24.12.20

Storia di Anna, infermiera Covid, e della trincea dove 180 mila donne e uomini combattono in silenzio ogni giorno la più grave delle pandemie degli ultimi cento anni

Lo so che sarete stufi di leggere storie sul covid , e non vi biasimo . Ma è grazie a gente come loro se le sofferenze passano in secondo piano . Persone prima osannate come eroi ed adesso tratte di .,.. come rifiuto . dalle stele alle stalle insomma . Infatti : << (... ) All'inizio si è fatta molta retorica (i nostri angeli), poi è emersa addirittura qualche ostilità. Stiamo parlando di dipendenti pubblici, insultati e disprezzati sistematicamente quando fa comodo pensare che esistano solo le partite Iva e i lavoratori autonomi. Ci si dimentica troppo facilmente che sono loro che possono salvarci la vita. Allora, oltre ai ristori per bar e ristoranti, il governo e le regioni dimostrino concretamente la gratitudine degli italiani a queste persone che rischiano la loro vita ogni giorno.>>(  da  u  commento all'articolo     che  trovate  sotto 


da repubblica del 24\12\2020

Matricola 169381


DI CARLO BONINI (COORDINAMENTO EDITORIALE E TESTO), MICHELE BOCCI, COORDINAMENTO MULTIMEDIALE DI LAURA PERTICI,

Ore 5.35. Il buon giorno

La prima sveglia arriva con il cellulare e suona alle 5.10. Ma Anna si alza dopo la seconda, quella delle 5.35. Se va bene, il piccolo Davide, un anno, dorme ancora e lei ha tempo di mettere su il caffè, svuotare la lavastoviglie, preparare i vestiti per la scuola della figlia grande, Sara, e rimettere un po’ di ordine in casa. Senza fare troppo rumore, per regalare ancora un po’ di sonno al marito, operaio.
Alle 6.10, l’aria pizzica. E Anna si infila nella Opel Corsa azzurra con un brivido. Da Sant’Agostino, provincia di Ferrara, all’ospedale di Bentivoglio, Bologna, sono 26 chilometri di bassa padana. Alberi da frutto, cascine isolate, rettilinei deserti che si infilano nella nebbia.
“Avrei dormito di più nella vita se fossi andata avanti con la grafica pubblicitaria che ho studiato alle superiori. O, magari, se avessi deciso di iscrivermi a psicologia, come pensavo di fare appena diplomata. Ma mia zia e suo marito erano infermieri, e così ho voluto provarci anch’io. In fondo, si trattava comunque di stare a contatto con le persone, proprio come fa uno psicologo”.
L’Opel viaggia spedita. Anna conosce le strade a memoria, non fosse altro perché le percorre ormai da tredici anni, da quando ha trovato lavoro a Bentivoglio. È una guida spezzata, la sua. Fatta di scorciatoie strette che corrono accanto ai canali.
“Me la ricordo ancora mia nonna mentre scendeva in lacrime le scale di casa il giorno in cui con i miei genitori abbiamo lasciato la Sicilia e il nostro paesino in provincia di Catania, Scordia. Babbo aveva trovato un lavoro quassù. All’inizio è stata dura. Avevo 10 anni e avevo appena finito la quarta elementare. A soffrire di più però è stata mia mamma. Guardava il cielo grigio fuori dalla finestra e non capiva come fossimo finiti in questa terra. Ci ha messo un po’ ad adattarsi, ma alla fine ce l’ha fatta e ha cresciuto me e mio fratello. E penso sia soddisfatta delle persone che siamo diventate”.
Al centro della rotonda di Bentivoglio, c’è una scultura di rame: dodici mondine che vanno al lavoro in bicicletta. Fatica e condivisione. Un po’ come dentro i reparti del palazzone dei primi del Novecento che affaccia lì di fronte. Lo ha fondato un benefattore, il marchese Carlo Alberto Pizzardi. A quest’ora, trovare parcheggio non è un problema. Il cielo è ancora nero quando la portiera della Opel si chiude. “Ospedale consorziale”, annuncia la scritta all’ingresso. Anna Maria entra senza alzare lo sguardo. Passa il badge e si infila negli spogliatoi del piano interrato per cambiarsi e raccogliere i capelli.

Ore 6.50. Nel reparto



Al primo piano, sopra la porta, tre cartelli sembrano usciti da un altro tempo: “Ginecologia”, “Chirurgia”, “Geriatria”. Sì, il tempo in cui si cercava di far convivere più specialità in un’unica unità operativa, come succede spesso nei piccoli ospedali di provincia. Il Covid ha spazzato via tutto. Adesso, qui a Bentivoglio, si ha cura solo di chi ha il coronavirus e i letti annunciano un unico spazio, quello delle malattie infettive. Dietro la porta a vetri convivono due mondi: il “pulito” e lo “sporco”.
È una differenza che bisogna avere chiara. Pulito e Sporco. E mandare a mente. Perché i due mondi, che pure sono fisicamente adiacenti non devono neppure sfiorarsi. Aiutano a orientarsi i cartelli sui muri e le strisce di scotch nero e giallo in terra. Guai ad oltrepassarle. “Non vanno neanche calpestate”, avverte con una certa severità un’infermiera. Per chi si muove nel “Pulito” sono sufficienti camice e mascherina Ffp2.
Chi lavora nello “Sporco” deve entrare nella dimensione asettica della protezione integrale di ogni superficie del corpo. Essere di qua o di là è questione di mansioni. O di fortuna. Se sei un operatore sanitario e il tuo compito è servire il pasto, non puoi evitare lo “Sporco”. Se sei il primario, di solito aspetti il collega che fa le visite di qua dalla linea, nel “Pulito”.Gli infermieri si alternano a seconda della giornata. Oggi, ad Anna, che sta entrando in reparto con un pile azzurro sopra la sua divisa blu, toccherà lo “Sporco”. Per il primo dei tre turni con cui si ruota in trincea. La mattina, alle 7. Il pomeriggio, alle 13.20. E la notte, che comincia alle 19.45. È così ovunque. Per Anna come per gli altri 180mila infermieri Covid del nostro Paese. I fanti della nostra nuova linea del Piave. Negli ospedali, negli ambulatori, nelle residenze per anziani, o anche nelle case delle persone malate. Detestano la retorica dell’eroismo, sorridono del sostantivo “angeli”. Forse perché, come Anna, sanno che quando tutto questo finirà, ci saranno altri malati di cui prendersi cura, altre malattie da affrontare, sofferenze da accompagnare. Che pochi si ricorderanno di dire “grazie”. Che non ci saranno premi. Perché è il loro lavoro e loro lo hanno scelto.
Il reparto non è grande. Quaranta passi di lunghezza e due corridoi su cui affacciano le camere, 13 in tutto. Al loro ingresso, i carrelli con il materiale per le medicazioni e i bidoni per i rifiuti. I punti in cui togliersi le protezioni sono indicati da cartelli a muro, su cui appoggiare la mano quando ci si sfila la tuta dai piedi, prima di spruzzarsi e cospargersi di prodotti per disinfettarsi. Le camere sono tutte da due letti con bagno e nessun paziente può uscire. Molti non ce la farebbero comunque perché stanno male. Ma la regola vale anche per chi, dallo “Sporco” prova a fare capolino per immaginare quanto manca a superare il confine che lo separa dal “Pulito”.
È un mondo dell’assenza. Per chi cura e per chi è curato. L’assenza di chi non sia malato o infermiere. L’assenza di chi vive fuori da quelle mura e a cui è vietata ogni visita. Genitori, figli, fidanzate e fidanzati. Mogli, mariti. Amiche, amici. Anna ne parla all’imperfetto. Come appunto di presenze di un mondo che non esiste più. “E dire che quando ancora potevano entrare, ci lamentavamo. Qualche volta diventavano di intralcio durante la somministrazione dei farmaci, ci interrompevano continuamente per farci domande sui loro cari e ci distraevano. Adesso, osservando la solitudine dei pazienti, si stringe il cuore. Come quando un anziano telefona per sapere come sta la moglie. Si informa se ha mangiato e ha bevuto ma chiede di non farlo parlare. Ha paura che dalla sua voce si capisca quanto sta soffrendo senza di lei e non vuole farla preoccupare”.
 

Ore 7. Consegne

Preparare le terapie e somministrarle, annotare le cartelle cliniche, rifare le terapie a chi ne ha bisogno, organizzare i nuovi ricoveri e le dimissioni e dare le consegne a chi subentra. È questo il programma di oggi del turno di Anna e delle sue colleghe, oggi tutte donne. Va seguito con precisione. Come dice Anna, con “organizzazione e consapevolezza”.
Il box degli infermieri è il cuore del reparto. E per questo si trova al centro. È diviso in due stanze. Nella prima, ci sono i computer, gli armadietti dagli sportelli verdolini, le sedie per le riunioni, i fogli attaccati alle pareti con su scritte le indicazioni sui telefoni da chiamare e le procedure da seguire. Nella seconda è il laboratorio dove si preparano le terapie. Un luogo per iniziati: i cassetti pieni di farmaci, i carrelli con i contenitori destinati ai singoli pazienti, il materiale per bendaggi, fasciature, prelievi.
I medici arrivano più tardi e comunque hanno una loro stanza da un’altra parte del reparto, vicino all’ingresso. Più defilata. I mondi professionali collaborano, ma sono indipendenti. E la sensazione è che il reparto sia saldamente nelle mani degli infermieri durante tutto l’arco della giornata. Eseguono quello che dicono i dottori, certo. Ma hanno ampi margini di autonomia e, soprattutto, si fanno carico del rapporto con i pazienti.Nel box ci sono otto persone. Lo sguardo di chi smonta dalla notte è di persone sfinite. Anna è seduta su un panchetto. Prende appunti. I pazienti vengono indicati con i cognomi, che sono anche scritti su una lavagnetta. Più avanti, per non sbagliare, si passerà al numero di stanza e alla posizione. Così c’è il “2 finestra”, con la glicemia che fa troppo su e giù e che tollera poco la mascherina per l’ossigeno. Il “4 porta” che, invece, è stato agitato tutta la notte e ha parlato nel sonno. “Oggi la 11 finestra è un po’ abbattuta. Non è vivace come sempre, non ha nemmeno chiesto di farsi i capelli. Non è la stessa. Ha detto che non vuole la terapia perché si è stancata di prendere farmaci”. E invece come va il “7 porta”, ha mangiato? “Macché, diciamo che mangiucchia”. Ci sono tuttavia alcune parole chiave per intendersi rapidamente sulla condizione clinica dei pazienti Covid: “responsivo” e “non responsivo”. “Soporifero”, o “vigile”, “autonomo”, “orientato”. Ci sono malati giovani, pochi, e anziani, molti. C’è chi aspetta di morire. E chi se la caverà ma ha una paura da matti e chiama spesso perché gli manca l’aria. Un segnale da non sottovalutare mai perché “abbiamo dovuto mandare in terapia intensiva persone che si sono aggravate in un paio di giorni”.
Prese le consegne, Anna si sposta nella stanza dei farmaci. Sono le 7.35 ed è necessaria concentrazione. Preparare le terapie è un lavoro lungo che richiede attenzione. Oggi c’è una ragazza nuova, rientrata da poco dalla maternità. Si chiama Chiara e deve essere un po’ aiutata anche se è sveglia e ha esperienza in un reparto dove sono abituati a correre come in pronto soccorso. 
Gli armadi dei farmaci non hanno etichette che illustrino cosa contengono e non è facile orientarsi. Si lavora in coppia e si controlla sulla scheda di ciascun malato se le terapie sono quelle giuste. Poi si riempiono le vaschette di ogni paziente con flebo, pasticche, gocce, pomate e sulle confezioni si scrive il nome del medicinale o del ricoverato. Non si deve sbagliare.

Ore 8.30. Vestizione

La stanza della vestizione del reparto di Bentivoglio è piccola e piena di scatole. Dentro, tute bianche con cappuccio, gambali, visiere, cuffie per i capelli, doppie mascherine. Anna si muove lentamente, rispettando un rituale imparato nei corsi di formazione sulle regole anti contagio.



“Da quando c’è il coronavirus ho smesso di bere il tè a colazione – confida sorridendo alla collega che si prepara con lei – Così non mi scappa la pipì mentre sono qua dentro. Sarebbe un bel problema”. Nelle tute fa un caldo asfissiante.
“Sai che l’altro giorno Dalila è svenuta mentre era in turno con me – racconta l’altra infermiera che si sta preparando – Probabilmente non aveva mangiato e bevuto abbastanza. Si è accasciata, l’abbiamo dovuta portare fuori noi trascinandola all’interno della zona sporca. Abbiamo aspettato che si riprendesse prima di farla cambiare”. Anche la visiera trasparente è faticosa da portare. “È tremenda, fa sudare sulla fronte nel punto in cui appoggia la spugna”.

Ore 8.45. “Dieci finestra”

“Allora, buongiorno, come va? Ehi, c’è qualcuno?”. Prima stanza e prima paziente che non risponde. È anziana, immobile nel letto, confusa. Anna si affaccia dalla porta, guarda la collega e sorride. Lo farà ancora tante volte, fino alla fine del turno, di fronte a tutte le difficoltà e tensioni che si presenteranno. “Lei è così, non si perde d’animo. È sempre positiva”, confida Benedetta osservandola riprendere il lavoro. Bisogna insistere con la signora, un’anziana. “Come stai?” (qui si tende a dare del tu ai pazienti). “Ah, bene mi hai risposto. Ok, poi vediamo se mangi qualcosa, magari uno yogurt”, dice a voce alta. Fuori il cielo è grigio, “pantone Bologna”, lo chiama qualcuno per scherzarci su, mentre in reparto è arrivata la colazione.
Mentre Anna si avvicina al secondo paziente, suona un campanello in un’altra stanza. È un malato che ha iniziato a respirare male e chiede assistenza, il “10 finestra”. Bisogna sbrigarsi. Anna accelera il passo, accenna quasi una corsetta. “Certi malati peggiorano in fretta, così dobbiamo avvertire l’anestesista e farli portare in terapia intensiva perché la saturazione si abbassa troppo. Ne abbiamo visti tanti di quel tipo, è meglio sbrigarsi”. Fortunatamente questo non è il caso. I valori non vanno male, il respiratore dà il giusto aiuto. “Non è che ti sei solo un po’ spaventato?”, chiede Anna. “Dai, dai, sistemati per bene l’ossigeno che dopo ritorno”. Allarme rientrato, riparte il giro.



C’è un catetere da sistemare, va fatto un prelievo a una signora con le vene in pessime condizioni e sono necessari venti minuti di lavoro in due per venirne a capo. Altra stanza, altre cose da fare. Fissa la flebo, convinci quel signore a prendere la medicina e quell’altro ad andare in bagno prima che sia necessario il clistere. Il tempo passa, la temperatura dentro la tuta aumenta, la faccia è rossa ma si apre di tanto in tanto in un sorriso. “Dai, dai, che stiamo andando bene”, dice Anna facendosi passare l’ennesima flebo da Benedetta. E poi per ora non ci sono stati grossi imprevisti. “Sono quelli a mettermi di più sotto stress. Soprattutto quando ne arrivano più di uno insieme”.


Ore 9.05. Decesso

In un reparto, la morte è un fatto spesso atteso. A suo modo, naturale. Poco dopo le 9, un uomo anziano, affetto da varie patologie appena trasferito in condizioni gravi da un altro ospedale, se ne va per sempre. Anna non fa in tempo neanche a realizzare, perché sta lavorando nell’altro corridoio. Bisogna avvertire i parenti, chiamare l’obitorio, preparare il trasferimento della salma. Prima però le infermiere che hanno in carico la stanza stendono un lenzuolo. Serve a non rendere visibile il letto della persona deceduta al paziente ospitato accanto a lui finché non arriva la cassa dove comporre la salma.
Il resto dell’attività va avanti. L’assistenza agli altri malati non viene interrotta neanche per un momento. “Ci sono però morti che non dimentichi – racconterà Anna più tardi, una volta arrivata a casa – Come quella donna che se ne è andata pochi giorni fa nella stanza dove era ricoverata con il marito. Erano stati messi insieme per aiutarli, perché si sostenessero a vicenda. È stato lui ad avvertirci, a dire che probabilmente la moglie non c’era più perché aveva smesso di sentire il suo respiro. Non so, in quel momento ho pensato che forse non è sempre la cosa migliore tenere insieme i parenti dentro un ospedale”
La morte può essere un presagio. O un annuncio di fronte al quale mentire. “Capita che ci rimandino indietro i pazienti dalla terapia intensiva perché non possono trattarli, perché troppo fragili per essere intubati. E purtroppo, spesso, sono malati ancora coscienti, che parlano con noi tranquillamente del futuro e di quello che vorrebbero fare fuori da qui. È drammatico avere davanti una persona, una nonna che ti dice di non vedere l’ora di tornare a casa dai suoi nipotini, e sapere che l’hanno spostata da noi per accompagnarla verso la morte visto che in terapia intensiva non possono fare più niente per lei”.


9.30. I medici

Tra infermieri e medici non c’è competizione. Il lavoro è in parallelo. E lo si capisce anche visivamente, quando il primario Marco Masina e il dottor Stefano Gagliardi, un chirurgo prestato all’infettivologia per l’emergenza, entrano in reparto. Hanno anche loro il carrello con sopra un registro. Uno sta fuori, Masina, l’altro entra con le protezioni a visitare i malati. Qualche metro più in là, le infermiere. Li precedono nelle stanze e anche loro fanno avanti e indietro con le terapie. In certi casi dialogano, magari sul cambio di un farmaco per un malato o su un prelievo da eseguire velocemente. Il medico indica cosa fare ma accetta il consiglio dell’infermiera e chiede il suo parere.“Questa era la mia Geriatria – dice Masina – nel giro di pochi giorni, in autunno, è diventata un reparto Covid, così come praticamente tutto il resto dell’ospedale. Abbiamo di fronte un’unica patologia con le sue manifestazioni sempre uguali, anche se i pazienti poi possono soffrire di altre malattie che li rendono unici. Per questo è necessario leggere spesso i parametri come l’ossigenazione del sangue. Sono gli infermieri a rilevarli e sarebbe impossibile non lavorare in stretta collaborazione con loro”.
Masina racconta di quanto rapidamente quello di Bentivoglio sia diventato un ospedale Covid (salvo la maternità che è ancora aperta). “Non siamo più nel periodo in cui le dimissioni erano meno degli accessi ma ci vorrà ancora tempo per uscirne”, dice. Da quando è iniziata la pandemia Bentivoglio ha seguito 896 persone infettate dal coronavirus. La gran parte di queste, 669, sono pazienti della seconda ondata. La malattia ha colpito più duramente in autunno. E solo in questi mesi l’ospedale, che fa capo all’azienda sanitaria di Bologna, è stato dedicato tutto a curarla, chiudendo anche quelle attività destinate agli altri malati che erano rimaste in piedi tra marzo e l’inizio dell’estate.

11.15. Fuori dalla tuta, ma per poco

“Finalmente”. Anna è fradicia di sudore. Lentamente inizia a togliersi la tuta e le altre protezioni, nel tratto di corridoio destinato alla svestizione. Ci vuole tempo, bisogna evitare contatti con gli indumenti da eliminare. Ha quasi finito quando prende il disinfettante per le mani e lo spalma fino al gomito, poi la collega le spruzza quello spray sugli zoccoli di plastica. Anche se erano protette dai gambali è necessaria una passata di sicurezza.

“Tutto questo lavoro, questa attenzione alle regole… Ma il Covid l’ho preso lo stesso. Il 13 novembre ho avuto i primi sintomi”. Già, il reparto non è stato risparmiato dalla pandemia. Molti infermieri e anche medici e operatori socio sanitari tra la prima e la seconda ondata sono risultati positivi. Qualcuno è rimasto fuori per settimane e sono stati mandati rinforzi da altre strutture. In tempi di Covid ci si trova spesso a lavorare con colleghi che non si conoscono. “Quando ero in maternità guardavo la tv, parlavo con le mie compagne e avevo paura di rientrare perché temevo di prendere il virus e passarlo al mio bambino appena nato. Ho detto: appena ricomincio starò molto attenta. Niente da fare, l’ho preso lo stesso. Per fortuna non si è trattato di una forma grave. Ho avuto un po’ di raffreddore, e soprattutto non l'ho attaccato a mio figlio e nemmeno a mio marito. Il tampone positivo lo ha avuto solo la bimba, che ha 7 anni, e non è andata a scuola per un mese. Ho avvertito tutte le mamme sulla chat di Whatsapp e siamo rimaste a casa insieme per un po’ di tempo”.
Il virus non fa distinzione. La Fnopi, che è la federazione nazionale degli Ordini degli infermieri, ha contato 40mila professionisti contagiati come Anna. Si tratta del 22% del totale di quelli impegnati contro il Covid. Un numero altissimo, che ogni giorno cresce. Trecento nuovi casi positivi ogni 24 ore, secondo le stime Inail.
“Cosa ho pensato? Che siamo come tutti gli altri – dice Anna mentre indossa di nuovo il suo pile e si dirige verso il box – Più che per noi, che comunque siamo abbastanza giovani, abbiamo paura per i nostri cari. Ma questo non basta a evitare il contagio. Anche i miei genitori hanno preso il coronavirus. Mio padre è ancora in quarantena, spero che la Asl lo liberi presto”.
Dopo il cambio non c’è nemmeno tempo per un caffè, giusto un sorso d’acqua. I ritmi di lavoro sono alti. Si torna nella stanza dei farmaci a preparare le terapie. “Eh, mica abbiamo finito qui, a mezzogiorno si riprendono i parametri, si fa l’insulina e qualche farmaco”. Prima però c’è da scrivere. A Bentivoglio e in buona parte delle strutture dell’Emilia-Romagna non è ancora arrivata la cartella elettronica (ormai presente in altre Regioni) e una parte importante del lavoro degli infermieri consiste nel riempire i registri. Con la faccia ancora segnata da mascherina e cappuccio si afferra la penna e si segna tutto quello che è stato fatto a ogni paziente sulla sua cartella. “Bisogna documentare tutto, perché quello che non scrivi è quello che non fai. Poi va segnato se manca qualcosa. Ad esempio, capita che oggetti personali, come le dentiere, vadano perduti”.
In mezzo al trambusto, c’è una giovane infermiera che praticamente non molla mai il telefono. È Laura e si occupa dei trasferimenti, dei ricoveri, delle dimissioni e di chiamare i parenti a casa. “Senta, noi tra un paio di giorni dimetteremmo suo padre. Avete bisogno dell’assistenza a domicilio? Volete che avvii le pratiche per l’esenzione?”. Assicurarsi che i malati vengano seguiti anche dopo è fondamentale per un servizio sanitario che funziona.
“Siamo qui apposta, per rispondere ai bisogni delle persone, per affrontare anche problemi che potrebbero apparire piccoli – dice Anna – Ad esempio ci occupiamo dell’educazione sanitaria a domicilio, cerchiamo di essere presenti anche dopo. Quando gli anziani vanno a casa vengono addestrati alle terapie, si cercano di formare anche i familiari, si attivano se necessario i servizi sociali. Il nostro lavoro è bello quando ti rendi conto di essere utile alle persone non solo nei giorni in cui sono costrette a stare qui dentro”


12.30. Di nuovo nella tuta

Cibo e farmaci. Il lavoro da fare sembra non finire mai. Anna è di nuovo dentro. Convince “6 porta” a mangiare. Almeno qualcosa di morbido come una purea di patate, e intanto ricontrolla il dosaggio dell’insulina. È stanca ma non nervosa, al contrario di alcune colleghe che non ne hanno più. “Ah, certo. È a casa che poi mi arrabbio. E poi ormai siamo quasi alla fine del turno”. Questa è uno dei momenti critici nella vita del reparto, perché sarebbe l’ora delle visite, abolite in tutti gli ospedali italiani causa Covid. Ne sentono tutti la mancanza, operatori e pazienti. Il virus ha tenuto i malati distanti dai loro cari, un cambiamento epocale e dai risvolti psicologici pesanti e ancora da esplorare del tutto.
Benedetta Mosca si è fatta ritrarre dal tatuatore in tenuta da infermiera

Benedetta, qui dentro, è una delle più esperte. Ha anni di professione alle spalle e conosce bene le esigenze dei malati. Per questo è angosciata. “Vedere queste persone così, sole, è molto difficile. Stiamo vivendo un’esperienza devastante. Facciamo di tutto per aiutarle a comunicare con chi sta fuori. Portiamo i tablet e i cellulari agli anziani che non li sanno usare e facciamo le videochiamate ai loro familiari. È sempre toccante vedere chi sta male mentre cerca di tranquillizzare chi è a casa”.
A volte le infermiere fanno da tramite, prendono loro le telefonate. Come quella del padre che ha appena scoperto che il figlio è tornato positivo dopo un paio di tamponi negativi. Probabilmente a Natale non potranno stare insieme. Va invece meglio a uno dei più giovani ricoverati che tutti chiamano per cognome, Mosca. È un quarantenne che si affaccia dalla stanza con la flebo ancora attaccata. È contento, ringrazia, si prende le prescrizioni per la terapia da portare a casa. Ha ancora la tosse ma comunque è negativo e le sue condizioni sono buone. Lui le feste le potrà trascorrere con i suoi parenti e ha parole di ringraziamento per chi si è occupato di lui. Alle 13.16 Anna finalmente si sveste per la seconda volta. Adesso è davvero stanchissima. “Ma non è finita, ci sono da passare le consegne alle colleghe”.
Il rito si ripete. Ci si incontra tutti dentro la stanza dei computer e si ricominciano a discutere i casi. Si parla di nuovo di “4 porta”, “11 finestra” e di tutti gli altri. Uno a uno i pazienti vengono inquadrati e descritti. Anna ascolta e pensa già a quello che troverà a casa. Chissà se suo marito è riuscito a lasciarle il pranzo. “Intanto va bene se sono ancora tutti vivi dopo tutto questo tempo da soli”, scherza. Saluta le colleghe, entra in ascensore, va a cambiarsi e esce nel parcheggio. Il cielo non è più coperto ma di ore di luce prima che torni a fare buio ne sono rimaste poche.
 

Anna Fratullo a fine turno sta per passare le consegne alle colleghe del pomeriggio


14.30. Mamma!

La casa è in una palazzina bianca di una zona residenziale del paese. Anna abita al primo piano. Parcheggia l’auto nel cortile e sale l’unica rampa di scale. “Mamma!”. Un solo urlo di bambina. Secco. Tutti gli sguardi che si voltano verso la porta. Sì, è tornata mamma. Sara, 7 anni, è a gattoni sul divano. Davide siede per terra con dietro il padre, che lo tiene sotto controllo. Davide ha bisogno di stare un po’ in braccio. Sara, invece, vuole raccontare qualcosa di solo suo. Un segreto. Il marito Daniele, 48 anni, è stravolto dalla mattinata passata insieme ai figli. “Abbiamo giocato tanto”, sintetizza. Oggi è sabato ed era libero dal lavoro nell’azienda che collauda macchine per il lavaggio a secco.
“Se non ci fosse mia mamma durante la settimana sarebbe un bel problema, non so come farei – dice Anna – Quando io parto all’alba, lei arriva prima che mio marito esca per portare la bimba a scuola e andare in azienda. È ancora giovane, ha 60 anni, è in gamba. La madre di mio marito invece ha più di novant’anni e ha cresciuto sei figli e un numero imprecisato di nipoti. Sta bene e vorrebbe tenere anche lei Davide ma non ce la sentiamo. È un impegno troppo pesante”. Davide è vivace. Saltella di qua e di là. Tocca tutto, anche lo stereo del padre, un po’ affranto dal trattamento che quei ditini riservano alle sue cose.


Si mangia. Anna non sembra aver sofferto la fame in mattinata e anche adesso non è vorace. Va sul leggero: due toast con il prosciutto (“cavolo, abbiamo finito il formaggio”) e un bicchiere d’acqua. “Il vino lo bevo stasera”. Lei e il marito in questo periodo hanno il cruccio della casa, dove abitano dal 2007. Vorrebbero cambiarla, trovarne una un po’ più grande a un piano terra e con il giardino. L’appartamento sarà 90 metri quadri, la stanza d’ingresso è anche salotto e cucina. Il problema sono le due camere da letto. “Troppo poche. Per i bimbi una non basta. Maschio e femmina, quando lei crescerà non lo vorrà tra i piedi. Sarà difficile farli stare insieme ancora per molto”. In effetti già adesso fuori dalla porta ci sono due cartelli con il nome Sara e dentro i giochi appartengono tutti a lei. Niente fa pensare al piccoletto, che dorme ancora nel lettino nella stanza dei genitori.
“Con il mio lavoro guadagno 1.600 euro al mese. Ho visto che la paga con il secondo figlio è un po’ salita ma non ho la prospettiva di grosse progressioni – dice Anna – La mia caposala dice sempre che prende un paio di centinaia di euro in più per avere tutte le responsabilità dell’organizzazione. Ma questo è il lavoro che mi piace e mi dà soddisfazione”. Il rapporto con i vicini è buono, forse anche perché siamo in un paese. Non ci sono stati episodi di intolleranza nei confronti di Anna per il lavoro che fa, come invece è successo altrove ad alcuni suoi colleghi. Niente cartelli sgradevoli, niente commenti sottovoce mentre passa.
“Quando mi sono ammalata di Covid nessuno ha detto niente, anzi si sono offerti di darci una mano. Qui non c’è il clima di sospetto per chi fa il mio lavoro che hanno dovuto subire altri. Sono cose che ho visto solo in tv”. Interviene Daniele. “Anzi. Qualcuno approfitta del fatto che Anna sappia fare le punture, quando ha bisogno la chiama. La sua presenza li tranquillizza”.

Damiana Barsotti, infermiera del reparto di malattie infettive dell'ospedale San Luca di Lucca, lo scorso aprile ha trovato questo biglietto nella cassetta delle lettere

Le città non piacciono molto a Daniele. Preferisce starsene nel suo paese, dove fa parte dell’associazione di volontariato dei donatori del sangue. Pure quando si parla di cibo non ha voglia di viaggiare. “Lei no, lei ogni tanto mi propone quei ristoranti etnici ma a me non piacciono, sono più sulla cucina tradizionale, da trattoria”. Il bambino si è svegliato e reclama la mamma. Si riparte con giochi.

 19.30. Serata tigelle

Farina, strutto, lievito e acqua. È serata di tigelle e salumi. “Non cucino spesso, non ho molto tempo. Però quando mi ci metto sono abbastanza brava ed è divertente”. L’impasto è pronto e va steso e tagliato. Per cucinare i piatti tipici bisogna prima guardare come li fanno gli altri e poi provarci un po’ da soli.“Anche a fare l’infermiera non si impara soltanto frequentando l’università. Ci vuole pratica, osservazione dei colleghi. Si cresce soprattutto facendo e può volerci molto tempo. Ad esempio ci ho messo un bel po’ a capire come affrontare i prelievi”. In salotto è appesa la pergamena della laurea in infermieristica. La data è 28 aprile 2005, a quel tempo Anna non poteva immaginare come sarebbe stato il lavoro. “Duro, ma stimolante. L’ho detto, mi piace aiutare le persone. Tutto parte dal contatto con il malato, dal desiderio di soddisfare un bisogno primario come la ricerca della salute. Siamo utili in un momento di grande necessità. Poi mi piace il confronto con i colleghi e il lavoro di équipe, che è una cosa fondamentale quando la mia professione viene svolta in ospedale”.


In casa di un’infermiera non si discute tanto di virus più o meno letale, di curve epidemiche e rimedi farmacologici. Le sfide televisive tra epidemiologi (veri o presunti), virologi, infettivologi e anestesisti, le polemiche, le uscite bizzarre e i richiami a rispettare il metodo scientifico sono come un rumore di fondo, distante, di cui spesso si fa a meno. “Beh, qualche volta i programmi tv nei quali si parla della pandemia li guardo. Non tantissimo perché alla lunga mi mettono addosso l’ansia. E io quando ero a casa pensavo soprattutto a rientrare al lavoro nel modo più sereno possibile”.
Anna ha ripreso a lavorare dopo la maternità alla fine della prima ondata. “Quando è arrivata la seconda sono rimasta un po’ delusa perché non ci hanno fatto molta formazione. Ci hanno comunicato da una settimana all’altra che avrebbe aperto il reparto Covid e ci hanno spiegato come vestirci e svestirci. Tutto il resto lo abbiamo imparato sul campo in questi mesi, dalle terapie a come si fanno le dimissioni dei malati”.
 

22.30 Buona notte

Domani, Anna fa la notte, entrerà alle 19.30. “È il turno in cui possono passare ore durante le quali non si è molto impegnati. Però poi arriva improvvisamente la scarica di adrenalina per un problema grave e resti sotto pressione fino alla mattina. Il giorno dopo di solito torno a casa verso le 9 e mi metto a dormire fino al primo pomeriggio”. 



Visto che domattina è libera ne approfitterà per comprare i regali. Sara ha chiesto a Babbo Natale una Barbie snodabile e il Monopoli. “Al piccolo prendo un orsacchiotto che si muove tutto. Mio marito? Non mi dice cosa desidera e vado sempre in crisi. Magari un capo di abbigliamento. Non mi butto sulla tecnologia perché non mi va mai bene in quel campo. Io invece ho chiesto il mio profumo preferito”.


concludo condividendo     un altro commento

10 ore fa
Pier Luigi Furlanetto

il nostro paese va avanti per il lavoro di queste persone che semplicemente fanno il loro lavoro. Semplicemente dice tutto, è una parola importante...Chi nega la realtà non solo della scienza, ma questa realtà così semplicemente narrata andrebbe condannato a passare una giornata vicino a un infermiere, non vicino a un virologo. Chi rifiuterà di vaccinarsi dovrebbe essere condannato a pagare per le cure che questi infermieri gli daranno.

finalmente qualcuno usa i social in particolare TikTok per fare cultura e non solo .... fesserie il caso di Norma, da insegnante disoccupata a star dei social: i suoi canali hanno più interazioni dei Ferragnez


Norma Cerletti è un’insegnante di inglese di 28 anni. A ottobre del 2019 aveva deciso di mettersi in proprio licenziandosi dal suo lavoro part-time ma, a causa della pandemia che ha portato alla chiusura delle scuole e alla cancellazione di molti dei suoi corsi, da marzo 2020 si è ritrovata senza lavoro. “Ero entrata in depressione, ma dopo un periodo di tristezza ho cercato di trovare la forza di reinventarmi e ho aperto il mio canale TikTok. - ha spiegato la giovane insegnante, - All’inizio avevo cominciato per gioco, successivamente ho voluto cercare di dimostrare che su social come Tiktok e Instagram si possono offrire anche contributi educativi e non solo giocosi”. Il profilo di Norma, in arte (e sui social) Norma’s Teaching, è diventato da subito virale con oltre 350mila fan su Instagram e 400mila su TikTok. Attraverso la notorietà ottenuta sui social, è riuscita a vendere oltre 6,500 corsi digitali a pagamento e come spiegato dal fondatore di Ninjalitics ed esperto in analisi di profili social, Yari Brugnoni, “il suo successo è legato al tasso di coinvolgimento e di visualizzazioni del suo profilo. Se paragonati ad influencer come i Ferragnez, Norma ha numeri altissimi”. “Questo successo non è stata una rivincita verso qualcosa o qualcuno, - ha voluto specificare la giovane star di TikTok - ma un riscatto in quanto adesso riconosco ed è riconosciuto il mio valore”.

 

                             di Edoardo Bianchi

23.12.20

Morte pasoliniana di Pier Paolo Pasolini di Matteo Tassinari

 Mi  scuso  con l'interessato   per  il ritardo con  cui  pubblico il suo  post . Ma  fra  :  1) lavoro   , 2)  impegni  con  la  classe  per  la  festa  (  faremo solo   quelli religiosi  e non civili causa covid  ) patronale  di    agosto., 3) corvée  domestiche  , 4  )  il  blog    solo ora  trovo il tempo  . Buon lettura  








Un uomo inquieto, in tempesta col mondo
COL VENTO NEI SUOI CAPELLI IN FESTA
Nulla è più  anarchico del potere



La vittima ideale

IL GESU' "VISTO" DA PASOLINI nel film da lui diretto: "Il vangelo secondo Matteo". Una vittima ideale. Solo il volto di Pasolini era un po’ diverso, un volto profondamente segnato, un volto quasi da Cristo, ma un Cristo molto diverso dal terribile Cristo putrefatto di Matias Grünewald o, tanto meno, dal Cristo oleografico dell’iconografia cattolica. Insomma, anch’esso, un Cristo molto normale, un Cristo piccolo borghese. Pasolini non aveva, nei gesti, nel parlare, nel modo di porgersi, nulla della “checca”. Anzi, era piuttosto virile. La scena cambiava ogni qual volta stava in compagnia con sua madre e quest’uomo, l'intellettuale furioso che s'"infantilizzava" per "mendicare" coccole e la mano, in una ricerca d'affetto quasi imbarazzante nella persona da lui più amata. E' difficile immaginarsi un Pasolini, sempre a muso duro, sempre pronto a fare a "cazzotti" verbalmente con chi calpestava verità e giustizia, dare i bacini a sua madre, o tenersi mano nella mano e camminare lungo viali alberati nebbiosi. O forse è semplicissimo, quando hai tanti nemici, a tratti, hai bisogno di tornare bambino e la madre diventa la figura emblematica dell'amore e della tenerezza. Tenerezza.


A MENDICAR TENEREZZE




Adescamento bestiale Pier Paolo Pasolini - Antonello Morsillo


 Profondo  nero




NON SI PUO' TRATTARE, qui, in poche righe, l’opera di Pier Paolo Pasolini. E' possibile invece ricordare una frase che scrisse nel 1962 inserita ne “Le belle bandiere”: "Noi ci troviamo alle origini di quella che sarà la più brutta epoca della storia dell’uomo: l’epoca dell’alienazione individuale e sociale. Questo per un fiorire estremo della tecnologia che sperpera ogni tradizione culturale. La corruzione sarà il male politico da difendersi". Parole dette più di 60 anni fa. Torna il dubbio: la P2 è responsabile o complice, del delitto Pasolini? Pino Pelosi che l'anno scorso dichiarò, com'è scritto sulla prima di copertina di "Profondo Nero". I responsabili della morte di Pasolini erano cinque uomini arrivati sul 
posto all'improvviso, come d'accordo, con una moto e una Fiat targata Catania. Fra loro due habituè dei luoghi di ritrovo di uomini di estrema destra del Tiburtino, Franco e Giuseppe Borsellino. Mentre lo picchiavano, lo pestavano a sangue gridavano: "Sporco comunista! Frocio, ecco quel che ti meriti" e botte fino a sfinirlo, sfigurarlo per poi passarci sopra con la macchina spezzando il tronco corporeo per il peso della macchina. Famose le parole di Pelosi agli atti, quando disse: "Se tu uccidi qualcuno in quel modo, o sei pazzo o hai una motivazione forte. Siccome questi assassini sono riusciti a sfuggire alla giustizia per trent'anni, pazzi non sono certamente. Quindi avevano una ragione, una ragione importante per fare quello che hanno fatto". Uno spettacolo orrido, non volevano solo che morisse Pasolini, ma che soffrisse anche e tanto, quasi una vendetta per tutto quello che aveva reso noto. Pelosi, il borgataro che da ragazzino gli piovve addosso una botta di quelle che non si reggono, è a tutt'oggi impaurito da quei cavalieri della morte 60enni e come, in che maniera, hanno picchiato Pier Paolo Pasolini, anche se non si sa se siano ancora vivi.

Una      storia
sbagliata


Il corpo di Pier Paolo Pasolini
dopo il pestaggio avvenuto
all'Idroscalo di Ostia la notte tra
il 1° ed il 2° novembre
ad opera dei Servizi segreti
dello Stato e mafia

La malvagità è nel non saper
nemmeno che si è malvagi
SE PETROLIO fosse stato pubblicato, Pasolini sarebbe ancora vivo. Come è vero che se Saviano non fosse riuscito a pubblicare in tempo "Gomorra", sarebbe morto come Pasolini. Stava lavorando ad un romanzo, "Petrolio", dove alludeva con fatti precisi e e puntuali all'attentato e morte di Enrico Mattei, all'epoca presidente dell'Eni. Pasolini scriveva che Eugenio Cefis, citato con un nome di fantasia che corrispondeva a "Troio Berda Inquisitorio", era responsabile di troppe illegalità. Intanto, Cefis, diventa Presidente dell'ENI. Cefis è colpevole anche di aver fondato la feccia del pianeta, la Loggia Massonica P2, assieme a Licio Gelli il Venerabile, così lo chiamavano nel linguaggio massonico. Il Governatore della Banca Italia di allora Guido Carli, lo definì un importante esponente della borghesia di Stato (?). Per i soloni spocchiosi giornalisti Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani, le penne saccenti del giornalismo economico-finanziario di Repubblica, penne “orribilis” c'era parecchia carne da mangiare. Cip e Ciop, Scalfari e Turani, hanno scritto un libro su Eugenio Cefis, dove viene presentato come una personalità rappresentante della vera "razza padrona" dell'epoca, quella del club esotico di Enrico Cuccia presidente e amministratore delegato di Banca Italia, gli Agnelli, Confindustria ed i sindacati che ci siano o no, nulla cambia.
Santa Sanctorum, la sede di Banca Italia 
ERANO GLI anni '70 e il mondo sindacale ci diede la opportunità di capire come era vuoto il peso della triade.
Per capire il personaggio Cuccia, basta dire che è stata una delle figure di spicco più importanti della scena economico-finanziaria italiana del XX secolo (60 anni di onorato lavoro ai massimi vertici) senza mai rilasciare una sola intervista. Vi sfido a trovarne un altro. Tornando al nostro all'ideatore e mandante dell'omicidio Pasolini, Eugenio Cefis, era uno che girava il mondo con tre orari diversi. I due spocchiosi cronisti, continuarono osservando che: "l'autenticità e genialità dell'uomo d’affari e su cui l’Italia poteva contare affidandogli incarichi importanti governativi". Avevano capito proprio tutto, il filosofo fallito (Scalfari) e Turani, uno che avrebbe voluto essere Franco Lattanzi, un banchiere anarchico sconosciuto, ma dalla grande capacità di decodificare i flussi economico-finanziari internazionali e soprattutto dalla penna che vibrava quando la prendevi in mano, talmente era bello leggerlo. Alto dirigente del gruppo Unicredit e agitatore della contestazione, per finire in una storia dall'epilogo sull'isola di Ventotene da sceneggiatura noir con una improvvisa caduta dalle scale e rottura dell'osso del collo. “Voleva stare da solo ed era andato nella casa del cognato”, testimonia la moglie. L'ennesimo mistero.

                                                   Giovanni Agnelli con Eugenio Cefis

MA A CAUSA DELLA SUA FUGA dall'Italia, nel '77, il suo posto fu preso da Licio Gelli. Cefis, di Cividiale del Friuli, teorizzava un golpe bianco, senza l'uso dei militari e della violenza, attraverso il controllo dei mezzi di informazione, come descritto in seguito nel "Piano di rinascita democratica" di Gelli. Per Pasolini, l'assassinio Mattei, è il 1° di una ampia carrellata di stragi di Stato di cui Cefis ha preso parte in qualche misura più o meno diretta. Opinione sottolineata da Amintore Fanfani che proprio un ribelle non era e Che Guevara pensava fosse un giocatore oriundo: "forse l'abbattimento dell'aereo di Mattei, più di vent'anni fa, è stato il primo gesto terroristico nel nostro Paese, il primo atto della piaga che ci perseguita." Se il libro "Petrolio" fosse riuscito ad uscire, fosse stato pubblicato, forse Pasolini sarebbe ancora vivo. Pensate a Roberto Saviano. Se non fosse riuscito a pubblicare "Gomorra", ora sarebbe morto da un pezzo. Quando un pezzo, un'inchiesta riesci a pubblicarla, sei quasi a posto, non si sa mai. Perché quello che era un segreto inviolabile, ormai, grazie alle inchieste pubblicate, il più è fatto. Anche se a certi livelli è obbligatorio guardarsi spesso e volentieri alle spalle, perché esiste anche, soprattutto fra i criminali, il senso della vendetta, il fartela pagare facendoti molto male, se non chiuderti la luce per sempre su questa crostone di terra che tutti i giorni calpestiamo. 

Un delitto infinito
Cos'è questo golpe?





Io so

Scritti Corsari
di Pier   Paolo  Pasolini

Corriere della Sera

Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum". Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista).



OGNI TANTO si avvicinavano dei ragazzi, le classiche "marchette" e scambiavano due chiacchiere in modo molto pulito e Pasolini rinasceva spiritualmente. Era vero amore quello, ve lo dico. Uno di questi lo avrebbe ucciso. Il Pci e tutti i suoi vassalli e vassallieri, nella loro ipocrisia, non hanno mai accettato che Pasolini fosse morto com'é morto. Cioè, loro, che non centravano nulla, volevano decidere i gusti sessuali di Pasolini. Come i genitori coi loro figli: "Fai il bravo a scuola e non far arrabbiare la maestra". Si sa, Colpa e pene sono gemelle, anche perché spesso è l'innocente a portare la pena del reo bastardo. Poi ci vengono a dire che la pena nell'ira non conosce né modo né misura. Come minimo doveva essere stato un complotto dei fascisti, fantasticheria cui diede voce per prima Oriana Fallaci che aveva orecchiato qualcosa dal parrucchiere mentre si faceva i bigodini blu. Non si è mai capito che il fondo
oscuro di Pasolini, era necessariamente l’humus al suo essere artista visionario e, soprattutto, un grande, grandissimo intellettuale. “L'ansia del consumo è un'ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l'ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell'essere felice, nell'essere libero: perché questo è l'ordine che egli inconsciamente ha ricevuto, e a cui deve obbedire, a patto di sentirsi "diverso". “Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L'uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una falsa uguaglianza ricevuta in regalo”, scriveva sul Corsera Pier Paolo Pasolini, dagli Scritti corsari. Era il 1974. 
AD OGGI SI SA CHE I responsabili della morte di Pasolini erano cinque uomini arrivati sul posto all'improvviso, mentre Pasolini era in macchina con Pelosi. Come d'accordo, con una moto e una Fiat targata Catania, arrivarono sul posto improvvisamente. Si capiva che volevano 


fargli molto male, non gli bastava dargli una lezione ancorchè estremamente orrenda. Un odio profondo che Pelosi aveva avvertito e confermato ai giudici, per poi ridire tutto quanto due anni fa: "Fu un malvagio adescamento. Io ho le mie responsabilità, le conosco, ero solo un'esca utile ad attirare Paolo per poi farmi da parte. Quelli chissà da quando ci seguivano con la macchina, ma chi pensava che poi alle due di notte sarebbe successo quel che è accaduto? E poi noi due stavamo tranquilli in macchina". E' stato irretito solo come sanno irretire persone spietate, con il dovere di non ucciderlo soltanto, ma farlo soffrire col dolore di mille agonie.


22.12.20

come sopravvivere alle festività con il covid natale 2020 \2021 puntata VI° Covid, istruzioni per un altro Natale

puntate precedenti 

in sottofondo

Ozzy Osbourne - Crazy Train (Piano cover di https://www.patreon.com/gamazda )



Ho tardato   a scrivere  questo post  perchè  aspettavo  che  fossero chiare  le  nuove  disposizioni  del  governo  . Lo so   che  il coprifuoco  , in questo caso parziale    ,  soprattutto quando non è  chiaro    \ 

contradditorio  ( infatti  prevedendo     la  facilità  con  cui  verrà  violato e le maglie larghe  dele  singole regioni finirà  come  quest'estate  )   ,   non piacciono   a nessuno   neppure  al  sottoscritto   ma non  essendoci altre  soluzioni  scientificamente   provate   dobbiamo  metterci  l'anima  in pace  ed fare    come  suggerisce  papa   Francesco  

  [--- ] da  questo articolo  del 21\12\2020   del  https://www.huffingtonpost.it 


passato, e cioè che finiscono sui giornali, afferma che la Curia non deve difendersi dalla crisi, ma accettarla come fece Abramo, come fece Mose e il profeta Elia, e come fece Gesù Cristo che accettò la crisi fino al sacrificio di se stesso. Perché Dio prova “l’oro con il fuoco”. Nell’Aula delle Benedizioni, Francesco spiega ai suoi diretti collaboratori, tale è la Curia Romana, spiega gli scandali con la necessità di conversione. “Perciò se un certo realismo ci mostra la nostra recente solo come la somma di tentativi non sempre riusciti, di scandali, di cadute, di peccati, di contraddizioni, di cortocircuiti nella testimonianza, non dobbiamo spaventarci e neppure dobbiamo negare l’evidenza - ha detto il Papa alla Curia - di tutto quello che in noi e nelle nostre comunità è intaccato dalla morte e ha bisogno di conversione” [... ]



 Essere circondati dai morti e dalla malattia dovrebbe imporci uno sguardo diverso, una attitudine alla solidarietà coi più fragili perchè   questo 

Sarà un altro Natale, diverso dal solito. Non può essere altrimenti. Ma forse sarà anche un Natale più vicino al senso originario di questa festa. La sua desacralizzazione si è infatti compiuta  inarrestabilmente in questi ultimi decenni. Abbiamo ormai da tempo spogliato il Natale di ogni significato simbolico riducendolo ad un rituale consumistico senza anima. La nascita di Gesù è stata ridotta ad una favola tra le altre buona per rallegrare lo spirito dei nostri figli nell'età ancora senza pensiero critico della loro infanzia. La stessa celebrazione religiosa è stata trasfigurata perdo più in un'occasione mondana di  ritrovo collettivo. II trauma del Covid riporta però bruscamente alla luce quello che vorremmo invece  dimenticare, ovvero il confine tragico che unisce  profondamente la vita alla morte. Essere circondati dai  morti e dalla malattia dovrebbe imporci uno sguardo  diverso, una attitudine alla solidarietà coi più fragili, con quelli colpiti nel corpo e nella loro economia vitale con maggiore forza dal virus. Dovrebbe sospingerci a distinguere l'essenziale dall'inessenziale. Nondimeno  anche di fronte alle piaghe dell'epidemia molti insistono  nel voler festeggiare, nel ribadire la bellezza imperdibile  della convivialità, dello scambio dei doni e dello stare in  famiglia. E il negazionismo irriflesso che accompagna le nostre vite e il nostro pensiero magico-infantile di  proiettarci già fuori dal pantano orribile in cui ci troviamo. 
Infatti  << Questa spinta a festeggiare  [a  tutti i costi    corsivo mio  ]  trascura di pensare la condizione di emergenza drammatica nella quale tutti  senza  nessuna distinzione siamo ancora immersi e che rende (  almeno dovrebbe  )   di fatto ogni festeggiamento stonato e fuori luogo. Il bambino nella mangiatoia >>, sempre  secondo   quanto dice  Massi mo Recalcati su  repubblica  d'oggi  <<, rivela la condizione di "abbandono" in cui tutti siamo sin dalla nostra origine. Il destino del piccolo Gesù è già scritto ed è quello di morire sulla croce. Tuttavia questo destino mortale non cancella la necessità della cura della vita che viene al mondo, ma al contrario la potenzia. E per rendere "immensamente sacra" la vita di ciascuno, come si esprime Papa Francesco nella sua ultima enciclica Fratelli tutti, che il Dio cristiano si decide scandalosamente per la sua kenosis, per la sua a tale incarnazione facendosi bambino. La sua fragilità manifesta che ciò che rende umana la vita è la grazia dell'attenzione che la circonda, il calore del contatto, la presenza dell'altro, il dono. Non è questa la lezione più importante della festa del Natale che nel tempo atroce e  inaudito del Covid dovremmo imparare a tenere con noi prima di ogni altra cosa? Ma  questo ,  Insopportabile diventa allora la lamentazione per la festa mancata, per la  convivialità soppressa, per il distanziamento sociale imposto dai decreti governativi, per lo sconvolgimento dei nostri  rituali.  [...] >>

         Massimo recalcati repubblica  22\12\2020  

E' vero   che    la Chiesa non deve, sempre  secondo  papa  Francesco  essere letta con le categorie del conflitto “destra e sinistra, progressisti e tradizionalisti”, con “vincitori e vinti” . Ma Questa lettura “frammenta, polarizza, perverte tradisce la sua vera natura”. Come non vedere in queste parole un chiaro riferimento a quanto successo negli ultimi anni   lo dice  anche  papa  Francesco   , ma  la  chiesa  il popolo  di  Dio  è fatto da  diverse  anime     alcune  anche    opportuniste  e  strumentali (  vedere  slide  al a  sinistra  )   ,   i  cattolici  più  reazionari  o  cattolici  d'accatto   non lo capiscono    o  fanno  finta   assuefatti  come   sono  alla società  dei consumi Ecco   quindi      che  <<  Sarà questo  >>  sempre  secondo  Recalcati   << giocoforza, un altro Natale che dovrebbe  spingerci a risacralizzare il suo significato: la vita dell'inerme è quella di un Dio strano che richiede cura per sopravvivere. Ecco il paradosso formidabile del Natale  cristiano! Il suo senso sacro insiste a ricordarci il gesto fondamentale dell'accoglienza senza il quale la vita non diventa umana ma precipita nell'abbandono assoluto. A  coloro che chiudono la porta delle proprie case rifiutando ospitalità alla famiglia che viene da lontano, rispondono quelli che hanno creduto nell'evento, che sono accorsi nella notte a trovare e a omaggiare il Dio bambino  ospitato in una stalla. La notte di Natale nel racconto  cristiano, sappiamo, annuncia la venuta al mondo del "Salvatore" Esiste un modo laico per leggere la potenza di  questo racconto? Ai miei occhi si tratta dell'evento che rende la vita umana immensamente sacra. Nel tempo  traumatico del Covid la festività del Natale ci ricorda che  ogni morte non è mai una morte anonima ma è la morte dell'immensamente sacro. Agostino riflette sul gesto di  Maria, narrato dall'evangelista Luca, di collocare il suo "primogenito" in una umile mangiatoia sottolineando  l'equivalenza del corpo di Gesù con quella del  nutrimento. Questo Natale non sarà il tempo della festa, ma quello che cí obbliga a pensare all'esistenza di un altro  nutrimento rispetto a quello a cui ci siamo abituati nella nostra mondanizzazione del Natale. La sofferenza e i  morti di questo terribile anno ci invitano  ,  almeno dovrebbero ,  corsivo  mio   a farlo.>>

Quindi ecco che

E' perlomeno bizzarro che le feste, nel leggere i commenti degli anni passati, percepite come una gran rottura di coglioni, siano diventate ora sacre, intoccabili e indivisibili. D'altronde cosa vuoi pretendere da un paese ai primissimi posti in Europa e nel mondo nel consumo di cocaina. Nelle classifiche del malaffare e della corruzione primeggiamo sempre tanto poi c'e' fb per darci una ripulitina e sembrare verginelli come le vestali del tempio. Un sonoro vaffa a tutti quelli che ora stanno protestando perché è aperto troppo o troppo poco ed un augurio che possano provare veramente la dittatura magari espatriando e non qui in Italia. Siamo quelli in gran parte rappresentati da uno che nel giorno di Natale vorrebbe portare le coperte ai clochard e negli altri 364 giorni vorrebbe buttarli a mare o farli sparire dalle città. Siamo quelli del guai a chi ci tocca la Santa Messa e che poi accostano Dio agli animali di mezzo cortile, cane, porco, maiale, bestia. Siamo quelli che cercano e pretendono aiuto e solidarietà quando le cose ci vanno male per poi girare sempre lo sguardo quando le cose vanno male agli altri. Siamo quelli che godono nel parlare male degli altri perche' guardarci allo specchio ci farebbe vomitare. Buon Natale (Paolo Brufani)

    ci  riusciremo ?   togliete  dal  natale   tutto il superfluo ! cosi capirete    e capiremo   se  il vostro natale   e  buono davvero   ne  riparleremo dopo capodanno  . concludo  sempre  con musica  in sottofondo   più precisamente  Queen - Thank God It's Christmas versione della stessa autrice della musica iniziale  

19.12.20

tempio pausania A 98 anni è il più anziano commerciante ancora in attività in Italia

 Siamo oramai avvezzi ad osservare serrande chiuse delle principali attività commerciali che fino a qualche anno fa erano fiorenti, animavano i nostri corsi principali e davano fiducia nel futuro di chi voleva restare in questa terra.

 << Oggi  >>  pur  non condividendo in toto   l'impostazione estremamente   nazionalista  o  sovranista  ed un po'  troppo  neoliberista    come  si  direbbe  oggi   non biasimo e in parte  concordo  quanto  dicono   :    dice https://moliseprotagonista.it/il-commerciante-il-declino-di-un-mestiere-che-ha-fatto-grande-litalia/ e  BELLOTTI SRL  (  non  ho trovato sul  loro     sito   l'articolo originale  e  quindi    faccio  riferimento  al sito )  il mestiere del commerciante è uno dei più tartassati dal Governo. Tasse, pensione da fame e scarsi affari per l’avvento dei cinesi e delle vendite on – line dei colossi quali Amazon, hanno ridotto al lumicino la speranza di sopravvivenza di qualsiasi commercio al dettaglio.
Illuminanti e veritiere le considerazioni di un vecchio commerciante, il quale traccia un quadro fosco della situazione attuale in Italia  ..... >>  ( segue    articolo    citato   )  .  ed   Proprio per  questo   che  questa  storia     cittadina 




riportata   da    questo articolo  del  18\12\2020  di https://www.galluraoggi.it che  copia  pari  pari  il  comunicato  ( qui  la  fonte originale   )     del comune  di tempio  pausania  


A 98 anni è il più anziano commerciante ancora in attività in Italia

In questo particolare e difficile periodo la Città di Tempio vuole condividere, con i suoi cittadini e soprattutto con le giovani generazioni, esempi e testimonianze positive che possano contribuire ad alleviare i problemi del presente e proiettare la comunità con ottimismo verso il futuro.



Per questa ragione, a nome dell’Amministrazione comunale e alla presenza degli assessori, dei capigruppo di maggioranza e minoranza, assieme alle autorità, ai familiari e agli amici, il sindaco Gianni Addis ha consegnato al nostro concittadino Antonio Cosseddu, una targa con la quale riconoscere le straordinarie qualità di un uomo che, all’età di 98 anni, raggiunge ogni giorno la sua attività commerciale di abbigliamento e tessuti, dedicandosi con passione al proprio lavoro, iniziato 82 anni fa e condotto attraverso gli anni, sempre con immutata dedizione.

                                        foto di Vittorio Ruggero 17 dietacefSpgmodSntbrfe acllichie oSnsrSe fo1gtrrm4g:a5led2me 


Il signor Tonino, il più anziano commerciante ancora in attività in Italia, è sicuramente l’emblema di una città che non si arrende di fronte alle difficoltà e avversità che la colpiscono, ma anzi mantiene fermi i propri principi e valori, che continua a sostenere nell’agire quotidiano. La cerimonia, che l’affetto di tutti i tempiesi nei confronti del signor Cusseddu rende ancora più apprezzata e gradita, è stata voluta e organizzata dall’Assessore Monica Liguori e dall’assessorato agli Affari Istituzionali e Commercio di Tempio, con la condivisione del sindaco e di tutta la giunta.

Infatti   l'  encomio   è ben  meritato  visto che 



dall'unione sarda di Giovedì 17 Dicembre alle 20:30
Andrea Busia

Il biglietto da visita del commerciante di tessuti Antonio Cusseddu: classe 1922, primo giorno di lavoro a 16 anni (1938) e 82 anni di contributi regolarmente versati. Roba da guinness dei primati per il titolare di uno storico negozio nel cuore del centro storico di Tempio. Cusseddu da quando era un ragazzino si è sempre occupato di tessuti e la sua passione per il lavoro ha resistito ad una guerra, alle crisi ricorrenti, alla globalizzazione e ai radicali cambiamenti che hanno investito il settore del commercio al dettaglio. Il Comune di Tempio, con una cerimonia avvenuta nel salone di rappresentanza del Municipio, ha consegnato a Cusseddu una targa per celebrare i suoi 82 anni di lavoro. Il commerciante, che continua a gestire la sua attività nella cittadina gallurese, ha detto di essere felice per il riconoscimento: "Sono contento, così Tempio va alla ribalta". A livello nazionale, Antonio Cosseddu è un caso unico. I tempiesi lo vogliono cavaliere del lavoro.


 

18.12.20

le piccole librerie sono le migliori e le più autentiche Storia delle sorelle Sciacca, diventate libraie a Catania


avevo già parlato nei miei post  (  se non avete voglie d'andare a cercare nell'archivio   potete leggervi tale sunto preso da quest  articolo www.fcome.org/ )  delle sorelle Maria Carmela e Angelica  Sciacca  di  Catania la cui libreria è stata la prima a promuovere l’attivismo contro il libro di Riina Jr. . Ma  visto il  coraggio  fare cultura  non  omologata  (   antimafia  è  anche questo  )      e    di proporre nella loro Libreria indipendente ( qui la pagina  fb  ) non solo libri  standard  ma anche  libri poco noti     ed  attività culturali  con  ironia ed  allegria sia  da  vivo    che    attraverso    , vista  la pandemia  ,   dirette social  .
 Hanno   e  dimostrano  il  mettere  in  atto   queste  due   storie  : << se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà >> ( Peppino impastato ) e << la tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri >> ( Gustav Mahler  ) .  Dimostrano    , in tempi   di una  cultura  sempre  più omologata   e standardizzata (  ecco il perchè  ho ripreso     volentieri la  loro storia  )  che  una un na libreria è un luogo di elezione  dove risiedono le parole e i desideri di donne e uomini che hanno scelto di lasciare un’impronta nella nostra vita. Infatti    già  dalla  risposta   a    questa  domanda   fatta  dall'intervista  rilasciata   a  http://www.fcome.org/  ( trovate   nell'url sopra   link all'articolo ) 
 << La vostra libreria ha compiuto 5 anni di attività a luglio. Il fatto di essere una donna ha mai inciso positivamente o negativamente sullo sviluppo della vostra attività? E se sì, come?  >>
Tutto quello che ruota intorno a questa libreria è femminile. Il buon 80% della clientela che entra qui dentro sono tutte donne. Quindi forse sì, il fatto di essere due sorelle e due giovani donne ha condizionato positivamente la nostra attività, nella misura in cui ha attirato una clientela specifica, selettiva, orgogliosa del posto dove va ad acquistare. I nostri clienti medi sono donne che sanno che qui non troveranno sempre lo sconto, ma troveranno sicuramente una selezione accurata fatta da noi due in maniera ragionata. Sono clienti che vengono qui e scelgono di comprare da noi con cognizione di causa. L’essere donna non ha influenzato molto negativamente la nostra attività. Anche se devo dire che la clientela maschile è ridotta e forse a volte un po’ diffidente. >> si  capisce  che  il  luogo  e  le persone  sono  speciali  . 




“In questa libreria non si ordina né si vende il libro di Salvatore Riina”. E’ questo il messaggio deciso che traspare dalle vetrine colorate della libreria Vicolo Stretto, una piccola libreria indipendente nella ridente e centralissima Via Santa Filomena a Catania. Dopo l’intervista di Bruno Vespa su Rai 1 a Salvatore Riina Jr., Maria Carmela e Angelica Sciacca non hanno tardato a far sentire la propria voce e a prendere una posizione chiara e risoluta contro la vendita del libro scritto dal figlio del boss Totò Riina. Il loro messaggio ha avuto subito un grande eco ed è stato accolto e condiviso da molti. Ma la libreria di queste due giovani sorelle non è semplicemente un bookshop che ha sposato la retorica anti-mafia. E’ soprattutto l’impresa di due giovani donne che “sono state educate e abituate da sempre a dire quello che pensano”.

Ma     questo  articolo   https://www.ilpost.it/2020/12/17/pramopolini-catania-podcast/mi  ha  spronato  a  riparlarne  

Storia delle sorelle Sciacca, diventate libraie a Catania

Hanno iniziato con la Vicolo Stretto, una minuscola libreria del centro, e poi hanno rilevato la storica Prampolini, fondata nel 1894




Maria Carmela e Angelica Sciacca, due sorelle di Catania, sono diventate libraie quasi per caso dopo 
da http://www.fcome.org/
aver seguito tutt’altre strade. Nel 2011 acquistarono una piccolissima libreria nel centro della città, la Vicolo Stretto, di soli 23 metri quadri, e impararono il lavoro tentando e sbagliando. Poi nel 2018 decisero di rilevare la storica Prampolini, fondata nel 1894, diventata il salotto letterario della Catania del primo Novecento e poi una delle più prestigiose e fornite librerie antiquarie d’Italia.
Maria Carmela ha raccontato al Post come si gestiscono due librerie così diverse tra loro e cosa significa tenere viva un’eredità culturale così importante.


Rahma contro l’Algoritmo: una ragazza tunisina contro gli stereotipi dell’AI

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