loro riesco a conquistarli e alla fine quando svelo che sono un poliziotto tutti i pregiudizi verso la divisa vengono abbattuti. Questo è importante perché avvicina i ragazzi alle istituzioni».                                                                                    

oltre  a ver  ascoltato   la  canzone 

che   A febbraio ha ricevuto il Premio Annalisa Durante categoria Istituzioni
“Non mi aspettavo di essere contattato per un premio così importante. Sono onorato di averlo ricevuto. Il quadro che mi è stato spedito ha un significato simbolico molto forte. Ricorda lo splendido sorriso della piccola Annalisa Durante, giovane vittima innocente di Camorra. Quella di Annalisa è una storia di profonda tristezza e che deve farci riflettere perché questi fatti non accadano mai più..


Ora Non sono un granchè amante di questo genere e delle sue corrennti ma questi due brani sono molto belli

Infatti Solo chi lavora in strada( forze dell'ordine o disordine dipende da casi , 118 , associazioni per i senza tetto , ecc ) capisce queste parole !! ma soprattuttto uno di quelli che non è usa violenza verbale gratuita , misoginia , ecc come quelli del genere trap . Sta riscutendo ottime recensioni tra i fruitori del genere . Infatti secondo <<
Rappa meglio della maggior parte degli emergenti e chi lo nega è solo perché guarda la sua divisa piuttosto che la sua abilità. Poi per carità, ha molto da migliorare ma ho sentito molto di peggio. Parliamo del testo? Bel testo, dice cose oggettivamente giuste e condivisibili che i finti gangsta non possono capire a causa della loro ignoranza. Tutti gangsta a chiacchiere, ma per lo più siete minchioncelli che, come fa intendere nella canzone, appena si trovano spalle al muro cantano tutto piangendo.>> ironitaly96

l'altra storia    è  quella  degli   EMOTIONAL COLOR 
Simone, diplomato in architettura e design, e Leonardo, affetto da un ritardo cognitivo con aspetti dello spettro autistico, vivono a Rozzano (Milano). Il progetto di gioco-arte “Emotional Color”, ideato da Simone, sostiene e attiva progetti di inclusione sociale e autonomia per ragazzi affetti da disabilità, attraverso attività, mostre ed eventi organizzati nelle scuole, locali, gallerie d’arte e associazioni. Dal 2018 sono state realizzate più di 200 opere personali e oltre 20 opere collettive. Sulla pagina Facebook e Instagram _emotionalcolor_ Simone condivide video e immagini dei momenti di pittura con Leonardo, i quadri realizzati e notizie degli eventi. Il sito è www.emotionalcolor.com. 
sempre  da    ioacquaesapone  giugno\luglio 

Mio fratello non è figlio unico

La disabilità li aveva allontanati, l’arte li ha riuniti. La storia di due fratelli che hanno trovato il modo di superare le barriere





Una stanza riempita di tele, barattoli di vernice e pennelli, e un unico ordine: divertiti! Nasce così Emotional Color, un progetto di arteterapia destinato a finanziare progetti di inclusione sociale e autonomia per bambini e ragazzi disabili, che ha avuto la forza di ricucire un legame tra due fratelli reso difficile dal ritardo cognitivo del più piccolo, incapace di esprimere le proprie emozioni. Simone Manfreda, 26 anni, e Leonardo, 17, sono sempre stati molto uniti, ma con il trascorrere del tempo le diverse esigenze e interessi li hanno allontanati. «Non condividevamo le stesse cose come fanno due fratelli “normali”. Io non frequentavo le sue numerose visite in ospedale e lui non frequentava il campetto da calcio con me. Vedevo gli amici che con i fratelli facevano di tutto, io invece con il mio non riuscivo a relazionarmi. Appena maggiorenne, ho iniziato a viaggiare, ho vissuto in Spagna e a Londra, anche per evadere da questa situazione». 
 
Fino al 2018 quando hai deciso di affrontarla. 
«Ero tornato dalla Spagna, stavo per ripartire, ma non me la sono sentita. Dovevo trovare qualcosa che mi permettesse di relazionarmi con Leo. Ho cominciato a sperimentare varie attività, dalla piscina alle carte da gioco, ma senza risultati. Poi un pomeriggio ho provato a coinvolgerlo in una mia passione: l’arte. Con lo scotch ho plastificato pareti e soffitto di una stanza della casa, ho comprato tele e colori e ho chiamato Leonardo. I suoi occhi si sono illuminati appena ha visto la stanza. Non ho avuto il tempo di dirgli “dai Leo entra” che c’era già colore ovunque. Io giravo le tele, gli passavo i colori e lui si è divertito a sporcarsi di colori. Per la prima volta ero suo compagno di giochi». 
 
A ispirarti è stata una mostra vista a Londra. 
«L’artista credo fosse un papà che faceva una cosa simile con il figlio in una stanza grande. Ho provato a farlo a casa. Non avevo mai visto prima Leo divertirsi così tanto. Senza rendermi conto tramite quel gioco Leo stava dando vita a tele coloratissime, piene della sua energia. Parenti e amici hanno iniziato a chiederci se i quadri fossero in vendita, da lì ho pensato che poteva nascere qualcosa di bello per tanti ragazzi come Leo». 
 
Quali sono gli obiettivi e i progetti in corso?
«L’obiettivo è finanziare, attraverso il ricavato dei quadri e la nostra partecipazione a eventi pubblici, progetti di inclusione sociale e autonomia per ragazzi disabili. Per seguire con più costanza il progetto nel 2019 mi sono licenziato. Abbiamo sostenuto delle iniziative sociali con alcune associazioni e stiamo coinvolgendo le scuole per sensibilizzare i ragazzi al tema. Sogno di avere un atelier nostro, con una parte adibita a galleria dove esporre i quadri di Leo e quelli realizzati da altri ragazzi durante gli eventi, e un laboratorio, dove realizzare eventi e ospitare chiunque voglia esserci».
 
Cosa ti ha insegnato questa esperienza?
«A vedere le cose fuori dagli schemi convenzionali e scoprire che la disabilità può essere un’opportunità di confronto e crescita».       

6.7.21

CARO DAMILANO, DOPO GENOVA 2001 NON ARRIVÒ O ALMENO NON DEL TIUTTO L’ANTI-POLITICA

Da ex simpatizzante ed aderente al gruppo cittadino  locale del m5  dopo il 2001  perché  ...  ma questa è  un altra storia   .... posso dire che la verità  sta nel mezzo.  infatti  se da un lato è  vero che dopo il g8 del 2001 è stato un crescere di populismo  ed demagogia  di cui molti  grillini  ed
ex grillini confluiti nel centro destra sono l'esempio  e qui concordo  con Giovanni Mari  autore  -- da me  intervistato   per  il nostro blog --   di Genova,vent'anni dopo il g8 del 2001, storia  di un fallimento  e  Damilano   . Ma allo stesso tempo come dice Salvatore Cannavò in  

CARO DAMILANO, DOPO GENOVA NON ARRIVÒ L’ANTI-POLITICA
Il Fatto Quotidiano   5\7\2021

C’è una sinistra intellettuale talmente ossessionata dal M5S che non riesce a guardare nemmeno dentro la propria storia. Si prenda l’espressoe l’editoriale che il suo direttore, Marcodamilano, dedica a Genova 2001 e alla Diaz. Che se ne trae da quella storia? Che la dura repressione poliziesca, di cui Gianni De Gennaro non si è mai scusato, e la contestuale violenza dei Black bloc hanno distrutto quel movimento rendendolo un ’ 68 “durato 48 ore”. E quella potenzialità politica, quella speranza, finendo in un buco nero, ha consegnato giovani e meno giovani all’antipolitica. A Beppe Grillo. Solo che il G8 è del 2001, il Vaffaday è del 2007. In mezzo? Dopo Genova c’è la stagione dei Social forum, un movimento contro la guerra indicato dal New York Times come “la seconda potenza mondiale”, soprattutto c’è la sinistra al governo. Prodi e Bertinotti, Agnoletto eurodeputato e deputati che vengono da quel movimento eletti da Rifondazione. Semmai è la delusione di quell’esperienza, la sinistra che si fa casta e potere, a spingere milioni di elettori verso i 5 Stelle. Ma quell’energia non si spegne ancora: realizza il referendum per l’acqua pubblica nel 2011, scende in piazza con gli Indignados in quello stesso anno, dopo che aveva manifestato contro il governo Berlusconi. E solo dopo l’ennesima mazzata politica, il governo Monti, favorito ancora da quella pseudo-sinistra rimasta in campo, si dilegua. Dieci anni dopo. Ora, possiamo capire l’acrimonia versogrillo,la foga di voler costringere tutto in una chiave di lettura precostituita arriva a negare la vita e la realtà di quelle centinaia di migliaia di persone che attraversarono Genova venti anni fa. E offrirono una chance di rinnovamento alla sinistra, che questa si guardò bene dal raccogliere. Allora si spiega meglio perché la sinistra italiana e gli “spiegoni” dei suoi cantori non ne azzeccano una.


 non c'è  stata  l'antipolitica  vera e propria  ma al più antipartitismo o  dei tentativi poi naufragati nelle paludi dellla politika ( ho usato la k per differenziarla da quella vera ) o per  parafrasare  uno slogan del m5 degli esordi nell'olio della scatola di tonno da cui si volevano togliere i tonni .

Io sto con le capre

di cosa  stiamo parlando 

 canzone  suggerrita
non è  tempo  per  noi - Luciano Ligabue
Vinicio Capossela - Ovunque proteggi - Musicultura 2015


Dopo aver letto  su segnalzione    della  rivista free dell'omonima catena   di centroi  commerciali  https://www.ioacquaesapone.it/ di luglio  2021    di unno studio condotto da Skuola.net che una importante influencer è per gli studenti italiani uno dei principali modelli da seguire, ho deciso di provare  a capirne di più ,    e  di non limitarmi a  quello  che  vedo  in mia   nipote  \  cugina  di  2  grado    adolesciente      . 



Ammetto che non è un mondo che mi attira  e  spesso  mi nausea  quello degli influencer: forse  perchè essendo  della generazione  degli anni  '70  è   avendo vissuto  in prima persona   la trasfornmazione  , ne  ho parlato nel primi  post del  blog  ,    del passaggio  dagli stazzi  ( maiali  , galline ,l'orto  , api  , vigna  ed  i loro prodotti ed  la  loro  produzione    )  ala azienda  florovivivasitica     sono un po’ vecchia scuola   cioè  ho  conosciuto il periodo  di transizione  fra  la  ribelle     e il riflusso     ed  l'edonismo  \  il    craxismo  \ berlusconismo    sintetizzato   da Italiano medio un film del 2015 diretto ed interpretato da Maccio Capatonda . Ma, per comprendere i ragazzi  d'oggi  , ho deciso di proivare  a   superare questo mio limite e di andare in perlustrazione, iniziando proprio a seguire su Instagram il modello di cui sopra. E così, all’improvviso, sono entrata nella vertigine dei post. Post dei figli, post delle inaugurazioni, post della casa, post delle vacanze, post dei momenti romantici, post ancora dei figli. E poi video e best of della giornata. Tutto in funzione della pubblicità a brand. Brand di bibite, di gioielli, di abiti, di scarpe, di locali, di location, di abbigliamento per i neonati, di parchi ,  <<  [...]  ad onor del vero >>  come  dice  Angela Iantosca  l'editoriale    IOACQUASAPONE     citato <<  tutto questo influire serve a volte anche per ‘spingere’ le persone alla cultura, ma questa è un’altra storia ... [....] >>

L’ho seguita qualche giorno e mi sono immedesimato  sia   nei ragazzi (ma anche negli adulti), in ciò che tutto questo può suscitare in loro: desiderio di emulazione? Smarrimento? Rabbia? Frustrazione? Tanto più in un momento in cui quel mondo patinato che arriva dai social e che riguarda pochissime persone risulta lontanissimo dalla realtà che ci racconta tutt’altro, perché ci parla di un Paese in affanno, in cui sono aumentati i poveri e che si prepara ad affrontare lo sblocco dei licenziamenti. 
Lo ammetto era più semplice vivere quando ero io adolescente: non c’erano o almeno  erano appena  all'inzio tutti questi input social (io ho avuto il mio primo cellulare a 20 anni  beh     avendo  una  mandre  ansiaoios a  ed  andando   fuori casa  aper  l'università    eras  ovvio  ) e i disagi si gestivano in altro modo. Il confronto  \  scontro  era con i compagni di classe e non con un mondo che troppo spesso schiaccia. Che manda continui stimoli dall’esterno senza avere la capacità (e la volontà) di creare strumenti utili a difendersi e  ad essere critici  da tutto questo. Strumenti che forse dovremmo creare(  ricreare    vedere  il  post  di Cristian  Porcino   sintesi  del suo libro  Ciao Prof   copertina in alto   a  sinistra   )  noi adulti, a nostra volta schiacciati ,  ovviamente senza  generalizzare  perchè  c'è  ancora    chi  non ha  mandato  il cervello  all'ammasso    \  in cassa  integrazionme  ,dallo stesso meccanismo di frustrazione … 

Anch'io come Angela Iantosca nel suo editoriale

Sarò anacronistica, ma trovo molta più autenticità in un paesino di 150 abitanti che gioisce per il caciocavallo ottenuto dalle mucche podoliche delle montagne di cui è circondato e per le caprette che si incontrano nei campi. 
 

 che  altro aggiungere  se  non buona  lettura   alla  prossima 


Jacopo Cardillo, in arte Jago ed il suo Figlio Velato

 


dopo  aver  visto  l'immagine  che  vedete    sopra  e    questi due  video   




e  letta  la  sua   biografia   

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

Dopo aver conseguito il diploma di Liceo Artistico, si iscrive all'Accademia di Belle Arti di Frosinone, che abbandona prima di terminare gli studi.

A 24 anni viene selezionato da Vittorio Sgarbi per partecipare alla 54ª Esposizione Internazionale d'Arte della Biennale di Venezia (Padiglione Italia – Roma – Palazzo Venezia).[1] Nello stesso anno, in occasione dell'esposizione Vanitas. Lotto, Caravaggio, Guercino nella Collezione Doria Pamphilj, presenta cinque ritratti di marmo della famiglia.[2]

Il 21 novembre 2012 riceve dal papa la Medaglia del Pontificato, a seguito della realizzazione di un busto in marmo raffigurante papa Benedetto XVI coperto dalla veste pontificia, ispirandosi al ritratto di papa Pio XI di Adolfo Wildt.[3] A seguito delle dimissioni del papa, modifica il busto originale, rappresentando il papa emerito a torso nudo e intitolando la scultura Habemus Hominem, immagine del rappresentante di Dio tornato a essere uomo.[4]

Nel 2013 vince il primo premio al Galà de l'Art di Montecarlo.[5] Nel 2015 vince il premio Catel con l'opera Containers.[6] Nel 2016, all'interno della cripta della Basilica dei Santi XII Apostoli, ha luogo la sua prima esposizione personale a Roma, intitolata Memorie, una selezione di opere realizzate in marmo di Carrara.[7][8]

Nel 2017 con l'opera Eataly si aggiudica il premio del pubblico presso Arte Fiera di Bologna.[9] Nel 2018 espone all'interno del Museo Carlo Bilotti di Villa Borghese a Roma, con l'opera Venere, e alla Biennale Internazionale di Arte Contemporanea Sacra e delle Religioni dell'Umanità a Palermo.[10][11][12] Espone all'Armory Show nello stesso anno con l'opera Donald e nel 2019 con Memoria di sé.[13][14][15]

Nel 2019 a New York completa il Figlio Velato, scolpendo un blocco di marmo Danby del Vermont. L'opera, ispirata al Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino, rappresenta un bambino disteso coperto da un velo. Il 21 dicembre la scultura viene collocata presso la Cappella dei Bianchi della chiesa di San Severo fuori le mura, nel rione Sanità di Napoli.[16]

incuriosito  ho  fatto delle richerche      che confermano l'idea   che mi sono fatto un  grande  artista   anche  se    il paragone   fra il passto e  il presente  mi sembra  astruso ed  fuorviante  ,  è  un nuovo  michelangelo 

 . 
da   https://caffebook.it/2017/10/25/

Jacopo Cardillo, in arte Jago, è un eccellente scultore italiano di origine ciociara, nato ad Anagni nel 1987.Mentre lui sin da giovanissimo si è ispirato al grande Michelangelo, cercando di confrontarsi con il maestro del movimento e dell’anatomia scolpita, io mi sono innamorata delle sue opere, del suo talento e del suo estro.Come ben sappiamo non sempre i geni vengono riconosciuti e apprezzati nell’arco della loro epoca, spesso per ignoranza, a volte per mera invidia.Anche Jago ha già attraversato le sue difficoltà, tanto da aver lasciato l’Accademia di Belle Arti e aver proseguito il suo cammino da



autodidatta.L’episodio da lui stesso raccontato è stato il dissenso da parte del suo professore a presentare i suoi lavori alla Biennale, sebbene avesse ricevuto l’invito da Vittorio Sgarbi.Fortunatamente il mancato riconoscimento del suo valore non ha fermato la sua vena creativa, così che oggi noi possiamo godere di sculture che sembrano vive, corpi perfetti nelle loro imperfezioni precisamente riportate, figure scolpite nella dura pietra e nel marmo pesante, ma che sembrano leggere, create da materiali più duttili e morbidi.Ecco il genio, ecco colui che piega il marmo al suo volere.Jago è un Artista e in quanto tale il suo lavoro comunica un messaggio importante, come riportato dalle sue stesse parole:

Vedere una persona che sa scolpire, che sa mettere al mondo qualcosa, dà coraggio e di questo hanno bisogno le persone, di coraggio.

Il modo innovativo con cui lavora pietra e marmo dimostra un apprezzamento per la cultura pop, influenzata però dalla tradizione classica.Impossibile non apprezzare questo giovane scultore anche attraverso i video che generosamente posta sui vari social.Scopriamo quindi una persona in un certo senso umile, che non si incensa davanti alla telecamera, anzi spiega come le sue opere nascano dall’utilizzo di materiali e attrezzi comuni, che puoi comprare in una qualsiasi ferramenta, non pensando forse che proprio questo suo semplificare e semplificarsi fa di lui un grande artista e una grande persona.Jago ci permette di guardare il dietro le quinte, il parto della sua scultura perché a suo parere:

“Il dietro le quinte a volte è più importante dell’opera stessa”,motivo per cui utilizza i social per mostrare il suo making of.

Ogni sua scultura ha una storia, un intento, una fonte.Il Papa ad esempio non fu accettata dal Vaticano, che la respinse definendola disdicevole perché al posto degli occhi c’erano due fori. Il fatto che il Papa non la vide mai, quindi non espresse il suo giudizio in merito, passò in secondo piano…

Jago, il nuovo Michelangelo, Pontefice

Quando il Pontefice si dimise Jago spogliò la statua, proprio come si era in un certo senso spogliata Sua Santità e gli diede due occhi, profondi, vivi, che sembrano seguire ogni movimento di chi la guarda.Un comportamento coerente e coraggioso quindi da parte dell’artista, che infatti sostiene che “L’arte è una grande opportunità per dare coraggio alle persone”.In tutte le sue sculture è evidente il lavoro, simil-michelangiolesco, per mostrare i vari strati e aspetti della materia che compone la realtà che ci circonda. Anche le opere più surreali superano in un certo qual modo il soggetto stesso, per comunicare attraverso la morbidezza e i particolari minuziosi.

Jago, il nuovo Michelangelo, scolpire il marmo dà coraggio

Massi squarciati, elefanti, cuori, bambini immersi in una testa come nel grembo materno, si ammantano così di un’individualità e specificità che li rendono inimitabili ed eterni.

Anche se vieni giudicato perché da bambino volevi assomigliare a Mozart, tu continua a suonare e non smettere mai di sognare, perché male che andrà, alla fine in un modo o nell’altro diventerai te stesso.”


uniti nella vita e nella morte ed altre storie

 

repubblica 5\7\2021

Carla Medina e Luciano Borrè hanno vissuto insieme una vita intera, hanno trascorso legati più anni di quelli che hanno passato senza conoscersi. Lei aveva 89 anni, lui 94, sono stati sposati per 69 anni dopo un anno di fidanzamento. Sono morti a poche ore di distanza l'uno dall'altra nella loro casa di Maggiora, nel Novarese. Erano i genitori del dottor Silvio Borrè, primario del reparto di malattie Infettive dell'Asl di Vercelli.

 


Carla è mancata sabato sera, Luciano si è spento otto ore dopo, domenica mattina. Entrambi sono rimasti a casa fino all'ultimo, nonostante la lunga malattia che li aveva colpiti. "Le loro condizioni nell'ultimo anno erano diventate problematiche - racconta il figlio - erano entrambi in sedia a rotelle ma questo non impediva loro di tenersi compagnia. Seduti vicini discutevano ed era bello sentirli. 'Guai se osi farmi lo scherzo di andartene via prima tu', si dicevano a vicenda".A metà della scorsa settimana le condizioni di Carla sono peggiorate e la donna è andata in coma. "Papà si è reso conto di tutto perché nonostante l'età e la malattia era lucidissimo, e da quel momento non ha più voluto farsi alzare dal letto". Non ha voluto proseguire senza la donna con cui ha condiviso tutta la sua vita. Il cuore di Carla e quello di Luciano si sono fermati a poche ore di distanza dopo aver battuto insieme tutta la vita.Erano entrambi originari del piccolo comune del Novarese dove hanno vissuto fino alla fine, assistiti dai loro quattro figli e da una badante. Lui era stato un dipendente della Bemberg di Gozzano, l'azienda tessile con il marchio tedesco che si era insediata agli inizi del '900 nell'area del lago D'Orta. Carla aveva fatto la casalinga fino a quando i figli non erano diventati grandicelli poi aveva trovato lavoro in un negozio, a Maggiora, per contribuire alle spese per far studiare i quattro figli."Li si potrebbe definire una coppia di altri tempi - continua Silvio Borrè - e un po' lo erano perché si erano fidanzati 70 anni fa, poi si erano sposati dopo un anno di fidanzamento come si usava una volta. Ma erano anche genitori che sapevano stare al passo con i tempi". Erano molto credenti e la fede era un altro aspetto che li aveva tenuti uniti. "Da quando avevano smesso di uscire la domenica per la messa, potevi trovarli in casa nel massimo silenzio a seguire la celebrazione in televisione. E poi tutte le sere dicevano il rosario prima di dormire".Anche l'Asl di Vercelli ha voluto  porgere le condoglianze di tutta la direzione generale al medico "colpito in queste ore dal grave lutto di entrambi i genitori - si legge nella nota dell'azienda sanitaria - La direzione e i colleghi esprimono le più sentite condoglianze".

il fatto quotidiano    del  5\7\2021



5.7.21

Malika, la lezione per non buttare via i soldi e la vita


canzone  consigliata 
 Zucchero - Rispetto

lo so  che    vi sarete  , come il sottoscritto  rotti  gli zebedei  stufati diu sentire  parlare  di  marika     e  della sua  vicenda  e  di come ha  spesso i   suoi soldi   e della sua arrampicata  sugli specchi per  giustificarsi  , ma stavolta  (giurò che sarà  l'ultimo post  che dedicherò  a  tali vicende    salvi  chje  che  non s'avverera   la profezia  che  ho  fato    nel  post  precedente , cioè quella  di vederla  ospite  dala de 

filippi ed  affini  )   c'è  una ragazza  omossessuale  o  lgbt   per  usare  il politicamente  corretto    che   hja  avuto  una  situazione   come  qiella  di marika  ma   è  rimasta  fuori  ed  lontrano  dai media   e che  ha   una dignità  perchè non ha  chiesto  niente  a  nesuno  er  si  fa ed  si fattas un mazzo scosi  per  andare  a vanti  . Ma  ora  basta    parlare  lascio la parola   alla Lucarelli  

Malika, la lezione per non buttare via i soldi e la vita


Buongiorno signora Lucarelli, ho 22 anni, lavoro come babysitter, vivo in un appartamento in affitto a Milano, ho un cane e un gatto che non ho potuto portare con me, sono zia di quattro bambini stupendi (due in realtà devono nascere ma so già che saranno meravigliosi), convivo con la mia spettacolare fidanzata, sono un’ex ginnasta e ballerina, mi sono diplomata l’anno scorso dopo due anni di interruzione della scuola per poter lavorare, canto stonata sotto la doccia, ho le lenzuola di Harry Potter, amo la pizza e la tartare di salmone e mi piace tanto l’azzurro. A 18 anni e un mese sono scappata di casa perché la mia vita era diventata insostenibile: giusto un mesetto e mezzo prima mia mamma aveva scoperto nel peggiore dei modi la mia neonata relazione con una ragazza, naturalmente non l’ha accettata. Ho subito violenza verbale e fisica a casa mia, “alzi la voce” era la scusa, ma io la voce la alzavo per essere ascoltata, perché in tutto quel tempo nessuno si era fermato a chiedermi come stessi io che, da studentessa adolescente e povera di una scuola gesuita circondata da spocchiosi ragazzini con la puzza sotto il naso i cui genitori pagavano la mia borsa di studio, mi sono scoperta lesbica e sono stata la prima a non accettarmi.

Mi sono rimboccata le maniche, ho lasciato la scuola, ho lavorato e mi sono potuta addirittura permettere di andare in vacanza con i MIEI soldi sudati con il MIO lavoro.

A maggio di due anni fa sono tornata a casa con mia mamma, ci siamo più o meno riappacificate nonostante lei continuasse a non accettare la mia sessualità. Ho lavorato e nel mentre a settembre sono tornata a scuola. Poi un infortunio, ho lasciato il lavoro per riuscire bene a scuola, ho chiesto la disoccupazione per avere un aiuto perché comunque a casa di mia mamma pagavo l’affitto della mia stanza. Avevo circa, tra tutto, 450 euro di spese al mese escluso il cibo. Di disoccupazione ne prendevo 670,40. O sarebbe dovuto essere così. Ho chiesto la disoccupazione a metà gennaio, con i tempi dell’inps sarebbe dovuta arrivare a febbraio, ma è iniziata la pandemia. Ho visto la mia disoccupazione a maggio. Nel frattempo pagavo a rate la macchinina di mia nonna che intendeva poi regalarmi all’ottenimento della patente di guida (che non potevo, e non posso tuttora, permettermi). Ho arrancato per mesi. Mi sono arrangiata. Mi sono diplomata, ho subito iniziato a lavorare e a settembre ho preso casa con la mia fidanzata. Tutto da sola. Con grandi difficoltà. E non cerco compassione o pacche sulla spalla, sono fiera di ciò che ho fatto e so di non essere l’unica ad averlo fatto.

Mia mamma non mi ha cacciata di casa, ma mi ha reso la vita talmente invivibile per la seconda volta che sono dovuta scappare, di nuovo, definitivamente. Ho preso la decisione di andare via dopo il mio primo stipendio: mi sono presentata al lavoro con un occhio nero e dopo mille domande ho deciso che era ora di finirla.

Da sola con la mia compagna abbiamo affrontato un isolamento, poi la quarantena, gli stipendi quasi dimezzati per sei mesi perché lavoravamo entrambe in un locale nell’ambito della ristorazione. Ho lasciato l’università a cui mi ero iscritta perché la retta non potevo permettermela. Ho rinunciato al mio sogno di studiare e me ne sono costruita un altro: vivere.

Ho deciso di scriverle perché ho sempre pensato che ci fosse qualcosa che non andava nella storia di Malika. Ci sono centinaia di ragazzi come me e come Malika che si ritrovano senza famiglia, ma nessuno riceve 150mila euro da persone che donano loro i soldi per ripartire. E soprattutto nessuno li sputtana in una Mercedes che non serve per ripartire, basta una Twingo usata del 2012 come la mia, che è già un lusso. Sa cosa avrei fatto io con tutti quei soldi? Per prima cosa avrei prenotato privatamente la risonanza magnetica al cervello che aspetto da mesi. Poi avrei fatto la patente. Avrei pagato la retta dell’università. Mi sarei messa una piccola cifra da parte per coprirmi le spalle MENTRE LAVORO. E il resto lo avrei dato a tutte le altre persone che hanno bisogno.

Sono arrabbiata. Perché tutti meritano di ricostituirsi una vita dopo che la propria viene distrutta. Farlo è difficile, io ci sto provando ma a volte sembra davvero impossibile. Malika nella sfortuna (perché ciò che è successo a lei non dovrebbe succedere a nessuno) ha avuto la fortuna di avere un paese che le è stato accanto e un aiuto economico a ripartire. Eppure non se lo meritava. Sa cosa penso? Che chi sta male e davvero ha bisogno, non chiede aiuto. Io non ho mai chiesto aiuto perché mi sento debole, perché non voglio attirare attenzioni su di me. E quando sono andata via di casa con 100 euro in tasca e nemmeno le mie mutande che mia mamma non mi ha mai dato, la prima cosa che mi sono chiesta non è stata “come farò senza soldi e senza vestiti?”, il primo pensiero è stato “e ora come cazzo faccio senza l’abbraccio di mia mamma? Senza sapere che è dalla mia parte? Senza una famiglia? ”. Ce l’ho fatta signora Lucarelli, da sola. Ce la sto facendo. Ho ancora strada da fare ma ce la sto facendo. E sono indignata per come Malika si è comportata


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Grazie per questa lettera onesta, forte e priva di retorica, cara A. Io credo che la ricostruzione di una vita debba passare anche attraverso gli sfizi, specie a 22 anni, ma bisogna essere trasparenti fin dall’inizio. Malika ha peccato in questo. Non doveva avventurarsi in promesse di beneficenza e psicologo, era sufficiente un più asciutto “i soldi mi serviranno a vivere con leggerezza i miei 22 anni, ne ho bisogno” e le avremmo perdonato tutto.

4.7.21

dobbiamo accettare il fatto che le donne a volte ed in certe situazioni sono meglio degli uomini . il caso del'agente Sara che convince un assasinio barricato in casa a consegnarsi ed evitare il peggio



di cosa stiamo parlando

repubblica   4\7\2021

"Quei 13 minuti al telefono con l'uomo che ha sparato al padre". Il racconto dell'agente Sara: "Così l'ho convinto a consegnarsi" Venerdì pomeriggio, un tentato omicidio nel quartiere Cep dopo l'ennesimo litigio. Il genitore voleva indietro la casa. Dopo il colpo di pistola, l'uomo si è barricato in casa

                                           di Salvo Palazzolo

«Al telefono urlava: “Ho sparato a mio padre. Ho ancora la pistola in mano”. E in sottofondo sentivo i pianti di una donna e di un bambino. In una manciata di secondi, ho dovuto trovare il modo per entrare in relazione con quell'uomo. Intanto, facendolo calmare». Sara è abituata a conoscere le persone dalla loro voce, è una delle poliziotte della centrale operativa della questura. Venerdì pomeriggio, è stata lei a rispondere a Emanuele Presti, il ventinovenne che ha telefonato al 112 subito dopo avere sparato al padre dal balcone, al termine dell’ennesima lite.



«Era parecchio agitato — racconta la poliziotta — mentre i miei colleghi e l’ambulanza correvano verso via Barisano da Trani, al Cep, io dovevo cercare di fargli posare quell’arma».Questa è la storia di un uomo disperato. E della donna che l’ha tirato fuori dal baratro in cui era finito. Una storia racchiusa in una telefonata durata 13 minuti. «Interminabili», dice Sara. E il finale non era affatto scontato. «Perché l’uomo continuava a tenere in mano quella pistola, mentre dalla finestra guardava il padre riverso in una pozza di sangue, gravemente ferito». Emanuele Presti, disoccupato con precedenti penali per porto abusivo d’arma e resistenza a pubblico ufficiale, ha sparato al padre Giuseppe che continuava a insistere per riavere indietro l’appartamento del Cep. «Al telefono urlava ancora: “Vuole buttare fuori di casa me e la mia famiglia. E io cosa farò?”».
Sara ha iniziato a dare del “tu” ad Emanuele. «A quel punto era necessario stabilire un rapporto di fiducia con questa persona esasperata — spiega — gli ho detto: “Ascoltami, seguimi, io sono qui per aiutarti. Innanzitutto, pensa a un posto sicuro dove puoi conservare la pistola, in modo che nessuno si faccia male”. Per un attimo non ha detto più nulla, poi mi ha risposto: “L’ho messa in un cassetto”. E ha rilanciato: “Ora, cosa faccio?”».Sara, assistente capo dell’Ufficio prevenzione generale della questura, racconta che le parole degli uomini che si sono persi nelle strade di Palermo sono un filo sottilissimo, può rompersi da un momento all’altro. «Durante i giorni del lockdown, arrivò al 112 la telefonata di un uomo che annunciava il suicidio. Ma non voleva dire dove si trovava. Poco a poco, ho conquistato la sua fiducia». Come ha fatto? «Ascoltando la sua storia». E poi le ha detto dove si trovava? «Sì, ma per fermare il gesto estremo voleva che andassi io incontro a lui. Gli ho spiegato che stava arrivando una mia collega bravissima. E si è convinto».Cosa è accaduto, invece, ad Emanuele Presti? «Continuava ad essere barricato in casa. Anche lui voleva che andassi io. Perché avevo ascoltato con pazienza la sua storia e si fidava di me».
Intanto, mentre Sara è al telefono, in via Barisano da Trani, la polizia si prepara al peggio. Una decina di volanti schierate, agenti con i giubbotti antiproiettili e pistole a tiro. Ma anche una telefonata dietro l’altra al 112: le voci del Cep, tutto schierato con il padre. «Quello è un uomo violento — dicevano — quello ammazza qualcun altro». La centrale decide di mandare altri rinforzi. Ma, al momento, nessuno si deve muovere. Tutto è nelle mani di Sara. «Ho continuato a rasserenare Emanuele — racconta lei — ma insisteva: “Non voglio scendere”. Gli ho detto: “Adesso, dobbiamo pensare a tua moglie e ai bambini. Sono spaventati. Io e i miei colleghi ci prenderemo cura di loro”». Ed è stata la frase determinante. Ascoltando il racconto di Sara si capisce perché. La donna che dal 2011 raccoglie le voci di Palermo non è solo una poliziotta di 42 anni che ha lavorato a lungo nelle strade di questa città, è anche la mamma di un bambino. «Io cerco sempre di ascoltare le persone che incontro — sussurra lei — per il resto, faccio parte di una squadra che lavora per la propria comunità».Emanuele ha aperto la porta di casa. «Aveva sempre il telefono in mano e continuava a dirmi di avere paura di uscire. Ma passo dopo passo si è convinto». Forse, temeva una reazione del quartiere. Poco fuori l’androne, i poliziotti l’hanno fermato e velocemente sono andati via.Ora, Presti è accusato di tentato omicidio. Suo padre è ricoverato in gravissime condizioni a Villa Sofia. I poliziotti delle Volanti e i colleghi della sezione Omicidi della squadra mobile hanno trovato non solo la pistola che il giovane aveva sistemato nel cassetto, ma anche un altro revolver, risultato rubato nel 2011. Sara, invece, si sta preparando per un altro turno in centrale, alla caserma Lungaro. Con i suoi colleghi della Prima squadra delle Volanti.

Insegnando impariamo!


 «I giovani non sono abituati ad essere realmente ascoltati in classe, e quando provano ad esprimere liberamente un loro pensiero vengono zittiti da un sistema gerarchico che pone al di sopra di tutto l’autorità degli insegnanti considerati custodi del sapere acquisito e quindi dato. Io non agisco così. Insegnare per me è condivisione e fascinazione. Non impongo nulla ai miei allievi e cerco sempre di stimolare il loro spirito critico attraverso il dialogo. Jean-Jacques Rousseau sosteneva che: “Per insegnare il latino a Giovannino non basta conoscere il latino, bisogna soprattutto conoscere Giovannino”. Nessuna preparazione, per quanto ottima, ci esonera dal conoscere i nostri allievi. Ascoltarli è un dovere e un’occasione per crescere umanamente e professionalmente» 

                                  Cristian A. Porcino Ferrara ©️

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...