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24.4.25

La barberia che parla sassarese «Butrea è la nostra scommessa» salva una zona dal degrado . Giuseppe Lorenzo Sanna e Antonio Giuseppe Monteal Corso Dopo anni di gavetta lascelta del centro: «Crediamo molto in questo quartiere»

da la nuova del 24\4\2025

 Sassari C’è un locale al numero 30 di Corso Vittorio Emanuele che ha vissuto tante vite: in origine barberia, poi profumeria, ottica e negozio di prodotti tipici sardi. Ora si chiama La Butrea Barber Shop, e con sé porta il ritorno di un mestiere antico, ma anche una visione nuova.Due ragazzi, due sedie da barbiere, una saracinesca rialzata in un angolo del centro storico dove, negli ultimi anni, molti avevano scelto di abbassarla per sempre.Dietro il progetto ci sono Giuseppe Lorenzo Sanna, 30 anni, sassarese, e Antonio Giuseppe Monte, 35 anni, originario di Thiesi. Due amici, due professionisti che hanno deciso di scommettere non solo su sé stessi, ma su un’intera zona della città che da troppo tempo viene raccontata solo attraverso il filtro del degrado e della marginalità.«Io nel centro ci vivo
, e ne sono innamorato», racconta Giuseppe «È una zona troppo sottovalutata. Ma basta guardarsi intorno: gli interni dei locali sono bellissimi, la storia è ovunque, il potenziale enorme»  La loro scommessa parte proprio da qui: aprire non dove conviene, ma dove serve. Non dove è tutto già pronto, ma dove si può ricostruire qualcosa, rimettere in moto relazioni, attività, senso di appartenenza.L’8 aprile è stata inaugurata La Butrea, tra l’entusiasmo dei commercianti vicini, gli abbracci delle famiglie e l’incoraggiamento dei residenti. «Ci hanno accolto benissimo, ci hanno dato consigli, sono stati accoglienti, contenti», raccontano orgogliosi. Un’apertura che ha già il sapore del ritorno: dopo un’esperienza di lavoro in Australia, Giuseppe ha scelto di rientrare e restare per scommettere insieme ad Antonio su Sassari.«Ci siamo fatti le ossa facendo corsi per barbieri e facendo esperienza nei saloni, ora vogliamo rimanere e scommettere sul territorio, per fare qualcosa che lasci un segno». Il nome scelto per la bottega è già una dichiarazione d’identità:La Butrea è un omaggio alla lingua sassarese. «Ci fa piacere essere identitari», spiegano. Anche la comunicazione segue questa linea: i post pubblicati sui social sono in italiano, logudorese e sassarese. Una scelta che dice molto sul modo in cui i due soci concepiscono il loro lavoro: non solo un servizio, ma una presenza viva nel tessuto urbano.Anche il logo è fortemente simbolico: una torre stilizzata, nei colori bianco e rosso, unisce l’iconografia classica della barberia con quella della città. Tradizione e territorio, intrecciati nel segno di una nuova impresa.Ma La Butrea non è soltanto un luogo dove tagliarsi i capelli o curare la barba. È un punto d’incontro, un esperimento di micro-comunità urbana. I due giovani infatti stanno già lavorando per costruire una rete con le attività vicine: caffè, piccoli locali.«Abbiamo intenzione di collaborare, magari offrendo caffè gratuiti ai clienti che vengono anche da noi. Ci interessa creare connessioni, valorizzare chi è qui e tiene duro», spiegano. Il loro pubblico è eterogeneo, ma ben individuato: le persone del quartiere, gli studenti universitari, i turisti. Gente che attraversa il centro e ha voglia di fermarsi, di entrare in un posto che ha un’anima. E finora, dicono, «sta andando tutto sommato bene».I commercianti passano a salutare, a fare gli auguri, i clienti si affezionano. In una zona dove spesso si parla di abbandono, La Butrea sceglie di parlare di ritorno. Dove si discute di degrado, loro rispondono con presenza, luce accesa, accoglienza. È una barberia, certo. Ma anche un presidio umano. Un modo diverso di stare nel quartiere: con le porte aperte, con il sorriso, con l’ascolto. Giuseppe e Antonio non lo dicono esplicitamente, ma lo si intuisce: la loro scommessa non è solo il loro mestiere, è un pezzo di futuro che vogliono costruire, spalla a spalla, con chi ancora crede che il centro storico possa tornare a essere il cuore pulsante della città. 


 mentre  finivo  di  copiare dal sito quest  articolo     ne ho  trovato un altra    simile  ed  affascinante


Sassari Una vita nel mondo della ristorazione, sempre alle dipendenze di qualcuno - tra stagioni estive e incertezze invernali - poi la scintilla, che scocca prima tra di loro e poi per il centro storico di Sassari.

Un anno fa Stefano Dacrema e Valentina Pinnetta, algheresi trapiantati a Sassari, hanno voluto scommettere su una zona della città, da tempo alla ricerca di una ripresa da quella crisi economica che negli ultimi anni ha svuotato le strade del centro e fatto abbassare tante serrande. È nata così, in largo Porta Nuova con vista sulla storica sede centrale dell’Università, la piccola caffetteria “La figlia del Professore”, un locale che già dalle 6 del mattino inizia a servire i primi caffè.

ci siamo innamorati di questa zona della città – raccontano Stefano e Valentina – e dopo aver lasciato Alghero abbiamo deciso di aprire un locale tutto nostro, mettendoci al servizio di questo quartiere, sfruttando la lunga esperienza che abbiamo maturato in tanti anni di stagioni nella Riviera del Corallo». Il piccolo locale, con tavolini all’aperto, ha un nome curioso che riporta ai proprietari delle mura. «Il nome lo hanno dato proprio loro – spiegano Valentina e Stefano – nel ricordo di una figlia del professor Pietro Lai, stimato professore di matematica del Liceo Azuni, scomparsa qualche anno fa. A noi è piaciuto subito – aggiungono – e lo abbiamo mantenuto con grande piacere per il nostro locale». Arredato in stile “industrial vintage” il bar di largo Porta Nuova espone - appese alle pareti - delle antiche stampe originali del giornale satirico “La Voce Universitaria” degli anni Quaranta e Cinquanta, periodo durante il quale il giornale venne più volte censurato. Domenica 27 aprile il baretto spegnerà la prima candelina.
Valentina e Stefano fanno un bilancio del primo anno a Sassari e della vita nel centro storico. «Gli abitanti e frequentatori della zona – spiegano – ci hanno incoraggiato e sostenuto da subito in questa impresa. La scelta di vivere e lavorare qui la rifaremmo 1000 volte, perché è a misura d’uomo, con l’intrecciarsi dei rapporti umani e la comodità di vivere al centro. Abbiamo preso questa decisione anche perché innamorati di quest’angolo di Sassari e del piccolo locale che ci è stato proposto. Speriamo nella riqualificazione della zona e che la nostra apertura possa essere l’input affinché le serrande che si sono viste abbassare si rialzino. Le criticità nel viverci sono la mancanza di illuminazione nello specifico la prima parte di Largo Porta Nuova – aggiungono – che sembra l’ingresso in un posto insicuro. La ripresa di Sassari – concludono Valentina e Stefano – dovrebbe partire dal centro con interventi a sostegno delle attività, come l’esenzione, almeno nei primi anni, di tasse comunali e incentivi per la ristrutturazione delle facciate delle case e farle ripopolare con studenti, docenti e nuove coppie».

il 25 aprile con la morte del papa

  non trovano parole  adatte   che  non siano retoriche  ma  soprattutto   per la sobrietà per  la  morte  di  un leader    religioso  e  politico  ed  il lutto che ci  hanno  chiesto   non riesco  a  come fanno molti   




e preferisco  stare  zito    riportando  qui sotto   alcuni  libri    consigliati  


.25 APRILE: IL FUTURO. . DELLA RESISTENZA

Na popolana energica e resistente nella Roma occupata, un bambino entrato per gioco in una brigata partigiana, un partigiano 20enne “brutto” ma con degli occhi “più che notevoli”, PERSONAGGI INDELEBILI Scemando le testimonianze dirette sulle lotte che han

FOTO LAPRESSE
L’arte si fa storia Nel dopoguerra sono state tante le opere con protagoniste figure partigiane

Uuna ragazza ebrea impegnata in un doppio di tennis nel giardino della sua villa, una 16enne costretta a fare i conti con il disagio postbellico degli ex combattenti: sono Pina di Roma città aperta (1945), Pin del Sentiero dei nidi di ragno (1947), Milton di Una questione privata (1963), Micòl del Giardino dei

Finzi Contini (1962) e Mara della Ragazza di Bube (1960). Li vediamo avvicinarsi gli uni agli altri per scattare una foto collettiva, formano un gruppo di famiglia in un “esterno”, in cui l’esterno è la Storia, quella della guerra e del dopoguerra. Se le foto ingialliscono con il tempo, il loro ritratto non sbiadisce, e negli anni acquista persino nuova lucentezza.Alla vigilia dell’80º anniversario della Resistenza, sono queste potenti invenzioni narrative o cinematografiche che continuano a condensare nel nostro immaginario l’idea di lotta antifascista nei suoi risvolti di mito e antimito, di rivolta collettiva e privata, del suo proiettarsi verso il futuro o del suo ripiegarsi sul passato. Sono finzioni che, per così dire, hanno prodotto un effetto di realtà. […] A ben guardare, davanti all’obiettivo i personaggi del nostro gruppo di famiglia si dispongono a coppie o in trio. Il duo è composto da Pina e Pin, il trio da Milton, Micòl e Mara; per tutti, la consonanza fonetica acquista una dimensione semantica. Per Pina e Pin la lotta assume una dimensione collettiva, è una molla che li proietta in avanti nella speranza di costruire la nuova Italia postbellica; per Milton, Micòl e Mara la resistenza si gioca invece sul piano dell’interiorità, è qualcosa di privato, soggettivo, etico, disancorato dall’immagine di lotta antifascista come epopea collettiva: anziché tendere al futuro, questi personaggi si ripiegano sul passato.

Differente è quindi la relazione che intrattengono con la comunità in cui vivono: Pina agisce “con” e “per” gli abitanti del suo rione, Pin cerca di integrarsi nella scalcagnata banda del Dritto e alla fine troverà un amico nel partigiano Cugino, mentre per Milton, Micòl e Mara l’orizzonte è quello di una penosa solitudine. La ricerca affannosa della verità porta infatti Milton a isolarsi dai compagni di battaglia, e il partigiano “crollerà” nel finale aperto di Una questione privata. Il suo corpo cade come quello di Pina colpita dalle mitragliate mentre cerca di raggiungere il suo Francesco portato via dai nazisti, ma stavolta, al contrario del film di Rossellini, non c’è nessun prete o nessun figlio pronti a soccorrerlo, e non c’è nemmeno una mano “soffice e calda, come pane” simile a quella di Cugino del Sentiero a cui potersi aggrappare: Milton crolla da solo. Anche Micòl, col precipitare degli eventi, vivrà sempre più reclusa nel suo giardino fino al giorno in cui sarà arrestata e deportata in un lager.

E Mara, infine, dovrà aspettare quattordici anni per poter ricominciare una nuova vita con Bube. Si può allora parlare di una prima fase di personaggi resistenti (Pina e Pin) e di una seconda fase (Milton, Micòl, Mara), di un climax e di un anticlimax del mito della Resistenza. Se in Rossellini e Calvino la forte tensione ideologica, sociale e politica bilanciava le ferite della Storia, in Fenoglio, Bassani e Cassola quelle ferite rimangono dolorosamente aperte. […]

.In chiusura di ogni ritratto ci sarà un’apertura su un altro linguaggio: Pina, Pin, Milton, Micòl e Mara sono personaggi resistenti anche perché resistono nel tempo attraverso le riscritture, le letture per immagini (cinematografiche o pittoriche) che ne hanno fatto registi e artisti. […] Ma torniamo al nostro gruppo di famiglia in un esterno. Ecco che vediamo sopraggiungere altri due personaggi che si uniscono ai primi per un nuovo scatto. Sono un partigiano con un cannocchiale astronomico a tracolla e una donna con la gonna e il fucile: Tristano del romanzo Tristano muore (2004) di Antonio Tabucchi e Rosa del graphic novel La Rosa armata (2022) di Costanza Durante ed Elisa Menini.

La nostra galleria di ritratti si chiude così con due personaggi di combattenti nati negli anni Duemila. Tristano e Rosa non fanno parte del canone consolidato (e scolastico) della letteratura resistenziale, ma gli autori che li hanno concepiti si sono dovuti confrontare con le figure del passato finora descritte, raccogliendo la sfida di reinventare il mito della lotta antifascista senza averlo vissuto. E sono anche rappresentativi di sguardi diversi di generazioni diverse: quello caustico, ma non rassegnato, di uno dei più grandi scrittori del secondo Novecento, e quello militante di una coppia di giovani autrici nate negli anni Novanta che ha sperimentato il racconto della Resistenza a fumetti.

Cominciamo con Tristano m u o re . Ormai agonizzante, nell’ultimo agosto del Novecento l’ex partigiano Tristano, confinato nel casale toscano di Malafrasca, racconta la sua vita a un silente scrittore, che su Tristano ha già scritto un romanzo. Nei suoi racconti sconnessi, Tristano insinua il dubbio sulla prode azione che ha compiuto durante la guerra, quando aveva sterminato un manipolo di nazifascisti: si è trattato davvero di un atto eroico? O non è stato piuttosto il frutto di un vile tradimento? E ancora Tristano si interroga: si può essere testimoni senza aver vissuto quello che si racconta? Si può raccontare la Resistenza come ha fatto lo scrittore accorso al suo capezzale nella biografia romanzata di Tristano (e come fa lo stesso Tabucchi), anche se non si è mai stati a combattere in montagna? Si può insomma essere non testimoni oculari bensì testimoni “di un clima, di una scelta, di una posizione etica”? Con Tristano muore Tabucchi riflette sulla possibilità di raccontare la Resistenza in un momento di pericoloso revisionismo come quello della fine del Novecento, sulla validità di una testimonianza etica e non solo diretta, scatenando una feroce polemica sulla stampa del tempo. […]

Al centro del graphic novel di Costanza Durante ed Elisa Menini ci sono invece le partigiane delle Langhe, protagoniste di episodi di resistenza armata e di resistenza civile, in cui la sorellanza s’impone sempre sull’ideologia. […] Con La Rosa armata viene recuperata la spinta propulsiva delle prime immagini della Resistenza, quel loro proiettarsi in avanti, anche se la tensione verso il futuro è rivisitata in chiave solo femminile. […]

In occasione del 25 aprile 2024, Giovanni De Luna, interrogato da Paolo Di Paolo su come si possa celebrare il giorno della Liberazione “in un paesaggio sempre più spopolato di testimoni”, aveva risposto: “La fine dell’era del testimone non deve spaventarci. Bisogna continuare sì a studiare, ad approfondire, ma soprattutto a raccontare. Non bastano gli archivi: occorre farsi mediatori nel senso letterale del termine, consentire al passato di transitare nel presente, coinvolgendo anche una dimensione emotiva. Dirò così: facendo battere il cuore delle persone”.

La fiducia nel racconto, in una narrazione al di fuori della testimonianza, sarà allora l’arma migliore per continuare a fare memoria. D’altronde il discorso pubblico, come osservano Focardi e Peli, cercando di modellare una Resistenza “inclusiva” l’ha “narrata solamente nella sua veste più semplificata”, non considerando “la complessità, le molteplici e contraddittorie esperienze individuali e collettive”. Sono stati invece il cinema, la letteratura e il fumetto a essere finora riusciti a darci un’immagine plurale, complessa e contraddittoria della lotta antifascista attraverso personaggi plurali, complessi e contraddittori, come quelli raccontati in questo volume. E come quelli, ci auguriamo, che si continueranno a raccontare.



Drappi, partigiani e pane: Emma scopre la Resistenza

È uscito “Il segreto del naso di Rioba” di Vichi De Marchi: come una 15enne veneziana affronta (e spiega ai suoi coetanei) cos’è la Liberazione

“Emma pensò che nel mondo della Resistenza c’erano tante cose che non sapeva e che avrebbe dovuto imparare in fretta. Decise comunque di attendere pazientemente senza chiedere altro”. Ecco, per tutti i ragazzi che in questi giorni, a ridosso della festa della Liberazione, non avessero la stessa pazienza di Emma di attendere, ma volessero conoscere il più possibile e nel modo più diretto e immediato cosa è stata la Resistenza, c’è Il segreto del naso di Rioba di Vichi De Marchi (emonsraga) in libreria e in

audiolibro. A prendere per mano i suoi coetanei trasportandoli tra calli, fondamenta, isole della Laguna di Venezia è proprio Emma, 15 anni “da compiere” il 29 aprile 1945 e un unico desiderio: che la sua città torni colorata come il rosso con cui i partigiani hanno “osato” imbrattare muri, piazze e monumenti della grigia Serenissima schiacciata dall’occupazione nazifascista. Che arrivi finalmente la pace e che le porti in dono un libro di avventure.Ma per arrivare a quel giorno Emma, garzona del fornaio sior Bepi, il suo giovane collega Elio (aiutante in bottega e per la Resistenza) e suo fratello maggiore, l’adorato partigiano Mario, dovranno passare per ben altre dure avventure, sotto gli occhi attenti della statua porta-fortuna per antonomasia della città: Rioba che su tutto veglia e ogni segreto custodisce. CONTRO OGNI invito alla “sobrietà” dei festeggiamenti per la Liberazione, De Marchi – veneziana di nascita, giornalista e scrittrice già nella cinquina del premio Strega Ragazze e Ragazze 2016 nonché vincitrice del premio Procida - il mondo salvato dai ragazzini con Nato a Hiroshima(de Agostini, 2020) – prepara il giovane scopritore della storia eroica ma quotidiana (ahilei) di Emma alla grande festa finale. Ma al tanto agognato e sognato “vissero tutti felici e contenti” i ragazzi e le ragazze del 2025 arrivano solo dopo essere passati per il labirinto dei segreti di Venezia di 80 anni fa (anche da scoprire inquadrando i qr code attraverso i quali si accede a finestre segrete, parallele alla Storia).Le “operazioni dei partigiani”, il carcere di Santa Maria Maggiore, il vecchio Molino Stuchy, e infine il Teatro Goldoni in cui – anche e proprio grazie a una inizialmente inconsapevole e poi via via sempre più partecipe Emma – i partigiani riescono a portare in scena a sorpresa “la beffa del Goldoni”, per invitare gli astanti, seduti tra i gerarchi nazisti della città a ribellarsi.

Il segreto di Rioba

di segreti ne custodisce tanti, tra realtà e romanzo, ma tutti veritieri, ognuno possibile, come a dire a chi lo legge e assapora quella “vecchia” storia, che tutto è possibile, che ognuno, anche il più piccolo e ignaro tra i cittadini di ieri e di oggi è parte e ingranaggio del tutto. Del grande. Della storia del forno in cui lavora, la città unica e piena di orme – da Tintoretto a Goldoni – che ogni giorno inavvertitamente ricalca, a quella con la S maiuscola.

Un libro, quello di Vichi De Marchi necessario anche per i genitori che non sanno come spiegare, come accompagnare i propri ragazzi tra le strade intricate e folli che hanno portato alla Liberazione.

Un viaggio dolce, cullati dalle onde della Laguna, che porta per mano i nuovi ragazzi di oggi a vedere i loro coetanei del secolo scorso, costretti a crescere troppo in fretta e tra mille segreti.

Elly Schlein ha avuto il coraggio nel di squarciare il velo di ipocrisia su Papa Francesco che regnava sui banchi della destra e del governo in Parlamento ma poi salta la fila evitando code per la salma di papa francesco

 Ogni tanto    la leader    del  Pd    , roiesce  a  smarcarsi   dalle  correnti   e dai vecchi tromboni  del  partito   e  a  trovare  un po'  di coraggio    anche  se  è  solo  di circostanza   .   visto  che   

   






da il fatto d'oggi



La scomparsa di Papa Francesco ci priva di una voce significativa che ha saputo interrogare credenti e non credenti. Merita il nostro cordoglio.
Quello che non merita è l'ipocrisia di chi non ha mai dato ascolto ai suoi appelli e oggi cerca di seppellire nella retorica il suo potente messaggio. L’ipocrisia chi deporta i migranti, di chi toglie i soldi ai poveri, nega l'emergenza climatica, nega le cure a chi non può permettersele.
Il modo migliore per ricordarlo è cogliere l’esempio di coerenza tra quello che diceva e quello che faceva, sulla pace a Gaza e in Ucraina, il contrasto alle disuguaglianze, accogliere anziché respingere chi fugge da una guerra, cambiare un modello di sviluppo che sta creando disuguaglianze“.
Ecco chi era anche se con i suoi limiti e le sue retromarce ed ambiguita Papa Francesco Davvero. Ed ecco, soprattutto, chi sono quelli che oggi lo celebrano da morto.Dopo che per dodici anni lo hanno ignorato, combattuto con disinformazione e fake news , persino deriso da vivo e anche da morto non indignandosi e criticando la base del partito e dei loro simpatizzanti extraparlamentari .
Ora papa francesco




23.4.25

che importanza ha se una giornalista è truccata o meno . giudichiamola come i maschi per l'eventuale la serietà, la professionalità il caso degli attacchi a Valentina Bisti, Tg1 e Cesare Buonimici Tg5 ree di essere andate in onda senza trucco

Dopo il caso di giovanna Botteri criticata perchè non si tinge i capelli e compare con i capelli bianchi ecco i caso di due giuornaliste Valentina Bisti, Tg1 e Cesare Buonimici Tg5 attaccate e derise pechè andate in onda senza trucco .
Ora mi chiedo  🤔🙄😕🧐🤫 che importanza ha se una dona si trucca o meno ? A me piacciono le onne a l naturale senza trucco non rifatte senza lifting  . Infatti   non sapevo     che dire   che  una  donna sta  meglio   senza  trucco fosse  un offesa    \  insulto.  Come  una   se  una  donna   non truccata    non sia  bella  ed  affascinante  
 Però  allo stesso tempo mi chiedo  perchè piuttosto che valutare la serietà, la professionalità di queste due grandi giornaliste, si è guardato al loro lato estetico. Ma davvero ancora nel 2025 dobbiamo ancora valutare questo e non quanto una giornalista trasmette grazie alle proprie competenze o incompetenze dipende dai punti di vista . E poi , lo stesso discorso vale per noi uomini , bisogna sempre scegliere con la propria testa e mai farsi condizionare dagli altri. Molte volte pensiamo di dover cambiare per piacere agli standard che la società ci impone ma il bello è proprio questo, ognuno di noi è unico, autentico, originale! ndipendentemente     con i trucchi  o meno  .   Non dobbiamo cercare in tutti i modi di rientrare nei canoni di ciò che vogliono gli altri. Noi siamo noi, ed è questo che ci renderà sempre e semplicemente NOI... . 




quindi    cosa importa  se   uan donna  si trucca   a  meno  .  Io  le  preferisco  al naturale   , se  poi   truccarsi   o  rifarsi   la fa  sentire  meglio   più sicura   contenta  lei  .


Ma soprattutto non si deve cambiare per piacere a qualcuno, chi ci tiene veramente a noi ci ama per come siamo.



22.4.25

diario di bordo n 117 anno III ormai anche i cantautori si vendono alla pubblicità .,Vive in una cella foderata di libri e si laurea da dietro le sbarre: «Una rivincita per me» ., Storia di un ragazzo adottato: «Così ho saputo tutto sulla donna che mi abbandonò»

  Concordo    con   l'intervento  pubblicato il   19\4\2025   dal il  Fatto    quotidiano  ma

Sempre più frequentemente il cantautore, un tempo rigidamente schierato contro la commercializzazione della sua musica, rompe il confine fra tradizione e tradimento e vende i suoi diritti alla pubblicità riducendo brani storici a jingle per aziende.
Niente di nuovo, lo fece anche Modugno con “Nel blu dipinto di blu”, prestandola a Fiat e Alitalia.
Ma quella di De Gregori, Vecchioni, Ligabue, e indirettamente Gaber, è una rivoluzione copernicana non tanto per questioni di opportunità di monetizzazione ma perché toglie alla più nobile canzone d’autore il ruolo di sentinella e testimone del nostro tempo, così come proprio loro l’avevano sempre voluta intendere e trasmettere.
È precipitato improvvisamente il senso critico, quel fare
le pulci alla Storia che connotava nel profondo il loro verbo e la loro azione. L’indignazione e la protesta hanno lasciato il posto a teneri e rassicuranti sguardi sul mondo.
Forse i nostri cantautori si sono distratti, ma i percorsi storici delle aziende con le quali flirtano sembrano per loro improvvisamente essere solo costellati di operai di buona volontà che illuminano case al crepuscolo, di automobili romantiche custodi dei primi amori giovanili e di grandi strade sulle quali sfrecciano famiglie felici verso le vacanze.Tali itinerari invece sono stati anche spesso illuminati dai riflettori della cronaca e della magistratura. L’associazione così leggera di frasi come“la storia siamo noi”, “sogna ragazzo sogna” o “la libertà è partecipazione” a percorsi tanto controversi, sorprende non poco.Gli eredi di quelli che a buona ragione Umberto Eco definiva “cantacronache”, sembrano aver perso la loro stella polare e quel rigore nel procedere in “direzione ostinata e contraria” indifferente all’hit parade.Vasco Rossi tempo fa fece “mea culpa” dopo aver concesso due brani alla pubblicità, ricordando che la canzone non è solo di chi l’ha scritta ma anche di tutti coloro che l’hanno amata e magari impugnata in stagioni complicate per il nostro Paese.Forse questo messaggio nessun grande cantautore che abbia avuto il merito di non allinearsi dovrebbe mai dimenticarlo.

aggiungo     che    bisogna     distinguere     fra     chi    fa  il canta autore   o  cantante   per  mestiere  cioè vive solo  di  quello  e  è  quindi  è costretto a  prestare  il suo  ingegno  per  opere  d'indubbio gusto e   a

 [...] Colleghi cantautori, eletta schiera
che si vende alla sera per un po' di milioni
voi che siete capaci fate bene
a aver le tasche piene e non solo i coglioni
Che cosa posso dirvi? Andate e fate
tanto ci sarà sempre, lo sapete
un musico fallito, un pio, un teorete
un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate!
Guccini  -L'avvelenata  


e   fra    quelli   che    lo  fanno  per hobby  e passione    che posso o  essere   coerenti   o totalemente    cioè  a non vendersi   e imanete indietro o di nicchia oppure   ad  aprirsi al   al mondo circostante   cercando    di.  farlo  in maniera  etica    come  i caso  di  Blowin' in the wind' di Bob Dylan diventa uno spot  :  « [... ] della pubblicità del Co-operative Group; è la prima volta che Dylan concede un suo brano al mercato pubblicitario britannico. Il Co-operative Group gestisce vari servizi, tra i quali viaggi e pompe funebri, ma anche una rete di supermarket simile a quella delle Coop italiane; il rappresentante di Dylan ha riferito che la scelta dell'artista è stata influenzata dalla politica del Co- operative Group, che pone l'accento sul mercato equo e solidale e sull'impatto ambientale. »

Quindi attenzione  ⚠️  a giudicare un opera o un cantante

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Vive in una cella foderata di libri e si laurea da dietro le sbarre: «Una rivincita per me»


La sua è una resurrezione metaforica dall'inferno della galera, grazie allo studio, che ben si inquadra nel clima dei giorni di Pasqua. Accusato di mafia, anche se lui si è sempre dichiarato innocente, condannato a quasi dieci anni di carcere, è riuscito ad ottenere la laurea magistrale in Scienza della Formazione «frequentando» l'università da dietro le sbarre di un penitenziario di massima sicurezza. Lunedì scorso, 14 aprile, la discussione della tesi e la proclamazione del titolo di dottore nel campus di Arezzo dell'università di Siena.
Il titolo della ricerca con la quale il protagonista si è presentato davanti alla commissione è già significativo dell'intento con il quale lui ha affrontato gli ultimi due anni dei corsi accademici: «La formazione e il lavoro rendono l'uomo libero». La sintesi di un lavoro che nella sua seconda parte è in gran parte autobiografico, come spiega il professor Gianluca Navone, responsabile del polo universitario penitenziario senese, cui sono iscritti un centinaio di detenuti, che lo ha seguito da vicino nel suo percorso universitario.
Nome e cognome restano coperti dal segreto per ragioni di privacy e anche di sicurezza. Di lui si sa che è sulla cinquantina, siciliano della parte occidentale dell'isola, rinchiuso nel penitenziario di massima sicurezza di San Gimignano, provincia di Siena, dove sta scontando l'ultimo anno di una pena inflittagli per associazione mafiosa. Non ha mai commesso delitti di sangue ma sarebbe stato nella cerchia di un boss di prima grandezza, circostanza che lui ha sempre negato. In primo grado i giudici gli avevano dato ragione, ma in appello è invece arrivata la condanna, pesante, che gli è costata la reclusione in alcuni dei carceri più duri della penisola.
Molti, nella sua stessa condizione, avrebbero affrontato la pena con protervia o con disperazione, oppure con la cupa depressione dalla quale si fanno distruggere i tanti che non resistono all'esperienza carceraria, specie quella dei penitenziari di massima sicurezza. Non lui che invece ha trovato nell'università un'alternativa di vita capace di restituirgli la speranza.
Diploma di scuola superiore tecnica alla mano, ottenuto quando era ancora un libero cittadino, il detenuto senza nome aveva già conseguito la laurea triennale all'università di Urbino, quando era ancora rinchiuso in un altro istituto di massima sicurezza, quello di Fossombrone, nelle Marche.
Poi il trasferimento a San Gimignano e la decisione di arrivare fino al massimo grado degli studi, quello magistrale: Scienza della formazione, uno dei dipartimenti nati dalla vecchia facoltà di magistero che per l'ateneo di Siena si trova nel campus del Pionta ad Arezzo. Lo hanno seguito il professor Navone, il dottor Gioele Barcellona, che gli ha fatto da relatore di laurea, e alcuni studenti tutor, quelli cioè che hanno curato più da vicino il percorso universitario del neo-dottore facendogli da tramite con l'ateneo e il dipartimento. Anche loro meritano di essere ricordati: Mattia Esposito, Simone Pietrolati e Matteo Burdisso Gatto.Gli esami, spiega Navone, li ha affrontati in parte dentro il carcere, con il professore di turno che entrava nel penitenziario, dove c'è un'ala apposita, e in parte al campus aretino, con dei permessi speciali. «Ma quello che mi ha emozionato di più – racconta il docente – è stato l'impegno che ci ha messo. La sua cella è foderata di libri e anche quando, di recente, si è dovuto ricoverare in ospedale per un intervento piuttosto serio ha continuato a studiare. Siamo andati a trovarlo alla vigilia dell'operazione e lo abbiamo trovato immerso fra gli appunti, le dispense e i volumi. Dico al verità. Al suo posto non ce l'avrei fatta e mi sarei piuttosto preoccupato della malattia».
Poi finalmente, il gran giorno della laurea, nel quale gli si è stretta intorno tutta la famiglia: c'erano la moglie, una delle figlie anche lei in dirittura di arrivo all'università, l'anziano padre, i fratelli e i nipoti. L'altra figlia doveva affrontare l'ultimo esame universitario ed è stato lui a chiederle di rimanere in Sicilia a prepararsi. Davanti alla commissione il laureando si è presentato da solo, senza scorta di agenti penitenziari, con un permesso speciale previsto per occasioni come questa, doveva solo rientrare a San Gimignano entro un determinato orario.
C'è stata anche una festicciola con i parenti, l'hanno incoronato con il lauro come da tradizione per tutti i neo-laureati. «Ce l'ho fatta - tra le sue poche parole – ed è una rivincita pure per ribadire la mia innocenza. Nella tesi ho voluto raccontare la mia esperienza dentro il sistema carcerario, con dati oggettivi e pure con il mio vissuto personale».
Se la storia del detenuto con la laurea finisce qui, il professor Navone ha un altro cruccio: «Di recente – spiega – il Dap (il dipartimento per l'amministrazione penitenziaria del ministero della giustizia) ha introdotto una stretta sulla base della quale i detenuti nei carceri di massima sicurezza devono rimanere in cella almeno 16 ore al giorno. Il che significa la fine dello studio che prima i detenuti iscritti all'università conducevano in comune. Uno scambio di punti di vista ed esperienze che era utile a tutti, impedito adesso da questa norma inutilmente punitiva. Mi auguro che sia cambiata al più presto».




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Storia di un ragazzo adottato: «Così ho saputo tutto sulla donna che mi abbandonò»



Questa storia inizia a Bologna, anno 2018. Michael Petrolini compie 25 anni. È l’età, secondo la legge n.184/83, in cui ogni figlio adottato riconosciuto alla nascita può richiedere informazioni sui genitori biologici. Michael, quei nomi, li vuole sapere. Ma ci tiene soprattutto a
sapere che cosa abbia spinto sua madre a lasciarlo. Fa richiesta al tribunale per i minorenni di Bologna. Sul sito sono riportati i costi: 27 euro per la marca da bollo più 98 euro contributo unificato per la pratica. Lui paga, compila i moduli e aspetta: giorni, mesi. «Le tempistiche sono bibliche. Dopo quasi un anno, il tribunale finalmente mi contatta per dirmi che ho la possibilità di accedere al fascicolo. Vado e sembra di essere in edicola, ricevo un papiro di fogli con le informazioni sul mio passato e stop… Aiuti psicologici? Zero. Assistenti sociali? Zero. Dovevo cavarmela da solo, ero io e il mio passato».


In quei fogli, Michael rintraccia parte della sua infanzia. Scopre il nome di sua madre e quello di suo padre. Scopre che sua madre è napoletana, suo padre tunisino e non lo ha riconosciuto. Scopre di avere due fratelli e due sorelle. Racconta: «In quel momento ho completato un piccolo pezzo di puzzle, era pura curiosità sapere le mie origini, però si era aperto un altro capitolo. Mi chiedevo: e adesso, che cosa devo fare?». Fino a quel momento Michael-adulto conosce poco di Michael-bambino piccolo: sa che è nato a Torino, che ha vissuto con la madre biologica due anni e poi in una casa di accoglienza. Si interroga sulle sue origini già a scuola quando i compagni gli domandano: «Sei nordafricano? Sei brasiliano?». Lui è consapevole di avere dei lineamenti diversi, ma non risponde altro che «sono di Parma», città dove abita allora con i genitori e una sorella. Spiega agli amici che è stato adottato e ne va fiero.
Iniziare un viaggio dentro (e fuori) sé stesso significa sentire meno quel vuoto, che lui definisce durante l’intervista «buco da colmare». Come lui, sono in tanti e tante a chiedersi il perché dell’adozione. Un’indagine dell’Istituto degli Innocenti di Firenze e Regione Toscana inquadra il fenomeno prima del Covid. I dati risalgono al 2019. Non ci sono studi recenti a livello nazionale, assicurano a 7. Delle 226 persone che si sono rivolte allo sportello Ser.I.O. – il Servizio per le informazioni sulle origini – 140 sono uomini e donne adottate.
Il motivo prevalente: ricerca dell’identità familiare e la comprensione delle ragioni dell’abbandono (153 persone su 226 contatti). Altre ragioni: sapere l’identità della madre biologica (53 persone), conoscenza di eventuali fratelli e sorelle (12 persone), ricerca del luogo/regione di provenienza della famiglia (6 persone). Altre ancora: indicazioni sul padre «che non si è fatto carico del suo ruolo» (2 persone). Oltre a conoscere la famiglia naturale, in molti chiedono l’anamnesi familiare. Domandiamo a Michael perché è stato così importante per lui ricercare le origini. «Ognuno di noi ha il diritto di sapere chi è per costruire la sua identità, non mi sentirei mai completo se non sapessi che cosa è successo nel mio passato, è un buco da colmare che rimarrebbe vuoto, mentre obiettivamente la madre biologica lo sa, conosce le motivazioni per cui ti ha lasciato». Adesso sente di aver chiuso il cerchio? «Non del tutto, ma so che cosa è successo nei primi tre anni della mia vita, non è banale».
Per scoprirlo, appena riceve il fascicolo, Michael va a uno degli indirizzi segnati. Parte da Bologna e arriva a Reggio Emilia. Si ricorda che lì si trova anche la sua casa di accoglienza. La via riportata nel documento però non esiste più. Lui entra in un bar del quartiere e chiede se qualcuno conosce sua madre. Un tizio si ricorda di lei e della sorella. Dice a Michael di aspettare un altro cliente del bar. Questo signore arriva, lo riconosce, gli dice che lo guardava sempre da bambino, che conosce sua zia e sua madre. «Quel signore mi dà il contatto di mia zia, io la chiamo e in 20 minuti lei si precipita al bar». Sua madre è l’ultima persona che Michael incontra. Lei si presenta con il figlio più piccolo. «Non avevo ricordi insieme a lei, non me la ricordavo. Mi ha fatto piacere sapere come fosse fatta fisicamente. I miei parenti biologici per me erano stranieri, degli estranei, mi sono difeso molto a livello emotivo», ammette.
Michael abbassa appena la voce, fa un accenno su suo padre - «uno spacciatore di Reggio Emilia, che entra ed esce di galera» - e si sofferma invece a lungo su sua madre: «Le somiglio molto. Ho gli occhi, il naso e la bocca uguali ai suoi. Lei è una senzatetto, vive in una roulotte abbandonata, è cresciuta a Scampia e ha fatto parte della camorra. Mi hanno prelevato gli assistenti sociali perché vivevamo in mezzo alle macchine. Mia madre ha cinque figli da cinque uomini diversi, solo il minore è rimasto con lei, gli altri sono tutti stati adottati. Vive a Torino. Ora mia madre ce l’ha a morte con gli assistenti sociali, ancora crede che avrebbe potuto tirarmi su da sola. Però lei è una persona buona, cresciuta in un contesto disagiato, e questo aspetto mi ha fatto avvicinare». Vi sentite? «Abbiamo instaurato un rapporto, se la vedo ci abbracciamo, mi sono affezionato. Mi scrive per chiedermi soldi per pagarsi le visite o la ricarica telefonica. Io se posso l’aiuto, altrimenti no. Le ho fatto capire sin da subito che non sono qui per darle supporto economico». Michael spesso va a Torino a trovarla, lui è un regista e sta facendo le riprese per un documentario sulla sua storia.
Cita spesso i suoi genitori «che sono quelli adottivi». «Mi hanno fatto sentire amato, mi hanno lasciato spazio per indagare sul mio passato. Da loro ho preso l’umiltà e l’educazione. Ma ho preso tanto senza volere anche da mia madre biologica: il bisogno di spostarmi, la creatività, l’adattamento in situazioni difficili». Anche sua sorella aspetta di conoscere i nomi dei genitori biologici. Ricorda: «Sono quasi tre anni che è in attesa del fascicolo dal tribunale per i minorenni di Bologna. C’è molto menefreghismo. Si parla tanto dell’accompagnamento alle famiglie, ma dovrebbe esserci anche un percorso per i giovani-adulti alla ricerca delle proprie origini».
Quest’altra storia invece comincia a Bergamo, anno 2021. Sara (nome di fantasia) cerca le sue origini vari anni dopo la morte dei genitori. È per loro che ci chiede di proteggere la sua identità con l’anonimato, «una questione di rispetto». In tutta l’intervista ripete molte volte di essere fortunata. «Ho avuto una storia adottiva felicissima». Lei, il vuoto descritto da Michael, non lo ha mai sentito. «Non mi sono mai sentita abbandonata, i miei genitori mi hanno adottata neonata e mi hanno detto quel poco che sapevano sulla famiglia d’origine». Il suo è stato un parto in anonimato, sua madre biologica non l’ha riconosciuta quando è nata. Varrebbe il comma 7 dell’articolo 28 della legge 184 del 1983 che impedisce a figli e figlie di conoscere il nome della madre biologica che ha deciso di «non voler essere nominata», a meno che la madre non sia deceduta.
Ma quanti sono i bambini abbandonati alla nascita? In Italia se ne contano quasi 300 ogni anno, secondo un vecchio studio della Società italiana di Neonatologia. Contattata da 7, la Sin evidenzia che adesso «non ci sono dati abbastanza aggiornati» e quei numeri non comprendono i neonati lasciati fuori dalle strutture ospedaliere.
Il caso di Sara pone sotto un cono di luce una questione molto discussa: il diritto della madre di non voler essere nominata prevale sul diritto del figlio di conoscere le proprie origini? Nel 2012, la storia di Anita Godelli, che a 69 anni si oppone al divieto della legge 184 di conoscere l’identità della madre, segna un prima e un dopo nella giurisprudenza. In quell’anno, la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per aver violato l’articolo 8 della Convenzione, definendo la normativa italiana più a favore della tutela dell’anonimato della madre biologica. L’anno dopo, un’altra sentenza della Corte costituzionale dichiara in parte illegittima la legge perché non consente al figlio di fare interpello.
Nel 2024 l’associazione ItaliaAdozioni (italiaadozioni.it) depone una proposta di legge in Senato per modificare la normativa sulle adozioni. Tra i vari punti c’è anche quello di uniformare gli iter in tutti e 29 tribunali per i minorenni e consentire l’interpello della madre biologica nei casi non riconosciuti alla nascita. «Adesso chi è nato con parto in anonimato e vuole andare alla ricerca della propria storia può recarsi in tribunale e chiedere di interpellare la madre biologica per sapere se è ancora intenzionata a mantenere l’anonimato. Questa però non è una legge, è una soluzione che hanno trovato i tribunali e si applica in modo diverso da Regione a Regione», spiega Ivana Lazzarini, presidente di ItaliaAdozioni. Poi sottolinea: «Adesso in tanti portano avanti ricerche sulle proprie origini in totale autonomia. Vanno sui social e cercano nomi e cognomi dei familiari. Questa pratica è pericolosa, potrebbe diventare un gesto violento nei confronti di chi non vuole essere rintracciato. Online si possono comprare anche i test genetici che fanno scoprire le provenienze. Che cosa si aspetta a cambiare la legge italiana? Ormai è anacronistica».
A 51 anni Sara vuole chiudere il cerchio. Quando avvia la ricerca assicura di non avere nessuna urgenza. Da Bergamo parte per Milano, città dove è nata. «Vado all’archivio storico e chiedo di accedere ai miei dati personali per ragioni sanitarie. Non mi interessavano i dati sensibili di mia madre o di un eventuale padre. L’archivista mi dà il fascicolo sanitario e mi propone di fare la domanda al tribunale per i minorenni. Mi dice: “La vedo così risolta che dovrebbe provarci”». Sara usa più volte le parole «risolta» ed «equilibrata» quando si descrive. «Risolta» ed «equilibrata» glielo dice anche la giudice onoraria con cui fa il colloquio conoscitivo al tribunale per i minorenni di Brescia (il tribunale di riferimento per chi vive nella provincia di Bergamo).
«A quella giudice racconto della mia vita felice di figlia adottiva, le dico che essere adottata non era né un assillo, né un problema. E le preciso anche che vorrei sapere le circostanze per le quali mia madre biologica avesse deciso di lasciarmi», racconta. Sara aspetta due anni prima di avere delle risposte, la sua pratica rimane a lungo nei cassetti del tribunale. Lei chiede aiuto a un avvocato. «Loro ti dicono che non serve un legale, invece io lo consiglio: al tribunale si erano dimenticati del mio caso perché la giudice era stata trasferita. Poi si sono scusati». Nel 2023 ottiene il fascicolo e scopre che sua madre biologica è lombarda ed è morta molti anni prima che lei iniziasse la ricerca. Scopre che lei, Sara, è nata in casa e quando sua mamma è rimasta incinta lavorava fuori dal paese e non era coniugata.
Sara abbassa gli occhi per leggere qualche appunto che tiene sotto il mento. Dal fascicolo scopre di avere un fratello più grande, anche lui deceduto molti anni prima. Le chiediamo quali emozioni le abbia suscitato. Risponde prima «dispiacere», poi «gratitudine»: «Dopo un po’ di tempo sono andata al cimitero del paese di mia madre e le ho portato un fiore sulla tomba, almeno ho visto una sua foto. Un gesto così vuol dire doppia gratitudine, significa grazie per avermi dato la vita potendo decidere diversamente e grazie per avermi permesso di avere i miei genitori».

La scomparsa di Papa Francesco, testimone di Umanità di © Cristian A. Porcino Ferrara alias filosofoimpertinente

da   https://lerecensionidelfilosofoimpertinente.blogspot.com








In molti lo avete attaccato in ogni occasione per ogni suo gesto di apertura verso gli altri. Lo avete denigrato, chiamato usurpatore, antipapa, sinistrorso, massone e preso in giro per le sue encicliche sociali. Da non credente l'ho sempre rispettato e criticato senza fargli sconti ma con la consapevolezza che il suo pontificato è riuscito a portare il sorriso e la pacificazione dopo anni di ratzingerismo opprimente che ha fatto male a molti di noi (in)visibili. Non sempre è riuscito in questa ardua impresa ma lo sforzo, rispetto ai predecessori, c'è stato. Eravamo e resteremo su molte questioni agli antipodi ma riconosco il merito delle sue azioni in favore di una inclusività maggiore per tutti dentro la Chiesa. Francesco ha mostrato il volto umano del Vangelo mostrandosi come uomo anziché come Capo supremo del cattolicesimo. Mi auguro che il suo esempio non verrà archiviato dal suo successore e che l'attenzione verso gli ultimi continuerà ad essere una prerogativa del prossimo pontefice. La Chiesa deve aprirsi a tutti e la strada che Bergoglio ha aperto deve continuare ad essere percorsa.

© Cristian A. Porcino Ferrara

CHI LO DICE CHE I CON IL PROIBIZIONISMO SI RISOLVONO I PROBLEMI DELLE DROGHE



Chiariamo subito cosa intendo con il termine “legalizzazione”. Significa regolare, controllare e supervisionare. Detto questo, da molti anni penso senza pregiudizi a riforme volte a legalizzare la vendita e la coltivazione di stupefacenti, sotto il diretto controllo dello Stato, privando la mafia del controllo assoluto sul mercato . Tanto ormai  è penetrata  fino    talmente  tanto   nelle  cose  legali  che  il proibire  non  serve  quasi più .la  mia  teoria  , come  quella  dei radicali    e  dei liberal  ,  si basa sulla "libertà condizionata" nella produzione, vendita e consumo di stupefacenti, il che esclude ovviamente la
nascita di un libero mercato. Secondo questa linea di pensiero, consentire la produzione, il commercio e il consumo entro limiti del tutto legali produrrà   anche  senza dubbio dei benefici. Penso che, indipendentemente da ciò che la gente pensa sulla legalizzazione delle droghe, l'argomento dovrebbe essere discusso senza oltrepassare il limite del tabù. Molti Paesi (in particolare il Portogallo) stanno rivedendo le proprie politiche in materia di droga e approvando alcune riforme che possono essere controverse ma in realtà efficaci (la legalizzazione della marijuana sta diventando popolare in sempre più Paesi). Una soluzione ai numerosi danni causati dalle droghe potrebbe essere quella di legalizzarle tutte.So che molte persone salteranno in piedi e diranno che il professor Musacchio è impazzito. Cercherò invece di dimostrare non solo che questa tesi può essere sostenuta, ma presenterò anche argomenti oggettivamente indiscutibili a suo sostegno.In primo luogo, ci sono le riforme attuate in Portogallo. Tutte le droghe lì sono legalizzate. Il governo portoghese ha utilizzato i fondi risparmiati mantenendo una politica proibizionista minimalista per investire nell'istruzione, nella riabilitazione e nel reinserimento sociale dei tossicodipendenti. I risultati sono evidenti a tutti. L'uso di droga, i decessi correlati alla droga, la criminalità e tutto ciò che è associato a questo male sociale sono diminuiti drasticamente. Un altro aspetto positivo da considerare è il conseguente crollo del mercato nero della droga e dei profitti o almeno  una  parte  d'essi  das parte dele mafie  . Non potranno più arricchirsi almeno in quel campo  perché la loro principale fonte di reddito verrà meno. Chi chiederebbe aiuto ai criminali quando può facilmente e legalmente acquistare gli stupefacenti in farmacia? Finché questi ultimi saranno venduti illegalmente, ci saranno sempre persone disposte a trarne profitto.Se le droghe fossero legalizzate, il mercato nero diminuirebbe. Questo nuovo approccio giuridico, terapeutico e farmacologico è riscontrabile anche negli Stati Uniti. Sebbene pochi Stati abbiano legalizzato la marijuana e l'hashish, i cartelli della droga messicani, principale fonte di approvvigionamento, hanno subito un duro colpo finanziario (Fonte: DEA). Non si può sottovalutare il fatto che la "droga di Stato" diventerà più sicura. Se venisse così regolamentata, i produttori sarebbero obbligati a rispettare standard di purezza specifici e rigorosi, garantendo a tutti i consumatori un prodotto di qualità. D'altro canto, gli stupefacenti odierni sono mescolati con veleno per topi, polvere di mattoni, gesso e altri tipi di additivi. La tossicodipendenza, inoltre, è legata alle circostanze della vita di una persona piuttosto che agli effetti della droga in sé. Quest’ultimo aspetto non è da sottovalutare.Ulteriore problema da vagliare, inoltre, è che attualmente le nostre forze dell'ordine dedicano gran parte del loro tempo ad arrestare consumatori di droga e piccoli spacciatori. Se le droghe fossero legali, questo non sarebbe un problema. I sistemi giudiziario e carcerario diventerebbero più efficienti. Un'altra conseguenza del proibizionismo è l'elevato numero di tossicodipendenti detenuti (sovraffollamento delle carceri), che porta inevitabilmente al collasso dell'intero sistema penale. La legalizzazione contribuirebbe a eliminare molte di queste problematiche. Non dobbiamo comportarci come lo struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia per non affrontare la realtà. Diverse droghe, legali e illegali, sono già utilizzate in modo responsabile da persone di tutti i ceti sociali. Alcune persone fanno uso di sostanze come la cocaina responsabilmente, senza che ciò alteri negativamente la loro vita quotidiana. Allora perché considerarle illegali, quando sostanze come alcol e sigarette sono disponibili legalmente in tutto il mondo? Lo Stato dimostra ipocrisia quando mantiene un approccio proibizionista sulle droghe, mentre consente liberamente la vendita di tabacco e alcolici, che causano migliaia di morti ogni anno. Con riforme simili, Paesi come Messico, Colombia, Perù e Afghanistan smetterebbero di essere dominati dai cartelli della droga. I grandi cartelli del narcotraffico non continuerebbero a godere degli attuali profitti smisurati. Migliaia di vite verrebbero salvate, poiché il proibizionismo sta mietendo più vittime di quanto riesca a proteggerne. Sono convinto che un mercato legale delle sostanze stupefacenti potrebbe anche educare, assicurando al consumatore la sicurezza del prodotto acquistato e contribuendo a prevenire le morti per overdose e la dipendenza. Legittimare questo mercato potrebbe fermare la violenza tra bande criminali, infliggere un duro colpo ai guadagni dei cartelli, ridurre gli omicidi e la corruzione tra tutti gli attori coinvolti. Ritengo che questi siano motivi più che sufficienti per riflettere seriamente e intraprendere un cammino verso la legalizzazione delle droghe. La priorità assoluta dovrebbe essere salvare il maggior numero possibile di vite. Sono consapevole delle complesse sfide associate alla legalizzazione di tutte le droghe e dei possibili problemi che potrebbero sorgere. So che, qualora accadesse, non si tratterebbe di un processo rapido poiché globale. Tuttavia, credo fermamente che sia importante avviare almeno una discussione libera da pregiudizi insormontabili su questo tema.


21.4.25

Quando la zia è più famosa di Mick Jagger: storie italiane dal Perù L’artista Rosa Elena Polastri racconta la sua italianità

Milano, 14 apr. (askanews) – (di Cristina Giuliano)
“La mia famiglia non ha mai smesso di essere italiana: il bisnonno, mio nonno, loro parlavano in italiano e avevano il doppio passaporto; ed io che ho sposato un italiano, pur essendo nata in Perù avevo già i miei documenti prima del matrimonio, il mio passaporto italiano”. A parlare con askanews è Rosa

Elena Polastri, artista che oggi risiede a Milano dove ha partecipato in questi giorni di Design Week alla collettiva Milano-Lima II “The colors of the light in art and architecture”, (Exhibition of Architecture and Art, between Perù and Europe). Polastri è un cognome che ‘suona’ a Lima, una dinastia di artisti e non solo: una famiglia che al suo interno contiene uno dei fondatori del primo Partito socialista peruviano (Remo Polastri) e anche una vera star della tv, Yola Polastri: quella stessa che Mick Jagger incontrò nella hall di un hotel a Iquitos, nell’Amazzonia peruviana e che avvicinò, incuriosito di sapere chi fosse quella donna a cui la gente continuava a chiedere autografi (mentre nessuno li chiedeva a lui).

 


L’aneddoto del leader dei Rolling Stones è passato alla storia, immortalato in una foto che Rosa Elena Polastri ci mostra dal cellulare ed “è stato più volte ricordato lo scorso anno in Perù, quando Yola ci ha lasciati”, spiega Rosa Elena. “Lo stesso Jagger lo ha menzionato nella sua autobiografia”, aggiunge divertita da quella selva di destini incrociati che è la sua famiglia, in quel Perù, immortalato così bene da Mario Vargas Llosa, uno dei più grandi scrittori della nostra epoca che ci ha lasciato proprio in queste ore. Un Perù che acquista una forte impronta italiana nelle storie di famiglia che la stessa Rosa Elena Polastri ha ricostruito e sta ricostruendo. Quindi si parlava italiano in famiglia?, le chiediamo. “Mio papà lo parlava, mio nonno lo parlava e tutti lo parlavano tra italiani; si sposavano tra italiani. Tanto è vero che a Lima c’è un quartiere che si chiama La Vittoria, e questo quartiere era un quartiere milanese, perché c’era gente che veniva dal nord Italia; c’erano le case di ringhiera, davvero. Mia mamma le chiamava case con un solo bagno, perché su ogni piano c’era un bagno per tutti, proprio come le case di ringhiera di Milano. Io l’ho scoperto dopo, quando sono arrivata qua. Per me erano cose antiche, racconti dei nonni, però erano una realtà che poi ho rincontrato per le strade del capoluogo meneghino”. Le origini di Rosa Elena Polastri – ci racconta – sono dal vercellese, da Genova e da Firenze. “Soprattutto in Perù l’immigrazione è arrivata dal nord (Italia), mentre in Argentina c’è un’immigrazione del sud, da dove arrivava la mano d’opera. In Perù invece approdavano molti italiani con capitali per costruire, per fare cose”. Il trisavolo di Rosa Elena si chiamava Romeo Polastri, sposato con la fiorentina Maria Bianchi: “aveva la sua nave personale, andava e tornava dall’Italia, aveva i suoi impiegati, era ricco”. Una vita in viaggio d’affari, tra San Francisco, Panama, Vercelli e Firenze. Una vita rocambolesca, in un mondo che all’epoca era davvero violento e pericoloso. “Alla fine dell’Ottocento arrivarono in Perù, con moglie e figli. Tanto è vero che il mio bisavolo è nato nel 1869. Ventenne si è sposato con una ragazza peruviana, morta poco dopo. E dopo dieci anni, si è risposato con un’altra signora, figlia di italiani. Il cognome era Emanuelli Guassotti, italianissimo. Lei nata in Perù, era figlia di italiani. Questa è la mia bisavola”. La preponderanza di artisti in famiglia è evidente. “Il mio bisavolo (Romolo), suo fratello (Remo), che era il nonno di Yola Polastri facevano i pittori. Uno faceva i fondali, l’altro gli angioletti. Comunque entrambi erano artisti. Avevano studiato a Firenze, dove la loro mamma li aveva tenuti prima di trasferirsi. Il terzo fratello, andato a vivere in Equador, invece era fotografo”. Remo poi “diventa politico, frequenta i più importanti salotti di Lima ed è tra i fondatori del primo partito socialista peruviano”. I racconti di Rosa Elena Polastri si dipanano nel tempo e arrivano sino a quando i suoi genitori si incontrano per la prima volta: suo papà, Carlos Humberto Polastri Da Silva, conosce sua mamma a una “festa di quartiere alla Vittoria, perché entrambi vivevano” nel quartiere italiano. “Moltissimi italiani vivevano lì, erano figli di italiani ma nati lì, per cui si sentivano peruviani, ma orgogliosissimi dell’origine europea”, spiega. “Mia mamma era Hilda Matilde Ramirez Riofrio. Era metà italiana e metà spagnola”, sottolinea. “E Riofrio è un altro cognome con una storia a Lima”, aggiunge. Insomma davvero tanta storia e tanta arte nel Dna e in famiglia. Non soltanto una zia più popolare dei Rolling Stones in Sud America, “talmente popolare che ne hanno fatto anche una Yola, una barbie, insomma una bambola a New York”. Ma soprattutto le origini italiane, che hanno sempre avuto un’impronta forte nella vita di Rosa Elena Polastri. “Italianità è una parola che per me vale tanto. Quando io mi sono presentata all’università, la prima cosa che mi hanno chiesto, è stata se io avevo origini italiane, se avevo qualche parente pittore. Ho detto di sì. Penso che sia stato decisivo per farmi ammettere. Essere italiana ed essere un’artista era una marcia in più ed è una cosa che sento. Per me era come un mio dovere fare la pittrice, non so come spiegarlo, perché fin da piccolina, da quando avevo tre anni, sapevo già disegnare. E la mia capacità artistica è una specie di sinonimo della mia italianità. O almeno, io la vivo così”.

ipocrisia dei politici alla salvini e mancanza di rispetto del pontefice di alcuni ecclesiastici neppure dopo morto

 Se esiste un’unità di misura dell’ipocrisia e della miseria è  quella  contenuta nelle otto parole otto che Matteo Salvini ha dedicato alla morte di Papa Francesco:“Papa Francesco ha raggiunto la Casa del Padre”.E  fin qua   è un ipocrisia  tollerabile   e  più o meno accettabile . Se non fosse    che   Lo stesso Salvini che mostrava orgogliosamente la maglia in omaggio a Papa Benedetto XVI. Non riconosceva neanche Bergoglio come Papa.   .
 Ma     quello  che  più  indigna  e  fa  arrabbiare  è il  fatto che lo stesso   Salvini che, per dodici anni, lo ha offeso, insultato, l’ha persino perculato con dei video sui social - finendo per percularsi da solo.Lo stesso che lo considerava un comunista, un estremista, un traditore perché osava parlare di ultimi, di


fragili, di stranieri, di “salvare vite in mare”.Io   non dimentico  , come  credo alcuni  voi   Di fronte a questo gigante del nostro tempo,   anche con i  si suoi lati negativi  (  chi non  ne  ha  scagli la  prima pietra  ) uno come Salvini oggi, almeno oggi, dovrebbe avere il buon gusto di chiedere scusa. E poi tacere.
Ma  quello   che  più  fa  rabbia  e  lascia più sgomenti  e la  mancanza    di rispetto  da  paerte  di alcuni esponenti  della sua  stessa  chiesa  .


Arcivescovo Carlo Maria Viganò
@CarloMVigano·
7h

Nel 2018, Eugenio Scalfari riferì le parole che Bergoglio gli avrebbe confidato a proposito della sua visione dell’Aldilà: “Le anime peccatrici non vengono punite: quelle che si pentono ottengono il perdono di Dio e vanno tra le fila delle anime che lo contemplano, ma quelle che non si pentono e non possono quindi essere perdonate scompaiono. Non esiste un inferno, esiste la scomparsa delle anime peccatrici”. Questi farneticamenti ereticali si oppongono direttamente alla Fede cattolica, la quale ci insegna che esiste per tutti un Giudizio particolare, cui Bergoglio non ha potuto sottrarsi. La sua anima
non è dunque scomparsa, né si è dissolta: egli dovrà rendere conto dei crimini di cui si è macchiato,
primo fra tutti l’aver usurpato il soglio di Pietro per distruggere la Chiesa Cattolica e perdere tante anime. Ma se questo non-papa e anti-papa non potrà più nuocere al Corpo Mistico, nondimeno rimangono i suoi eredi, gli eversori che egli ha invalidamente creato “cardinali” e che da tempo si organizzano per assicurare un continuatore della rivoluzione sinodale e della destrutturazione del Papato. A dar loro manforte, accorrono i Cardinali e i Vescovi conservatori che si sono ben guardati dal mettere in discussione la legittimità di Jorge Bergoglio. È su costoro che grava la maggiore responsabilità per gli esiti del prossimo “conclave”.





Mi  chiedo ma   che razza   di chiesa  hanno in  mente tali  persone  che  non hanno   nepure  riuspetto   dei  morti   . E quano  era   ancora  in vita   alimentavano la  loro opposizione  ( comprensibile  se  la  si  guarda  da  un  punt tradizionalista   )    con fakenews  e  complotti . E quanoil papa gli ha dovuto  scomuncare  per  mantenere  l'unità della  chiesa   visto  che    continuavano  a minarla   con le  loro , assurrde  per la maggior  parte    dei casi , loro  hanno frignato  come i bambini  .Per  poi  contniare   ,  come  dimostra  il post  riportato sopra   , a lanciare  il loro veleno . Ecco  uno  dei motivi  per  cui    compresi quelli che  credono   e  pratiucavano  , abbandono la messa  alla  domenica  o in casi più estremi  rifiutano i  sacramenti    o  non si sposano  in chiesa  .  E    si rifuggiano  in una spiritualità \  fede  più intima  e  privata  . 

Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti

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