6.3.23

«Noi donne siamo stufe di essere straordinarie». Otto storie di lavoro e resistenza per raccontare l’8 marzo





da https://espresso.repubblica.it/ del 7\3\2023

di Chiara Sgreccia





Per la Giornata Internazionale le testimonianze di una lotta quotidiana. Contro stereotipi, aspettative e luoghi comuni che rafforzano il divario di genere


«Al mio posto tutti avrebbero fatto lo stesso», dice Fabiola Lanciani, professoressa di diritto e tecniche amministrative e finanziarie in un istituto alberghiero. Non ha mai smesso di lavorare, sebbene oltre che della cura dei figli si sia fatta carico anche dell’assistenza ai genitori anziani e alla sorella disabile del marito.
«È un lavoro che tipicamente cade sulle spalle delle figlie femmine. Mio fratello ha provato a dare una mano. Però, appena mia madre ha iniziato ad aggravarsi, ad aver bisogno di aiuto per ogni attività, anche per andare in bagno, si è tirato fuori. Eppure, io l’ho fatto anche quando è toccato a mio padre». Lanciani per 10 anni ha assistito i suoi genitori, prima la madre malata di Alzheimer, poi il padre che ha perso la mobilità a causa dell’età: «C’erano giorni in cui stavo a scuola dalle 8 alle 14. Uscivo, dopo un’ora d’auto arrivavo da mia madre. Rimanevo con lei fino a che, verso le 21, non rientrava la badante. A casa mia tornavo per le 22. Questo significava che già il giorno prima dovevo aver organizzato tutto per mio marito e i miei figli, pranzo, gestione delle attività, e preparato le lezioni del giorno dopo». Oggi Lanciani quando c’è necessità assiste anche la sorella del marito. Ha promesso alla suocera che l’avrebbe fatto: «Quando me l’ha chiesto non ho potuto dire di no. Perché sono l’unica donna della famiglia. Gli altri fratelli di mio marito non hanno mogli o compagne. Quello che faccio secondo me non è straordinario. È normale».




Manu Canale ha studiato filosofia etica all’Università. Appena laureata ha sentito la necessità di mettere in pratica i principi appresi durante il percorso di studi: «Non in un ambiente autoreferenziale come quello accademico ma nella vita vera, sporcandomi le mani». Così ha iniziato a lavorare come educatrice, in contesti di supporto al disagio sociale, con persone disabili, migranti, per garantire il diritto allo studio o alla cura a minori vittime di violenza in famiglia. «Nonostante mi sia impegnata in ambiti molto diversi, il filo rosso che guida il mio lavoro consiste nell’offrire alle persone gli strumenti necessari per autodeterminarsi». Canale racconta che nel settore dell’educazione gli stereotipi che una donna si trova ad affrontare sono ancora parecchi: «ai maschi, ad esempio, viene di solito chiesto di dirimere situazioni di conflitto o di offrire contesti di svago e divertimento, alle educatrici di dedicarsi alla cura. In più occasioni ho fatto fatica ad affermare la mia autorevolezza. Oppure, banalmente, ho dovuto dimostrare che so giocare a calcio». Canale nel 2019 ha scelto di unirsi civilmente a Margherita, la sua compagna: «La nostra è stata una scelta politica. L’abbiamo fatto per rivendicare l’esistenza di questo tipo di relazione, nonostante non ci sia la parità che garantirebbe il matrimonio egualitario. Per dare visibilità a un diritto che dovrebbe essere universalmente riconosciuto». Gli strumenti per l’emancipazione individuale, che Canale offre nel suo lavoro di educatrice, sono gli stessi che ha utilizzato per se stessa: «Mi sono stati utili per portate avanti la mia relazione omosessuale con orgoglio, consapevolezza e serenità. Per affrontare le difficoltà grandi e piccole che viviamo ogni giorno essendo una coppia di donne, come le problematicità nell’esporsi liberamente in ogni tipo di contesto, senza temere discriminazioni».


«Quando mio fratello è nato era molto irrequieto, piangeva sempre. Mia madre aveva bisogno di aiuto e così ho lasciato gli studi. Facevo la terza media», racconta Francesca Valenti. Che oggi ha 48 anni e un figlio che ne ha da poco compiuti 18. «Nessuno in famiglia mi ha obbligata a interrompere il percorso scolastico, ho scelto di farlo perché mia madre era stanca, aveva bisogno di supporto. E io come donna potevo badare al bambino meglio di quanto potesse fare mio fratello più grande». Valenti non è pentita della scelta che ha fatto, ha trovato un impiego presto, così ha già una corposa esperienza lavorativa alle spalle: «Negli ultimi 20 anni sono sempre stata nel commercio. Quando mio figlio era piccolo non è stato facile conciliare le esigenze di madre con quelle del lavoro ma grazie al supporto dei familiari ci sono riuscita. Adesso, quando esco di casa alle 6.15 lui fa colazione e poi va a scuola da solo. Per pranzo mi aspetta. Funziona così da quando ha 15 anni». Valenti è separata dal marito, porta avanti casa e famiglia, lavora come caporeparto in un negozio di frutta e verdura: «mi piace molto e sono brava in quello che faccio, non cambierei». Fuori dai turni di lavoro ha parecchi impegni, tra questi c’è la passione per il cucito e il desiderio di tornare a studiare per ottenere il diploma di istruzione superiore: «Ci ho provato più volte, non ci sono ancora riuscita. Ma non perdo tempo a lamentarmi, mi rimbocco le maniche e riprovo. Mi piace fare tante cose, se riuscissi ne farei ancora di più».


«Quando è arrivato il momento di partorire ero in studio. Sono partita da lì per l’ospedale. Ho lavorato fino all’ultimo giorno», racconta Stella Piergiacomi, 34 anni. Ha sempre saputo di voler fare l’avvocata, fin da adolescente, quando metteva fine a ogni discussione tra amici con la frase: «È una questione di principio. È la legge che lo dice». Questo le ha permesso di affrontare il percorso lungo che serve per affermarsi come professionista. Che però, ci tiene a sottolineare, «non sarebbe stato possibile se non avessi avuto intorno familiari, amici disposti ad aiutarmi. E buone possibilità economiche». Piergiacomi a 31 anni ha sentito il desiderio di avere un figlio nonostante la sua carriera fosse solo agli inizi. «Se scegli di mettere su famiglia non puoi fare questo lavoro», si è sentita dire più volte dalle colleghe, «soprattutto da quelle che avevano deciso di trascurare la vita privata per puntare tutto sulla professione. - confessa - Non mi sono lasciata scoraggiare. Ma, sebbene non sia pentita perché amo il mio lavoro, è stato anche il senso di colpa a spingermi a restare in studio fino al giorno del parto. E a riprendere un mese dopo: all’inizio lavoravo solo due giorni a settimana. Poi ho ricostruito la routine. Perché le udienze, gli atti, le pratiche non vanno in stand by sulla base degli impegni personali. Avrei dovuto delegare i colleghi e così aggiungere al loro carico di lavoro anche il mio». Ogni mattina Piergiacomi si sveglia alle 6.30, accompagna il figlio all’asilo prima di andare a lavoro: «È sempre il primo ad arrivare», racconta sorridendo. «Il pomeriggio lo prendono i nonni alle 16, resta con loro fino a verso le 20. Vado a prenderlo e torniamo a casa. Preparo la cena, metto un po’ in ordine e andiamo a dormire». Pronti per affrontare un’altra giornata.


«Lavoro da quando avevo 17 anni. Ma il fatto che io sia donna e giovane, nonostante i 10 anni di esperienza, purtroppo fa sì che a volte le persone con cui ho a che fare si prendano delle libertà a cui non avrebbero diritto». Così spiega Chiara Canzonieri, proprietaria di un centro estetico in un quartiere storico di Roma. L’ha aperto a 25 anni: «Quando ho ristrutturato lo spazio, ad esempio, è successo che uno dei professionisti con cui mi interfacciavo per la scelta della pavimentazione ha iniziato a gridare contro di me. Non credeva alle mie parole, non mi reputava affidabile, pretendeva di aver ragione. Sono sicura che se si fosse, invece, trovato di fronte mio padre non si sarebbe comportato allo stesso modo». Le giornate di Canzonieri sono intense all’interno del beauty salon. Entra alle 9, chiude alle 18.30, ci mette circa un’ora per rientrare a casa: «c’è sempre traffico». Prima, però, passa a fare la spesa: «Poi arrivo e cucino. Per quanto il mio compagno si impegni per aiutare, la cura della casa cade sulle mie spalle. Ho anche una situazione familiare complicata - aggiunge - Mio padre, da quando mia madre è morta tre anni fa, conta molto su di me. Dopo 20 anni di matrimonio, da solo si è trovato spiazzato: è indipendente fisicamente ma io l’aiuto nell’organizzazione della giornata, anche nell’amministrazione della sua officina meccanica. Prima ci pensava mia madre. Da qualche mese anche mia sorella ha iniziato a lavorare nel centro estetico con me». Così Canzonieri non deve pensare solo alla costruzione del suo futuro ma anche a quello dei suoi familiari. E sente il peso delle responsabilità: «Credo sia una cosa che caratterizza tutte le donne, no? Che devono essere sempre un po’ mamme. Anche se non lo sono».


«Anche quando vorrei dire: “No. Non ho voglia”, alla fine dico sì. Si tratta di un’impostazione al sacrificio che ho dentro. Con cui sono sono stata educata», racconta Federica Zappavigna, 38 anni. Che vive a Firenze ma è cresciuta in un piccolo paese dell’entroterra calabrese. «Vengo da una realtà in cui le donne sono il punto di riferimento della famiglia. Molte non lavorano per crescere i figli e badare alla casa. Devono sempre essere pronte soddisfare le necessità degli altri, mai tirarsi indietro, la tavola deve essere sempre apparecchiata. Mia madre, infatti, si è fatta carico di tutte le dinamiche familiari mentre mio padre andava a lavoro, usciva con gli amici, faceva sport, coltivava le sue passioni. E secondo i mie genitori è questo il modo in cui devono andare le cose». Così Zappavigna adesso si sente come in un limbo: da un lato i valori trasmessi dalla famiglia, dall’altro il mondo con cui si confronta ogni giorno. «Questo mi porta a somatizzare gli stati d’animo che vivo. Diventano malessere fisico, attacchi di panico, momenti di tensione. Sento come se non potessi mai permettermi di fallire. Né con i miei genitori, perché sono la figlia femmina più grande. Né con il mio compagno e neppure con i miei amici. È piacevole sentirsi un punto di riferimento per le persone a cui vuoi bene ma ti carica anche di tante responsabilità. Che ogni scelta dipenda sempre dalla tua opinione è pesante da sopportare».


«Essere una brava madre e una buona moglie quando perdi il lavoro non è facile. Non è stato semplice conciliare la lotta con gli impegni della vita quotidiana. Serve una grande forza che io già avevo dentro di me. Per me difendere il mio lavoro è stato come difendere un figlio. Mi è venuto naturale». Così racconta Carmen Nappo, ex operaia della Whirlpool di Napoli. «In quella fabbrica ci ho lavorato vent’anni. Ero anche consigliera del Cral, il centro ricreativo aziendale, è ho mantenuto il mio ruolo sociale anche quando lo stabilimento ha chiuso». Nappo, come gli altri 312 lavoratori del sito di via Argine 310, ha perso l’impiego quando la multinazionale statunitense ha deciso di non rispettare l’accordo che aveva preso con il ministero dello Sviluppo economico e di chiudere lo stabilimento campano. Ma non si è abbattuta: «Con le altre donne della fabbrica abbiamo dato vita a un gruppo di lotta. Abbiamo fatto squadra, unito le forze e contribuito a mantenere vivi i presidi. Ci siamo impegnate per portare avanti la vertenza. Anche grazie al nostro impegno oggi vediamo spiragli di luce. È stato perfino terapeutico: un modo per non sentirci sole in un momento di vita complesso». Perché, come racconta, «quando sei triste, quando ti senti psicologicamente labile visto che non hai più alcuna certezza per il futuro, diventa ancora più difficile portare avanti anche la vita privata. Ma noi donne non abbiamo mai smesso di combattere, siamo in prima linea, vogliamo lavorare perché per noi il lavoro è libertà, in tutti i sensi».


«Succede che i pazienti ci chiamino signorine e ci chiedano il dottore dov’è. È frequente. O a volte capita che sia necessario avere una premura in più nello stringere relazioni con colleghi uomini, soprattutto se più grandi o avanti nella carriera, per evitare di trovarsi in situazioni che non avremmo desiderato». Così Simona Grassi, 36 anni, racconta la sua quotidianità da medico ospedaliero: «È simile a quella della maggior parte delle donne lavoratrici, specialmente di quelle che sono anche madri». Grassi ha una figlia di 13 anni. Quando è nata doveva ancora iniziare la specializzazione in geriatria: «All’inizio mi capitava di portarla in facoltà, gli amici mi aiutavano nel guardarla per permettermi di fare il tirocinio. Questo perché nonostante sulla carta l’Università debba rimuovere gli ostacoli per le studentesse madri e gli studenti lavoratori, non sono stata tutelata in alcun modo. Appena ha avuto l’età giusta ho iscritto mia figlia all’asilo, privato. I nidi pubblici a Napoli sono pochissimi, è impossibile accedere alle graduatorie». Grassi spiega che non è stato facile, non sarebbe riuscita a coniugare famiglia e lavoro se non avesse avuto intorno una fitta rete di persone pronte a supportarla. «Anche perché viviamo in una società competitiva, per cui ogni motivo che ti impedisce di rendere come gli altri diventa una modalità di marginalizzazione. Oggi mia figlia è più grande, sono abituata a sopportare il doppio carico, di lavoro e di cura. E sono circondata da colleghe che fanno lo stesso». Ma, come racconta, il senso di colpa resta: «cerchi sempre di dare il massimo sia con i pazienti, sia a casa. Non è detto, però, che tu ce la faccia».




mentre stavo per cliccare su pubblica ho trovato quest' altra storia



Ipazia, la donna a cui nessuno ha chiesto scusa

Filosofa, scienziata e politica fu assassinata per ordine di un vescovo. È diventata simbolo di ogni ingiustizia, ma la Chiesa ancora tace

Ipazia di Alessandria, affresco di Masolino a San Clemente a Roma  






Nella primavera del quinto secolo della nostra era, quando il cristianesimo era stato appena proclamato religione di Stato, una donna fu brutalmente assassinata ad Alessandria d'Egitto per mandato di uno dei più potenti vescovi dell'allora giovane Chiesa. Fu aggredita per strada, spogliata nuda, trascinata nella chiesa cattedrale e qui dilaniata con cocci aguzzi. Mentre ancora respirava le furono cavati gli occhi, poi i resti del suo corpo smembrato vennero dati alle fiamme. A
massacrarla furono chierici cristiani al servizio di 
Cirillo di Alessandria, che allora, della megalopoli d'Egitto, era bellicoso e potentissimo patriarca. Anche per questo l'assassinio rimase impunito. L'inchiesta imperiale fu insabbiata, il magistrato incaricato fu corrotto e Cirillo è tuttora un santo del calendario cristiano. La donna si chiamava Ipazia ed è da molti, anche in ambito ecclesiastico, considerata una santa laica. Era una filosofa e una scienziata di immensa fama, che insegnava su una pubblica cattedra non solo le materie di cui era specialista ma anche la tolleranza intellettuale e religiosa, la resistenza a ogni integralismo, la tutela delle minoranze, la separazione del potere spirituale da quello secolare. La sua posizione rigorosa e l'ascendente che esercitava sui governanti contrastavano, per il vescovo e i suoi seguaci, con l'essere donna. Fu questo a valerle il martirio. C'è chi considera il rogo di Ipazia il primo esempio di caccia alle streghe dell'inquisizione cristiana. Definizione necessaria ma non sufficiente. Il suo fu un omicidio politico e un vero e proprio femminicidio, tinto di sadismo e odio di genere. 

Alfred Seifert, Hypatia (1885, particolare)
Alfred Seifert, Hypatia (1885, particolare) 


Accanto alle materie specifiche delle scuole platoniche, Ipazia impartiva un insegnamento sommesso particolarmente utile alla transizione religiosa dal paganesimo al cristianesimo. Non era necessario tradire la propria fede o buona fede per convertirsi. L'Uno di Plotino e il Dio dei cristiani potevano identificarsi. Della cerchia dei suoi discepoli, che includeva la classe dirigente alessandrina, pagana, cristiana ed ebraica, faceva parte anche il prefetto augustale Oreste, massimo rappresentante del governo centrale dell'impero, che da quasi un secolo aveva sede a Costantinopoli e non più a Roma.  Ma Ipazia non era solo maestra e direttrice di coscienza dei quadri politici laici, tallonati dalla gerarchia ecclesiastica capitanata dal vescovo. Era una politica lei stessa. Difendeva i diversi gruppi dai tentativi delle fasce fondamentaliste di ciascuno di sopraffare gli altri. In particolare, poco prima di venire assassinata, aveva difeso l'antica comunità ebraica di Alessandria dal terribile pogrom ordinato da Cirillo. Il fatto di essere la sola donna ammessa in discussioni politiche riservate agli uomini non la metteva in imbarazzo né la rendeva meno impassibile e lucida nella sua dialettica. "Non aveva remore ad apparire alle riunioni degli uomini. Anzi", ricordano le fonti ecclesiastiche cristiane di parte moderata, "per la sua straordinaria saggezza tutti i maschi le erano deferenti e la guardavano, se mai, con stupore e timore reverenziale".  Diversa la versione della fazione fondamentalista, secondo cui Ipazia era una strega "che dedicava tutto il suo tempo alla magia, agli astrolabi e agli strumenti musicali, e abbindolava molte persone con i suoi inganni satanici. E il governatore della città", il prefetto augustale Oreste,""la onorava esageratamente, perché aveva sedotto anche lui con i suoi incantesimi". Per questo "una moltitudine di credenti in Dio si mise in marcia per andare a punirla e dopo averla scaraventata giù dalla sua cattedra la trascinò nella chiesa grande. Qui le strapparono le vesti, la scannarono e portarono i resti del suo corpo a bruciare sul rogo. E tutto il popolo cristiano circondò il patriarca Cirillo e lo acclamò perché aveva liberato la città". Fu "una non piccola infamia questa compiuta da Cirillo e dalla Chiesa di Alessandria", affermano invece le fonti cristiane di parte moderata. "Poiché assassini e guerriglie e cose simili sono qualcosa di totalmente estraneo allo spirito di Cristo". Sarà il giudizio della chiesa bizantina per circa un millennio. In effetti il proselitismo armato di Cirillo contraddiceva in pieno la pur astratta idea di tolleranza propugnata cento anni prima dall'editto di Costantino del 313. Il fatto è che Cirillo mirava a "erodere e condizionare il potere dello stato oltre ogni limite mai concesso alla sfera sacerdotale": aspirava a un vero e proprio potere temporale, più vicino al modello del papato romano che alla rigorosa separazione dei poteri sancita dallo stato bizantino. Anche per questo, forse, la posizione ufficiale della chiesa di Roma su Ipazia, malgrado la gravità e la natura quasi terroristica dell'antico assassinio, è sempre rimasta ambigua. Solo l'ala modernista del cattolicesimo ha celebrato la sua figura, riaprendo gli atti di quel mai compiuto processo; così com'è avvenuto da parte laica, dove la sua memoria è stata coltivata e rinnovata nei secoli e Ipazia è diventata icona della libertà di pensiero e di ogni martirio subito in suo nome.  Ma da almeno due decenni l'icona di Ipazia ha acquistato una nuova fortuna mediatica. Non si tratta più del transfert degli intellettuali illuministi, che in lei vedevano l'effigie della tolleranza e della libertà di pensiero; o dei letterati romantici, che di lei acclamavano la purezza eroica; o dei sostenitori del laicismo anticlericale, o del razionalismo scientifico contrapposto ai dogmi della religione e della fede; o dei cultori dell'esoterismo neopagano. Tutto questo fa parte della fortuna di Ipazia lungo i secoli che vanno dall'età dei lumi al ventesimo, un oltrevita che appartiene a un passato in cui a riconoscersi nel suo personaggio, nella sua tolleranza, indipendenza, inappartenenza, nel suo martirio laico erano sostanzialmente le élite intellettuali.  Oggi, da icona che era, Ipazia è diventata un simbolo, perché in lei si sono identificate tante e diverse categorie di individui. Oggi il simbolo Ipazia non è più di élite ma di massa. Perché Ipazia, per citare l'epigramma di Pallada che le è dedicato nell'Antologia Palatina, è un astro che i secoli non solo non hanno sbiadito, ma hanno al contrario reso più vivido, più visibile, più condivisibile, più universale, man mano che l'istruzione, la lettura, la cultura, la conoscenza del passato si sono estese dalle élite alle masse.  La storia di Ipazia parla a queste ultime perché è disegnata da una costellazione di simboli impressa nell'esperienza dei più. La sconfitta, la discriminazione, la violenza, l'ingiustizia apparentemente senza appello, senza riscatto nel mondo in cui viviamo, ma che riceve la sua retribuzione da una sempre più folta assemblea di posteri, costruiscono uno dei miti più universali della condizione umana. In questa donna assassinata da un potere tanto fanatico e brutale quanto nei secoli impunito sembrano riconoscersi tutti coloro che hanno subito un torto: chiunque sia stato perseguitato per fedeltà a un ideale; o sia caduto vittima del fanatismo e delle intolleranze riemerse nel terzo millennio, delle discriminazioni religiose, ideologiche, razziali, o ne sia semplicemente turbato.  Soprattutto, da ogni parte e per una massa crescente di persone, il nome di Ipazia è divenuto il più popolare simbolo di un'ingiustizia millenaria: quella che la Chiesa cristiana ha inflitto al genere femminile, maltrattato, soggiogato, perseguitato, quando non bruciato sul rogo dietro accusa di stregoneria. Molte scuse sono state chieste negli ultimi decenni dalla Chiesa per colpe perpetrate nel corso della sua storia, ma non ancora per quelle commesse contro le donne. In tempi in cui si moltiplicano i femminicidi, in cui il genere femminile resta tuttora vittima di ingiustizia, discriminazione, violenza fisica, una richiesta di perdono per Ipazia, o quanto meno un pronunciamento autorevole e consapevole sul suo caso, avrebbe il senso storico e attuale, preciso e universale, di una scusa rivolta, mediante questa figura esemplare, a tutto il genere femminile, e di una chiara condanna della violenza contro le donne. 


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