7.6.14

scuola sempre più allo sfascio aumento del bullismo e dell'omofobia e del razzismo anche da parte degli insegnanti verso i ragazzi


Leggendo le due news che trovate sotto mi vengo in mente le note di questa canzone ( Nkantu d'aziz - L'UOMO PESCE ) ascoltata poco fa sulla mia bacheca di facebook oltre che il discorso con alcuni insegnanti di scuole superiori contraria o quanto meno scettica che tali argomenti ,( quelli della prima news ) siano inadatti e tabù per i 14 anni . Cosa aspettiamo , visto le continue prese in giro ed insulti omofobi e qualche minaccia da parte dei che ci scappi il morto , magari ucciso da uno stesso ragazzino etero ?






  dal settimanale  L'Espresso  06 giugno 2014
Vedi anche »
La mappa dell'omofobia 05 giugno 2014


DIRITTI
Anche a scuola è caccia ai gay
Nonostante l’allarme per i suicidi, nelle classi di tutta Italia aumenta l’intolleranza, tra pestaggi e bullismo. Nelle grandi città si concentrano le storie più tragiche, di emarginazione e violenza. Ma le istituzioni non intervengono

                                                          DI TOMMASO CERNO


Scritta omofoba all'ingresso del Liceo ''Scotti/Einstein'' di Ischia"Se sei frocio, non venire a scuola… vai a battere!”. Così, inciso col gessetto bianco sulla lavagna, mentre in classe se la ridevano dietro i libri alzati sui banchi. Succede in Italia, nel 2014, quello che l’Arcigay ha definito “annus horribilis” dell’omofobia, ma che sulle cronache e nel dibattito politico è stato un anno qualunque. Quella scritta contro un ragazzino è stata cancellata pochi minuti dopo da un professore. Ma il caso è rimasto confinato nei corridoi dell’istituto tecnico lombardo, senza trapelare. «Mi raccomando», ha detto il preside, «la cosa finisce qui». Non per Marco, però, 15 anni ad agosto, che ha raccolto libri e quaderni, si è rimesso lo zainetto in spalla e se ne è andato via. Ora se le trova scolpite nella mente, quelle parole, proprio come sono incise sul porfido davanti
sempre da   http://espresso.repubblica.it/
all’istituto Galileo Ferraris di Roma gli insulti a un altro gay: “Frocio”, hanno dipinto in strada pochi giorni fa, seguito dal cognome del ragazzo. E non basta certo una spugna per lavare un insulto, quando arriva dritto dai coetanei, dal suo stesso, piccolo mondo di amici che, all’improvviso, sono diventati i suoi aggressori. Quelli con cui fino a poche settimane fa giocava a pallone o alla play station, quelli che lo facevano ridere e all’improvviso si divertono a vederlo piangere: «Io amo la vita», racconta Marco a “l’Espresso”, «ma da quel giorno non faccio altro che ripensare a quelli che si sono uccisi, gettandosi nel vuoto». Un vuoto interiore, un vuoto che la scuola italiana fa fatica a colmare. Perché nelle nostre classi l’omofobia è una piaga che nessuno cura. La violenza più nascosta e insidiosa. Un allarme inascoltato che sale dai banchi, forte quanto i calcinacci che cadono dai tetti, le aule diroccate, gli impianti che non funzionano.


Un allarme ignorato dalle istituzioni, censurato dai genitori e spesso anche dagli insegnanti . E così, anno dopo anno, sono sempre di più i casi che emergono grazie a Facebook. Gay giovanissimi che, alla faccia del silenzio dei grandi, sfilano al Pride, a partire da quello di sabato 7 giugno a Roma, per far sentire la propria voce. Sono studenti delle superiori, vittime di insulti e violenze, in marcia fianco a fianco ai loro coetanei che, già a 14 o 15 anni, hanno fatto invece il “coming out”. Una nuova generazione di omosessuali e lesbiche che vive più apertamente. E, nel farlo, finisce per scoperchiare l’omofobia rimasta sotto il muro dell’omertà.

SENZA UNA RETE
Basta un dato: in Italia non esiste una statistica dei casi di discriminazione nelle scuole. Ognuno fa da sé. Da una parte c’è l’Unar, l’ufficio contro le discriminazioni di Palazzo Chigi, dall’altra l’Arcigay che ogni anno raccoglie un report sull’omofobia, fino al Gay Center di Roma che ha attivato un telefono amico. Così, mentre l’Istat, nell’ultimo report sui gay maltrattati, ha interpellato solo maggiorenni, lasciando nell’ombra ciò che avviene a scuola, proprio dalla capitale giunge un segnale allarmante: soltanto nell’ultimo anno sono più di duemila i minorenni che hanno chiesto aiuto alla Gay Help Line. Di questi quasi il 50 per cento aveva meno di 16 anni. Se si aggiunge la fascia d’età che va da 18 a 21 anni, si sale a quota 5 mila. Sono decine di ragazzi ogni mese. Insultati, picchiati, mobbizzati in quegli istituti che dovrebbero dare loro un’istruzione. C’è Andrea che s’è trovato i libri imbrattati di frasi oscene. C’è Fabrizio che si è stancato dei cori omofobi dei bulletti della scuola, che gli gridano “frocio” alla fermata dell’autobus. E ancora Giorgio, bersagliato dalle continue insinuazioni di un insegnante.
Poi c’è Giuseppe, 14 anni appena compiuti. A scuola l’hanno sempre preso di mira, «per via delle mie movenze», racconta. «Sono effeminato e per loro è più facile colpirmi». Solo che un giorno le parole sono diventate violenza fisica, nei corridoi di scuola. «Prima venivo solo emarginato, poi un giorno mi hanno seguito. Io gli ho gridato di lasciarmi in pace, ma loro volevano darmi una lezione, fare i bulli». Così l’hanno bloccato e picchiato, lasciandogli pure i lividi sul collo e sulla schiena. «Non ho avuto il coraggio di dirlo a nessuno, tanto meno ai miei genitori. Ho detto di essere caduto dalla bicicletta, ma non è così… Non è per questo che ero ferito. Sto pensando di scappare di casa e di lasciare la scuola», si sfoga.

DOPPIO TABÙ
Eppure nessuno parla mai di loro. Nessuno vuole sentire quella parola, omosessualità, dentro le mura di una scuola. È un doppio tabù: l’istituzione pubblica e l’età troppo bassa. Basti pensare che a Piacenza, solo poche settimane fa, il dirigente dell’ufficio scolastico provinciale ha inviato a tutti i dirigenti degli istituti superiori una circolare di tono medievale. Poche righe che vietano la distribuzione agli studenti delle classi quinte di un questionario conoscitivo sull’omosessualità. “Si ritiene opportuno non distribuirlo”, ha scritto il dirigente pubblico in una nota, costringendo i presidi a obbedire. Poche parole, in burocratese, per non sporcarsi le mani, per non esporsi alle critiche. E intanto Mauro, 16 anni, si era buttato dalla finestra della scuola a Roma. E poche settimane prima un altro ragazzo, 14 anni, si era tolto la vita lanciandosi nel vuoto dal balcone di casa. E un altro ancora a ottobre. La ragione? Sempre la stessa. Quei silenzi dei grandi che coprono gli insulti dei più piccoli. Quel mondo che non sembra dare loro una speranza, né fra i coetanei né fra i cosiddetti educatori.


Pasquale è un giovane volontario del Gay Center. E passa parecchie ore alla settimana a rispondere alla Help Line. È uno di quelli che ascoltano, cercano di dare un consiglio alle vittime dell’omofobia. Uno di quelli che compilano le statistiche e che, dopo due anni di lavoro quotidiano, si stupisce ancora quando si rende conto che al telefono c’è un ragazzo di 13 o 14 anni. «Sono quasi il 3 per cento delle chiamate», spiega. «Una percentuale altissima, se si pensa che a quell’età la paura è spesso più forte della voglia di reagire. Molti non hanno il coraggio di dire il proprio nome, altri fingono di chiamare per conto di un amico, oppure mentono sulla propria identità, sulla scuola che frequentano, anche sulla città in cui vivono». Già, perché le storie non riguardano solo i piccoli centri sperduti nella campagna italiana, o le periferie estreme delle metropoli. Proprio nelle grandi città, Roma e Milano in testa, dove l’attenzione dovrebbe essere più alta, si concentrano invece gli episodi e le storie più tragiche: «È vero che nelle città c’è meno omertà e, statisticamente, ci sono meno paure a denunciare», spiegano al Gay Center, «ma è vero che la casistica ci dice che il fenomeno è radicato e diffuso e che c’è un maggiore senso di protezione, di impunità». Sono centinaia di storie. Storie di emarginazione e violenza che il più delle volte passano sotto silenzio: «È difficile per questi ragazzi reagire, perché spesso i genitori non sanno della loro omosessualità e quindi si ritrovano ancora più soli. Sono costretti a subire le violenze, perché non hanno il coraggio di denunciarle, per paura che la famiglia diventi un ulteriore incubo quotidiano da affrontare», racconta il volontario del telefono amico.

PORTA A PORTA
E così, per far fronte a quella che sta diventando una vera e propria emergenza giovanile, mascherata dall’ipocrisia delle istituzioni, a Roma è stato il GayCenter a mettere in piedi una prima rete di azione. Una rete di scuole, costruita con il porta a porta, parlando con insegnanti e dirigenti, cercando attenzione, collaborazione. E incassando l’appoggio della Regione Lazio: «Abbiamo coinvolto circa trenta scuole e alcune migliaia di studenti di Roma e del Lazio in un progetto di sensibilizzazione», spiega il presidente del Gay Center, Fabrizio Marrazzo: «Abbiamo organizzato dei laboratori formativi, coordinati da insegnanti e da esperti, e oltre 500 studenti hanno realizzati 16 video per dire no a omofobia, bullismo e discriminazioni nelle scuole italiane. Eppure, sempre più spesso, anche nelle istituzioni c’è chi polemizza con questi progetti contro la violenza, incuranti del dato statistico che dimostra come la scuola sia uno dei luoghi in cui si percepisce di più il bullismo omofobico». E così alla Moscati, una scuola media, i ragazzi hanno raccontato “Stop Bulling”, invitando nel loro cortometraggio una coppia di ragazze lesbiche a fare coming out. All’Itis Armellini, invece, gli studenti hanno prodotto “The Talking Wall”, spronando tutti gli studenti romani a cancellare le scritte omofobe sui muri delle scuole e della città. E ancora al Socrate raccontano in “Come Morgan Freeman” una scuola ideale, dove i diritti dei gay diventano materia di studio come la matematica e il greco. Un successo, al punto che il governatore laziale Nicola Zingaretti ha annunciato proprio due giorni fa l’istituzione «del più grande piano nazionale contro l’omofobia nelle scuole», partendo proprio dall’iniziativa del Gay Center.

IL PROF MINACCIATO
Ma c’è anche un rovescio della medaglia: le discriminazioni dietro la cattedra. Già, nemmeno essere gay e insegnante, nell’Italia del 2014, è facile o a lieto fine come nei film americani alla “In&Out”. Lo sa bene un prof di una media nel Lazio, che chiede l’anonimato: «In classe non ho mai fatto cenno alla mia omosessualità, ma quando alcuni studenti hanno scoperto che ero gay, da Facebook, per me è cominciato l’inferno», racconta. Scritte sulla lavagna, insulti, cori in classe, fino a episodi di bullismo come quando si trovò chiuso a chiave in uno sgabuzzino, senza possibilità di uscire né di comunicare con l’esterno: «Da te non ci facciamo insegnare nulla, frocio!», gridavano in classe. In più, a dar man forte ai bulli anti-gay anche un gruppo di genitori, schierati in difesa dei figli anche di fronte a comportamenti violenti. E di casi del genere ce ne sono molti, anche se le cronache non ne parlano: «Denunciare pubblicamente questi casi rischia di compromettere la carriera del docente, soprattutto se è a contratto. Si rischia il posto, si rischia l’isolamento. E anche quando gli altri docenti sanno che sei tu la vittima, ti consigliano un basso profilo, ti suggeriscono di tacere, di non alzare polveroni», si sfoga l’insegnante.
Un allarme nazionale che deve trovare una risposta immediata, è l’appello del presidente di Arcigay, Flavio Romani, proprio perché l’omofobia a scuola è un arma a doppio taglio. «Colpisce i più giovani, quindi i più deboli, e al tempo stesso non garantisce che proprio dai banchi parta l’educazione degli italiani di domani alla diversità», spiga Romani: «È proprio sulla scuola che si deve intervenire subito, perché solo partendo da qui si può immaginare di portare una conoscenza corretta di che cosa siano i gay, le lesbiche e i trans, formando futuri adulti che abbiano in sé l’antidoto al veleno dell’omofobia».
Eppure è difficile agire negli istituti. Ci sono freni, ostacoli, dighe culturali che impediscono di agire nelle classi: «Un’azione seria e capillare contro l’omofobia e la discriminazione a scuola viene bloccata scientemente da chi pensa che la scuola sia un proprio terreno esclusivo», continua il presidente di Arcigay. «In Italia ci sono ancora forze clericali che impediscono di avviare progetti negli istituti scolastici, perché considerano la scuola cosa loro. Non è così, invece, la scuola è di tutti. E l’Arcigay continuerà a estendere nelle classi il proprio lavoro di volontariato, pur con molta fatica e poco ascolto da parte della politica. Talmente poco che, da qualche anno, ci siamo resi conto che sono proprio i ragazzi più giovani, quelli che trovano il coraggio di mostrare la faccia, a cambiare le cose».

AUTODIFESA
Sì, perché esiste un’Italia dei più piccoli, che si difende da sola contro le discriminazioni e contro il silenzio degli adulti e delle istituzioni. Tanto che si moltiplicano i volontari minorenni che chiedono di poter avere parte attiva nei progetti contro l’omofobia. Così come sempre più giovanissimi raccontano i propri amori ai compagni di classe, cercano di cambiare quella scuola italiana, che insorge per la lettura di alcune pagine di “Sei come sei” di Melania Mazzucco, ma poi non ha strumenti per punire i bulli che frequentano quelli stessi corridoi, che imbrattano i muri dei licei, che picchiano o insultano il “frocio”. È la storia di Francesco, 16 anni, studente di una scuola alberghiera. Frequenta il terzo anno, non l’ha detto a mamma e papà, ma fuori casa vive apertamente la propria sessualità, partendo proprio dalla sua classe: «Ho detto semplicemente: sono così e non devo renderne conto a nessuno», racconta. «Da quel momento non ho mai sofferto vere discriminazioni a scuola, non seriamente almeno. Nessuno mi ha mai detto “muori frocio!” o “finocchio al rogo”, né ho subito violenze fisiche. Anche se sono consapevole dei sorrisetti e delle frasette che qualcuno mi butta dietro le spalle».
Poi c’è Nicolas, 17 anni: «Ho fatto coming out un anno fa. Lo dissi a mia madre e lei la prese bene. Io non ho conosciuto l’omofobia sulla mia pelle, il mio liceo è il Cavour, lo stesso dove un ragazzo si è suicidato pochi mesi fa, quello passato alle cronache come “Il ragazzo con i pantaloni rosa”, ma io non ho mai avuto problemi». Di quel drammatico episodio non si parla più nei corridoi, e nemmeno in classe: «Molta gente è stata male dopo questa tragedia, professori e alunni, e la storia è finita un po’ in sordina». Una delle tante tragedie di cui si parla troppo poco. Una delle tante ferite dell’omofobia che, passata l’emozione del momento, si preferisce dimenticare. Fino alla prossima vittima.

ha collaborato Simone Alliva


  la seconda invece  è tratta  da  l'unione sarda del  6\VI\2014


Rimini, abusò dei mezzi di correzione   Maestra condannata a due mesi



A un alunno di origine straniera disse: "Tornatene al tuo Paese", a un'altra: "Ma sei tonta, rientra nella pancia di tua mamma".
I maltrattamenti che infliggeva ai suoi alunni di seconda elementare erano sia fisici che psicologici, e una maestra di 42 anni di Mondaino (Rimini) è stata condannata a due mesi di reclusione, con sospensione della pena, per abuso dei mezzi di correzione in merito a fatti verificatisi nel 2010.
Una classe elementare
A un bambino di origine straniera, che non aveva saputo rispondere a una domanda aveva urlato: "Tornatene al tuo Paese", a una bimba distratta: "Ma sei tonta, rientra nella pancia di tua mamma". A un'altra, invece, aveva tirato i capelli e le aveva sbattuto il viso contro il banco. I bimbi, sentiti in tribunale durante un'audizione protetta, non avevano però confermato le accuse, ma sembra che avessero raccontato le vicende ai genitori. Solo un'alunna, quella a cui erano stati i capelli ed era finita al pronto soccorso, aveva parzialmente ricostruito l'accaduto, ma tra tanti "non ricordo". Secondo i legali della maestra, tutto era nato proprio a causa della vivacità di questa bambina: era stata punita con una nota sul registro negandole il permesso di festeggiare in classe il compleanno. Per la difesa ciò era bastato alla mamma per lamentarsi con la direzione scolastica, andare dai carabinieri a sporgere denuncia e poi al pronto soccorso a far visitare la figlia.


4.6.14

LETTERA DI UN ( ANZIANO) PADRE AL FIGLIO... :

dall mia  bacheca  di facebook

Se un giorno mi vedrai vecchio: se mi sporco quando mangio e non riesco a vestirmi... abbi pazienza, ricorda il tempo che ho trascorso ad insegnartelo. Se quando parlo con te ripeto sempre le stesse cose, non mi interrompere... ascoltami, quando eri piccolo dovevo raccontarti ogni sera la stessa storia finché non ti addormentavi. Quando non voglio lavarmi non biasimarmi e non farmi vergognare... ricordati quando dovevo correrti dietro inventando delle scuse perché non volevi fare il bagno. Quando vedi la mia ignoranza per le
nuove tecnologie, dammi il tempo necessario e non guardarmi con quel sorrisetto ironico ho avuto tutta la pazienza per insegnarti l'abc; quando ad un certo punto non riesco a ricordare o perdo il filo del discorso... dammi il tempo necessario per ricordare e se non ci riesco non ti innervosire: la cosa più importante non è quello che dico ma il mio bisogno di essere con te ed averti li che mi ascolti. Quando le mie gambe stanche non mi consentono di tenere il tuo passo non trattarmi come fossi un peso, vieni verso di me con le tue mani forti nello stesso modo con cui io l'ho fatto con te quando muovevi i tuoi primi passi. Quando dico che vorrei essere morto... non arrabbiarti, un giorno comprenderai che cosa mi spinge a dirlo. Cerca di capire che alla mia età non si vive, si sopravvive. Un giorno scoprirai che nonostante i miei errori ho sempre voluto il meglio per te che ho tentato di spianarti la strada. Dammi un po' del tuo tempo, dammi un po' della tua pazienza, dammi una spalla su cui poggiare la testa allo stesso modo in cui io l'ho fatto per te. Aiutami a camminare, aiutami a finire i miei giorni con amore e pazienza in cambio io ti darò un sorriso e l'immenso amore che ho sempre avuto per te. Ti amo figlio mio

Così Angela è diventata Simone: storia (fotografica) di una transizione

 potrebbe  interessarvi  anche la storia   di   **** di Iside, giovane transessuale MtF e del suo percorso per diventare veramente ciò che è sempre stata: una donna. Dalla realtà incementata di pregiudizio di un piccolo borgo rurale, alle aule spesso troppo grandi, dell'università. Il lungo volo di una farfalla che non vuole rimanere crisalide  . Non ricordo  l'url  del  post  in cui  ne  ho parlto    ,  ma  la  trvate  in questo  crto qui sotto




espresso online del 03 giugno 2014


Simone ha 57 anni. Non ha lavoro, deve cambiare casa, ma è felice. Perché finalmente è (quasi) ciò che ha sempre desiderato essere: un uomo. La fotografa Alessia Bernardini lo ha seguito per i due anni in cui ha vissuto sulla soglia. Dal passato femminile a un futuro maschile. E ha raccolto l'esperienza in un libro, premiato a Riga. E che sarà a Milano il 7 giugno
DI FRANCESCA SIRONI

«All'inizio mi chiedevo: chissà se è vero fino in fondo. Chissà se non è solo un malessere psicologico. Alla fine ho scoperto che no: è reale. E noi non possiamo proprio giudicare». Alessia Bernardini è una fotografa. Che come vicina di casa, due anni fa, si è trovata una donna di nome Angela. Che le ha chiesto: «Aiutami a raccontare la mia storia».



La sua storia era la storia di una bambina, poi ragazza, poi adulta, che ha sempre provato vergogna, fino alla rabbia, all'odio, per il proprio corpo. Non perché brutto: grasso, storto o castano. Ma perché “sbagliato”, rispetto a ciò che lei sentiva di essere: il corpo di una donna per una persona che si vede uomo. È complicato, ma, racconta, Alessia, meno di quello che sembra: «Lui è sempre stato convinto».
Così, ha chiesto ad Alessia di accompagnarlo. Per due anni hanno sfogliato insieme vecchi album, camminato per strada, guardato la gente come guarda una donna che vuole essere uomo. Nel frattempo è arrivata anche per Angela la possibilità di realizzare, tramite il Servizio sanitario nazionale, il suo unico desiderio. E così le prime due operazioni. Gli ormoni. Oggi, lui si chiama Simone, ha 57 anni, è un uomo. È disoccupato, ma felice: «Tutta la storia che abbiamo voluto raccontare è un mix di sofferenza e successo, di dolore e possibilità».

le interviste, gli incontri, le fotografie e le vecchie polaroid sono diventate infatti nel frattempo un libro fotografico, intitolato “Becoming Simone” , che ha vinto il primo premio al Self Publishing contest di Riga e sarà presentato il 7 giugno a Milano in occasione dell' evento  "Ladyfest" .
In un momento in cui anche il settimanale “Time” mette per la prima volta in copertina una transgender, Alessia Bernardini dice di aver voluto raccontare «Più che l'aspetto fisico, o le operazioni, lo sdoppiamento interiore, il doppio modo di vedere e vedersi anche nei momenti più semplici. Per questo nel libro passato e presente sono mescolati: non c'è un prima o un dopo nettamente separati. Io quasi, fotografandolo, non mi sono accorta di quanto fosse cambiato con la terapia. Solo dopo aver visto il libro completo ho realizzato»




Il cambiamento non è ancora totale. Manca la terza operazione, la più importante forse, quella che riguarda il pene. «Simone deve aspettare. Ha dovuto aspettare anni per ottenere le prime cure dall'Asl. Se avesse potuto, lo avrebbe fatto subito. E ora ha ancora attese davanti». E il libro, già chiuso? «Il titolo – becoming – racconta il processo. E lui ormai è un uomo». Che deve affrontare da uomo i 57 anni di vita che ha passato da donna.




A cominciare dagli sguardi degli altri: «Non è che la gente lo osservi: non è una persona appariscente», racconta Alessia: «Piuttosto il problema sono i vicini: lui continua ad abitare nella stessa casa dove la portinaia l'ha sempre chiamato Angela. Vorrebbe trasferirsi, iniziare in un contesto nuovo, con una nuova identità». Senza specchi, insomma del passato. Per ora, non può permetterselo. Ma intanto non prova più vergogna di sé. È felice, dice. Pensa di non aver perso nulla. Anzi: di aver guadagnato un futuro. Partendo dal libro con cui ha voluto provare a raccontarsi. Per dire che è difficile, sì, la transizione. Ma possibile. E che ora, ripete, lui è felice.

amore fino all'ultimo anche con Alzheimer.


   canzone in sottofondo 

Sulla mia  bacheca   leggio tale storia  tratta  da  

“Quest’uomo ha 80 anni e insiste ogni mattina a portare la colazione a sua moglie. Quando gli hanno chiesto : “Perché sua moglie è in un ricovero per anziani?”, lui ha risposto: “Perché ha la malattia di Alzheimer.” 


Allora gli hanno chiesto, “Sua moglie si preoccuperebbe se un giorno non venisse a portarle la colazione?” e lui ha risposto: “Lei non ricorda… Non sa neanche chi sono io, sono cinque anni che non mi riconosce più.” 
Sorpresi, gli hanno detto: “Che cosa meravigliosa! Ma sta ancora portando la colazione a sua moglie ogni mattina, anche se lei nemmeno la riconosce?” 
L’uomo ha sorriso, l’ha guardata negli occhi e le ha stretto la mano. 
Poi ha detto: “Lei non sa chi sono io, ma io so chi è lei

3.6.14

Una storia "Into the wild" al femminile lastoria di Jordana Grant “La mia scuola alla fine della Terra” Jordana ha 24 anni e una missione: “Voglio dare un futuro al luogo più estremo”

   musica    consigliata  gli album  
   alla  bellezza  dei  dei margini    (  qui  l'omonima canzone  )    dei Yo Yo Mundi 
   Into The Wild (Full Album)  - Eddie Vedder  


ti potrebbe interessare  http://www.iotornose.it/  da   cui  è preso l'incipit  della   storia  d'oggi
  e  alcuni  url   in cui si parla  dei luoghi in questione


In cui  oltre   che appartenere  uno agli Usa  e  un altro  alla Russia   tra l du isolette passa  anche  la  linea del cambiamento di data  ed  ecco  che per  il  gioco dei fusi orari ci sono 21  ore  di differenza  tra una e  l'altra  isola 
Una storia "Into the wild" al femminile. Jordana Grant, originaria del Montana, ha scelto di vivere nelle Diomede, sette chilometri quadrati di terra e roccia che fanno capolino nello Stretto di Bering, un isolotto dove vivono 100 persone dedite alla caccia e alla pesca in uno dei luoghi più estremi del pianeta.




da  http://it.wikipedia.org/wiki/Diomede_(Alaska)
 «Insegnare era il mio sogno - spiega Jori -. Appena uscita dal college sono andata ad una fiera del lavoro e il sovrintendente del distretto mi ha mostrato un video dove si vedevano gli studenti arrampicati sulle rocce, sciare sul ghiaccio e intenti a fare i compiti di scienze con le balene sullo sfondo. Mi sono innamorata di quelle immagini: a casa ho guardato su Internet dove fosse quel lembo di terra dimenticato da Dio e ho deciso di partire».

Curiosi  vero  ?   leggete allora    questo articolo  da   la stampa del 19/04/2014





“La mia scuola alla fine della Terra”  Jordana ha 24 anni e una missione:
“Voglio dare un futuro al luogo più estremo”
           



FEDERICO TADDIA




«Per stare qui è necessario avere una sorta di vocazione e bisogna allenare quotidianamente il carattere: così non si cede alla pazzia e si allontana la sensazione di sentirti in trappola. Ma l’amore per questo posto e i suoi abitanti è più forte di qualsiasi difficoltà». Ha gli occhi che sprizzano gioia e il sorriso che contagia buon umore Jordana Grant, 24enne originaria del Montana, la maestra «Into the wild» che da tre anni ha scelto una delle cattedre più fredde e sperdute del mondo: quella della scuola di «Little Diomede», sette chilometri quadrati di terra e roccia che fanno capolino nello Stretto di Bering, in corrispondenza del 65° parallelo.
  Jordana Grant, 24 anni, è originaria del Montana. 
Isolotto abitato da poco più di 100 persone dedite prevalentemente alla caccia e alla pesca. 
«Insegnare era il mio sogno - spiega Jori -. Appena uscita dal college sono andata ad una fiera del lavoro e il sovrintendente del distretto mi ha mostrato un video dove si vedevano gli studenti arrampicati sulle rocce, sciare sul ghiaccio e intenti a fare i compiti di scienze con le balene sullo sfondo. Mi sono innamorata di quelle immagini: a casa ho guardato su Internet dove fosse quel lembo di terra dimenticato da Dio e ho deciso di partire». Le Diomede - così chiamate perché l’esploratore russo Vitus Bering le raggiunse e vi mise piede per la prima volta il 16 agosto 1728, giorno di San Diomede - sono due isole separate da 3 km di mare: sulla più piccola, appartenente all’Alaska, sventola la bandiera degli Usa, mentre la più grande
da  topolino  n 3053
appartiene alla Russia e dagli anni della Guerra Fredda è adibita a base militare. Tra loro passa la linea internazionale del cambio di data e con i giochi dei fusi orari c’è una differenza di 21 ore. 
«La terraferma dista circa 40 km e l’unico collegamento possibile è con l’elicottero, che vola un paio di volte alla settimana, quando non si rompe - racconta la giovane insegnante -. Io stessa ho dovuto aspettare una settimana prima di poter decollare, in attesa di un pezzo di ricambio dalla Germania. Visto però che la riparazione tardava, ho deciso di chiedere un passaggio ad una barca per la pesca dei granchi: sono state 17 terribili ore, in balia delle onde e del vento». 
Dal 1920 sull’isolotto esiste una scuola, che garantisce l’istruzione ai bambini dalla materna alle superiori, con insegnanti che ruotano e uno psicoterapeuta che interviene ogni due mesi. Attualmente gli alunni sono 23. «Il problema è l’apatia: l’impossibilità di facili spostamenti porta tanta frustrazione, anche se nessuno dei giovani potrebbe vivere lontano da qua. C’è chi sogna di diventare infermiere, cacciatore o intagliatore di legno, ma tutti sono spaventati dall’idea di trovarsi in una città». 
Oltre le otto ore di scuola al giorno, in un panorama algido e mozzafiato, con il termometro che arriva fino a -20°, a Diomede City non rimane molto da fare e la maestrina passa il tempo tra escursioni in motoslitta e film e Internet. «La routine è spezzata da piccoli eventi, che coinvolgono il villaggio e fanno saltare anche le lezioni, come la pesca di un tricheco o l’arrivo di qualche visitatore. Lo scorso anno una nave da crociera ha chiesto se era possibile far scendere i 200 passeggeri: è stata una festa e i ragazzi hanno organizzato danze e balli per i turisti. In cambio hanno avuto la possibilità di salire sulla nave e usare la piscina: nessuno aveva, ovviamente, il costume e così si tuffavano vestiti». 
Consegnare gli strumenti per costruirsi un domani: è l’obiettivo di Jori, che non si rassegna a non vedere voglia di futuro negli occhi dei suoi allievi. «In troppi trovano consolazione nello “Spice Diamond”, una sorta di marjunana sintetizzata che sta creando tanti danni in questa comunità: è necessario salvaguardare questa popolazione, che mi ha insegnato la pazienza, la solidarietà e il rispetto per la natura anche quando sembra ostica».

orgia con i clandestini la pornostar Valentina Nappi risponde alla Lega Nord

da http://www.retenews24.it/

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Anche la pornografia si scaglia contro la Lega Nord e la campagna anti-immigrazione clandestina promossa dal suo segretario, Matteo Salvini. Una prorompente Valentina Nappi, attrice a luci rosse originaria di Scafati, ha pubblicato su facebook una fotografia che la ritrae in compagnia di un gruppo di muscolosi uomini dalla pelle nera. “Matteo Salvini, te la dedico: il primo blowbang in black. SONO TUTTI CLANDESTINI”. Questa la provocazione della 24enne campana, lanciata nel mondo della pornografia da Rocco Siffredi. Nella foto la disinibita ragazza sembra pronta a sfoggiare tutta la sua ‘arte’ seduttrice per conquistare il corpo degli aitanti immigrati in un’orgia di gruppo. Un chiaro messaggio alla battaglia del leader del Carroccio contro l’arrivo in Italia degli stranieri dai paesi in difficoltà. La campagna contro l’immigrazione è stata infatti uno dei principali slogan elettorali dei leghisti prima delle elezioni europee, testimoniate anche da un video choc del consigliere regionale della Lombardia, Cioccia. Nello spot l’esponente della Lega e candidato al parlamento di Bruxelles ha utilizzato alcuni immigrati per consigliare, a chi ci stesse pensando, di non venire in Italia. Guarda il video:

2.6.14

fa rivivere gli antichi giochi di strada per liberare i ragazzi delle dipendenze della playstation e perchè non crescano solo cellulari dipendenti


vi potrebbero essere  utili   queste due  libri  




Abò  -giochi di strada  in un villaggio della  Gallura   Quintinio Mossa ( editrice  Taphiros luglio2004 )
















Bruno Vargiu, Via Mannu e dintorni   rievocazione di ricordi che l’autore fa della via dove è nato e ha vissuto in adolescenza. Attraverso la descrizione di una copiosa galleria di personaggi, aneddoti e giochi di carrèra, emerge uno spaccato, non solo di via Mannu, ma della Tempio degli anni dell’ultimo dopo guerra.











e questo mio precedente  post   su uno dei giochi  più usati


il 28\5\2014 L'associazione  culturale  (  di   cui sono fiero  di far parte  )  la sardegna  vista   da  vicino   per  cercare  materiale  per  


la  nuova  sardegna  de l20\4\2014

La terza edizione di Primavera in Gallura, la manifestazione etnica, ideata ed organizzata dall’associazione culturale di Aggius,“ Stazzi e Cussogghjj”, verrà presentata ufficialmente martedì mattina, alle 11,30, a Tempio nel palazzo dell’ex provincia Olbia-Tempio, in Piazza Brigata Sassari,
una  passata  edizione 
nei pressi dell’antica chiesa di Sant’Antonio. Saranno presenti, l’assessore al Turismo della Regione Sardegna, Francesco Morandi i rappresentanti delle amministrazioni locali coinvolte nella manifestazione e ovviamente gli organizzatori dell’Associazione Stazzi e Cussogghij, cui va dato merito di perseguire con grande caparbietà gli scopi promozionali del territorio gallurese che stanno alla base della sua attività. L’evento, partendo da sabato e domenica prossimi, da Oschiri, interesserà, settimanalmente, sino alla fine di giugno, undici comuni, le rispettive Proloco, lì dove esistono ed altre associazioni culturali. Nell’ordine, dopo Oschiri, settimana dopo settimana, saranno in vetrina i comuni di Berchidda (11 maggio, Aglientu (24/25 maggio), La Maddalena (31 maggio), Santa Teresa di Gallura e Trinità D’Agultu (1° giugno), Aggius(7/8 giugno), Luogosanto (14/15 giugno), Palau(14 giugno), Tempio( 21/22 giugno) e infine Olbia (28/29 giugno).La manifestazione darà ad ogni comunità l’occasione di far rivivere, per un giorno, gli antichi mestieri, le usanze e le tradizioni legate soprattutto al sistema agropastorale, e far gustare i sapori di cibi, rimasti solo nella mente dei più anziani e difficilmente reperibili sul mercato. L’iniziativa, che verrà presentata martedì, ha il patrocinio e la collaborazione della Regione, della Camera di Commercio di Sassari, della Fondazione Banco di Sardegna, dei Comuni e delle Proloco. (a.m.)
 ha  tenuto  grazie  anche  ai nipoti e  figli degli iscritti  , ma anche    ai figli dei loro amici\che  che si sono offerti volontari  , una  giornata  di riscoperta  d'antichi  giochi  .


N.b
non riporto tutte  le  mie foto  mie perchè   : 1)   non ho ottenuto    il permesso dei genitori  di riportare  le  foto dei loro  figli ., 2)  i soggetti sono troppo  vicini e  per la legge italiana , le  foto dei minori in primo piano  non posso essere  pubblicate
Quindi  le  foto  che   ivi riporto sono  o dell'iscritta  Natalina Casu o  prese  dalla  rete oppure  alcune mie  dove   non sono ritratti i protagonisti in primo piano  .


I  principali   vista  l'improvvisazione  sono stati  :
le  gubbine \biglie  
lu carruleddu 
pampana 
corda
 i  giochi con le  figurine 
la  carniola \  il cerchio  

ecco  le  foto   d'alcuni d'essi 


  •   le  gubbine  \  le  biglie  
Con la  "  variante  "  \  modalità  a  Pola   .  Si  scava  una buca  premendo e  roteando  con forza il tacco   sul terreno in modo  da  creare una buca  . IL Pola  appunto . verso cui   ad una  distanza  concordata  i giocatori  lanciano  le proprie biglie . ( da  Abò  -giochi di strada  in un villaggio della  Gallura   Quintinio
Mossa editrice  Taphiros luglio2004 - vedi sopra  la copertina   ) . Ogni giocatore ha a disposizione un numero definito di biglie. Il totale viene distribuito nelle buche, in quantità calcolate e memorizzate. A turno, ciascuno tira verso le buche una biglia, stando sulla linea di partenza che viene tracciata a una certa distanza dalle buche. Se il giocatore riesce a far entrare la biglia in buca, prende le biglie che stanno in essa, e riprende la sua. Se ciò non accade si perde la biglia che verrà posta nella buca in cui si è fermata più vicina. Vince chi accumula un numero maggiore di biglie.  (  da http://www.regoledelgioco.com/giochi-di-abilita/biglie/  )



  di   natalina  casu 

  •  pampana \  campana  


.

da http://www.regoledelgioco.com/category/giochi-di-abilita/page/2/
  • Lu  carruleddu  
rinvio  al mio post  di  cui trovate  sopra  l'url 

  • la  carniola  \  cerchio 
che può essere  o di  copertone  o una vecchia  ruota   oppure  in legno e  lo si  può  far  muovere  o  le mani  o  con un bastoncino  o  un  ferro  

di natalinma  casu 

                                                     di natalina  casu 

ma  qui  è stato  anche usato  a  mo'  di Hula hoop  come  alcune foto  scattate  da me 



E' stata una  bellissima  giornata  , una  dimostrazione  che  si  può anche  divertirsi e  giocare   senza   giochi elettronici  .  E  pensare  che all'inizio  , si ha  avuto  un po'  di  difficoltà visto  che le  nuove  generazioni sono ormai  disabituati  a  giocare  con qualcosa  di diverso  che  sia  : il pallone  , la bicicletta , e  la  play station infatti




Ma  poi  .......    ( vedere righe  precedenti  )   si  sono scatenati   ed alcuni non volevano  andarsene    , i genitori   gli hanno  portati via  quasi a forza  . Ci hanno  addirittura ringrazio  per  averli  fatto scoprire  giochi     che  neppure  conoscevano  o  ignoravano  come nel caso  del  carroleddu  o del  cerchio  l'esistenza   se  non nelle  foto dei nonni\e.
 Sono  ritornato bambino anch'io  , nel  vedere   giocare questi bambini\ e  . i  è venuta  un po' di  nostalgia   della mia infanzia  (  generazione di mezzo cioè   fine anni  70  prima anni 80 )  fatta  di questi    giochi   ma anche  di imitazioni  di eroi  del  kolossal cinematografici    e  serie  tv  degli anni  70\90  o   miti  sportivi  . Un epoca in  cui i  video  e  sale  giochi   stavano iniziando a prendere piede



L'AMORE INCOMPIUTO di daniela tuscano







Scorro il silenzio delle vecchie immagini, al Museo del Risorgimento, dedicate a "La Nebbiosa", il film mai girato di Pier Paolo Pasolini su Milano. E, come tanti, mi chiedo: perché non c'è riuscito? Non l'amava? È un luogo comune duro a morire, avverte la guida. Eppure, di quella sceneggiatura, sono rimaste solo pagine sparse. Pagine belle: alcune, magnifiche. Ciò che maggiormente colpisce è il riferimento ossessivo alla luce.
Forse, l'aspetto di Milano più caratteristico. Ma - attenzione - si tratta pur sempre della luce d'una Nebbiosa. Luce avvolta, soffocata, che si fa largo, ed esplode, in violenti bagliori. C'è ghiaccio in quella luce, o forse nemmeno: non vi si trova natura, né umanità. Roma è sempre ritratta d'estate, Milano accoglie il poeta coi suoi inverni, stagioni oggi scomparse, come la nebbia dileguatasi al largo, ostaggio di rade periferie o signora, incontrastata, delle campagne. Eppure, il sole esiste anche a Milano, impigrito e canagliesco, e sa essere duro, umido e repulsivo. È un sole sensuale, di macchia, ma a PPP si nega; infatti, egli vi preferisce la notte. Una notte di cui crede di svelare i segreti. Ma la notte di Milano non è uniforme. Milano è una totalità frastagliata. Non si risolve in una rapina o in uno stupro, non nella marginalità dei teddy boys, non nei fianchi delle magnifiche borghesi cotonate da vezzi di perle (così lontane dal generone romano!), non negli sterri diMetanopoli né nelle coppie attempate del centro, lei dai capelli a fil di ferro, lui prossimo all'infarto. Milano: è tutto questo, ma anche di più. Forse - caso più unico che raro - può essere descritta solo da chi ci vive e la vive. Perché Milano, anche quando coinvolge, sa mantenere le distanze. È ancor nebbiosa, non climaticamente, ma nel cuore. Perciò appare, lei - o lui, in dialetto è maschile - la città più europea d'Italia, e anche la più araba: cosmopolita e velata. Attuffata. Non si concede facilmente nemmeno a un occhio dolce e indagatore. La Milano marginale e periferica aveva già il suo cantore, Giovanni Testori da Novate. E già il suo cattolicesimo: pur'esso, impossibile da ritrarre. Ampio. Roma era il barocco, il Concilio di Trento: quello e null'altro. Ma Milano... Milano era la fabbrica del Duomo, un gotico fiammeggiante e operoso.

 Con quel suo rito mezzo bizantino, Milano era - ed è - Ambrogio, i Borromeo, il Martini innamorato di Gerusalemme. Non Alessandro Farnese. Come la città, come le sue guglie, sale. E si distende. Il cattolicesimo ambrosiano è locale ma non territoriale. Ha vocazione planetaria. Manzoni l'ha rivelato. Solo qui percorri un nastro d'asfalto, fra dirupi di grattacieli senza cielo, e all'angolo vedi una sagoma umana, rattrappita, e sei in Occidente e in Palestina. Anche la miseria è così universale. Quel cattolicesimo invena lo spirito del cittadino, non ne vellica la pagana, mediterranea rassegnazione. La teppa milanese non è la plebe. Milano è la borghesia, l'unica esistente in Italia. Pier Paolo, che la odiava, non poteva prescinderne; la ritrovava ovunque. A bloccargli sguardo e cuore. Milano, a differenza di Roma, non era mai stata un grosso mercato. Nelle sere morbide, galleggianti, che pure qui hanno un fascino strano, imprendibile e vellutato, nessuna donna in scialle nero stendeva i polpacci congestionati su qualche sedia di paglia, fuori del cortiletto. Restava, semmai, dietro le tende, piegata su una vecchia Singer. Il suo sguardo celava una letizia soave. Rintracciarla però era impresa disperata. La non-immediatezza di Milano disarmò Pier Paolo? Egli vi trovò, o intuì tutto e doveva solo contemplarlo. Lasciare la città al suo segreto, ai mezzitoni che lui non poteva usare. Gli rimaneva solo la desolazione, quella desolazione che talvolta ti prende nel percorrere, la notte, il cavalcavia Renato Serra: "Di nuovo nessuno gli risponde: e, fuori, quel paesaggio ossessivo di immagini tristi di case, di viali, senza speranza".





1.6.14

gli ostacoli si superano insieme

Voglio  celebrare  il  10 millessimo  post    con questo  bellissima  iniziativa    fatta  dalmio  contatto di facebook  la prof     https://www.facebook.com/romina.fiore




 


  • Giuseppe Scano Romina Fiore scometto che la prof di cui si sente la voce in sottofondo sei tu , Continuate cosi . però il video per essere più incisivo avrebbe dovuto contenere aiuto da parte degli altri " normali " davanti agli altri ostacoli che la ragazza deve affrontare . cmq bello . e grazie a gente come voi che la scuola resiste e non va completamente in malora

    • SARDEGNAblogger No, la voce non è la mia: è di una collega. Io mi sono limitata alla bassa manovalanza delle riprese con la videocamera. Il filmato ha sicuramente tante piccole pecche e mancanze, ma è stato interamente ideato dai ragazzi e noi non abbiamo né dato suggerimenti né cambiato una virgola di ciò che loro avevano pianificato: ci siamo limitate alla messa in opera delle loro idee. Grazie (r.f.)