Ho conosciuto Daniela Tuscano prima con i suoi scritti “spumeggianti”, poi de visu due estati fa, mentre ero in vacanza in Liguria. Ci siamo incontrati curiosamente nei pressi del Teatro Ariston sede del Festival, luogo più famoso in assoluto. Per me fino ad allora Daniela Tuscano era ciò che scriveva: leggevo gli interessanti e approfonditi articoli su argomenti i più vari che mi mandava puntualmente per essere pubblicati, il mese dopo, su
"Tempi di Fraternità". Da cui però veniva fuori netto il suo punto di vista.
Poi l'incontro, io con moglie e figli appresso, lei vulcanica, con una chioma di capelli ricci alla Lucio Battisti: una lunga passeggiata, una chiacchierata in un parco dove, pian piano è venuta fuori una interessante personalità, un concentrato di idee con mille argomenti da proporre. Mi immagino Daniela, che è anche insegnante di lettere in un istituto superiore del Milanese, come deve essere a scuola con i suoi allievi: bisognerebbe ascoltarne qualcuno di loro per capirlo.
Da poco Daniela, 44 anni, collaboratrice
di varie testate giornalistiche, ha pubblicato un libro,
Pagine aperte, autoproducendoselo.
Una scelta singolare questa, Daniela. Come mai?«Ho approfittato di quest’opportunità. Si tratta di un’idea proveniente dagli Stati Uniti e figlia dei nostri tempi: cerca di coniugare il gusto “antico” della pagina scritta con la velocità dei mezzi informatici: nel giro di pochissimi giorni il libro è realizzato e può esser venduto, sia on line sia tramite i canali tradizionali. Esiste inoltre l’opportunità, attraverso varie iniziative, di ampliare le proprie conoscenze, di confrontarsi con altri utenti, di partecipare a concorsi e di venire in contatto con l’opera dei grandi autori. Non escludo certo, in futuro, di rivolgermi ai “classici” editori, ma in questo come in altri campi stiamo assistendo a un’evoluzione forse irreversibile, a un diverso modo di trasmettere i propri pensieri».
A che età hai cominciato a scrivere?
«Da quando ho cominciato a tenere la penna in mano… [risate]. Non scherzo, è proprio così. A costo di sembrare prevedibile, penso che la risposta per tutti quelli che, come me, amano esprimersi in un determinato modo, sia un po’ la stessa: scrivere è un’esigenza irrinunciabile, un piacere, un godimento anche fisico».
Al primo impatto il tuo libro sembra una raccolta di articoli vari che hai scritto per alcune testate con cui collabori da tempo. Eppure ci sono più fili conduttori conduttore tra di loro: fede, politica (intesa propriamente come “arte della polis”), arte, cultura. A chi ti sei ispirata per questo lavoro?
«La tua osservazione mi fa piacere. Non mi sono infatti limitata a raccogliere cronologicamente alcuni dei miei pezzi più riusciti, ma ho cercato di dar loro una continuità logica, anche filosofica, se vuoi. Ispiratori? Sicuramente il Pasolini “corsaro” ma anche il Testori che, dal “Corriere della Sera”, non mancava di far sentire la sua voce appassionata e “spudoratamente” sincera. Provo molta nostalgia per questi intellettuali. Oggi va di moda il “tuttologo”. Essi, invece, coltivavano una visione della vita (e, conseguentemente, dell’arte) ontologica. E rischiavano di persona. L’artista non è un vate, ma attraverso la sua creatività svela, in modo anche inconsapevole, i meccanismi che muovono le azioni degli uomini e, conseguentemente, del mondo in cui vivono. Penso alla vicenda di Roberto Saviano, cui va tutta la mia solidarietà
[le firme per lo scrittore si possono raccogliere al seguente link, n.d.A. ]».
Nella prefazione Dedo Deflavis ti definisce «a tutti gli effetti, un’artista perché curiosa della vita, perché trova stralci di poesia in tutte le realtà che avvicina, perché è umile, perché sa ascoltare. Perché apprezza il mondo nei suoi infiniti colori. Perché è animata da una forte tensione morale e civile, grazie alla quale tutto si tiene e qualsiasi argomento è “serio”: dalla guerra in Medio Oriente alla questione femminile, dalla politica alla musica pop, dalla critica d’arte alla disoccupazione, dalla religione alle diversità più o meno conosciute». Ti ci riconosci? Chi ti conosce bene ritiene che tu sia veramente così?
«Chi mi conosce mi legge con simpatia e partecipazione, e mi sostiene. Se mi sono decisa a pubblicare questo libro è soprattutto grazie al loro incoraggiamento».
Tu passi a scrivere su argomenti impegnative in campo sociale come ad esempio la guerra, la scuola, la xenofobia, la povertà o gli omosessuali (soprattutto) credenti, a tematiche di fede e legate alla Chiesa (memorabile, fra gli altri, il pezzo La Passione di Cristo, il Vangelo secondo Mel), ma anche ad argomenti come la musica leggera e l’amore (ad esempio Renato Zero: dove va l’alchimista dell’Amore?), passando per Lella Costa attrice di teatro. Come ti riesce questa versatilità? «Per temperamento e generazione ho sempre rifiutato il distinguo, aristocratico e vagamente razzista, tra cultura alta e cultura cosiddetta “bassa”. La cultura è una: o c’è o non c’è. E si manifesta nelle forme più svariate. Da tempo i testi dei cantautori più validi convivono nelle antologie scolastiche accanto alle poesie di Montale o di Pascoli, che addirittura è stato considerato, per certe sue intuizioni, proprio un antenato della musica nostrana (ricordo, a tal proposito, un salace commento di Arbasino…). Insomma, chi ha la mia età sa bene che “non sono solo canzonette” ma, quando c’è, arte. Anche in questo caso Pasolini fu un precursore: nessuno potrà considerare il suo necrologio di Marilyn meno “profondo” delle critiche alla classe dirigente italiana. Identico discorso per gli inni alla Callas, ad Anna Magnani, all’amata Laura Betti, e per la stessa decisione di fare cinema, lui, poeta di solida e classica preparazione. Prima di Pier Paolo, comunque, c’è stato Proust, che elogiò la cultura popolare non solo a livello socio-psicologico ma per la sua intrinseca validità».
Il tuo modo di scrivere certamente trasuda passione, è molto coinvolgente tant’è che i tuoi pezzi nella nostra rivista sono tra i più apprezzati, soprattutto dal presidente della nostra cooperativa-editrice. Molto spesso, infatti, ci chiede “E’ la Tuscano, com’è che non scrive più? Non ho più visto nell’ultimo numero uscito i suoi scritti. E’ veramente brava, e scrive proprio bene!”. Cosa rispondi a questi apprezzamenti che ti fanno? Ti emoziona saperlo?«Beh, certo! Mi emoziona e m’infonde coraggio. Scrivo per passione, come recita il sottotitolo del libro, e sono contenta che qualcuno mi apprezzi».
Qual è l’ultimo libro che hai letto? Di solito che genere preferisci?«Le Lettere al dottor G. di Alda Merini. Quanto al genere, vado a periodi. Da adolescente leggevo principalmente romanzi, ma anche molti saggi. Di recente ho riscoperto il racconto e la poesia: Ungaretti, Saba, la già citata Merini, ma anche Rumi e Attar: un grandissimo».
Hai ancora un libro che vorresti scrivere? Quali i tuoi progetti letterari futuri?«Sì, ho in mente un altro libro, questa volta di racconti brevi e di “frammenti”, come li chiamo io. Non ho la pretesa di definirli poesie, sono accenni, cose leggere e vaganti, altri modi di mettere alla prova (e di affinare) le mie potenzialità espressive. Comunque, essendo pubblicista, non intendo abbandonare gli articoli e in genere la saggistica».
Ma “da grande” vuoi fare la scrittrice o l’insegnante, quale già sei?
«Se devo essere sincera, tutt’e due. Sarebbe davvero il massimo…
[risate]. Mai come in questo momento, d'altronde, mi son sentita insegnante: di fronte a
tagli sconsiderati all'istruzione spacciati per riforma, alla sadica impudenza d'un
ministro che ci considera fannulloni superstipendiati, e, dulcis in fundo, a un
Presidente del Consiglio che minaccia, anzi promette con gongolante ferocia novelli Bava Beccaris per reprimere le proteste universitarie... di fronte a tale scempio, mi sento orgogliosa d'aver scelto il mestiere più disprezzato e, per questo, più bello del mondo».
Davide Pelanda