15.9.21

la mia estate e d il mio autunno letterario

Immagginandomi come uno scolaro     che  ritorna    dopo l'estate a scuola   e deve  fare  un  reso conto che  cosa    ha  fatto   durante  l'estate  riporto qui  cosa   ho fatto  quest'estate .  Un estate passata  come potete   vedere  sul  blog  e  su  facebook  oltre  che  1) raccontare  ( in realtà riportavo articoli  di giornali   e di siti   con  qualche  mio  commento ) le  olimpiadi e  le  paraolimpiadi  , 2)  polemizzare   con  no vax e  i no green pass   ne   trovate  anche   nei recenti post   sulla mia  bacheca    gli strascichi   3)  a  prendere  cantonate  vedi il  caso Tortu   3) ad  accompagnare    i  parenti e  gli amici   continentali  sul limbara  ( una  foto   a destra  le  alttre le trovate    sulla  mia  bacheca  di facebook  )  ho letto   molto . Ho letto due   graphoic novel   :   di  Andrea Ferraris il  cui primo : Una zanzara nell’orecchio -Storia di Sarvari traformato in un intervista-  recensione all'autrore che trovate qui e qui  un altra  mai recensione
e la  lingua  del diavolo  


Descrizione

Sciacca, Sicilia, 1831. I fratelli Salvatore e Vincenzo, rimasti orfani, campano di pesca e lavoretti, quando improvvisamente un vulcano riprende l'attività e in pochi giorni il materiale eruttato forma una piccola isola. Salvatore è il primo a salirci sopra, convinto, così facendo, di diventarne di diritto il proprietario. Dovrà invece battersi con inglesi, francesi e infine spagnoli. Saranno infatti i Borboni gli ultimi a intervenire nella contesa, nominando Salvatore governatore dell'isola per conto di Ferdinando II. L'isola, però, non riuscirà a resistere alla forza del mare e pochi giorni dopo si inabisserà. Insieme alla roccia colano a picco le speranze di riscatto sociale accarezzate da Salvatore. Persi la ragazza e il fratello, che non gli perdonerà di essersi "venduto" ai Borboni, a Salvatore non rimane che il titolo di Governatore con cui lo salutano, schernendolo, i paesani.

Ed  la  triologia   Vasco -Dylan Dog    con doppia copertina 



   ogni   numero   aveva  : copertina   con  vasco  rossi   come prima  e   non    come  seconda  , contesto  delle  canzonoi  raccontato da  Vasco  , intervista  a  vasco  ,  esperienze  dell 'autore dela storia   suìcon vasco rossi  , testodelle  canzoni  )  coincidenza  strana  ,  essa    ha  fatto d'apripista  al suo nuovo a lavoro   uscito  qualche   giorno   fa   non erano male   erano  molto belle  . soprattutto  l'ultima   .  Infatti    erano anni   che non leggevo un dylan dog  così angoscioso  . marchette a parte , è uno dei più  belli di questa trilogia.   sembra che abbiano trovato la strada che avevano smarrito da tempo e stua risalendo la china .   finalmente  un numero che non si legge 5/10 minuti  . e che dopo averlo.letto ti viene voglia di rileggerlo da capo per  osservare i disegni .  voto 7

Ho letto  poi  il belllissimo    e promettente     esordio  La rinnegata", l'esordio di Valeria Usala  (  mia  foto sotto al centro comprese le  altre  due  ) 


un romanzo ben scritto , coraggioso , veloce ed asciutto .  senza enfasi senza aggiunte inutili . cronaca ed oralità  si fondano insieme  con la memoria .   un giorno del giudizio in chiave  femmile . vede la Sardegna da fuori ma senza perdere le proprie radici   andando oltre i confini regionali .dettagli nel  passato dinamiche nel presente . rende attuale il passato . N
ostante  del prologo   ti  anuncia  già cosa accadrà alla protagonista  . ma  gli si  può perdonare  visto  che essa  è un esordiente   ed  un autrice  promettete   con la  speranza  che   non diventi    una  scrittrice  con lo stampino    cioè scriva    le  sue opere  successive  uguali  alle precedenti  .   Comunque    ha  mantenuto     sia   quanto  hja  promesso nel  prologo che non   vi  metto   per  non spoillerare  troppo   sia quanto   ha  riportato sulla      quarta di copertina    ( foto sotto ) .
Infatti :  << (....) Siamo davanti a un esordio narrativo sorprendente, che bilancia con grande consapevolezza il bisogno di rispettare la storia che la nonna dell'autrice le ha raccontato e al tempo stesso di avvincere il lettore in una narrazione serrata. Se leggete La rinnegata sarà il sentimento di ingiustizia a possedervi più volte, ma c'è anche speranza in questa storia amara di emarginazione.
La protagonista Teresa ha sempre saputo di doversi guadagnare ogni singolo momento della propria vita: da orfana, ha faticato per riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena e poi per costruirsi insieme al marito Bruno una famiglia, una casa, ma anche un emporio fiorente e la più recente osteria, che gestisce lei stessa, nonostante debba anche accudire i loro tre figli. Dunque, che cos'ha da riproverarsi? Nulla, se non la sua bellezza, che - per quanto mai esibita - non fa che attirare gli sguardi e le parole degli uomini e le malelingue delle loro mogli, gelose. C'è chi come Carlo, minatore che spesso si ferma a mangiare all'osteria, avanza complimenti e proposte apertamente.


 Che cosa può fare Teresa, quando dovrà prendere decisioni da sola? In paese tutti guardano con sospetto la sua indipendenza, che è qualcosa di inaccettabile, eppure Teresa porta avanti con grande dignità e senso dell'onore una battaglia per la legittimità della propria autonomia.(.... da https://www.criticaletteraria.org/2021/04/valeria-usala-la-rinnegata-garzanti.html)

Per  concludere    ho  sul  comodino     in corso di lettura  

  1) 

Quando diciamo: «Prima gli italiani!» cosa intendiamo? Chi ha la cittadinanza italiana o chi in Italia ci abita? Chi parla italiano? Chi ha genitori italiani o chi in Italia ci è nato? E non è la prima volta che ci poniamo questa domanda: ha cominciato Dante con la ‘serva Italia’; poi d’Azeglio con gli ‘italiani da fare’; e ancora, i ‘santi, poeti e navigatori’; gli ‘italiani nuovi’ fascisti o ‘gli italiani brava gente’. Urliamo questo slogan in un paese dai confini incerti, diviso tra nord e sud, est e ovest, città e campagna. Un paese che ha faticato a parlare la stessa lingua, che racconta a sé stesso una storia composta di micromemorie di parte. Un paese in cui i momenti più divisivi della vita pubblica sono proprio le feste nazionali. Ora questa identità frammentata è messa ulteriormente sotto stress dalle generazioni di ragazze e ragazzi nati in Italia da genitori ‘forestieri’. E negli stadi, con la realtà attorno a smentire l’ennesimo precario schema identitario, si grida: «Non ci sono negri italiani».



2)  

  il terzo  volume   ,  per  sbaglio  ho preso ,  durante  il  festival  di martis  , visto  che  la  raccolta     
completa  costava  troppo per  le mie tasche     ( eh si  amo  in un periodo  di magra   ) 50 € 
 a  caso per risparmiare    fra i libri  sfusi  e  singoli uno   deilla triologia   per   farnmelo    firmare  dall'autore      







3)

  di  Ferruccio Pinotti  Giornalista
Ferruccio Pinotti (Padova 1959), giornali­sta, attualmente è caposervizio Interni al “Corriere della Sera”. Ha collaborato con “la Repubblica”, “Il Sole 24 Ore”, “L’Espresso”, “Il Mondo”, “MicroMega”, “International Herald Tribune – Italy Daily”, “Cnn Finan­cial News”.È autore di molte inchieste sull’Italia con­temporanea. Tra le altre: Poteri forti (Rizzoli 2005), Opus Dei segreta (Rizzoli 2006), Fratelli d’Italia (Rizzoli 2007), Olocausto bianco (Riz­zoli 2008), La società del sapere (Rizzoli 2008), Colletti sporchi (con Luca Tescaroli, Rizzoli 2008), L’unto del Signore (con Udo Gümpel, Rizzoli 2009), La lobby di Dio (Chiarelettere 2010), Non voglio il silenzio (con Patrick Fogli, Piemme 2011), Wojtyla segreto (con Giacomo Galeazzi, Chiarelettere 2011), Vaticano mas­sone (con Giacomo Galeazzi, Piemme 2013), I panni sporchi della sinistra (con Stefano San­tachiara, Chiarelettere 2013). Molti dei suoi libri sono stati pubblicati all’estero.È consulente della Commissione antimafia.


     4) 


5) 

 con questo è tutto  

14.9.21

in italia stiamo regredendo fra sessimo , razzismo , talebani nostrani parte " II . Lascialo stare, il tagliaerba, te la rasiamo noi.’ slogan imbelle cantato dai tifosiad uan donna che rasava il prato prima dela partita Sampdoria-Inter

leggi prima 

Centinaia di uomini, che in uno stadio, davanti ad altre migliaia di persone, intonano questo coro rivolto a una ragazza che sta tosando il campo di gioco prima del match. È successo domenica, a Marassi, prima dell’incontro della squadra di casa contro l’Inter. Lei al centro di tutti e tutto che lavora. Mentre quegli uomini che sono lì per divertirsi intonano cori sulla sua vagina. Cori “scherzosi”, “goliardici” li definiscono loro. Come anche tanti siti di sport che usano la stessa parola: “goliardia”. Perché certo, è goliardico no? È divertente. Le matte risate. Per chi canta  forse  , meno  per chi  li subisce  .  Infatti  c'è da  chiedersi   se tale  tifosi   sarebbero stati dello stesso parere se al posto di quella ragazza ci fosse stata una loro figlia o sorella o fidanzata o mamma. Anzi, loro stessi. Che mentre lavorano, sentono cori di migliaia di persone sul proprio buco del c***. O sulle piccole dimensioni del proprio pene. Bello eh? Goliardico. Dicono che la ragazza sorridesse. Quindi tutto a posto no? Magari sorrideva per il nervosismo, o magari che diavolo avrebbe mai dovuto fare, fuggire in lacrime e lasciare il lavoro a metà prima di un match di serie A? Il punto è che sembri una goliardata che migliaia di uomini che sono allo stadio per vedere una partita di calcio, si mettano a fare cori sulla vagina di una lavoratrice. Il punto è sessualizzare una donna anche quando sta semplicemente lavorando. Il punto è farle sapere col megafono e i cori, che centinaia di uomini stanno pensando a come “rasargliela”. Il punto è che tu non sai mai chi hai di fronte, non sai se una ragazza possa esserne divertita (e in questo caso ci sarebbe da aprire un altro capitolo) o sconvolta. Non sai come possa sentirsi mentre centinaia di uomini che la circondano decantano la sua vagina rasata. Il punto è questa roba qui non è una goliardata. È violenza. Ed essere qui a doverlo ribadire, ancora una volta, è la cosa più drammatica di tutte.”
 Ecco che  La rabbia monta e in un mese in cui il calcio è tornato, allo stadio in prima fila ci sono stati razzismo e sessismo. Buon ritorno alle terribili abitudini del passato.
Il VIDEO (allucinante), rilanciato gioiosamente ( e da me ripreso ) da varie testate come una “simpatica goliardata”.Giudicate voi se questa, in un mondo appena decente, possa essere definita una goliardata. Per me che quando ero giovane mi comportavo come tali morti di figa , mandrili arrappati , ecc e che poi ha capito i suoi errori ed adesso lotta contro il suo maschio alfa .Ora  Chi ha definito i fatti di Marassi un siparietto simpatico è stato assente alle lezioni di sviluppo sociale degli ultimi 100 anni . No, non c’è nulla di simpatico nel “siparietto” che i tifosi dell’Inter avrebbero dedicato alla giardiniera di Marassi la scorsa domenica mattina, poco prima di Sampdoria-Inter quando lei era impegnata nel turno che le compete tra le 12 e le 15.




Due parole  con cui bisogna cominciare a fare i conti nella quotidianità: siparietto e goliardico. Cosa vorranno mai dire? Il più importante però è il secondo.

goliardia
/go·liar·dì·a/

sostantivo femminile
La comunità dei giovani universitari.
Lo spirito cameratesco e spensierato tipico dei goliardi.



Ecco che Goliardia per il vocabolario Treccani deriva dai goliardi medievali. Loro erano famosi per le poesie latine scritte e cantate i cui motivi principali erano l’esaltazione dell’amore, della giovinezza, del vino, della primavera, la critica sociale rivolta specialmente contro il mondo ecclesiastico. Cosa nel video possa in qualche modo richiamare i concetti sopra espressi, rimane un mistero.Quello che rimane, e stavolta sì, è l’umiliazione. Quella che fa più male. Perchè c’è tutto, il branco, lo stile (poco), il disinteresse per la vittima e il risultato di trasformare una persona che in quel momento è un lavoratore in una donna che a fine serata sarà una vittima.

Qualcuno dirà il saluto sorridente, altri la condanneranno perchè avrebbe dovuto denunciare subito l’accaduto (come? in che modo?) e per qualcuno addirittura ha apprezzato. E’ irrilevante. Il branco, l’ululato, la pubblica mancanza di rispetto. Tanto bastano.

 ha  ragione 

Lorenzo Tosa

In fondo è semplice. Immaginate se, al posto della giardiniera di Marassi, ci fosse stata la loro figlia, fidanzata, moglie, sorella. Immaginateli per un attimo questi perfetti sfigati (questo sono) che si fanno forti nel gruppo, nascosti nel branco, come ognuno dei maschi che vengono qui a commentare forti di una tastiera mentre una ragazza a loro cara (ne avranno una anche loro, forse) si sente urlare da cento uomini che le raserebbero volentieri la vagina in pubblica piazza. O perché no, direttamente loro, mentre cento uomini (non donne) scherzano e ridacchiano e intonano cori sui loro genitali davanti a migliaia di persone.
Uh, sai le risate... Triste anche doverlo spiegare così, ma è l’unico modo perché un concetto, per sbaglio, si faccia largo clandestinamente nella corteccia e attecchisca ..... Ma poi la cosa che non si sottolinea mai abbastanza è: ma quanto sono sfigati? No, dico, ma, al di là della meschinità, ma quanta sfiga devi avere nella vita per star dentro un branco di acefali ignoranti come scarpe a urlare da una balaustra a una donna queste schifezze? Gente così di donne nella loro vita deve averne viste poche (e quelle poche col binocolo) perché una donna di fronte a omuncoli così scappa per l’imbarazzo. Poveretti, non sanno cosa si perdono. ..... 

La storia di Martina Luoni, morta di cancro: lo skate, il surf e il diario online da Fuerteventura


Martina Leoni lottava da anni contro un cancro metastatico al colon. Aveva prestato il suo volto e la sua storia per la campagna di prevenzione anti-covid durante il lockdown
                    dal  corriere    della sera  14\9\2021

La storia di Martina Luoni, morta di cancro: lo skate, il surf e il diario online da Fuerteventura
L'ultimo anno della testimonial anti-Covid e il dialogo con i 40 mila follower su Instagram
La storia di Martina Luoni, morta di cancro:  lo skate, il surf e il diario online da Fuerteventura Una delle foto scattate a Fuerteventura postate su Instagram da Martina Luoni
shadow

Marty che si nasconde dietro uno scoglio a Fuerteventura, mostra solo gli occhi sorridenti e a corredo scrive le parole della canzone di Gianni Morandi: «Quanti cieli quanti mari che m’aspettano…Vedo i sogni che farò, partiremo insieme per un viaggio, per città che non conosco, quante primavere che verranno, che felici ci faranno…». Marty che, in luglio, cammina sulle dune di sabbia delle Canarie deserte e si confida con la sua comunità di 40 mila follower: «Sono stanca». Marty è Martina Luoni, la 27enne diventata testimonial anti-Covid della Regione stroncata dal cancro al colon contro cui combatteva da quattro anni.

Il coraggio della «leonessa»

 

Perché quando affronti la malattia per la prima volta tiri fuori tutto il tuo coraggio, «poi purtroppo succede che la prima volta diventa la seconda, terza, quarta e arrivi alla consapevolezza che uscire è sempre più difficile e i miglioramenti che vorresti non arrivano». Anche Martina Luoni, per i suoi amici e chi la seguiva «la leonessa», uno scricciolo, ma divenuta simbolo della battaglia di tutti gli ammalati di tumore, per avere cure adeguate e tempestive anche durante l’emergenza Covid, a volte si chiedeva se davvero ne valesse la pena. Ma poi «arriva un punto dove la scienza ti allunga la mano E prova a darti un’occasione. Ora ho iniziato un nuovo percorso di cure sperimentali, tra due mesi vedremo dove ci starà portando. Nel frattempo io sono qua con 10 kg in meno, ma con la voglia di riprendermi la vita e la mia autonomia. Tanto lo sappiamo tutti che vinco io, no?».

A Fuerteventura a caccia di «vita»

Lunedì sul profilo Instagram di Martina sono entrati i suoi familiari: hanno postato una foto che la ritrae sorridente e scherzosa, con una bussola al posto di un occhio, come un pirata pronto a salpare per nuovi lidi, in cerca di nuovi tramonti. La pagina è stata subito inondata di messaggi di cordoglio, gli amici di sempre e i tanti follower, tra cui anche influencer e persone del mondo dello spettacolo. Martina Luoni aveva raccontato pubblicamente la sua storia. A chi le diceva che con il suo coraggio era di esempio, lei rispondeva: «Non mi ci sento proprio un supereroe. I supereroi salvano altre vite, fanno del bene, tengono al sicuro i più bisognosi, io non faccio nulla di tutto ciò anzi, spesso vorrei avere io il mio supereroe. Ho imparato a mie spese che i supereroi non esistono, però ho scelto di essere supereroe di me stessa perché sono l’unica persona in grado di salvarmi».

Gli amici, il surf e lo skate

 

Morta Martina Luoni

Negli ultimi tempi, Marty aveva passato molto tempo a Fuerteventura, fra serate con gli amici, lezioni di surf e skate. Una scelta che a qualcuno era parsa inspiegabile, dovendo conciliarla con le cure a Milano. «Mi dicono di stare calma e fermarmi, ma io non ce la faccio, ho troppo da vedere, da esplorare e da vivere e lo so che non sempre faccio la scelta giusta, però ho timore del tempo, che scorre inesorabile e quel tempo nessuno te lo può restituire». Un viaggio che non serviva a fuggire dai problemi. «Fuerte è stata una ricarica di vita, sono tornata a vivere per me questa cosa non accadeva da anni. Ora che è tutto tremendamente in bilico io sorrido, sono felice perché sto bene questo pensiero non riuscirà a portarmelo via nessuno nemmeno un controllo andato male. Caro inquilino desiderato, ti sei messo contro la persona sbagliata...». Nel suo profilo Instagram, tante foto anche con i suoi amati cuccioli: un gatto e un cane che aveva adottato 5 anni fa e a cui era legatissima. «Ho scelto te perché ho scelto l’amore — gli scriveva in un post dedica — Perché ora tornare a casa la sera ha un senso».

 

in italia stiamo regredendo fra sessimo , razzismo , talebani nostrani parte 1

 Infatti Al patriarcato italico come dimostra anche il mio post precedente non servono barbe e kalashnikov, gli basta l’ipocrisia.

Perché lui:
1) non vieta l’aborto, ma riempie gli ospedali di ginecologi obiettori, i consultori di personale cattolico e nega qualsiasi forma di educazione sessuale ed affettiva a scuola
2) non chiude in casa le donne, ma applica male una legge contro lo stalking che lascia a piede libero gran parte dei persecutori obbligando le vittime a vivere nel terrore o peggio essere uccise
3) non lapida le mogli infedeli in piazza, ma non fa nulla contro una cultura che legittima i maschi a stuprare ed ammazzare le donne che li hanno delusi
4) non impedisce alle donne di lavorare, ma le paga il 30% in meno dei maschi e le obbliga a chiedere il part time per potersi occupare gratuitamente dei lavori domestici.

E dopo l’ennesime donne sgozzata dal marito, anche questa sera ci indigneremo perché i talebani impongono la sharia, e così dormiremo tranquilli convinti di essere quelli bravi, belli e buoni.

proprio mentre finisco questo post leggo sulla home di facebook questo post di

È il minuto 60 di Milan-Lazio.Tiémoué Bakayoko, centrocampista francese del Milan di origini ivoriane, fa il suo esordio in campionato a San Siro.Dal settore ospiti cominciano a partire fischi, insulti e cori razzisti al suo indirizzo. Uno, in particolare, su tutti: “Questa bana** è per Bakayoko”.
Come due anni fa, come sempre. Come se fosse una cosa normale.Al punto da costringere lo stesso giocatore a scrivere un post su Instagram che fa malissimo leggere: “Per tutti i laziali che hanno insultato me e Franck (Kessie, ndr), siamo forti e orgogliosi del colore della nostra pelle”. L’idea stessa che nel 2021 un calciatore, un essere umano, arrivi a scrivere pubblicamente di essere orgoglioso di essere nero, il fatto che ci sia bisogno di ribadirlo, è già di per sè una sconfitta clamorosa.E non chiamateli “tifosi”, questi sono fascisti, quelli veri. E in uno stadio o in una manifestazione sportiva non devono entrare mai più, semplicemente non hanno diritto di cittadinanza. Solidarietà totale a Bakayoko e Kessie, ma abbiamo tollerato anche troppo.

L'esclusione, la solitudine e poi la gioia che esplode. Diventare genitori ai tempi del Covid



Messaggi, foto, videochiamate, filmare ogni istante con il neonato in camera non basta, non è confrontabile con l'emozione della realtà. Stavolta la tecnologia non può replicarla. Le voci di neo genitori da Napoli e dalla Campania


di Tiziana Cozzi
12 SETTEMBRE 2021 










Tommaso Oliviero, docente di Economia bancaria alla Federico II, ha visto il suo Lorenzo, esattamente due settimane dopo la nascita. "E' stata un'esperienza traumatica, prima la gravidanza e poi il parto in pandemia - racconta - quando l'ho visto, ho pianto tantissimo, la tensione accumulata in quei giorni è stata tanta. Ho aspettato davanti all'ospedale per ore che nascesse, sul marciapiedi davanti alla Clinica dei Fiori di Acerra. E, mentre aspettavo, pensavo ai racconti gioiosi dei miei amici, la nascita è uno dei momenti più belli della vita. A me tutto questo è stato negato. Un periodo meraviglioso è stato trasformato in un incubo dal Covid. Da ottobre non ho assistito più alle ecografie, non mi consentivano di entrare in stanza. Accompagnavo mia moglie Tania dal ginecologo e aspettavo in macchina". È cominciata così, la storia di Tommaso e Katia, una nascita tanto attesa ma giunta in pandemia, un travaglio prematuro e tutte le ansie da affrontare ciascuno per proprio conto. Il Covid ha separato giovani coppie, ha lasciato mamme da sole in sala parto, ha sottratto non solo abbracci ma gioie.
E l'emblema di questa gioia a metà, sono i racconti di chi quello spaesamento lo ha vissuto sulla propria pelle. "Lorenzo è nato prematuro di due mesi - continua Tommaso - il giorno del parto ho accompagnato Tania in ospedale e non l'ho più vista, ho fatto perfino un tampone ma non mi hanno fatto entrare. Ero in contatto con lei al telefono finché è stato possibile, poi è rimasta due settimane in clinica solo per vedere Lorenzo che era in terapia intensiva. Abbiamo affrontato anche un notevole costo economico, la stanza era a pagamento. Alla fine tutto è andato benissimo, il periodo dello smart working da casa mi ha permesso di vivere al cento per cento mio figlio ma mi è mancato stare accanto a mia moglie". Il momento più bello della vita vissuto da sole. Entrare in sala parto e farsi forza senza lo sguardo e il conforto del compagno. Questo il rimpianto più grande delle giovani mamme. Diventare papà e restare fuori dalla magia del momento della nascita.


Nei due anni di pandemia, le regioni del centro-sud hanno mantenuto l'abituale maggiore proporzione di cesarei rispetto al nord del Paese. Un privilegio, poter avere accanto una persona di propria scelta durante il travaglio o il parto, concesso solo al 51 per cento delle donne meridionali, il 54 per cento dei neonati è potuto restare accanto alla mamma, tra questi il 27 per cento ha praticato il contatto pelle-a-pelle. Durante il ricovero il 69 per cento delle mamme e dei neonati hanno potuto condividere la stessa stanza e il 76 per cento dei piccoli ha ricevuto il latte materno. Nei mesi iniziali alla nascita le mamme sono state più spesso separate dai bambini mentre successivamente, anche grazie a una migliore organizzazione dell'assistenza, negli ultimi tempi i dati descrivono un maggiore rispetto della fisiologia della nascita e una maggiore attenzione nel favorire il contatto madre-bambino, il rooming-in e l'allattamento.E se i papà raccontano il dolore dell'esclusione, le mamme narrano dei parti in solitudine. Veronica Fornello è mamma di Miriam, oggi 11 mesi. "Ho scoperto di essere incinta a fine febbraio 2020 dopo poche settimane mi sono rintanata in casa, non sono più uscita, avevo paura. È stato difficile non vedere le persone care, non ho potuto condividere la gravidanza con mia sorella, mi sono mancati gli affetti". Quando è il momento, Veronica partorisce da sola ma tornata in stanza, trova a sorpresa, sua madre: "E' stata prigioniera in camera, non poteva uscire ma mi ha aiutato, per fortuna. Mi sentivo spaesata, pensavo al mio compagno che non poteva nemmeno prendere in braccio mia figlia. Una sera, mi sono affacciata e l'ho visto in strada, aspettava sotto la mia finestra. È stato terribile, sono scoppiata a piangere". La gioia di partorire, di tenere stretta tra le braccia la sua piccola ma il rammarico di farlo da sola. "Mi è dispiaciuto non aver provato quella gioia condivisa, ho partorito con persone estranee ma se ci penso quella mano amica mi è mancata, mi avrebbe dato più forza una carezza in più, anche se i medici sono stati amorevoli ma le parole di un compagno sono un'altra cosa. Lui mi è mancato molto, l'ho rivisto dopo 4 giorni, quando ci siamo incontrati ci siamo commossi, ci siamo abbracciati, sembrava che non ci vedessimo da una vita". Messaggi, foto, videochiamate, filmare ogni istante con il neonato in camera non basta, non è confrontabile con l'emozione della realtà. Stavolta la tecnologia non può replicarla.
Anche Nicoletta Colella, 35 anni, ha partorito il secondo figlio a novembre 2020 con l'incubo Covid. "I vaccini non c'erano ancora, se ne parlava, mi sono ritrovata in sala parto senza nessuno dei miei cari, è stata durissima, solo dopo un po' ho potuto informarli che era tutto ok. È stato difficile respirare con la mascherina, vedevo girarmi intorno medici e infermieri mentre ero in travaglio, mi è mancata una presenza, è andata bene, non posso lamentarmi, mi sono imposta di concentrarmi sul respiro ma mi è mancato avere una presenza familiare accanto. Il mio compagno mi ha detto che era fiero di me, del coraggio che ho avuto in una situazione così difficile". Il rimpianto più grande per Daniela Russo, 40 anni, mamma di Giuseppe, è aver sottratto la scuola alla primogenita Rosanna, 6 anni, proprio per le ansie legate al Covid. "Ha perso il suo ultimo anno d'asilo, ho preferito non mandarla a scuola, avevo paura del contagio. Durante la gravidanza non ho preso trasporti pubblici non sono uscita molto, mi sono chiusa in una bolla di smart working. Il Covid mi ha toccato proprio su gravidanza e parto, mi ero ripromessa di concentrarmi sulla seconda gravidanza, invece è stato brutto non poter condividere il momento della nascita con mia madre, i miei cari, è stata la cosa di cui ho sofferto maggiormente".Daniela ha partorito a Villa delle Querce, in camera con lei, suo marito Luigi ma le è mancata la condivisione con la famiglia. "Quando è nata Rosanna la stanza era strapiena di parenti, invece per Giuseppe è stato un momento intimo, di maggiore consapevolezza, eravamo soli. Allora ero circondata da tante persone che ti ovattano, ti stanno vicino, invece stavolta ho fatto dal primo giorno la mamma. Sono scesa dal letto e mi sono presa cura di Giuseppe, da subito, è stato bello. Il ritorno a casa invece è stato solitario, la cosa più triste è che mio fratello ha visto mio figlio da poco, quando aveva già 4 mesi". È stata una maternità difficile, carica d'ansie quella di Adriana Schiavo, 35 anni, "ho trascorso l'intera gravidanza in casa, non andavo nei luoghi chiusi, evitavo i supermercati, non entravo in casa di amici, ho lavorato in smart working fino a 8 mesi, disinfettavo tutto ossessivamente, il mio compagno andava a lavoro con 3 mascherine. Quando è nato mio figlio, poi, ho avuto paura di uscire. L'ho portato in un negozio di giocattoli pochi giorni fa, per la prima volta, a 7 mesi. Abbiamo subito limitazioni enormi, mi è mancata una gravidanza normale. Spero di poter provare cosa voglia dire in futuro".

Nel triangolo tra Freud, l'allievo suicida Tausk e una donna c'è il lato oscuro della psicanalisi Cosa unì e poi divise davvero Sigmund Freud e Paul Tausk. ., murales pubblicitari troppo belli e i cittadini chiedono di lasciarli ed altre storie



Nel triangolo tra Freud, l'allievo suicida Tausk e una donna c'è il lato oscuro della psicanalisi


Cosa unì e poi divise davvero Sigmund Freud e Paul Tausk. Perché un laureato in legge, giornalista e commediografo e solo dopo, grazie a Freud, alla seconda laurea, psicanalista, rischiava di oscurare il maestro. Quali erano le dinamiche del triangolo che legava i due a Lou von Salomé, amante di Tausk ma anche di Rielke e chiesta in moglie da Nietzche. Perché il brillante psicanalista allievo di Freud si tolse la vita povero e senza pazienti nel 1919. In "Fratello animale" (Rizzoli 1973) lo studioso di scienze politiche e docente a Harvard Paul Roazen ci aiuta scoprire alcuni punti oscuri all'origine della 'filosofia pratica' del Novecento: la psicanalisi 
Saggi e romanzi che non vengono più ristampati dei quali recuperare la memoria. Pagine importanti per capire il presente, da ripescare nelle biblioteche, nei mercatini dell'usato o dimenticati nello scaffale alto della libreria: libro vecchio fa buone idee



repubblica  12 SETTEMBRE 2021 

La street art incontra la pubblicità grazie ai grandi marchi che riempiono la città di opere che attirano lo sguardo per la loro bellezza e che conquistano anche i residenti dei quartieri da Garibaldi a Porta Romana

Venere di Botticelli in corso Garibaldi (fotogramma)



In corso Garibaldi una Venere con orologio e borsetta allunga lo sguardo sullo struscio dei passanti, in corso di Porta Romana si fermano tutti a fotografare una facciata alla Gaudì comparsa come per magia. In via Canonica, arrivando dall'Arena, è sbocciata una grande peonia rosa. E in via Spallanzani, da qualche giorno, si è accesso il dibattito su un palazzo completamente rivestito da un motivo a fiori bianchi e neri.
Che Milano si stia colorando di murales in ogni suo quartiere è noto ma, a guardarle bene, alcune di queste facciate dipinte nascondono (o mostrano) qualcosa di diverso: sono pitture pubblicitarie. È il cosiddetto mural advertising che sta via via rimpiazzando i vecchi cartelloni: si dice addio ai posteroni patinati ingabbiati nei sostegni di ferro, ma soprattutto si saluta la logica dello spot tradizionale. Che siano inserzioni mascherate dall'estro degli street artist o vere e proprie opere d'arte su commissione l'effetto non cambia: la promozione incontra la città senza deturparne le facciate, regalando a chi passeggia inediti arazzi urbani.
Secondo i registri del Comune ad oggi i murales pubblicitari sparsi per la città sono circa una ventina: la tendenza, iniziata qualche anno fa, è in crescita. Spuntano come funghi: alcuni sono la semplice trasposizione su muro della vecchia esplicita réclame, ma molti sono street art a tutti gli effetti. L'ultimo, comparso qualche giorno fa tra lo stupore di molti e il disappunto di alcuni, occupa tutta la facciata di un edificio dei primi del Novecento che svetta all'angolo tra via Spallanzani e viale Regina Giovanna. Quel "Feels like Prada" contornato di fiori stilizzati in bianco e nero ha scatenato il dibattito social. Così, mentre in tanti si sperticano in "bellissimo" e "meraviglioso" c'è anche chi non gradisce: "Questa ultima genialata toglie l'eleganza che possedeva questa zona", sentenzia Mirella su Facebook mentre per Rosamarina "sulla carta sarebbe bello il disegno ma su una casa mi pare di no". Non c'è niente di più scontato ma efficace per dare senso ai battibecchi sul web: i gusti son gusti.



Ammirata senza riserva è invece l'opera dello street artist Cosimo Caiffa, in arte Cheone: il suo "The Vision" che ricopre la facciata laterale di Casa Maiocchi, l'edificio che Piero Portaluppi ha firmato nel 1920 in corso di Porta Romana 111, è stato fotografato da chiunque e quelle sue finestre dai contorni ondulati che ricordano le case di Barcellona progettate da Antoni Gaudì, hanno fatto il giro di Instagram in questi mesi, dando al murale una visibilità che ha valicato i confini milanesi.
Fotorealismo e illusione ottica hanno rapito i residenti del palazzo e i commercianti della zona, che stanno chiedendo che l'opera non venga rimossa: sì perché sempre di inserzione pubblicitaria si tratta (il committente, che si mostra in maniera discreta sulle finestre del primo piano, è la Mv line group, società che produce tende) e come tale ha una scadenza. "Sappiamo che a fine settembre non ci sarà più e siamo molto dispiaciuti, anche perché è impossibile creare qualcosa di più straordinario di quest'opera", racconta Matteo Pescarzoli, condomino dello stabile. "È un'attrazione di grande valore per la nostra zona - gli fa eco Sabrina Frigoli, presidente dell'associazione dei commercianti di Porta Romana - un richiamo per tutte quelle persone che vengono qui apposta per fotografarlo". Da Clear Channel, la concessionaria dello spazio in facciata che ha altri due murales a Milano, la venere di Corso Garibaldi 81 sempre dipinta da Cheone, e un muro del Leoncavallo, non c'è alcuna chiusura: i vertici stanno ascoltando le richieste di tutti e si dicono disposti a trovare una soluzione condivisa qualora dal Comune partisse una richiesta ufficiale per salvaguardare il murale. "Sarebbe un regalo fantastico", sorride lusingato l'artista.
L'elenco stilato da Palazzo Marino è lungo: c'è la peonia mangiasmog di via Canonica 25 dipinta dagli Orticanoodles (il LifeGate Wall sul quale girano, a rotazione, diversi sponsor), piazza Santo Stefano e via Larga, via Casale 3 (dove ora c'è il gemello di via Spallanzani), via Pioppette 3, Largo La Foppa, varie pareti in Corso Garibaldi, via Gian Galeazzo 3, via Melchiorre Gioia, via De Castillia 24, via Lodovico il Moro 129, via Pietro Morselli 3, via Varese 1. Il meccanismo è identico a quello delle pubblicità tradizionali: stessi costi dei vecchi spot, per quanto riguarda i canoni comunali legati alle dimensioni del muro, cui si aggiungono le tariffe degli inserzionisti e i costi di realizzazione.
"Le aziende hanno compreso la potenza visiva della street art", spiega Mauro Ferraresi, professore di Sociologia della comunicazione all'Università Iulm: "Un tipo di comunicazione liquida, che argomenta meno di uno spot tradizionale ma che entra nella memoria visiva delle persone per rimanerci a lungo". La logica, precisa Ferraresi, "è legata al concetto di sponsorizzazione più che di pubblicità". Il messaggio, cioè, è semplice: "Goditi questo momento estetico che ti è stato offerto da me, azienda "illuminata". E funziona"

Ventisette anni, di Vetulonia, è quasi un alieno della musica italiana. Il suo primo disco è un “bestiario”: otto fiabe dedicate alla sua terra

repubblica  17 AGOSTO 2021

Bestiario musicale, il disco con cui Lucio Corsi ha esordito





Immaginiamo una festa di fine anno. A bordo piscina. Con il Martini, la burrata, il deejay set e purtroppo i fenicotteri rosa gonfiabili. Si festeggia la nuova musica italiana, quella degli enfant prodige maghi dell’algoritmo e della prosa, dei nativi digitali favorevoli alla decrescita felice e dei periferici che si sono arricchiti in un click.
Ci sono tutti, vincitori e vinti di Sanremo, X Factor, Amici, scalatori di classifiche di Amazon e Spotify: un parlamento rovesciato per età, ambizioni, colori, motti, sogni. Hanno tutti i capelli rosa, blu, verde elettrico, doppi tagli, tatuaggi, anelli, taglie sbagliate, extra large. Discosto, c’è un tipetto che sembra schizzato fuori dalla copertina di un disco degli Yes, The fool on the hill. Si chiama Lucio Corsi.
Ventisette anni, di Vetulonia, città etrusca in provincia di Grosseto, piena Maremma che lui descrive così: «Il farwest italiano, la Toscana brulla, dura e magica dove agirono briganti e butteri». È cresciuto in campagna, in un podere circondato da alberi che «fanno l’ombra vera», dove c’è «il buio vero, quello che non si ricava: esiste», e gli animali sono apparizioni fulminee ma costanti. Per questo, il suo primo disco è dedicato a loro, gli animali che per lui hanno sempre meno spazio e allora «i draghi sono diventati lucertole», perché le città si espandono indiscriminatamente – lui dice che sono «metropoli tentacolari»: parla come parlava Luciano Bianciardi, grossetano come lui, e come lui spaventato da Milano, fortemente scettico rispetto a quella che chiamava «la società divertentistica e copulatoria».
A gennaio del 2017, quando la nuova musica italiana era ancora l’indie, almeno per i giornali, Corsi pubblicava Bestiario musicale: otto tracce, ciascuna dedicata a un animale del bosco di cui faceva un ritratto e una fiaba. Il cinghiale era «terremoto delle zolle, uragano delle fronde»: in una diretta social dal Museo della Scienza di Milano, ha spiegato che con quel verso intendeva che i cinghiali hanno trasformato il paesaggio, smussato le colline «che si sa, un tempo erano quadrate», comportandosi come agenti atmosferici.
Poeta, cantastorie, aedo, musicante di Brema, folletto, stramba creatura: lo hanno definito in questi e cento altri modi, tutti giusti e insufficienti. Diciannove anni a Vetulonia, dove torna appena può perché solo lì riesce a scrivere, lo hanno reso impenetrabile al suo tempo, a ogni tempo: lui sta nello spazio, non nel tempo. La cosa più precisa che si può dire di lui è che non assomiglia a niente. Certo, richiama gli anni Settanta e certo, il film che gli ha cambiato la vita è Velvet Goldmine, e i dischi che lo hanno allevato sono di Rondelli, Gaber, Paolo Conte, Bowie, Graziani, Dalla, Flavio Giurato (il suo preferito). Ma non assomiglia a niente lo stesso, non ai rapper suoi coetanei, che ascoltano e amano altro, e non ai Maneskin che ascoltano quello che ascolta lui e amano molte delle cose che ama lui, chitarre incluse. L’approccio artigianale alla musica, che studia da quando aveva quattordici anni, è uno dei molti tratti che lo pone in attrito rispetto alla tendenza contemporanea. È un feticista della strumentazione, sul palco siede al piano con in bocca un’armonica.
Nella sua Gibson del ’74, dopo averla comprata, ha trovato l’esoscheletro di uno scarabeo: lo ha lasciato lì, anche se fa rumore. Gli animali, ancora: sempre.
Una delle ragioni per cui Lucio Corsi è così interessante e, sebbene unico, anche esemplare, è che incarna bene lo spirito ecologista della sua generazione. Quello spirito che è facile definire woke (woke è ciò che avantieri avremmo definito radical chic) e che certamente contiene svariate dosi di faciloneria adolescenziale e conformismo intellettuale, ma che è anche, soprattutto, il carburante di un’etica nuova, che nasce da un amore pragmatico e romantico per il mondo intorno. La solidarietà, concetto che agli adulti tardo novecenteschi pare tuttora buonista, per la generazione di Lucio Corsi è un fatto concreto, la condizione della relazione tra uomo e natura e, di riflesso, tra uomo e uomo. L’armonia con il creato, che noi più avvertiti siamo abituati a sbeffeggiare come rimpasto fricchettone, è per loro un fatto di solidarietà, intesa come vincolo, e quindi dovere, e quindi accesso al diritto: intesa come la intende l’articolo due della Costituzione italiana. Solidarietà e anarchia: «C’è un movimento punk nella foresta, gli alberi con i capelli verdi sulla testa, e le galline con le creste mal viste dalla guardia di finanza, che non si accorge del crimine che avanza». Che cantastorie fantastico. L’anno scorso, sul limitare del primo lockdown, Corsi era in tour con il suo secondo disco, Cosa faremo da grandi: ancora otto tracce, ancora un disco concepito alla maniera del Novecento, con uno sviluppo, un tema portante e decine di affluenti. Insomma, un’opera. Era già Lucio Corsi: famoso e adorato dai superstiti della nicchia indie e dai traditori di quella indie pop, cominciava a essere trasversale, iconico, televisivo (è stato anche ospite fisso de L’assedio di Daria Bignardi), ma mai social.
Nel disco parla di vento, conchiglie, mare, lampioni, tempo e della grande impresa che è la rinuncia, di come preluda al cambiamento e di quanto sia necessaria e salutare. «La mia canzone parla di un modo di affrontare la vita dove si festeggiano più le linee di partenza che i traguardi»: quando suona dal vivo, Corsi non manca mai di raccontare i retroscena e i perché delle sue canzoni, come faceva Tenco, convinto di doversi sempre spiegare.
Com’è stato possibile che un ragazzo così speciale avesse un successo tanto disarticolato da tutte le regole del successo? Una parte di merito è della casa discografica che lo ha accolto, appena arrivato a Milano, la Picicca, e del suo manager, Matteo Zanobini, che il suo lavoro ce lo racconta così: «Il mio obiettivo è saper indirizzare gli artisti senza snaturarli. Con un talento puro che ha una visione molto precisa del suo lavoro, come è Lucio Corsi, la prima cosa da fare è preservare la sua anima, accompagnarla e intervenire il meno possibile, come si fa in cantina con un vino naturale. Non si aggiunge niente e si aspetta che la natura faccia il suo corso. In un mercato così veloce, è una strategia rivoluzionaria».
Il resto, è il talento puro di un ragazzo che è una creatura, e certe volte sembra una pianta, magari un vitigno. E per fortuna c’è qualche altro ragazzo, un po’ più adulto di lui, che lo protegge. La concordia generazionale è migliore della rottamazione, no?

Pretendere che italiani e immigrati ed in nuovi italiani condividano la stessa idea della donna come persona libera

Qualche  giorno    fa  stavo sfogliando la  slide   di msn.it      è  sono  capitato    su quest  articolo di  HuffPost Italy Dei fatti di C...