Il giorno in cui si celebrano le donne nella loro integrità ricordando quanto invece sia dimenticata (parliamo non solo dell'incendio della fabbrica in cui perirono tantissime OPERAIE di un secolo fa senza tutela, ma anche delle discriminazioni salariali che OGGI interessano le lavoratrici)
Ivana Posti e Stefi Pastori Gloss faranno una bella chiacchierata in radio dalle 15:30 dell'8 marzo, in replica poi su Radio Moncalieri.
Seguiteci su Spreaker dalle 15,30
L'opera pittorica invece è di Giorgia Selena Cassandro, rappresenta una donna dal cuore appeso con forte riferimento simbolico al tema trattato, per la serie Condividere è cultura.
Ora è vero che l'evento sarà gia stato trasmesso , vista la mia pubblicazione tardiva , e quindi lo si dovrà recuperare nell'archivio dell'emittente radiofonica.
Per coloro che si fossero persi la diretta, eccoci qui, https://fb.watch/j9nyL2sNoF/ oppure
Ma visto il calibro delle autrici vale la pena di pubblicarlo e farlo circolare perché come dice la curatrice Story Impact Italia introducendo questo video
Festeggiare è un diritto, ma ricordarsi il significato dell'8 marzo è un dovere!
Ogni donna ha il diritto di essere se stessa, di esprimere la propria personalità e di lottare per ciò in cui crede. La forza delle donne non sta nell'imitare gli uomini o nel cercare di conformarsi a stereotipi di genere, ma nel valorizzare le proprie qualità uniche e nell'affermare la propria individualità.
La festa della donna è un'occasione per celebrare la forza e il coraggio delle donne di tutto il mondo, e per ricordare che la lotta per l'uguaglianza di genere è ancora in corso. Sostenere le donne nella loro lotta per i diritti e per l'uguaglianza è un impegno che riguarda tutti, uomini e donne, e che può portare a un mondo migliore e più equo per tutti.
La metà del Paese fa gli auguri alle Donne ma poi le lesbiche no. Le immigrate no. Le musulmane ancora meno. Le madri con l’eterologa no. Le figlie delle coppie gay no.
La metà del Paese fa gli auguri alle Donne e poi se una donna guadagna meno è perché ha il ciclo, se dice “mi piace fare i pomp*ni” è una tro*a, e se è una donna trans la chiamano “il trans” perché un tempo aveva il pisello (o ce l'ha ancora) e se lo merita.
Parliamoci chiaro: voi, che siete la metà del Paese sulle cui gambe corrono le discriminazioni, il migliore augurio che potete fare alle donne, è quello che non v’incontrino mai.
Rappresentanza politica, occupazione, uguaglianza. Sono i capisaldi su cui si sono basate e si basano le rivendicazioni femminili. Dal movimento operaio del primo ’900 alla Resistenza e alla Costituzione repubblicana. Fino a oggi, con gli scioperi dell’8 marzo
Rappresentanza politica, occupazione, uguaglianza. Sono i capisaldi su cui si sono basate e si basano le rivendicazioni femminili. Dal movimento operaio del primo ’900 alla Resistenza e alla Costituzione repubblicana. Fino a oggi, con gli scioperi dell’8 marzo
Nel 1977 Bianca Guidetti Serra pubblica “Compagne”, un libro che avrebbe fatto epoca, come l’anno in cui è uscito. Avvocata, partigiana (a lei Primo Levi ha indirizzato l’unico biglietto spedito dalla prigionia), militante della sinistra comunista, Guidetti Serra mette in pagina, con una cura speciale per la varietà del parlato, le interviste che da qualche tempo va raccogliendo tra le donne torinesi che hanno fatto la Resistenza. Donne diverse, ma tutte accomunate dall’aver variamente vissuto il partigianato e dalla consapevolezza che a determinarne la scelta antifascista siano state due fondamentali rivendicazioni: il lavoro e il diritto di voto.
Dignità della vita attraverso il lavoro, dunque, e rappresentanza politica: era questa l’impostazione della questione femminile in seno al movimento operaio primo-novecentesco, come la si legge negli atti dei congressi della seconda Internazionale e nella cui storia è la genesi stessa dell’8 marzo. L’8 marzo 1917, appunto, a Mosca un’imponente manifestazione per i diritti delle donne aveva anticipato la Rivoluzione d’ottobre.
La Costituzione italiana nomina la condizione della donna in tre punti. Rispetto al principio d’eguaglianza, che non ammette distinzioni di sesso: affermazione tanto importante da venire al primo posto, nel catalogo delle discriminazioni bandite dall’articolo 3. Rispetto ai diritti del lavoratore riconosciuti all’articolo 36, che il 37 precisa essere diritti anche della donna lavoratrice. Rispetto all’elettorato, attivo e passivo, e alla capacità di ricoprire gli uffici pubblici, da garantire in condizione di parità a donne e uomini (articoli 48, 51 e 117).
Ancora una volta: dignità della vita attraverso il lavoro e partecipazione alla cosa pubblica nel segno dell’uguaglianza sostanziale. Prova, da un lato, che la temperie raccontata nel libro di Guidetti Serra ha un corrispettivo nella Carta fondamentale, nel momento in cui l’antifascismo è chiamato a farsi esperienza costituente. E prova, dall’altro, che la società che esprime la Costituzione è innervata da quelle disuguaglianze: non ci sarebbe stato altrimenti bisogno di nominarle, di auspicarne il superamento fin dal patto fondativo dello Stato nuovo.
Settantacinque anni dopo, alcune organizzazioni del movimento operaio hanno cambiato pelle, non solo in Italia: talvolta hanno disconosciuto l’identità precedente. Un esempio: a rivendicare di aver sfondato il soffitto di cristallo è una presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che proviene da una tradizione opposta a quella del partigianato che ha scritto in Costituzione la parità di genere, anche in politica. Gli studi sul lavoro povero hanno accertato che l’occupazione non è sempre uno strumento sufficiente di emancipazione, una garanzia di salvezza dall’indigenza: specie per le donne, specie se sole e con figli. Contrariamente a quanto si dice, le politiche dell’impiego e quelle assistenziali non sono alternative, ma complementari.
Nonostante i mutamenti, però, l’origine della Giornata della donna nella storia delle lotte operaie non smette di esercitare la sua forza sul presente. La dimostrazione è nello strumento che i movimenti femministi hanno praticato negli ultimi anni per l’8 marzo: lo sciopero.
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Quello di Luca Casarotti, presidente di Anpi Pavia Centro, è il quarto degli interventi sulle date fondanti della Repubblica affidati all’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea
per l'8 marzo vorrei parlare oltre che , vedere post precedente , delle storie ormai note ( non per questo poco importanti ) una lotta quotidiana. Contro stereotipi, aspettative e luoghi comuni che rafforzano il divario di genere , di un romanzo che le riassume . Esso è il romanzo ( foto a destra ) Se devo essere una melapubblicato da Les Flâneurs Edizioni, seconda prova di autrice di Emma Saponaro. Nel libro, in esergo, la dedica è « A chi ha sacrificato anni di vita per una cosa che credeva amore ». Un argomento difficile ma reso con estrema leggerezza e ironia dall’autrice, senza sottovalutare mai gli aspetti più complessi e duri.
Quello di una giovane donna che si sveglia dall’incubo di un rapporto in crisi, di un amore forse ma esistito, che le impedisce di realizzarsi. Infatti Nella bella prefazione, Marina Pierri scrive che «nelle pieghe di un romanzo ricco di ironia… si annidano la fatica e la pena quotidiana di moltissime donne. … costrette in matrimoni fatti di rabbia, nervosismo e prepotenza, molte più sorelle di quante riusciremmo mai ad immaginare chiedono di essere viste».
concludo il post letterario con questa poedia dell'untente
Son Donna.
Mi sento viva... Viva d'amore e di esistere per il nostro amore.
Donna dannata donna giudicata e non mi far sentir troppo male per il nostro vivere magico che piano è scomparso. Vivo l'attimo come fosse anni,
grido al mondo che credo solo a me essere unica cosa, scorrono di buon senso nell'anima il tuo pensiero e la tua parola... Ma non voglio che tu abbia voglia di me solo di comodo goloso.
Va.. Ma non ti ho mai detto che non è stato possibile mandarti a fan culo al momento giusto, ora lo è.
Per la Giornata Internazionale le testimonianze di una lotta quotidiana. Contro stereotipi, aspettative e luoghi comuni che rafforzano il divario di genere
«Al mio posto tutti avrebbero fatto lo stesso», dice Fabiola Lanciani, professoressa di diritto e tecniche amministrative e finanziarie in un istituto alberghiero. Non ha mai smesso di lavorare, sebbene oltre che della cura dei figli si sia fatta carico anche dell’assistenza ai genitori anziani e alla sorella disabile del marito.
«È un lavoro che tipicamente cade sulle spalle delle figlie femmine. Mio fratello ha provato a dare una mano. Però, appena mia madre ha iniziato ad aggravarsi, ad aver bisogno di aiuto per ogni attività, anche per andare in bagno, si è tirato fuori. Eppure, io l’ho fatto anche quando è toccato a mio padre». Lanciani per 10 anni ha assistito i suoi genitori, prima la madre malata di Alzheimer, poi il padre che ha perso la mobilità a causa dell’età: «C’erano giorni in cui stavo a scuola dalle 8 alle 14. Uscivo, dopo un’ora d’auto arrivavo da mia madre. Rimanevo con lei fino a che, verso le 21, non rientrava la badante. A casa mia tornavo per le 22. Questo significava che già il giorno prima dovevo aver organizzato tutto per mio marito e i miei figli, pranzo, gestione delle attività, e preparato le lezioni del giorno dopo». Oggi Lanciani quando c’è necessità assiste anche la sorella del marito. Ha promesso alla suocera che l’avrebbe fatto: «Quando me l’ha chiesto non ho potuto dire di no. Perché sono l’unica donna della famiglia. Gli altri fratelli di mio marito non hanno mogli o compagne. Quello che faccio secondo me non è straordinario. È normale».
Manu Canale ha studiato filosofia etica all’Università. Appena laureata ha sentito la necessità di mettere in pratica i principi appresi durante il percorso di studi: «Non in un ambiente autoreferenziale come quello accademico ma nella vita vera, sporcandomi le mani». Così ha iniziato a lavorare come educatrice, in contesti di supporto al disagio sociale, con persone disabili, migranti, per garantire il diritto allo studio o alla cura a minori vittime di violenza in famiglia. «Nonostante mi sia impegnata in ambiti molto diversi, il filo rosso che guida il mio lavoro consiste nell’offrire alle persone gli strumenti necessari per autodeterminarsi». Canale racconta che nel settore dell’educazione gli stereotipi che una donna si trova ad affrontare sono ancora parecchi: «ai maschi, ad esempio, viene di solito chiesto di dirimere situazioni di conflitto o di offrire contesti di svago e divertimento, alle educatrici di dedicarsi alla cura. In più occasioni ho fatto fatica ad affermare la mia autorevolezza. Oppure, banalmente, ho dovuto dimostrare che so giocare a calcio». Canale nel 2019 ha scelto di unirsi civilmente a Margherita, la sua compagna: «La nostra è stata una scelta politica. L’abbiamo fatto per rivendicare l’esistenza di questo tipo di relazione, nonostante non ci sia la parità che garantirebbe il matrimonio egualitario. Per dare visibilità a un diritto che dovrebbe essere universalmente riconosciuto». Gli strumenti per l’emancipazione individuale, che Canale offre nel suo lavoro di educatrice, sono gli stessi che ha utilizzato per se stessa: «Mi sono stati utili per portate avanti la mia relazione omosessuale con orgoglio, consapevolezza e serenità. Per affrontare le difficoltà grandi e piccole che viviamo ogni giorno essendo una coppia di donne, come le problematicità nell’esporsi liberamente in ogni tipo di contesto, senza temere discriminazioni».
«Quando mio fratello è nato era molto irrequieto, piangeva sempre. Mia madre aveva bisogno di aiuto e così ho lasciato gli studi. Facevo la terza media», racconta Francesca Valenti. Che oggi ha 48 anni e un figlio che ne ha da poco compiuti 18. «Nessuno in famiglia mi ha obbligata a interrompere il percorso scolastico, ho scelto di farlo perché mia madre era stanca, aveva bisogno di supporto. E io come donna potevo badare al bambino meglio di quanto potesse fare mio fratello più grande». Valenti non è pentita della scelta che ha fatto, ha trovato un impiego presto, così ha già una corposa esperienza lavorativa alle spalle: «Negli ultimi 20 anni sono sempre stata nel commercio. Quando mio figlio era piccolo non è stato facile conciliare le esigenze di madre con quelle del lavoro ma grazie al supporto dei familiari ci sono riuscita. Adesso, quando esco di casa alle 6.15 lui fa colazione e poi va a scuola da solo. Per pranzo mi aspetta. Funziona così da quando ha 15 anni». Valenti è separata dal marito, porta avanti casa e famiglia, lavora come caporeparto in un negozio di frutta e verdura: «mi piace molto e sono brava in quello che faccio, non cambierei». Fuori dai turni di lavoro ha parecchi impegni, tra questi c’è la passione per il cucito e il desiderio di tornare a studiare per ottenere il diploma di istruzione superiore: «Ci ho provato più volte, non ci sono ancora riuscita. Ma non perdo tempo a lamentarmi, mi rimbocco le maniche e riprovo. Mi piace fare tante cose, se riuscissi ne farei ancora di più».
«Quando è arrivato il momento di partorire ero in studio. Sono partita da lì per l’ospedale. Ho lavorato fino all’ultimo giorno», racconta Stella Piergiacomi, 34 anni. Ha sempre saputo di voler fare l’avvocata, fin da adolescente, quando metteva fine a ogni discussione tra amici con la frase: «È una questione di principio. È la legge che lo dice». Questo le ha permesso di affrontare il percorso lungo che serve per affermarsi come professionista. Che però, ci tiene a sottolineare, «non sarebbe stato possibile se non avessi avuto intorno familiari, amici disposti ad aiutarmi. E buone possibilità economiche». Piergiacomi a 31 anni ha sentito il desiderio di avere un figlio nonostante la sua carriera fosse solo agli inizi. «Se scegli di mettere su famiglia non puoi fare questo lavoro», si è sentita dire più volte dalle colleghe, «soprattutto da quelle che avevano deciso di trascurare la vita privata per puntare tutto sulla professione. - confessa - Non mi sono lasciata scoraggiare. Ma, sebbene non sia pentita perché amo il mio lavoro, è stato anche il senso di colpa a spingermi a restare in studio fino al giorno del parto. E a riprendere un mese dopo: all’inizio lavoravo solo due giorni a settimana. Poi ho ricostruito la routine. Perché le udienze, gli atti, le pratiche non vanno in stand by sulla base degli impegni personali. Avrei dovuto delegare i colleghi e così aggiungere al loro carico di lavoro anche il mio». Ogni mattina Piergiacomi si sveglia alle 6.30, accompagna il figlio all’asilo prima di andare a lavoro: «È sempre il primo ad arrivare», racconta sorridendo. «Il pomeriggio lo prendono i nonni alle 16, resta con loro fino a verso le 20. Vado a prenderlo e torniamo a casa. Preparo la cena, metto un po’ in ordine e andiamo a dormire». Pronti per affrontare un’altra giornata.
«Lavoro da quando avevo 17 anni. Ma il fatto che io sia donna e giovane, nonostante i 10 anni di esperienza, purtroppo fa sì che a volte le persone con cui ho a che fare si prendano delle libertà a cui non avrebbero diritto». Così spiega Chiara Canzonieri, proprietaria di un centro estetico in un quartiere storico di Roma. L’ha aperto a 25 anni: «Quando ho ristrutturato lo spazio, ad esempio, è successo che uno dei professionisti con cui mi interfacciavo per la scelta della pavimentazione ha iniziato a gridare contro di me. Non credeva alle mie parole, non mi reputava affidabile, pretendeva di aver ragione. Sono sicura che se si fosse, invece, trovato di fronte mio padre non si sarebbe comportato allo stesso modo». Le giornate di Canzonieri sono intense all’interno del beauty salon. Entra alle 9, chiude alle 18.30, ci mette circa un’ora per rientrare a casa: «c’è sempre traffico». Prima, però, passa a fare la spesa: «Poi arrivo e cucino. Per quanto il mio compagno si impegni per aiutare, la cura della casa cade sulle mie spalle. Ho anche una situazione familiare complicata - aggiunge - Mio padre, da quando mia madre è morta tre anni fa, conta molto su di me. Dopo 20 anni di matrimonio, da solo si è trovato spiazzato: è indipendente fisicamente ma io l’aiuto nell’organizzazione della giornata, anche nell’amministrazione della sua officina meccanica. Prima ci pensava mia madre. Da qualche mese anche mia sorella ha iniziato a lavorare nel centro estetico con me». Così Canzonieri non deve pensare solo alla costruzione del suo futuro ma anche a quello dei suoi familiari. E sente il peso delle responsabilità: «Credo sia una cosa che caratterizza tutte le donne, no? Che devono essere sempre un po’ mamme. Anche se non lo sono».
«Anche quando vorrei dire: “No. Non ho voglia”, alla fine dico sì. Si tratta di un’impostazione al sacrificio che ho dentro. Con cui sono sono stata educata», racconta Federica Zappavigna, 38 anni. Che vive a Firenze ma è cresciuta in un piccolo paese dell’entroterra calabrese. «Vengo da una realtà in cui le donne sono il punto di riferimento della famiglia. Molte non lavorano per crescere i figli e badare alla casa. Devono sempre essere pronte soddisfare le necessità degli altri, mai tirarsi indietro, la tavola deve essere sempre apparecchiata. Mia madre, infatti, si è fatta carico di tutte le dinamiche familiari mentre mio padre andava a lavoro, usciva con gli amici, faceva sport, coltivava le sue passioni. E secondo i mie genitori è questo il modo in cui devono andare le cose». Così Zappavigna adesso si sente come in un limbo: da un lato i valori trasmessi dalla famiglia, dall’altro il mondo con cui si confronta ogni giorno. «Questo mi porta a somatizzare gli stati d’animo che vivo. Diventano malessere fisico, attacchi di panico, momenti di tensione. Sento come se non potessi mai permettermi di fallire. Né con i miei genitori, perché sono la figlia femmina più grande. Né con il mio compagno e neppure con i miei amici. È piacevole sentirsi un punto di riferimento per le persone a cui vuoi bene ma ti carica anche di tante responsabilità. Che ogni scelta dipenda sempre dalla tua opinione è pesante da sopportare».
«Essere una brava madre e una buona moglie quando perdi il lavoro non è facile. Non è stato semplice conciliare la lotta con gli impegni della vita quotidiana. Serve una grande forza che io già avevo dentro di me. Per me difendere il mio lavoro è stato come difendere un figlio. Mi è venuto naturale». Così racconta Carmen Nappo, ex operaia della Whirlpool di Napoli. «In quella fabbrica ci ho lavorato vent’anni. Ero anche consigliera del Cral, il centro ricreativo aziendale, è ho mantenuto il mio ruolo sociale anche quando lo stabilimento ha chiuso». Nappo, come gli altri 312 lavoratori del sito di via Argine 310, ha perso l’impiego quando la multinazionale statunitense ha deciso di non rispettare l’accordo che aveva preso con il ministero dello Sviluppo economico e di chiudere lo stabilimento campano. Ma non si è abbattuta: «Con le altre donne della fabbrica abbiamo dato vita a un gruppo di lotta. Abbiamo fatto squadra, unito le forze e contribuito a mantenere vivi i presidi. Ci siamo impegnate per portare avanti la vertenza. Anche grazie al nostro impegno oggi vediamo spiragli di luce. È stato perfino terapeutico: un modo per non sentirci sole in un momento di vita complesso». Perché, come racconta, «quando sei triste, quando ti senti psicologicamente labile visto che non hai più alcuna certezza per il futuro, diventa ancora più difficile portare avanti anche la vita privata. Ma noi donne non abbiamo mai smesso di combattere, siamo in prima linea, vogliamo lavorare perché per noi il lavoro è libertà, in tutti i sensi».
«Succede che i pazienti ci chiamino signorine e ci chiedano il dottore dov’è. È frequente. O a volte capita che sia necessario avere una premura in più nello stringere relazioni con colleghi uomini, soprattutto se più grandi o avanti nella carriera, per evitare di trovarsi in situazioni che non avremmo desiderato». Così Simona Grassi, 36 anni, racconta la sua quotidianità da medico ospedaliero: «È simile a quella della maggior parte delle donne lavoratrici, specialmente di quelle che sono anche madri». Grassi ha una figlia di 13 anni. Quando è nata doveva ancora iniziare la specializzazione in geriatria: «All’inizio mi capitava di portarla in facoltà, gli amici mi aiutavano nel guardarla per permettermi di fare il tirocinio. Questo perché nonostante sulla carta l’Università debba rimuovere gli ostacoli per le studentesse madri e gli studenti lavoratori, non sono stata tutelata in alcun modo. Appena ha avuto l’età giusta ho iscritto mia figlia all’asilo, privato. I nidi pubblici a Napoli sono pochissimi, è impossibile accedere alle graduatorie». Grassi spiega che non è stato facile, non sarebbe riuscita a coniugare famiglia e lavoro se non avesse avuto intorno una fitta rete di persone pronte a supportarla. «Anche perché viviamo in una società competitiva, per cui ogni motivo che ti impedisce di rendere come gli altri diventa una modalità di marginalizzazione. Oggi mia figlia è più grande, sono abituata a sopportare il doppio carico, di lavoro e di cura. E sono circondata da colleghe che fanno lo stesso». Ma, come racconta, il senso di colpa resta: «cerchi sempre di dare il massimo sia con i pazienti, sia a casa. Non è detto, però, che tu ce la faccia».
mentre stavo per cliccare su pubblica ho trovato quest' altra storia
Ipazia, la donna a cui nessuno ha chiesto scusa
di Silvia Ronchey
Filosofa, scienziata e politica fu assassinata per ordine di un vescovo. È diventata simbolo di ogni ingiustizia, ma la Chiesa ancora tace
Ipazia di Alessandria, affresco di Masolino a San Clemente a Roma
Nella primavera del quinto secolo della nostra era, quando il cristianesimo era stato appena proclamato religione di Stato, una donna fu brutalmente assassinata ad Alessandria d'Egitto per mandato di uno dei più potenti vescovi dell'allora giovane Chiesa. Fu aggredita per strada, spogliata nuda, trascinata nella chiesa cattedrale e qui dilaniata con cocci aguzzi. Mentre ancora respirava le furono cavati gli occhi, poi i resti del suo corpo smembrato vennero dati alle fiamme. A
massacrarla furono chierici cristiani al servizio di Cirillo di Alessandria, che allora, della megalopoli d'Egitto, era bellicoso e potentissimo patriarca. Anche per questo l'assassinio rimase impunito. L'inchiesta imperiale fu insabbiata, il magistrato incaricato fu corrotto e Cirillo è tuttora un santo del calendario cristiano. La donna si chiamava Ipazia ed è da molti, anche in ambito ecclesiastico, considerata una santa laica. Era unafilosofae unascienziata di immensa fama, che insegnava su una pubblica cattedra non solo le materie di cui era specialista ma anche la tolleranza intellettuale e religiosa, la resistenza a ogni integralismo, la tutela delle minoranze, la separazione del potere spirituale da quello secolare. La sua posizione rigorosa e l'ascendente che esercitava sui governanti contrastavano, per il vescovo e i suoi seguaci, con l'essere donna. Fu questo a valerle il martirio. C'è chi considera il rogo di Ipazia ilprimo esempio di caccia alle streghedell'inquisizione cristiana. Definizione necessaria ma non sufficiente. Il suo fu un omicidio politico e un vero e propriofemminicidio, tinto di sadismo e odio di genere.
oltre ad essere fondamentalista è un cagasotto ed ipocrita che non ha il coraggio di farlo lui ma delega a gli altri
da repubblica del 5\3\2023
I due ragazzi, un maschio e una femmina, si sono rifiutati di colpire la madre e hanno chiesto al padre di ripensarci. Tornati a casa, la donna lo ha denunciato per una serie di vessazioni durate due anni: ai due minorenni chiedeva anche di controllare borsa e cellulare della madre
Porta la famiglia in un bosco alle porte di Roma e chiede ai figli di punire la moglie: "Lapidate vostra madre". Il motivo? Adulterio. Secondo l'uomo, un estremista cristiano, era proprio questa la punizione prevista dalla religione per sanzionare il 'peccato' commesso dalla donna. Quando il padre gli ha messo in mano le pietre, i figli, un maschio e una femmina, si sono rifiutati di scagliarle contro la madre. In lacrime, hanno chiesto al padre di ripensarci. Lui li ha ascoltati. Una volta tornati a casa, la donna ha deciso di rivolgersi a un centro anti-violenza e alle forze dell'ordine. Adesso l'uomo è stato rinviato a giudizio per maltrattamenti in famiglia.
Le vessazioni si sono concentrate nel biennio tra il 2016 e il 2018. L'uomo, un integralista religioso, era convinto che la moglie lo tradisse. Aveva iniziato prima a ordinare ai figli di controllare la borsa e il cellulare della madre, ogni volta che tornava a casa. Poi l'aveva obbligata a uscire accompagnata almeno da uno dei due figli. L'uomo costringeva la famiglia a osservare lunghi periodi di digiuno in occasione della Quaresima, ma anche in altri periodi dell'anno. In casa si prega ritmo serrato, più volte al giorno. Finchè nel 2018 l'uomo non si ossessiona con il tradimento e porta la moglie nel bosco chiedendo ai figli di lapidarla. Una 'pena', secondo lui, prevista dall'Antico Testamento.
cosi si dovrebbe fare , quando riesci a scoprirli . stai a vedere che la prossima volta ci penseranno bene dal ripetere tale gesto .
“A Bacoli abbiamo pure gli incivili romantici“. Inizia così il post, diventato virale in poche ore, di Josi Gerardo Della Ragione, sindaco del piccolo comune in provincia di Napoli che ha voluto condividere e allo stesso tempo denunciare il gesto di un cittadino scoperto a sversare alcuni rifiuti in via Spiaggia Romana. Beccato dalle telecamere di sorveglianza, monitorate dalla polizia locale, poco ore dopo l’uomo si è ritrovato sotto casa gli operai del Comune che gli hanno restituito i sacchetti contenenti alcuni abiti dismessi e notificandogli anche una multa.
“Un barbaro ha scaricato questo scempio in strada. Lo abbiamo scoperto. E, tra i rifiuti, è uscito fuori anche un bigliettino mieoloso – osserva Della Ragione – “Per te. Mi manchi da morire”. Con tanto di cuoricino. Quanta dolcezza. Lo saremo anche noi. Perché anche tu “ci manchi da morire”. Incivile. Per questo, ti stiamo riportando la spazzatura a domicilio. E ci siamo permessi di aggiungere, in allegato, un bel verbale ed una denuncia per reati contro l’ambiente. Questa piccola discarica – prosegue il sindaco -ha davvero dell’incredibile. Perché bastava che il vandalo di turno percorresse in auto altri pochi metri, ed avrebbe raggiunto il centro di raccolta della Flegrea Lavoro, a Cuma”.
Bacoli è “un comune in cui superiamo il 90% di raccolta differenziata ed in cui raccogliamo i rifiuti porta a porta. Forse gli dava troppa fatica. No problem. Ci pensiamo noi ad allietarti questo sabato mattina. Ringrazio il Centro Ittico Campano. Ringrazio le Guardie Ambientali. Ringrazio la Flegrea Lavoro. Via Spiaggia Romana non sarà mai più la pattumiera di Bacoli. Insieme, siamo più forti. Una denuncia alla volta. Un verbale alla volta, a chi sporca la nostra città. Non vi daremo tregua. “Col cuore Della Ragione conclude ribadendo tolleranza zero sia ai bacolesi che ai cittadini che vengono da altri comuni a gettare illegalmente i rifiuti: “Abbiamo tutti gli strumenti per farlo. Le telecamere, i nostri operatori e poi ci sono le guardie zoologiche”. Ed per ogni cumulo di spazzatura trovato per strada si avvia una ‘indagine’: “Noi apriamo i sacchetti e troviamo sempre un elemento che ci porta al responsabile”.
Il caso in questione è della settimana scorsa e quindi il mio post sui femminicidi non è, aggiornato all'ultimo di . Ma d'altronde è pressoché impossibile stare dietro a tutte le aggressioni ( quando va bene ) e omicidi da parte di persone con cui hai o hai avuto una relazione o ti fidi come l'ultimo caso sentito poco fa al telegiornale è avvenuto a Giarratana ( Ragusa ) : la vittima è Rosalba dell'Albani, 52 anni . . Infatti nel caso di Giovanna c'è , un classico , L’incapacità dell’uomo ( ecco perché dico che noi uomini andiamo rieducati ed aiutati ) di accettare le scelte di vita della vittima, che aveva deciso di interrompere la relazione. Un’arma da fuoco, nel caso di Giovanna Frino , detenuta in ragione del fatto che l’uomo era stato in passato una guardia giurata. Un copione drammaticamente ricorrente, che si caratterizza in questo caso anche per un elemento ulteriore: talvolta capita che i femminicidi si consumino nel silenzio, senza che vicini, amici o persone prossime alla coppia abbiano la consapevolezza di quanto avviene e, soprattutto, siano in grado di intervenire per evitare l’epilogo più drammatico. In questa tragica vicenda, invece, è emerso che molte delle violenze commesse dall’uomo nei confronti di Giovanna Frino erano a conoscenza dei vicini di casa. La sorella della vittima ha espresso parole molto dure nei confronti di queste persone: «Invece di farvi i fatti vostri, bastava una chiamata ai carabinieri e mia sorella si sarebbe salvata... Spero che la vostra coscienza non vi dia pace per il resto della vita». Parole frutto del comprensibile dolore e della rabbia di chi ha perso un familiare in circostanze di questo tipo. Parole che suggeriscono una riflessione di carattere più generale, che parte dal seguente interrogativo: come valutare il comportamento di chi assiste alle violenze e decide di non intervenire? Le ragioni che stanno alla base di questa scelta possono ovviamente essere molto diverse tra loro, in qualche caso dovute al timore per la propria incolumità. La passività di coloro che assistono ad episodi di violenza senza intervenire può però essere determinata anche da una scarsa consapevolezza dei reali rischi a cui è esposta una donna coinvolta in una relazione con un uomo violento. Da questo punto di vista, la sensibilizzazione sul tema specifico della violenza di genere può fare molto, soprattutto affinché i segnali di pericolo vengano letti nel modo giusto dalle persone che stanno vicino alla potenziale vittima. L’impiego efficace degli strumenti di protezione della donna messi a disposizione dall’ordinamento può poi rafforzare l’idea che un’uscita dalla violenza sia sempre possibile e che, pertanto, un aiuto dall’esterno non sia privo di utilità”
Il fatto è avvenuto in Turchia negli scorsi giorni. Dopo essere stato estratto dalle macerie del terremoto in Turchia, il gatto non ha più voluto separarsi da chi lo aveva salvato.
Ali Cakas Ciclista della nazionale turca di mountain bike, nelle ultime settimane è stato impegnato a prestare soccorso alle popolazioni colpite dal sisma del 6 febbraio.
sul suo profilo ufficiale Instagram ha raccontato che al momento del salvataggio del gatto, individuato sotto un edificio crollato, il felino non voleva più abbandonare il suo "salvatore".
Egli si è naturalmente dato da fare per verificare se il gatto avesse un padrone, ma senza trovare riscontri in tal senso. Ha così deciso di adottarlo, portandolo a casa con sé nella città di Mardin.
Leggendo le critiche e le stroncature sulla , per me discreta ( ho visto cose peggiori che non ti lasciano niente ed sono effimere ) serie tv di netflix linda poet in particolare quest articolo di Open mi sono detto : << ma insomma non è piaciuta nessuno . In Italia la fantasia e l'immaginazione sui fatti i le persone storiche sembra bandita.
Mentre il potere politico mediatico \ culturale riscrive la storia vedi #10febbraio#25aprile e nessuno o quasi s'indigna o si lamenta >> Ma poi il commento sagace , che condivido , di
Grande successo di pubblico, le atmosfere vittoriane stile London, Whitechapel, tutto proibito e peccaminoso, Sherlock Holmes, assenzio oppio e sesso. Ci sta, come sempre tutto, anche l'indignazione di parenti e serpenti. Sembra come per Elly Schlein, il voto popolare ribalta il voto di partito e tutti a strapparsi vesti e capelli. Potere al popolo.