11.7.22

C’è una storia, commovente, che è riemersa in queste ore dal ghiacciaio della Marmolada. È quella di Tommaso Carollo, 48 anni, una delle undici vittime accertate.

   Non è vero che non ho  rispetto per  le vittime   soprattutto quelle   che  come la storia    riportata  sotto  , nel precedente post   : <<  che  palle adesso   con la  tragedia  della  marmolada parte  la retorica   di corpi  che non hanno sepoltura  e    i familiari una tomba  su cui piagerli >>  io  criticavo la  pornografia del dlore    ed  la retorica   d'aver una  tomba  su  cui piangere    a  tutti i costi  e  di  come  un morto soprattutto  tragedie naturali    come  questa   può  anche essere  pianto  ed  ricordato dentro il tuo cuore  . 


Tommaso stava affrontando, insieme alla compagna Alessandra De Camilli e ai compagni di cordata, uno dei sentieri per tornare a valle quando il seracco si è staccato.
Prima le ha urlato: “Via, via!”, poi l’ha spinta via per proteggerla dall’urto, salvandole, di fatto, la vita.
“Io ho tutto un lato del corpo con fratture sparse, ma gli organi vitali sono integri. Mentre lui è stato preso in pieno dalla valanga, alla schiena”. Ed è morto.
Tommaso avrebbe potuto scappare, correre via, e probabilmente oggi sarebbe salvo. Invece, nel momento cruciale, il suo primo pensiero è andato alla sua compagna di vita e di tante scalate.
“Ora che affiora qualche ricordo e qualche particolare in più” ha scritto lei, “posso ragionevolmente pensare che, se sono viva, è grazie a te. Tutti devono sapere che persona onesta, seria, corretta e altruista fossi. Ovunque tu sia, io so amare fino a lì”.
Non sono numeri, sono storie, vite. E  -- come  fa  notare Lorenzo Tosa  --quella di Tommaso, il suo clamoroso atto d’amore per Alessandra, merita davvero di essere ricordato. E omaggiato.








Ecco  la  cronaca   di https://www.nextquotidiano.it/


Tommaso Carollo è una delle 11 vittime di quel crollo del seracco sulla Marmolada. Lui, come gli altri, è stato colpito da quella frana di ghiaccio e pietre mentre, insieme ai componenti della sua cordata, stava affrontando uno dei sentieri per tornare a valle dopo aver scalato la vetta e aver dormito, la notte precedente, in un rifugio in alta quota. Erano le 13.45 di domenica scorsa quando quel tranquillo pomeriggio in montagna si è trasformato in una tragedia di proporzioni epocali. Una tragedia fatta di morte e dolore. E l’uomo, 48 anni, è riuscito a mettere in salvo la sua compagna prima di essere travolto.



A raccontare quei tragici momenti, a una settimana di distanza, è Alessandra De Camilli, una delle superstiti e compagna di Tommaso Carollo. La donna si trova ancora ricoverata all’ospedale Santa Chiara di Trento con diverse fratture sparse su tutto il corpo: dalle braccia al bacino, fino alle costole. E proprio dal letto del nosocomio ha raccontato al Corriere della Sera il gesto del suo compagno. Quello che le ha permesso di essere ancora viva: “È stato lui a lanciare quell’urlo ‘via, via!’. Gli altri due turisti erano lontani. Ricordo la sua mano sulla spalla che mi spinge per proteggermi. Io ho tutto un lato del corpo con fratture sparse, ma gli organi vitali sono integri. Mentre lui è stato preso in pieno dalla valanga, alla schiena”.
Il manager 48enne, dunque, ha avuto quella prontezza di riflessi per salvare la vita alla propria compagna. Ma questo non è stato sufficiente per salvare la propria. Perché quel rumore sordo del seracco che si è staccato da Punta Rocca si è trasformato, nel giro di pochi istanti, in una valanga di ghiaccio e pietre che lo ha colpito, travolto e inghiottito. E, oltre a lui, altre 10 persone hanno avuto la stessa tragica sorte. E anche sui social, la compagna di Tommaso Carollo ha voluto ricordare quell’uomo che le ha salvato la vita:
“Ora che affiora qualche ricordo e qualche particolare in più , posso ragionevolmente pensare che, se sono viva, è grazie a te. Tutti devono sapere che persona onesta, seria, corretta e altruista fossi. Con te mi sentivo sempre al sicuro”.

l'ennessima imbecillitta conformistica del politicamente corretto Basta grembiulini azzurri e rosa, dall’anno prossimo «sarà consentito solo l’uso del colore giallo»

 DI  COSA  STIAMO PARLANDO 

Pistoia, alla materna tutti con il grembiule giallo per la parità di genere. Pillon: «No ideologia sui bambini»

Basta grembiulini azzurri e rosa,dall’anno prossimo «sarà consentito solo l’uso del colore giallo», scrive il preside. Polemico il leghista Pillon

Un grembiule per combattere gli stereotipi di genere. Dal prossimo anno i bimbi della scuola materna dell’istituto comprensivo Salutati-Cavalcanti di Buggiano (Pistoia) indosseranno un grembiule giallo senza distinzione tra alunni maschi e femmine.  [....]   segue su Pistoia, alla materna tutti con il grembiule giallo per la parità di genere. Pillon: «No ideologia sui bambini» - CorriereFiorentino.it


la   lotta per «educare al rispetto, per la parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione»  ovvero  La parità, così come l’uguaglianza di diritti e doveri, non si oppone alla differenza e alle differenze, ma alla diseguaglianza, alla disparità e alle discriminazioni»   si puo  fare  ed  sostenere  anche senza pagliacciate  simili  . cosi  anzi  che  valorizzare  le   diversità   si   omologano  . uguaglianza  si ma ella  diversità  non appiattimento nel  conformismo omologante
 

INTERVISTA ALLA EX PRESIDENTE DELL’AGEDO PALERMO ORA SOCIA DELL'AGEDO TORINO FRANCESCA MARCECA


Leggo  i soliti commmenti    molto spesso benaltristi   ed  cinici    riguardanti  le  persone transgender    o appartenenti  al mondo LGBT+  a  notizie  come  questa   di qualche  giorno  fa 

 la  nuova sardegna  19\6\2022    

Minerva e il coming out: «Libera di essere donna»


  

Ha 22 anni, è di Sassari e ha iniziato a gennaio il percorso di transizione: «La mia famiglia mi sostiene, troppe persone invece vengono emarginate» segue sul sul sito del giornale più precisamente In Minerva e il coming out: «Libera di essere donna»





Infatt  allenessimo racconto   di un ragazzo trangender, vedi sopra  ,     affermano : <<  che noia ,   è un fatto privato , È una cosa che riguarda solo te, perché renderlo pubblico, è una moda , ecc  >> 

Vero   sono fatti privati  . Ma  tali fatti smettono di diventare una cosa che riguarda la persona ed i suoi i familiari quando ancora troppe persone pagano un prezzo altissimo in discriminazioni , in dignitò , e spesso la vita . Diventando quindi qualcosa che riguarda tutti noi, la società, quella che dovrebbe essere civile e di civile, spesso, ha ben poco. Chi lotta ora non lo fa solo per se stesso ma forse, chissà, anche per i nostri figli, nipoti o i loro figli domani. Si è mai pensato a questo?. Se così fosse, nessuno l’avrebbe insultata per strada, usato parole poco gentili e chissà cos’altro si è sentita dire.Se fosse così semplice, non ci sarebbe bisogno di raccontarlo e di raccontare la sua storia per dare forza e coraggio ad altre ed altri.
Posso soltanto immaginare il suo percorso. Buona vita cara Minerva. 🥰

Ed è proprio per questo che ho deciso d'ntervistare Francesca Marceca (  qui  il suo account  facebook
)  Moglie, madre, nonna, docente in pensione, scrittrice di libri per bambini, volontaria ass. Agedo.

1) Qual era il tuo rapporto con l’omossessualità ed il poliamore prima che i  tuoi figli si dichiarassero ?

Prima che i miei figli si dichiarassero, uno gay e uno poliamoroso, conoscevo poco sulle tematiche. Anche dopo il mio ingresso nelle associazioni LGBT+, ho sentito  parlare poco di poliamore e di poliamore familiare. I miei figli hanno cambiato  tutto questo. Quando i miei figli si sono dichiarati, mi hanno sollecitato ad apprendere e a pensare a come i miei pregiudizi stessero influenzando il mio  rapporto con loro. Fortunatamente abbiamo superato le difficoltà grazie al  dialogo e alla voglia di capire, ora il nostro rapporto è forte e costruttivo. Spero che, condividendo la mia storia, possa aiutare altri genitori di persone LGBT+.
2) Cosa intendi per poliamore familiare ? 
La galassia delle non-monogamie etiche (insieme di modelli relazionali, basati sul consenso di tutti, in cui si ha più di un partner) vede diverse modalità di relazioni: anarchiche, parallele, esclusivamente sessuali, affettive. Il poliamore familiare prevede la costituzione di un nucleo stabile e fedele di persone che si amano vicendevolmente e condividono responsabilità, progetti, quotidianità, economia familiare. Le famiglie poliamorose spesso si nascondono per paura del giudizio e della condanna sociale e camuffano le loro relazioni. Io, mio figlio e mio marito ci stiamo impegnando per formare una rete di mutuo-auto-aiuto, sia di genitori di persone poliamorose familiari che persone poliamorose familiari. Le polifamiglie necessitano di riconoscimento, visibilità, rispetto, amore. Il desiderio di costituire famiglia poliamorosa fa parte della identità di diverse persone. Non tutte queste persone, però, arrivano a prenderne piena consapevolezza, a causa dell'universalizzazione della monogamia nei nostri contesti sociali o dell'ideologizzazione radicale sulle non-monogamie promossa da frange estremiste;vivono così con sofferenza e surrogando i propri bisogni interiori. 
3) Come riesci a conciliare la tua fede cristiana con l'essere genitore di figli Lgbt ?
Vorrei che i miei figli sentissero che la fede è qualcosa che può guidarci e sostenerci nell’ attraversare le sfide della vita. Allo stesso tempo, desidero che  sappiano che possono amare chiunque vogliono e che devono essere orgogliosi delle loro identità affettive-relazionali. Come presidente di Agedo Palermo dal  1998 al 2014 e ora come socia di Agedo Torino, ho lavorato per far progredire l'uguaglianza delle persone LGBT+. Come madre, desidero che i miei figli sappiano che non cèè nulla di sbagliato nell'essere omosessuali o poliamorosi. Siamo tutti figli di Dio. Io faccio parte della rete 3 Volte Genitori che raccoglie i genitori cristiani di persone lgbt+.
4) Avete aderito ad Agedo precedentemente oppure dopo il coming out familiare di vostro figlio ? 
Quando mio figlio maggiore si è dichiarato omosessuale, è stato un momento di gioia e di dolore allo stesso tempo. Ero così orgogliosa di lui per la sua sincerità,ma sapevo anche che avrebbe dovuto affrontare molte sfide nella vita. Una delle prime cose che ho fatto è stata iscrivermi ad Agedo, un'organizzazione che sostiene i genitori di persone LGBT. Grazie ad Agedo ho conosciuto altri genitori che stavano vivendo la stessa esperienza. Dopo il coming out del mio secondo figlio come persona poliamorosa , mi trovo motivata come prima o più di prima e in Agedo trovo l’incoraggiamento ed il supporto necessari.
 
5) Fra i propositi dell'Agedo c'è quello di aiutare le famiglie con figli lgbt+ come riuscite a mettere in pratica tale proposito? 
Ci forniamo reciprocamente sostegno e lavoriamo insieme per creare un mondo più accogliente per i nostri figli. Sono orgogliosa di far parte di questa organizzazione e sono grata per il lavoro che svolge. In Agedo operiamo per sostenere le famiglie che si trovano ad affrontare le sfide derivanti dall'avere un figlio lgbt+. Riconosciamo anche che, a causa di pregiudizi atavici, può essere difficile condividere vissuti, emozioni con i propri figli lgbt+, e per questo offriamo  vicinanza e corrette informazioni a chi è in difficoltà. Crediamo che sia  fondamentale che le famiglie accolgano con amore i loro cari lgbt+, e ci  adoperiamo per fornire risorse e supporti qualificati. Il nostro obiettivo è aiutare le famiglie, in modo che possano guardare al futuro e vivere insieme una vita  soddisfacente. Se non conoscete Agedo, vi invitiamo a contattarci e ad approfittare delle nostre risorse. Siamo qui per sostenervi e aiutarvi a superare  questo difficile processo. Grazie per essere parte della nostra comunità.
6) Come si dovrebbe fare l'educazione alla prevenzione del bullismo lgbt+fobico nella scuola, dato che l'età adolescenziale è quella in cui le  persone stanno iniziando il loro percorso identitario e soffrono maggiormente il peso della discriminazione ?
L'educazione è la chiave della prevenzione in questo settore. Insegnando agli studenti l' importanza del rispetto per tutte le persone, possiamo contribuire a ridurre l'incidenza del bullismo basato su orientamento sessuale, identità di genere, identità relazionale. I progetti creativi sono i migliori perché  coinvolgono i discenti nel fare, più che nell’ascoltare passivamente. È inoltre  importante fornire sostegno e risorse agli studenti che potrebbero avere dubbi  sulla propria sessualità, creando un ambiente sicuro e solidale nelle nostre  scuole. Così possiamo aiutare i giovani a esprimere il loro potenziale.
7) Sei d'accordo con il decreto legge Zan o contraria ?
Avrei preferito l’allargamento della legge Mancino, pur essendo d'accordo con la proposta di decreto. Nei miei desideri ci sarebbe l’inserimento di aggravio di  pena per le discriminazioni e violenze verso le persone con orientamento relazionale poliamorosa, poiché queste persone possono facilmente essere  vittime di violenze verbali o fisiche. Tenendo conto di queste preoccupazioni,continuo a credere che il decreto Zan sia un passo nella giusta direzione.
8 ) Secondo voi il gender esiste o sono fesserie della destra più becera e  retrograda ? 
Non esistono teorie gender ma esistono gli studi di genere. Il genere sessuale  biologico esiste, ma esiste anche il genere psicologico della persona, che non  sempre coincide con quello biologico ed è fondamentale per il benessere della  persona. Inoltre ci sono molte cose che noi, come società, associamo  storicamente all&#39;essere maschio o femmina e lo si può vedere dal modo in cui i  ruoli di genere cambiano nel tempo. Per esempio, ciò che un tempo era considerato lavoro da uomini oggi è spesso svolto da donne e viceversa o indifferentemente.


Ringrazio Giuseppe Scano per l’ intervista e per avermi ospitata nel suo blog.

«Viaggiare vuol dire esplorare io insegno a farlo con lentezza» Filippo Altea, 22 anni, è @traveltoide: sui social racconta il giro in Europa «Il segreto è immergersi nei luoghi, conoscere le persone e la cultura

  da la nuova  sardega  del 10\7\2022


 Felicità è quando incontri una signora in treno, le dici “Kalispera” e il tuo viaggio prende un’altra direzione, bella e inaspettata. «Credeva che parlassi il greco, in realtà le ho detto l’unica parola che conosco ma per fortuna era un’insegnante di inglese e quindi siamo riusciti a chiacchierare e conoscerci». Ecco allora che i cinque giorni di Filippo in Grecia sono diventati nove, perché quella signora «stava andando a vedere un festival in onore di Sant’Elena e San Costantino che si conclude con il rito del passaggio sulle braci ardenti. Lei mi ha preso a fill’e anima e ci siamo andati insieme».


Era più o meno il 21 maggio e il viaggio di Filippo Altea, 22 anni, di Dolianova, adolescenza vissuta tra la Sardegna, Padova e Roma e incursioni Erasmus in mezza Europa, era iniziato da pochi giorni: partenza il 16 da Roma, poi in nave da Bari a Patrasso, e da lì il via per attraversare e visitare una ventina di paesi europei sino a raggiungere Capo Nord, in Norvegia, e poi rientrare in Italia, a Porto Torres, il 14 agosto. In giro per l’Europa Tre mesi in viaggio, grazie a un biglietto Interrail e un budget di circa 1600 euro al mese. Fondi arrivati da Aurora Fellows, il progetto europeo che aiuta ragazzi e ragazze a scoprire il proprio talento e li prepara alla sfide lavorative. Filippo Altea, già ambasciatore italiano nell’anno europeo dei giovani, grazie alla sua idea vincente ha ottenuto il sostegno economico e il supporto necessario per affrontare questo viaggio dal quale partire per costruire il suo progetto imprenditoriale. «Ho avuto il via libera da Aurora a marzo e non sarò mai abbastanza grato: questo lungo giro in Europa che faccio da viaggiatore e non da turista mi aiuterà a migliorare l’esperienza di viaggio dei ragazzi come me, che vogliono vivere appieno l’esperienza ma in moltissimi casi non sanno viaggiare. L’ennesima conferma l’ho avuta al rientro da Lisbona. Era il mio secondo viaggio da solo dopo Berlino, quella città mi ha conquistato, è stata una esperienza fantastica: tornato in Italia ho scoperto che negli stessi giorni erano lì due colleghe dell’Università che invece avevano vissuto giornate incolori, dicevano di avere speso tanti soldi ma non si erano divertite. Addirittura hanno definito Lisbona “noiosa”. In quel momento ho capito che chi viaggia ha bisogno di essere guidato per vivere davvero la nuova realtà in cui si immerge: io voglio essere l’amico che aiuta a trovare quello che stai cercando, ti fa scoprire i luoghi, la storia e le persone, segnala criticità, problemi ma anche le bellezze nascoste, quelle che non trovi nelle guide e negli itinerari pubblicizzati. Come è successo a me in Grecia, quando la professoressa conosciuta in treno mi ha portato a vedere un Festival spettacolare di cui ignoravo l’esistenza». Viaggio social Il progetto imprenditoriale di Filippo Altea inizierà a camminare al suo rientro ma nel frattempo ogni giorno sui social lui racconta quello che vede e quello che vive: foto, storie e incontri su TikTok e Instagram, dove Filippo è conosciuto come @traveltoide. In questi giorni le immagini arrivano da Riga, in Lettonia, dove Filippo è approdato, tra lunghi viaggi in treno o autobus dove non c’è Interrail, dopo le soste in Bulgaria, Ungheria e Lituania e in attesa di spostarsi (questa mattina) in Estonia. E tra le foto ecco che compaiono numerosi piatti tipici, come il borsch o la zuppa d’aglio, «perché viaggiare vuol dire anche assaporare la cucina dei i luoghi e allora almeno un pasto a base di cibo locale è essenziale». E poi gli ostelli, luoghi dove si dorme e si fa amicizia: «Posti assolutamente sottovalutati e invece straordinari – dice Filippo – perché sono agglomerati di viaggiatori e di esperienze che ti aiutano a scoprire altre parti del mondo distanti da te. E se arrivi solo, vai via con il ricordo e i contatti di tantissimi nuovi amici e nuove culture». Il segreto di un viaggio indimenticabile, dice Filippo, «è la filiera corta. Significa viverlo dal di dentro, conoscendo le persone e le usanze del luogo e andando oltre i circuiti canonici e i franchising, quelli che ti portano dentro i centri commerciali uguali ovunque o, se sei italiano, nei ristoranti a mangiare pasta e pizza per poi dire che fanno schifo». Ma la filiera corta vuol dire anche ecosostenibilità, che nel pensiero di Filippo si declina soprattutto in un viaggio più lento: «È chiaro che per raggiungere località molto lontane e se hai poco tempo a disposizione devi prendere l’aereo. Ma per godersi davvero una esperienza è preferibile il treno che in quei luoghi si ferma, li attraversa e ti aiuta a conoscerli». Zaino e skate Alla partenza lo zaino pesava 21 chili «ora siamo intorno ai 18» ma c’è anche lo skate «che mi serve per spostarmi agevolmente». Oltre a questo, l’equipaggiamento di ordinanza: «Sacco a pelo e materassino, vestiario poco, e poi pc, batterie, caricabatterie, tutte le cose tecnologiche che mi servono per raccontare, fotografare, ricordare. Perché un viaggio deve essere qualcosa da sfogliare e da accarezzare prima di ripartire»


Il percorso di formazione Da Dolianova a Sassari e poi alla Luiss di Roma

L’infanzia a Dolianova, poi la valigia fatta e disfatta più volte al seguito del padre che lavora nell’Esercito. Per Filippo Altea viaggiare è la normalità perché è difficile trovarlo nello stesso posto per più di tre anni di fila. «Il primo anno delle Superiori l’ho fatto a Bracciano, in provincia di Roma. Il secondo al Liceo Scientifico Pacinotti di Cagliari, il terzo e quarto al Liceo Scientifico Spano di Sassari, il quinto a Padova». E proprio a Sassari Filippo, tra gli impegni con gli scout e la pallavolo, ha iniziato il suo percorso nell’imprenditoria quando ha partecipato al concorso nazionale “La tua Idea d’Impresa 2017”, vincendo su 240 progetti il premio migliore idea imprenditoriale. A Padova ha vinto con il Liceo Nievo il premio sostenibilità ambientale ed è arrivata la possibilità di fare il test di ammissione alla Luisss Guido Carli, che lo ha premiato con una borsa di studio completa per il percorso triennale in Economia e management. Nell’aprile del 2021 Filippo è inoltre entrato a fare parte di Aurora Fellows, il percoso di formazione fondato da Jacopo Mele nel 2016 e nato da Fondazione Homo Ex Machina, che ogni anno apre le porte a più di 200mila ragazzi in Europa e lungo le coste del Mediterraneo. In Sardegna One Ocean Foundation, l'iniziativa italiana di rilevanza internazionale per la salvaguardia dei mari, nata da un'idea dello Yacht Club Costa Smeralda, ha finanziato 500 percorsi in Aurora Fellows destiinati ad altrettanti studenti sardi tra i 15 e i 20 anni. 

10.7.22

la mafia uccide anche i la storia claudio domino

   da  https://www.facebook.com/andreascanzi74
Non so se conoscete questa storia.

Nella foto vedete Claudio Domino. Aveva 11 anni. Stava giocando a pallone con gli amici per strada. Un uomo arrivato in moto lo chiamò per nome. Claudio gli corse incontro. L’uomo gli sparò in mezzo
agli occhi, poi risalì in sella e se ne andò. Claudio era figlio degli imprenditori Domino, la cui azienda aveva vinto l’appalto per pulire l’aula bunker dove, proprio in quei giorni, si teneva il processo contro la mafia siciliana. Fu ammazzato per quello. L’azienda dei Domino aveva mille dipendenti ed era un esempio di virtù e onestà. Un anno dopo l’omicidio, i dipendenti rimasti erano solo tre. Ai Domino portarono via tutto e fecero attorno a loro terra bruciata.


Sono passati più di trent’anni da quell’omicidio infame e la famiglia di Claudio non ha ancora avuto giustizia. Nessun colpevole. La mafia ha sempre negato responsabilità, ribadendo il falso storico secondo cui la mafia non uccide i bambini. In realtà ne ha ammazzati più di cento. In ogni modo possibile. Dilaniati dalle pallottole, strangolati, sciolti nell’acido.Sarà che in questi giorni il ricordo di Falcone e Borsellino è particolarmente vivido. Sarà che le parole di ieri di Gratteri mi hanno scosso particolarmente. Sarà per non so cosa, ma la storia di Claudio mi pare spaventosamente brutale. E spaventosamente contemporanea.

Sala Sivori di Genova Il cinema più antico d'Italia che resiste allo streaming ., Luci a mare: le lampare diventano arte il progetto di Angelica Ruggero ., Fuoco e ambiente: il campo dei piccoli pompieri Sono bambini dai 10 anni e hanno scelto di vivere un mini-addestramento in Trentino.

Come tutti i cinema la Sala Sivori di Genova ( Il cinema più antico d'Italia ) resiste allo streaming .

Tenuta a battesimo dai fratelli Lumière nel 1896, la Sala Sivori di Genova ospitò   tra  il 14  e  15  agosto    del 1892  il primo congresso  di quello che  poi  diventerà il   Partito socialista italiano. 

   

per  chi volesse  saperne  di più  sulla  sua   ultra cetenaria  (   contando  anche  il periodo    in  cui  fu  luogo     non  cinematografico    ma   anche  sala  concertoi e teatro  )   trova qui su  Cinema Sivori - Wikipedia maggiori informazioni 

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Luci a mare ovvero le lampare  grandi lampade utilizzate per illuminare la pesca di notte stanno scomparendo. Infatti per chi è nato sulla costa o ci passava  vicino  di notte  , le lampare sono uno dei ricordi di infanzia più frequenti. Oggi sono del tutto scomparse. Ma in Puglia sono diventate il pretesto per un'opera di riscoperta delle radici . Quando a cinque anni Angelica Ruggiero, nelle calde serate d’estate a Giovinazzo, si appostava sugli scogli a guardare il mare, le lampare apparivano d’improvviso, descrivendo piccole rotte lungo la riva per poi sparire, come in un sogno.

.   di
Il progetto d’arte di Angelica Ruggiero (  foto  a  sinistra  e  video  sopra  ) ispirato dai suoi ricordi
d’infanzia debutta il 1° e 2 luglio al festival Mare d’inchiostro”. In programma un talk e una mostra. Il 2 luglio la performance a bordo di un gozzo restaurato









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 Fuoco e ambiente: il campo dei piccoli pompieri Sono bambini dai 10 anni e hanno scelto di vivere un mini-addestramento in Trentino. Spinti dall'amore per la natura. E dalla voglia di diventare soccorritori di 


La libertà per una bambina

 da https://www.mariocalabresi.com/stories/

3 giugno 2022
 | diMario Calabresi



La nave Vlora nel porto di Bari (© Luca Turi / Wikimedia Commons)

Del crollo del comunismo in Albania noi italiani abbiamo visto le conseguenze: navi cariche all’inverosimile che arrivavano nei porti pugliesi e uomini e donne magrissimi che cercavano #lavoro e un futuro. Ma di come avessero vissuto prima, abbiamo sempre saputo poco e immaginato ancor meno. Quando è caduto il comunismo nel suo Paese, Lea aveva undici anni, viveva a Durazzo, sulla costa, e i suoi ricordi di quel tempo sono la rivelazione di un mondo in cui i bambini spiavano i turisti in spiaggia, ma a cui le maestre spiegavano di diffidare degli stranieri e di non accettare mai le caramelle, sicuramente avvelenate. Di un tempo in cui a scuola le compagne discutevano se potesse essere vero che in Italia esistevano negozi senza code, come quelli che si vedevano in televisione.«Il mio non era un Paese libero anche se sono cresciuta con l’impressione che fosse il posto più libero del mondo, come ci avevano insegnato a scuola. Un Paese indipendente, orgoglioso di essere tagliato fuori da tutto, sia dal capitalismo che dagli altri Paesi comunisti».Poi nel dicembre del 1990, un anno dopo la caduta del Muro di Berlino, crolla il comunismo in Albania. Di quei giorni ricorda confusione e incertezza e la rivelazione, in una notte, che i suoi genitori erano dissidenti ma lo avevano sempre nascosto anche a lei. Da quel momento il suo Paese sprofonda nel caos, arrivano schemi finanziari truffa che si mangiano tutti i risparmi degli albanesi, salta lo Stato, la violenza e la paura diventano la regola. E la gente comincia a scappare.
I suoi genitori non erano mai usciti dall’Albania, ma un giorno sua madre e suo fratello vedono una nave che sta salpando per l’Italia e decidono di saltarci sopra. Lea e suo padre restano a casa e non riescono a credere che siano scappati senza di loro. Per Lea la partenza arriverà a 18 anni quando andrà a Roma a studiare filosofia. Di quegli anni all’università ha un ricordo molto bello e intenso, anche se non ha dimenticato l’ostilità di molti italiani verso gli albanesi che oggi racconta con ironia: «Un giorno alla stazione Termini a Roma aiutai una donna a portare la valigia fino al treno, alla fine lei mi salutò e mi disse: “Grazie, sa qui è pieno di albanesi”».Oggi Lea Ypi è una delle più originali pensatrici della filosofia politica, capace di ragionare sulle possibilità della #libertà e sui limiti delle società occidentali. Dopo aver insegnato a Parigi, Francoforte e Berlino oggi ha la cattedra a Londra e scrive editoriali per il Guardian. Quando gira l’Europa porta sempre con sé uno dei suoi tre figli.La voce di Lea, che parla un italiano perfetto con una musicalità che la rende speciale, la potete ascoltare anche i “Voce ai libri”, il #podcast in cui ogni settimana Silvia Nucini intervista scrittrici e scrittori sui loro ultimi lavori.
La più grossa lite a cui Lea ha assistito da bambina è avvenuta tra sua madre e la vicina di casa, fino a quel giorno una cara amica. L’oggetto del contendere: una lattina di Coca Cola. Vuota. Vero status symbol nell’Albania degli Anni Ottanta, tanto che chi riusciva ad accaparrarsene una la collocava al posto d’onore in salotto, di solito su un centrino ricamato sopra il televisore. La mamma di Lea era convinta che l’amica gliela avesse rubata e se ne gridarono di tutti i colori arrivando ad insultarsi per strada.
Del crollo del comunismo in Albania noi italiani abbiamo visto le conseguenze: navi cariche all’inverosimile che arrivavano nei porti pugliesi e uomini e donne magrissimi che cercavano lavoro e un futuro. Ma di come avessero vissuto prima, abbiamo sempre saputo poco e immaginato ancor meno.


Quando è caduto il comunismo nel suo Paese, Lea   aveva undici anni, viveva a Durazzo, sulla costa, e i suoi ricordi di quel tempo sono la rivelazione di un mondo in cui i bambini spiavano i turisti in spiaggia, scoprivano l’odore della crema solare, ma a cui le maestre spiegavano di diffidare degli stranieri e di non accettare mai le caramelle, sicuramente avvelenate. Di un tempo in cui a scuola le compagne discutevano se potesse essere vero che in Italia esistevano negozi senza code, come quelli che si vedevano in televisione, dove potevi entrare con il carrello e scegliere quello che volevi dagli scaffali. «Le file da noi duravano anche giorni e la gente lasciava un mattone o una borsa come segnaposto e tornava a casa. A noi bambini colpiva tantissimo che ci fossero le marche – racconta Lea –, perché da noi c’era la pasta e basta. Di un solo tipo. Le maestre allora ci dicevano che i marchi erano i nomi dei proprietari, mentre noi stavamo con i lavoratori».
Lea Ypi, la voce narrante di questa storia che intreccia ricordi autobiografici con il destino di un Paese e una riflessione su cosa sia la libertà, è nata in Albania nel 1979, ha studiato in Italia, a “La Sapienza” a Roma, ha vissuto in Germania e ora insegna filosofia politica alla London School of Economics. La sua storia di bambina e poi di ragazza oggi è diventata un libro (“Libera. Diventare grandi alla fine della storia”) pubblicato prima in inglese e ora in italiano da Feltrinelli.
La voce di Lea, che parla un italiano perfetto con una musicalità che la rende speciale, la potete ascoltare in una nuova serie podcast che si chiama “Voce ai libri”, in cui ogni settimana Silvia Nucini intervista scrittrici e scrittori sui loro ultimi lavori.Il podcast di Silvia Nucini“Voce ai libri”
«Il mio non era un Paese libero – ricorda – anche se sono cresciuta con l’impressione che fosse il posto più libero del mondo, come ci avevano insegnato a scuola. Un paese indipendente, orgoglioso di essere tagliato fuori da tutto, sia dal capitalismo che dagli altri Paesi comunisti. Per me allora la libertà era tornare a casa quando volevo e andare a scuola da sola. Era una libertà molto spontanea». Poi nel dicembre del 1990, un anno dopo la caduta del Muro di Berlino, crolla il comunismo in Albania, quando Lea Ypi aveva 11 anni. Di quei giorni ricorda confusione e incertezza e la rivelazione, in una notte, che i suoi genitori erano dissidenti ma lo avevano sempre nascosto anche a lei: «Io ero contro i nemici di classe, ma poi ho scoperto che quei nemici erano i miei familiari».
Da quel momento il suo Paese sprofonda nel caos, arrivano schemi finanziari truffa che si mangiano tutti i risparmi degli albanesi, salta lo Stato, la violenza e la paura diventano la regola. E la gente comincia a scappare: «L’imperativo immediato era lasciare l’Albania. La domanda non era “Perché?” ma soltanto “Come?”. Era una fuga disordinata, verso un mondo idealizzato, visto in televisione. Spesso con un costo altissimo, molti non sapevano poi dove andare e facevano la fame, erano senzatetto».
I suoi genitori non erano mai usciti dall’Albania, ma un giorno sua madre e suo fratello, mentre sono in spiaggia, vedono una nave che sta salpando per l’Italia e decidono di saltarci sopra. Lea e suo padre restano a casa e non riescono a credere che siano scappati senza di loro. Per Lea la partenza arriverà a 18 anni quando andrà a Roma a studiare filosofia. Di quegli anni all’università ha un ricordo molto bello e intenso, anche se non ha dimenticato l’ostilità di molti italiani verso gli albanesi che oggi racconta con ironia: «Un giorno alla stazione Termini a Roma aiutai una donna a portare la valigia fino al treno, alla fine lei mi salutò e mi disse: “Grazie, sa qui è pieno di albanesi”».


La bambina che ci ha cambiato la vita - di Silvia Nucini



Il perimetro di ciò che è #famiglia è fatto da una linea invisibile che smargina dalle Leggi e smentisce i teoremi delle convenzioni sociali; la geometria euclidea non può dimostrare perché la retta che parte dal piccolo braccio teso di Antonella e arriva fino a Paolo, fa di Paolo un padre. Ma è così.Infatti purtroppo , anche se sempre di meno ma forti dal punto di vista di pressione poolitica , visto che le coppie omogenitoriali o agiscoo sul filo della legalità o sfruttando le maglie che i garbugli legislativi e burocrastici offrono , oppure vanno all'estero . Ed è questa la bellezza ed la particolarita della storia emozoioante di Paolo Pedemonte, Marco Valota e Antonella, raccontata da Silvia Nucini (  autrice nel 2010  del  libro “È la vita che sceglie”, edito da Mondadori  ) per #AltreStorie ovvero La Newsletter di Mario Calabresi


[...] Ma è così, e la spiegazione va cercata altrove. «Quando siamo entrati nella stanza, lei era seduta per terra a giocare, ha studiato me e Marco per un po’, e poi ha fatto quel gesto: voleva solo darmi il suo pennarello. Dentro di me, quello, è stato l’inizio di tutto».Paolo Pedemonte, Marco Valota e Antonella

La storia di Paolo Pedemonte, Marco Valota e Antonella è iniziata il 22 aprile, nemmeno tre mesi fa, quando – era un venerdì mattina, erano le nove – una delle assistenti sociali del Centro Affidi del Comune di Bergamo ha chiamato Marco per dirgli: «È arrivata, venite». Ma, come tutte le storie, era iniziata molto tempo prima, sotto forma di un desiderio.
«Stiamo insieme da sette anni e quasi subito ci siamo raccontati di un sogno che avevamo entrambi: diventare genitori», dice Marco. Continua Paolo: «Abbiamo preso in considerazione diverse ipotesi: la maternità surrogata (ndr, comunemente detta utero in affitto), senza giudicare chi la fa, non rientra nel nostro orizzonte etico. Andare all’estero per adottare era una possibilità. Ma poi ci siamo detti: siamo italiani, facciamo quello che ci permette la Legge italiana. Vediamo fino a dove possiamo arrivare. E così abbiamo cominciato a pensare all’affido. Veniamo entrambi dal mondo dell’associazionismo cattolico, l’idea di fare qualcosa di buono per gli altri è una parte importante delle nostre vite. L’affido ci è sembrato il modo giusto per mettere insieme la gratuità e il nostro egoismo».
Per molto tempo, però, Paolo e Marco non hanno fatto niente, indecisi sulla direzione giusta in cui muoversi, spaventati dalla possibilità di ricevere un no. «Un no che sarebbe stato un giudizio anche su chi siamo. Quindi, molto difficile da accettare». Poi, poco prima della pandemia Marco scrive una mail al Centro Affidi di Bergamo. Due ore dopo arriva la risposta: «Per noi va benissimo, basta che siate idonei, per noi non fa nessuna differenza. Magari sarà difficile, magari ci sarà un po’ di battaglia da fare, ma se voi ve la sentite, noi ci siamo per farla con voi».
Come sarebbe stata la strada, lì al centro non lo sapeva nessuno perché Paolo e Marco erano la prima coppia omogenitoriale della provincia di Bergamo a fare richiesta. Tanti altri come loro, scopriranno poi Paolo e Marco, avevano avuto paura di quel “no”. E invece una pandemia e una decina di colloqui con vari psicologi dopo, l’idoneità è arrivata. Nemmeno il tempo di festeggiarla, che una notizia ancora più bella l’ha superata: «Dieci giorni dopo essere diventati idonei al centro affidi ci hanno detto di prepararci che c’era bisogno di una famiglia affidataria per Antonella, una piccolina di dieci mesi».
L’incontro con la mamma di Antonella, una ragazza molto giovane, è stato uno snodo fondamentale del percorso e non solo perché lei ha dato il suo benestare. «È come se quella prima volta lei, con le sue parole, ci avesse detto: prendetela e abbiatene cura», ricorda Paolo. A quel primo incontro ne seguono e ne seguiranno molti altri: Antonella vede la mamma una volta la settimana. «È come se insieme ad Antonella avessimo in affidamento anche lei, è come se le stessimo dando un pochino più di tempo per attrezzarsi e diventare una brava mamma». Paolo chiama questi incontri tra Antonella e la madre i “bagni di realtà”: «I momenti in cui torno con i piedi per terra e mi ricordo che non è figlia mia. La prima volta che le ho viste insieme dopo sono stato molto scosso, sono crollato in preda ad emozioni che non sapevo nemmeno di avere dentro di me. Ma con il tempo mi sono reso conto che il legame viscerale c’è anche con la mamma di Antonella: mi sto abituando a questo amore condiviso».
La piccola Antonella

L’amore condiviso è qualcosa che l’arrivo della bambina ha generato e propagato nelle famiglie, tra gli amici e nei concittadini di Carobbio degli Angeli, dove Paolo e Marco vivono. «Abbiamo passato le prime due settimane dopo l’arrivo della bambina a commuoverci per quello che vedevamo succederci intorno: amici che arrivavano con le macchine cariche di scatoloni con giocattoli e vestitini divisi per taglie e stagioni, associazioni e parrocchie che ci hanno scritto chiedendoci come potevano aiutarci, persone sconosciute che ci mandavano biglietti di auguri e piccoli regalini», dice Marco.
«Una mia amica del liceo, che non vedevo da anni, mi ha spedito un passeggino. Il parroco del nostro paese è venuto a casa a conoscere Antonella e ci ha dato una mano per trovare un posto in un asilo nido», continua Paolo. «Io e Marco non siamo sposati, ma ci sentiamo da sempre famiglia al cento per cento. Non credevamo che anche gli altri ci vedessero così. Abbiamo scoperto una società più aperta e bella di quello che immaginavamo».
Per Paolo che si occupa di pubbliche relazioni e Marco che guida l’azienda di abbigliamento di famiglia, l’arrivo di una bambina così piccola è stato una specie di terremoto. «Abbiamo cambiato tutta la casa, e anche la vita. Siccome al nido andrà a settembre in questi mesi ci stiamo organizzando tra smart working, giornate che passa al lavoro con me e mia madre e altre in cui di lei si occupano tutti i nonni», racconta Marco. Paolo, che è un super appassionato di food, la sera si dedica alla preparazione delle pappe per il giorno successivo.
Antonella non parla ancora, ma tra poco lo farà. Paolo e Marco si sono chiesti che parole userà per loro. «Chi siamo noi? Papà? Zii? Nonni? Le psicologhe ci hanno detto che guiderà lei la scelta. Noi non le stiamo insegnando a chiamarci in nessun modo particolare. Probabilmente ascolterà i nostri nomi e li ripeterà, saremo Paolo e Marco. Se è importante il nome? No, non lo è. È importante che quando i nostri occhi si incrociano i suoi diventano contenti».
Quando Antonella è arrivata le assistenti sociali hanno detto alla coppia che la bambina si addormenta solo in braccio. «Ma io non ero disposto ad andare incontro a questo vizio», racconta Marco «così abbiamo trovato insieme, io e lei, il nostro metodo. Ci sdraiamo nel lettone, lei si mette sulla mia pancia e, mentre si addormenta, mi scivola accanto e io riesco a spostarla nel suo lettino». Paolo li guarda in silenzio «perché sono troppo belli».
Chiedersi quanto durerà è la domanda sbagliata, ma molto umana, che sta dietro ogni affido. Il tempo massimo è due anni, ripetibili fino a tre volte. Se Paolo e Marco hanno capito che quella è la loro strada è stato grazie ai racconti di altre famiglie affidatarie le cui storie, tutte diverse, dicono una cosa soltanto: che l’amore ha mille forme, infiniti intrecci, e nessuna data di scadenza.
«Ci siamo convinti che l’affido fosse un’esperienza meravigliosa la sera che abbiamo conosciuto una coppia di favolosi settantenni: girano sulla loro Harley-Davidson, sono pieni di tatuaggi e in casa hanno sempre una stanza pronta, un letto fatto per il “pronto intervento”. Significa che gli assistenti sociali li possono chiamare all’ultimo momento e dire: sta arrivando un bambino. Hanno già fatto otto affidi e sono disponibili per altri. Una lezione di vita incredibile», dice Paolo che pur nella convinzione totale della strada scelta, conserva un rimasuglio di amarezza. «Io e Marco siamo stati giudicati idonei come genitori affidatari. Idonei a fare un servizio allo Stato. Però di fronte all’eventualità dell’adozione, improvvisamente per la Legge non andiamo più bene. È strano no? Eppure, siamo sempre noi due, Paolo e Marco, proprio noi».

Jorit: «Un palazzo con un murale crea identità. E così le persone sono fiere di appartenere a un territorio»

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espresso dl  4\7\2022


Jorit: «Un palazzo con un murale crea identità. E così le persone sono fiere di appartenere a un territorio»
Da Maradona a Mandela, i suoi grandi volti sfregiati dominano le periferie. Writer internazionale, è ora tornato a Napoli. Con un nuovo ritratto: Fabrizio De Andrè. E parla con noi di giovani, guerra, cultura
di Tommaso Panza




Agoch (aprire gli occhi) è il suo nome di “battaglia”. Jorit, come tutti lo conoscono, è il nome che gli ha dato la madre, olandese, Ciro è il secondo nome, in onore del nonno, preteso da cinque zie. Achille Bonito Oliva, padre della Transavanguardia, e critico tra i più importanti, lo ha definito “il nuovo Caravaggio”.
Il writer napoletano, ormai famoso in tutto il mondo per i suoi giganteschi volti, grazie ai quali contribuisce a riscattare le periferie ed esprime precise posizioni critiche e ideologiche, è tornato a Scampia, dove lo abbiamo incontrato. E, nell’ambito del progetto “Maggio dei Monumenti 2022”, ha dato vita, dopo i ritratti di Angela Davis e di Pier Paolo Pasolini, al volto di Fabrizio De André.
Il nome della strada che ospita il Faber, alla cui realizzazione ha contribuito la giovane writer di Scampia Trisha Palma, dà all’opera un significato ancora più forte: è Via Don Giuseppe Diana, il prete campano ammazzato dal clan dei casalesi a Casal di Principe nel 1994.
Un artista ha un pensiero critico sulle cose, non è mai neutrale. Cosa pensa dell’ostracismo nei confronti di artisti, sportivi russi dopo l’invasione dell’Ucraina? Ha parlato con lo scrittore Paolo Nori, in un primo tempo censurato per un corso di cultura russa, dopo aver realizzato il volto di Dostoevskij? E lei stesso andrebbe oggi in Russia?
«Trovo che siano episodi inaccettabili. Con Paolo Nori ci siamo incontrati alcune settimane dopo qui a Napoli, mi ha fatto molto piacere aver partecipato alla presentazione del suo libro su Dostoevskij, è uno scrittore di cultura immensa. In Russia io andrei subito. Penso che la cultura russa vada studiata a fondo, anche per comprendere le motivazioni di questo conflitto. Sono stato in Russia nel 2019, mentre dipingevo il volto di Jurij Gagarin, e ho percepito nettamente quanto quel popolo sia orgoglioso. Bisogna conoscere e capire i contesti, altrimenti non capiremo mai come le cose, a volte, precipitano».
Putin ha elogiato apertamente il suo murale su Dostoevskij. Non ha temuto di essere considerato filoputiniano?
«È stato chiaramente un elogio inaspettato e, in effetti, è bastato perché qualcuno mi additasse come filoputiniano. Credo che ci sia un grosso equivoco. A me non sembra che tutta l’opinione pubblica sia d’accordo sull’invio di armi agli ucraini, quindi cosa vuol dire: che gli italiani che non sono a favore sono tutti filoputiniani? I ragionamenti degli italiani sono più avanti di quanto non crediamo. Ormai molti esperti in televisione si trovano lì a discutere per portare avanti un’agenda o interessi specifici. La gente comune, invece, che è più libera, può essere tranquillamente in grado di portare avanti un pensiero critico. Come persona cerco di interrogarmi sulle ragioni che hanno portato a questo conflitto, ma anche su come potrebbe finire».
Crede che la street art abbia realmente un ruolo nella riqualificazione delle periferie?
«Chiaramente sono di parte, ma dico sì, ci credo veramente. Le persone riescono a sentirsi parte di qualcosa che non finisce nel dimenticatoio e non resta anonimo. Un palazzo di periferia resta tale, ma un palazzo con un murale sopra accoglie qualcosa di specifico, che crea identità. L’identità non contribuisce a riqualificare solo strutturalmente, è fondamentale perché riqualifica le coscienze, fa sentire le persone fiere di appartenere a un territorio».
In Italia spesso parla del futuro dei giovani chi giovane non è o non ha consapevolezza delle difficoltà vere. Lei come vede il futuro dei giovani italiani?
«A me sembra che il treno vada solo in direzione dello smantellamento dello stato sociale e del pubblico. Ne faccio sempre un discorso di giustizia sociale, un ragionamento che è fuori dall’orizzonte di qualsiasi politico. È scontato dire che una società dovrebbe essere fondata sulla parità di diritti e di opportunità, poi vediamo che non è così. Se non ho le stesse opportunità del figlio di o non ho la possibilità di costruirmi lo stesso futuro di chi viene da una condizione agiata, dov’è la parità di diritti? C’è una canzone di Enzo Avitabile che dice “Tutt’eguale song ‘e criature, nisciuno è figlio e nisciuno”. L’unica cosa che può cambiare il futuro dei giovani e realizzare un sogno di uguaglianza è la scuola pubblica».
Abbiamo assistito all’omicidio della giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, da parte dei soldati israeliani. Lei in quei territori è stato, ed è stato anche arrestato dai militari israeliani nel 2018, quando ha realizzato il volto di Ahed Tamimi, giovane attivista palestinese. Cosa significa subire un arresto in una zona di guerra, ce lo racconta?
«Se penso alle immagini dei funerali della giornalista, nel momento in cui i soldati israeliani hanno caricato il corteo con la bara, mi vengono i brividi. Disumano. Quelle persone hanno resistito sotto le manganellate pur di non far cadere il corpo. Aggredire persone che portano in spalla una bara è una forma totale di razzismo e persecuzione. I palestinesi sono un popolo oppresso in ogni aspetto della loro vita. L’arresto è coinciso con l’ultimo giorno di lavoro, ero con uno dei miei collaboratori, Salvatore. Pensavo ci avrebbero sparato. Sono arrivati in macchina, ho pensato fosse un controllo, invece sono scesi puntandoci gli M-16 addosso. Il giorno prima avevano ammazzato un ragazzino di 16 anni e ho temuto saremmo stati i prossimi. Ci hanno trattenuto per 24 ore, durante le quali siamo stati interrogati e minacciati. Uno dei soldati mi ha puntato la canna del fucile sulla pancia per quasi un’ora giocando costantemente con il dito sul grilletto. Sono riuscito a fare un post sui social prima che ci sequestrassero il telefono e ci buttassero per terra. Quel gesto ci ha salvato e permesso di essere liberati. Non potrò tornare in Israele per i prossimi dieci anni».
Come sono nate le cicatrici sul volto? Che sono poi la firma delle sue opere. E ce n’è una per lei più significativa di altre?
«Ho trascorso un lungo periodo in Tanzania. Mi capitava spesso di vedere molti ragazzi africani portare questi piccoli sfregi sulla pelle che in realtà rappresentano dei simboli. Mi piaceva l’idea che rinunciassero a un pezzo di se stessi per senso di appartenenza alle proprie tribù, fa parte della cultura africana. Le cicatrici sono diventate la firma dei miei murales, prima di realizzarle sul mio volto, due anni fa. Realizzare Diego Maradona mi ha emozionato tanto, lui mi ha anche scritto per ringraziarmi. Per un ragazzino napoletano che cresce col suo mito, Diego è quasi un Dio».
L’ultima domanda è su questo lavoro che ha realizzato adesso a Scampia. E cosa può anticiparci riguardo al futuro?
«L’idea di realizzare Fabrizio De Andrè in questa zona è nata nell’ambito del progetto “Maggio dei Monumenti 2022”. Con la mia fondazione, la Fondazione Jorit, ci siamo proposti di dare vita a quest’opera, a cui sto lavorando insieme a Trisha, una giovane street artist di Scampia. Inoltre sempre nell’ambito del “Maggio dei monumenti” c’è un’altra opera in corso a Ponticelli a firma di un altro artista, Zeus, con cui stiamo collaborando. Il futuro? È quello che faccio oggi. E quello che faccio è tutta la mia vita, oltre ai miei affetti personali che ovviamente vengono prima di ogni cosa».

Omicidio Willy: "Se la vittima è un immigrato allora i giudici applicano la legge. Altrimenti no". Il razzismo della rete e purtroppo no solo contro l'ergastolo ai fratelli Bianchi

Sarebbe giusto se per   rispetto   della famiglia  su willy  calasse  un po' il silenzio dopo le strumentalizzazioni    " buoniste  " e  acchiappalike  .  E smetterla  con le  strumetaslizzazioni    e  con il fango  .  Invece,  come   se non bastasse   quelloche  si  scritto  è detto sul suo vile  omicidio  ,   c'è chi sostiene che per gli assassini degli immigrati le condanne sono dure, lievi per gli immigrati che uccidono "bianchi" italiani. Come  si fa  a non stare  zitti    davanti   a  simili  idiozie   vetero  nazionaliste  condannate e  di cui  si credeva  sconfitte    dalla storia   ma    che  come un fenomeno  carsico  ,  soprattutto   negli ultimi  30 ani  ,     ritornano  ad  intossicare il  clima sociale del paese  , non   si può  più restare  alla fiestra o    tacere ogni  volta    che  si sente  o legge  ogni volta    che   succedono fatti del genere  in cui è coinvolto  uno straniero ( ache se ormai   si dovrebbe parlare  di nuovi italiani  o stranieri di 2  generazione  )   ed immigrato  .
Fin dall'inizio della  viceda  certi giornali   e   certi  post   sui social   seminavano   odio contro il ragazzo di Colleferro perché nero. E ora c'è chi sostiene,  ancora ,  che per gli assassini degli immigrati le condanne sono dure, lievi per gli immigrati che uccidono "bianchi" italiani. Alcuni sono stati identificati dalla polizia postale e indagati  e  speriamo  che ne  paghino le  conseguenze  . Leggo   su repubblica  https://roma.repubblica.it/cronaca/   del  9.7.2022   che  : << Quando la vittima è immigrato i giudici applicano la legge". A twittare, dopo la condanna all'ergastolo  per i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, è un utente romano, che si definisce "devoto alla nostra Signora sempre Vergine Santissima Maria madre di Dio", "di destra" e "gattaro orgoglioso" >>  Era prevvedibile     visto    che  da momento in cui Willy Monteiro è stato massacrato di botte e ucciso nella zona della movida a Colleferro,  dopo essersi fermato a chiedere a un amico in difficoltà se avesse bisogno d'aiuto , non sono mancati gli odiatori  razzisti ed  exenofobici  .  Infatti Mentre la morte del 21enne continua a ferire profondamente un intero Paese e i big della politica, tanto a sinistra quanto a destra( o almeno  quella  destra   civile  e  poco malpancista   ) , hanno plauso alla sentenza emessa dalla Corte d'Assise del Tribunale di Frosinone, c'è ancora chi sfrutta quanto accaduto per seminare odio contro gli immigrati e  calcare  gl istinti  malpancisti  per  distrarre   da  veri  problemi . 
 << Il dubbio >>,  sempre secodo  repubblica    << che quella maledetta notte tra il 5 e il 6 settembre 2020 il branco si sia accanito proprio su Willy Monteiro Duarte perché rispetto agli altri giovani presenti in piazza aveva la pelle scura c'è sempre stato. Lo ha esternato anche il legale di parte civile intervenendo alla fine del processo.>>  Infatti  E alcuni commenti sui social sembrano confermarlo. Viene fatto il paragone con l'uccisione, a Bastia Umbra, di Filippo Limini (investito e ucciso durante una rissa da un immigrato che, per sfuggire alle botte, lo aveva investito con l'auto "senza accorgersene") : "Stato italiano razzista, la vita di Willy vale più di quella di Filippo". Ci aveva già provato un amico dei Bianchi subito dopo gli arresti. Neppure la lunga istruttoria e la sentenza hanno fermato i tentativi di   sfruttare il dramma per soffiare sul fuoco del razzismo, con improvvisate e indirette difese d'ufficio dei due fratelli di Artena in questo caso.  E  che le parole scritte  tempo  fa  dalla sorella di Wily 






  non siano  un  qualcosa d'inutile





9.7.22

Sognavo una tuta blu: "Bullismo e molestie ma ci sono riuscita. Faccio la meccanica" Iris Ilacqua

da Quotidiano.Net


Per realizzare il suo sogno, quello di diventare meccanico in una autofficina, Iris Ilacqua ha dovuto lottare contro tutti. La perplessità dei genitori, il bullismo, le molestie sessuali subite durante un’esperienza di lavoro, le decine di colloqui conclusi con offerte di mansioni impiegatizie perché "più adatte a una donna". Barriere per una ragazza che desidera fare "un lavoro da uomo", nonostante i proclami della politica e le tante iniziative per avvicinare le donne alle materie tecniche. Superando un ostacolo dopo l’altro, a 22 anni sta vincendo la sua sfida, pioniera in un settore tipicamente maschile. Da quattro mesi lavora alla Lombarda Motori, storico concessionario monzese di un grande gruppo tedesco. Unica donna in un team di 12 meccanici composto solo da uomini, "felice di andare al lavoro" e di trascorrere le giornate con le mani nei motori.





Iris, come è nata la sua passione per i motori?

"Sono cresciuta a Cinisello Balsamo in una famiglia numerosa: ho quattro sorelle tra cui una gemella, genitori che lavoravano nella ristorazione. Da piccola mi mettevo sul balcone, osservavo le macchine sulla strada e pensavo che mi sarebbe piaciuto vedere come erano fatte dentro. Poi guardavo le gare di Formula 1 con papà, e pensavo che mi sarebbe piaciuto creare un mio marchio. È una passione che ho sempre avuto dentro".

I suoi genitori l’hanno assecondata?

"La consideravano un capriccio, tanto che al momento di scegliere le superiori mia madre mi ha spinta a iscrivermi al liceo delle Scienze umane. Il suo desiderio era quello di avere una figlia psicologa. Ho capito subito che quella non era la mia strada. Presto ho smesso di frequentare la scuola, facevo dei lavoretti ma il mio sogno rimaneva sempre lo stesso: lavorare con i motori. Un giorno ho deciso di seguirlo, e a 18 anni mi sono iscritta alla scuola di meccanica-meccatronica di Afol Metropolitana (l’agenzia che gestisce centri per l’impiego e percorsi di formazione nella Città metropolitana, ndr ), specializzandomi poi nell’elettrico-ibrido. I miei compagni erano tutti maschi".

Come l’hanno accolta?


"Erano ragazzi più piccoli di me, con atteggiamenti spesso infantili. Come unica donna venivo presa di mira, anche con episodi di bullismo. Ricordo che una volta hanno iniziato a tirarmi addosso dei bulloni. Per fortuna ho un carattere forte, ho trovato insegnanti validi e la possibilità di frequentare tirocini anche all’estero, in Slovenia. Il nostro è un lavoro che si impara solo facendo tanta pratica".

Come è stata trattata, nei luoghi di lavoro ?

"Ci sono stati episodi spiacevoli. Ad esempio in passato durante un colloquio il titolare mi ha proposto di andare a letto con lui in cambio di un contratto. Io sono scappata via. Poi molte officine cercano
meccanici ma, ai colloqui, mi offrivano solo lavori da impiegata. Rimanevano increduli quando spiegavo loro che, invece, voglio lavorare con i motori. Prima di arrivare alla Lombarda Motori ho fatto una ventina di colloqui. Infine loro mi hanno dato fiducia, nella storia dell’azienda sono il primo tecnico donna. Sono da sempre appassionata del marchio per il quale lavoro, vado al lavoro con il sorriso e sono felice".

Dopo questo primo risultato, ha altri sogni nel cassetto?

"Mi piacerebbe fare l’università, iscrivermi a Ingegneria meccanica, trovare delle socie e aprire un’officina di sole donne".

Che cosa consiglia a una donna che vorrebbe seguire il suo percorso?

"Di non mollare mai, di lottare per i propri sogni. Per fare il meccanico non è necessario avere la forza di un uomo, perché ci sono gli strumenti. Quello che conta è l’intelligenza".

I suoi genitori, adesso, hanno compreso la sua passione?

"Hanno capito che questa è la mia strada, sono contenti. Poi un meccanico in famiglia fa sempre comodo".


A Milano il bar piu piccolo del mondo: "Doveva essere un magazzino, ora è un locale esclusivo"

All'interno del locale in 4 metri quadri di spazio con 4 coperti sono esposte 200 etichette di Whisky provenienti da tutto i mondo

una storia da Guinness dei Primati   quella   del  Backdoor 43 . Locale     che  permette   un momento di relax  ed intimità nellla  frenetca Milano  . 


 Nel mezzo della movida frenetica dei Navigli, dietro una vecchia porta di legno, si trova il Backdoor
43: quattro metri quadrati, 200 etichette di whisky e quattro posti coperti: è il cocktail bar più piccolo al mondo. Talmente piccolo da essersi aggiudicato il record mondiale ed essere incluso nella World 50 Best Discovery Chart, la classifica che raccoglie i migliori locali al mondo.

 





Quattro coperti in quattro metri quadrati e oltre 200 etichette di whisky: è la combinazione perfetta per il cocktail bar più piccolo al mondo, che si trova a Milano nascosto dietro una vecchia porta di legno sui Navigli. E' Backdoor 43, in Ripa di porta Ticinese al medesimo civico: talmente mignon da essersi aggiudicato il record mondiale ed essere incluso nella World 50 Best Discovery Chart, la classifica che raccoglie i migliori locali al mondo. Una volta varcata la porta, si entra in un mondo parallelo fatto di oggetti d'epoca, boiserie e bottiglie da collezione: tutto è realizzato in legno su misura, gli arredi riadattati per stare dentro lo spazio ridottissimo. "Una volta qui c'era la bottega di un pittore che realizzava quadretti sui Navigli - racconta Carlo Dall'Asta, uno dei soci del Gruppo Farmily - Avevamo bisogno di un magazzino da usare come deposito per il nostro Mag cafè, dove anche lì lo spazio è limitato, così abbiamo comprato il locale di fianco. Poi abbiamo deciso di farlo diventare un cocktail bar autonomo, prima soltanto per l'asporto, poi pensato anche come spazio interno più esclusivo, dove il cliente può concedersi un momento di relax a fine giornata, scegliere la sua musica e farsi fare un drink secondo il suo gusto".







Per riservarsi un posto all'interno è necessaria la prenotazione, che va fatta attraverso il sito: si ha a disposizione un'ora di tempo per degustare i cocktail scelti personalmente, lasciandosi ispirare dalla fantasia e dai propri gusti. "In base a quello che abbiamo a disposizione riusciamo a esaudire le richieste più assurde", spiega Dall'Asta. C'è anche la possibilità di scegliere la propria playlist musicale, senza il timore di non incontrare i gusti degli altri clienti. L'alternativa è quella di ordinare un cocktail da asporto per sorseggiarlo direttamente fuori sul Naviglio: in questo caso c'è una lista di otto drink, serviti attraverso la finestrella dal bartender che indossa la maschera di Guy Fawkes, il protagonista del film V per Vendetta, senza mai farsi vedere in faccia, un po' per mantenere l'alone di mistero intorno al locale un po' per invogliare a entrare dentro per scoprire il posto. Anche i prezzi variano: i drink d'asporto sono sui 7 euro, quelli realizzati all'interno costano il doppio.
"Inizialmente lo spazio era di 16 metri quadrati, poi abbiamo dovuto attenerci alle norme del Comune di Milano - con un bagno che avesse l'accesso anche per i disabili e uno spogliatoio per il bartender - e lo spazio disponibile per il pubblico si è ridotto a 4 metri quadrati", raccontano i soci. Backdoor 43 è una piccola wunderkammer che raccoglie oggetti piccoli e curiosi, portati a casa dai viaggi dei proprietari intorno al mondo, che si combinano con le bottiglie di distillati che servono per le creazioni più bizzarre e l'atmosfera molto intima. Il locale è aperto tutti i giorni dalle 19,30 alle 3 di notte: niente proposta gastronomica, qui si viene soltanto per apprezzare i cocktail, la particolarità e l'esclusività del posto.

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