primi passi sono in penombra e sopra una piccola distesa di lapilli lavici. Sembra di camminare su un tappeto di brace ormai spenta. La luce arriva solo nella seconda parte dell’allestimento perché la mostra “Aurum urens (Oro ardente)” di Michele Ardu è un gioco di contrasti: lo splendore dell’oro che si oppone al colore della cenere; la nera immobilità di ciò che è morto che sbatte contro le immagini che scorrono sui video e contro le fotografie esposte alle pareti del Museo Diocesano Arborense di Oristano .che ospita l’esposizione. È l’incendio che ha bruciato oltre 20mila ettari di territorio nel Montiferru, durante l’estate del 2021, il motore dell’ispirazione dell’artista oristanese. Dov’è passato il fuoco c’è solo devastazione, eppure proprio quell’angolo di natura distrutta è ancora capace di regalare vita stimolando l’estro. Nel settembre dell’anno scorso, a poco più di un mese di distanza dal rogo, Michele Ardu si era ritrovato a passeggiare, per scattare qualche foto di valore, tra i pendii e le campagne attraversate dalle fiamme qualche settimana prima. Da quelle che per tutti sarebbero state solo forme di morte, l’artista ha tratto ispirazione andando oltre gli scatti del suo obiettivo. Le ha immaginate come se fossero vive, come se fossero «resti elegantissimi che la natura ci ha lasciato.
Erano talmente affascinanti che ho visto in quelle forme qualcosa che è andata oltre il semplice prendere atto della distruzione che avevo davanti agli occhi». Quasi un pensiero eracliteo, un “tutto scorre”, un trasformarsi per diventare quell’altro che nelle opere esposte si nota subito. Dopo aver raccolto i tronchi di ulivi secolari, senza alterarne le sembianze plasmate dal fuoco, Michele Ardu ha steso una patina su cui poi fissare il colore dorato «perché così ho voluto evidenziare quanto sia preziosa la natura. Ho voluto far brillare ciò che era bruciato per ridargli la sua dignità». Del resto, quegli alberi, cancellati dal fuoco nella loro forma primigenia e nella loro funzione ambientale e produttiva, avevano una storia antica. Erano stati tutti censiti e la loro data di nascita – per la maggior parte furono piantati tra la meta del 1500 e la metà del 1600 – è indicata nelle targhe che accompagnano i momenti dell’esposizione. Appartenevano alle tenute delle famiglie Fara e Pes che nella zona di Sa Tanca Manna, nelle campagne di Cuglieri, avevano i loro oliveti. Ora, nella mostra che si avvale anche di una serie di filmati donati dal Corpo Forestale regionale, quegli alberi appartengono a tutti. Prima degli oristanesi e dei sardi, la mostra Aurum Urens, ad esclusione dell’ingresso sui lapilli che è idea venuta successivamente, è già stata ammirata a Siena, dov’è stata ospitata nello storico Magazzino del sale, all’interno del municipio in piazza del Campo. A Oristano, dopo l’inaugurazione di venerdì scorso, sarà visitabile il mercoledì dalle 10 alle 13, il giovedì, venerdì, sabato e domenica dalle 10 alle 13 e dalle 17 alle 20, fino al 29 gennaio 2023.
Abbiamo scelto un tema ambientale. I tronchi d’albero sembrano solo delle reliquie, invece la mostra restituisce a essi un valore nuovo. Un tempo erano beni ambientali e simboli della produttività, ora sono testimoni di un fatto, sono beni identitari sui quali le generazioni passate hanno costruito la loro esistenza e sono un monito per le generazioni future». Ciò che più caratterizza la mostra è la semplicità. Sin dai primi passi, non si fatica a cogliere il messaggio dell’artista che continua a fare la spola tra la sua terra di origine e Londra, dove ha trovato alcuni anni fa una sua dimensione internazionale. Un pensiero di Michele Ardu chiude il percorso della mostra: «Dopo secoli vissuti negli stessi acri di terra, che questi alberi entrino ora nei musei del Mondo, in nuove case, e continuino a vivere, cercando di proteggere le altre foreste del nostro Pianeta, testimoniando la preziosità e la fralezza della natura». È semplice, appunto. Talmente semplice da apparire universale
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