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14.9.25

la giornata dei minatori

   canzone  suggerita  \  colonna  sonora 
  sfiorisci  bel  fiore  - enzo janacci 


miniera  di porto flavia  

Rischi di crolli, esplosioni e pochi diritti. Queste erano le condizioni di lavoro dei minatori fino all’inizio del Novecento: siamo stati in Sardegna per ripercorrere la giornata tipo del minatore.

per chi vuole approfodire Storia mineraria della Sardegna - Wikipedia oppure  il  video   qua  sotto 






 ⁕ Il fiore di campo nasce in miniera, luogo di sofferenza e simbolo della fatica e dello sfruttamento dell'uomo, e diventa l'inciso che sottolinea le altre situazioni drammatici che propone la canzone: la guerra e la morte per amore.Sarà un fiore vero e proprio o un fiore smbolico (non appare molto probabile che un fiore possa nascere in una miniera sotto terra), per esempio una giovane o giovanissima donna che porta luce e amore per un breve periodo nella vita di un minatore, come Arletty-Clara nel film Alba tragica innamorata dell'operaio Jean Gabin? (è un film del 1939 di Marcel Carnè sceneggiato da Jacques Prevert, un capolavoro).In ogni caso una immagine molto forte che illumina questa bella canzone, molto diversa dal resto della produzione di Enzo Jannacci, e che si iscrive pienamente nel campo delle canzoni di miniera. da   Musica & Memoria / Enzo Jannacci - Sfiorisci bel fiore  

La guerra nella striscia di Gaza "Ce ne andiamo per non essere complici" Dan e la moglie Sabrine hanno scelto l'esilio, volontario e sofferto. Lui è ebreo israeliano, lei palestinese del 1948, con passaporto israeliano

da Rainews 2413 settembre 23:42 Veronica Fernandes


Èuna vendetta. L'obiettivo è distruggere Gaza e rendere impossibile la vita dopo. Mi si spezza il cuore se penso che le persone con cui ho protestato per anni sono d'accordo con questa guerra.
È per questo che Dan e la moglie Sabrine hanno scelto l'esilio, volontario e sofferto. Lui è ebreo israeliano, lei
palestinese del 1948, con passaporto israeliano. Tra pochi giorni lasceranno la loro casa di Ramat Gan per Londra.
Sono stata licenziata per aver manifestato dopo il 7 ottobre, ci dice Sabrine, insegnante di arabo in una scuola bilingue. Dire agli studenti sono palestinese è ormai considerato una provocazione. Lo spazio per loro è sempre più sottile.


In Israele il matrimonio interreligioso non è previsto. Le coppie miste, meno del 2%, sono avversate e odiate dall'ultra destra messianica, il sistema contro cui Dan si è rivolto da una vita. Sabrine invece, per la sua unione con un ebreo, ha visto la famiglia respingere sia lei sia le sue figlie.
Per l'anniversario della Nakba sono stati tutti e quattro vicino al villaggio di Sabrine, soffocato ora dai coloni. Israele è sempre stata una democrazia parziale, lo era per gli ebrei ma non per i palestinesi. Ora la parte non democratica di Israele aggredisce anche gli ebrei.
Ce ne andiamo per non essere complici, è il senso di Dan alla loro partenza. Sabrine lo completa con le parole di sua damiere nel romanzo La madre degli stranieri sulla distruzione di Old Jaffa durante la Nakba. Al padre, che gli nega di portare nell'Esodo il gatto, Samu chiede, quando torneremo? Presto, se Dio vuole, gli risponde il padre, il nostro nome è nella lista, ma poi, come ora tutti sanno, nessuno è tornato.













Zuckerberg ( avvocato ) fa causa a Zuckerberg ( Meta ) perchè viene bloccato dagli algoritmi di META

 da  il  Fatto quotidiao  del  14\9\2025  

                            VIRGINIA DELLA SALA

Ha speso circa 11 mila dollari di inserzioni sulle piattaforme di Meta, a partire da Facebook, ma puntualmente la sua pagina è stata buttata giù perché accusata di contenuti fraudolenti. Negli ultimi otto anni è successo almeno cinque volte. La colpa? Chiamarsi Mark Zuckerberg, come il fondatore di Meta. È la lunga storia (perché iniziata nel 2017) di un avvocato dell’indiana specializzato in bancarotta che, come raccontato dal New York Times, ancora oggi non riesce a trovare soluzione nonostante nel corso di un programma televisivo Meta abbia assicurato di essere consapevole del problema di omonimia nel mondo e di star cercando di risolvere la questione quanto prima. I sistemi di rilevazione automa delle piattaforme, infatti, sono abituati a ‘buttare giù’ quasi in automatico i contenuti problematici e poi eventualmente a ripristinarli qualora si vincano i ricors

Ha speso circa 11 mila dollari di inserzioni sulle piattaforme di Meta, a partire da Facebook, ma puntualmente la sua pagina è stata buttata giù perché accusata di contenuti fraudolenti. Negli ultimi otto anni è successo almeno cinque volte. La colpa? Chiamarsi Mark Zuckerberg, come il fondatore di Meta. È la lunga storia (perché iniziata nel 2017) di un avvocato dell’indiana specializzato in bancarotta che, come raccontato dal New York Times, ancora oggi non riesce a trovare soluzione nonostante nel corso di un programma televisivo Meta abbia assicurato di essere consapevole del problema di omonimia nel mondo e di star cercando di risolvere la questione quanto prima. I sistemi di rilevazione automa delle piattaforme, infatti, sono abituati a ‘buttare giù’ quasi in automatico i contenuti problematici e poi eventualmente a ripristinarli qualora si vincano i ricorsi. Il nome di Zuckerberg, come è anche ovvio, deve essere collegato ad accorgimenti particolarmente stringenti. Il problema, pare, è che i soldi delle inserzioni vengono spesso utilizzati anche nel momento in cui le pagine sono sospese. Lo stesso avvocato ha reagito molto “sportivamente”: dice che non augura alcun male a Mark Zuckerberg (quello miliardario, non lui, ed è anche generoso: “Se dovesse attraversare un periodo finanziariamente difficile e dovesse trovarsi in Indiana, sarò lieto di occuparmi del suo caso in onore del nostro eponimo” ha aggiunto. I suoi problemi, ovviamente, vanno oltre internet. Ha raccontato di non poter utilizzare il suo nome quando prenota i ristoranti o per affari “perché la gente pensa che io stia facendo uno scherzo e riattacca il telefono”. Non è certo l’unico caso di problemi di omonimia sui social network. Un’artista qualche anno fa ha visto il suo account Instagram bloccato con la motivazione che stava fingendo di impersonare qualcun altro. In particolare, il suo account, creato molti anni prima, fu rimosso per impersonificazione ma poi ristabilito dopo due giorni: si chiamava @metaverse, come il progetto lanciato da Meta. Oppure accadeva che utenti con cognomi “non convenzionali” come quelli dei discendenti dei nativi americani non superassero l’iter della verifica del nome. Anche in questo caso sono stati necessari aggiornamenti.

Corsa, fatica e record di maratone . Silvia Cancedda, 48enne di Carbonia«Ho iniziato a 40 anni, quante emozioni sulle strade di Sidney e New York»

 unione  sarda  14\9\2025


La sveglia, quasi ogni mattina, è alle 6. È attesa da almeno venti chilometri di corsa. Che ci sia pioggia o vento, afa o gelo, prima di calarsi nei panni dell’assicuratrice, mestiere che le dà da vivere, indossa quelli della maratoneta, passione che le nutre lo spirito. E che, benché non più ragazzina, l’ha proiettata nell’olimpo dilettantistico di una disciplina tanto antica quanto carica di suggestione: Silvia Cancedda, 48enne di Carbonia, è la prima atleta sarda ad aver conquistato il riconoscimento speciale: aver disputato le sette più importanti maratone al mondo. In Italia sono solo 28 donne ad aver raggiunto questo risultato.
L’ultima impresa
Pochi giorni fa ha corso la maratona di Sidney. In precedenza ha preso parte, giungendo sempre al nastro finale grosso modo dopo quattro ore di fatica estenuante, a quelle di New York, Tokyo, Boston, Londra, Berlino, Chicago. E al traguardo, ad attenderla, c’è sempre stata la bandiera dei quattro mori sventolata dal marito Danilo Pes. In sostanza ne ha corso una all’anno, dato che questa avventura atletica è iniziata con l’impresa di New York quando di anni ne aveva 40. Da allora, segue una filosofia: «Il tempo per me non conta: contano le emozioni che ti danno gli spettatori, gli scenari urbani che si attraversano, l’intimità del pensieri con cui si fanno i conti nelle lunghe ore della competizione».
Gli allenamenti
Levataccia all’alba, Silvia Cancedda si allena in prevalenza in città, negli impianti o sulla ciclabile che porta a San Giovanni Suergiu. II suo rapporto col lo sport non è stato immediato: «Ho iniziato attorno ai 20 anni con nuoto e corsa, poi attorno ai 40 la folgorazione per questa disciplina che è un lungo viaggio: inizia durante la preparazione atletica, che in sostanza si può considerare come la vera maratona, e finisce il giorno della gara per poi ripartire quando mi pongo nuovi obiettivi».
Le nuove sfide
Silvia Cancedda non si accontenta perché il limite delle sette maratone più rinomate al mondo potrebbe essere superato: «Si ipotizza a livello internazionale di includerne altre due, se la forma e la salute mi accompagnano ci sarò». Delle sette imprese, due le sono rimaste impresse: «L’ultima a Sidney – rivela – corsa dopo che per giorni ho dovuto fare i conti con la febbre ma ormai indietro non si tornava, e la prima sei anni fa a New York perché è stato l’esordio, è stata la più dura e per il fascino di quella metropoli».Silvia Cancedda non si è limitata a conservare per se stessa questa passione: ha fatto proselitismo: «Batti e ribatti ho convinto alcuni amici a lanciarsi in questa avventura e partiranno per la prossima maratona di New York: un altro pezzo di Sulcis alla conquista dell’America».

L’insegnante di Capoterra al ministro Valditara: «Ogni giorno 150 chilometri per arrivare a scuola, mi rimborsi lei»

 nuova  sardegna  del  14\9\2025

Alessandra Boi insegna all’istituto comprensivo di Villasimius: «Almeno 300 euro di benzina al mese, lo stipendio sarà sempre inferiore ad altri colleghi»


« Onorevole Ministro Valditara, Mi rivolgo a lei in qualità di insegnante di scuola primaria, attualmente assegnato a una sede di lavoro che dista circa 75 km dalla mia residenza, per un totale di 150 andata e ritorno. Come lei può immaginare, questo comporta un notevole impegno economico per le spese di carburante, che incidono significativamente sul mio stipendio», inizia così, candidamente, la lettera che Alessandra Boi, insegnante di Capoterra, ha deciso di indirizzare nientemeno che al ministro dell’Istruzione. Una «provocazione» per farsi ascoltare: «Chiedo direttamente a lui un rimborso per la benzina».
A raccogliere la sua storia è stato subito la giornalista Ygnazia Cigna su Open. Docente precaria con un’esperienza di oltre dieci anni tra scuole pubbliche e private, quest’anno ha partecipato al concorso («no, alla gara, è una vera e propria gara dove vieni scelto da un algoritmo») arrivando a inserire, tra le opzioni di sedi nella sua Provincia, anche Comuni lontani. Dalla graduatoria è stata destinata all’Istituto comprensivo di Villasimius. «E lavorativamente, per carità, è stata una gioia», commenta, ma dal punto di vista logistico sarà un inferno: Capoterra e Villasimius distano un’ottantina di chilometri, un’ora e venti di auto, «almeno 300 euro di benzina al mese».
Ogni mese il suo stipendio sarà inferiore, per dire, «rispetto a quello di chi vive a dieci minuti dalla scuola», senza possibilità di accedere a rimborsi di alcun tipo. Ed è proprio questo che Alessandra Boi propone al ministro. Così nella lettera: «Mi trovo in una situazione di svantaggio economico poiché i costi della benzina pesano notevolmente sul mio budget. In considerazione di ciò, chiedo cortesemente se sia possibile prevedere un contributo per le spese di carburante per gli insegnanti che, come me, si trovano a dover percorrere lunghe distanze per raggiungere la sede di lavoro. Un tale contributo potrebbe essere erogato sotto forma di buoni carburante o di rimborso parziale delle spese sostenute».
Il suo anno scolastico è iniziato il 2 settembre, spiega, con adempimenti e organizzazione delle classi. Dopo dieci giorni di viaggi, con sveglia alle 6 del mattino e ritorno a casa nel pomeriggio inoltrato, la fatica di un anno intero di scuola fa paura. E pensare che la prima campanella deve ancora suonare: gli alunni arriveranno lunedì: «L’anno scorso ho accettato una supplenza prima di sei ore e poi di dodici come insegnante di sostegno tra Capoterra e Sestu, in tre plessi – racconta –, stavolta sono contenta perché insegnerò le discipline in cui sono specializzata, matematica e scienze, e ho una classe prima. Di questo sono molto contenta. Il peso del viaggio, e la decurtazione fissa che avrò dallo stipendio, però, si fanno sentire». E pensare che qualche collega nella sua situazione ha preso casa a Villasimius. Perderà meno ore in auto ogni giorno, ma anche più soldi dal portafoglio.
Boi suggerisce anche tre opzioni di buoni che vengono utilizzati in aziende e privati e che potrebbero essere presi come esempio. «Se Valditara dovesse rispondermi confido che non ci sia problema per trovare la modalità giusta – sorride la prof –. Il contributo potrebbe coprire, se non tutto, almeno metà del budget speso e dimostrabile con gli scontrini. Insomma, avrei mille proposte».








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FANGO SULLA GLOBAL SUMUD FLOTILLA di Alfredo Facchini

 La macchina del fango è ripartita a pieni giri. Il bersaglio? La Global Sumud Flotilla. Nelle ultime 48 ore, un coro preordinato di voci - un intreccio indecente tra politicanti da operetta, giornalisti da quattro soldi e minus habens - ha iniziato a martellare una missione che non ha precedenti nella storia della disobbedienza civile.Non importa che trasporti cibo e medicine. Non importa che rappresenti l’unico, disperato tentativo di spezzare un


assedio disumano. No. L’unica cosa che importa è insozzare con i loro spruzzi di fango il bianco delle vele.Mi è capitato di vedere una nullità totale - unico titolo “sorella della ducetta” - definire la missione della Global Sumud Flotilla “vergognosa”, perché “strumentalizza i morti di Gaza”.Sui social si è letto di un presunto “caso” che caso non è. L’inviata de La Stampa, Francesca Del Vecchio, è stata estromessa dalla Global Sumud Flotilla per aver violato regole di sicurezza, rivelando informazioni riservate su spostamenti e training e mettendo a rischio la missione e i volontari. “Le regole valgono per tutti, lei non le ha rispettate”, ha chiarito la portavoce Maria Elena Delia.C’è chi ha ironizzato sul ritorno forzato di cinque imbarcazioni, rientrate per la seconda volta in due giorni a Barcellona a causa del mare grosso e del vento. Stessa sorte per le partenze posticipate o bloccate nei porti italiani per il maltempo. «Non partono, strizza eh…».E persino dopo i due attacchi con droni subiti nei giorni scorsi, c’è chi ha abbaiato alla messinscena. In questo stillicidio tossico si distinguono ovviamente i giornaletti di Angelucci. Per Sechi, Cerno, Sallusti e compagnia cantante, quelli della Flotilla sarebbero gli “amichetti di Hamas”.Mentre loro si rotolano nel fango che spargono, ci sono donne e uomini su quella Flotilla che reggono sulle spalle la dignità non di un partito, non di una fazione, ma di interi popoli. Sono l’antidoto vivente all’indifferenza, il rimprovero incarnato all’inerzia globale. Alfredo Facchini

vincere non è l'unica cosa che conta. E neanche partecipare. Conta fare quello che è giusto, nella vita come nello sport. Tim Van de Velde tornerà a casa dai Mondiali di atletica di Tokyo senza niente da mettere in bacheca

  da    https://www.fanpage.it/  più  precisamente qui
ho letto  che   ai mondiali di toyo  2025   nei  3  mila  siepi  
Tim Van de Velde si ferma prima del traguardo ai Mondiali e torna indietro  :il siepista belga si è fermatoprima del traguardo ed è tornato indietro quando ha capito che alle sue spalle c’era qualcun altro in difficoltà.





da  https://staticfanpage.akamaized.net/

In  lui      ,  come  i noi   che  leggiamo   tale  notizia  ,  c'è   la consapevolezza di aver nobilitato lo sport al suo massimo, nella sua accezione più pura.


 

 L'atleta belga si è fermato a pochi metri dal traguardo della batteria dei 300o siepi, quando ha ‘sentito' – non c'è termine migliore che renda l'idea – che alle sue spalle c'era qualcun altro in grande difficoltà.
 Allora si è voltato, è tornato indietro e ha accompagnato all'arrivo il colombiano Carlos San Martin dandogli la spalla: i due sono transitati praticamente appaiati sulla linea del traguardo, ultimi ma anche primi, tra gli applausi del pubblico allo stadio e quelli virtuali dei tifosi sui social.
Van de Velde era partito alla garibaldina nella terza batteria dei 3000 siepi ai campionati del mondo di atletica iniziati oggi in terra giapponese, ma dopo aver preso il comando della corsa è rimasto coinvolto in una caduta alla riviera, così come sono caduti in un altro frangente anche San Martin e l'etiope Lamecha Girma, detentore del record mondiale nella specialità e uno dei favoriti per le medaglie. Girma è riuscito poi a risalire e qualificarsi, mentre per gli altri due le cose non sono andate altrettanto bene.
Cosa è successo nei 3000 siepi ai Mondiali di atletica: il bellissimo gesto di Tim Van de Velde
Il 25enne siepista belga stava per finire penultimo la batteria, ma prima di concludere la gara e la sua partecipazione a Tokyo ha percepito le enormi difficoltà alle sue spalle di San Martin, che a malapena era riuscito a superare l'ultimo ostacolo sul rettilineo finale. A quel punto si è voltato e non ha esitato a fare la cosa giusta: tornare indietro e offrire il suo aiuto al collega visibilmente menomato. Van de Valde gli ha dato la spalla e insieme, a braccetto, hanno concluso la gara agli ultimi due posti. Uniti dal dolore fisico e dalla sofferenza morale per l'eliminazione, i due atleti hanno dato una splendida dimostrazione dei valori autentici dello sport.  
"È stato un gesto naturale – ha detto il belga dopo l'arrivo – La sfortuna continua a perseguitarmi, questa è la terza competizione importante in cui mi ritrovo a terra. Sono super deluso, avevo ottime gambe e con questa caduta è crollato tutto. Poi ho avuto tutto il tempo per pensare negli ultimi giri e quando ho visto un altro in difficoltà, mi sono detto ‘perché no'. Dopotutto, la mia gara era rovinata. Non è stato molto, solo un bel gesto". È stato nobile, cheper  una  volta   non è il colore di una medaglia,  quello  che   vale.

13.9.25

Migliaia di like per il sardo genovese Pietro, a 22 anni sulla Global Sumud Flotilla

Migliaia di commenti e likes per Pietro, il giovane genovese di soli 22 anni che si racconta nel video  [  lo  trovate   sotto opure  sull'account  facebook  del giornalista   ]  del giornalista di inchiesta Lorenzo D'Agostino, imbarcato insieme agli attivisti della Global Sumud Flotilla, l'operazione civile nata per rompere il blocco navale di Gaza e portare aiuti umanitari sulla Striscia. Nel video che nel giro di poche ore ha raggiunto le 100mila visualizzazioni il ragazzo si racconta: giovanissimo, si è licenziato qualche giorno prima di salpare con la più grande operazione civile vista fino a ora per "vivere il mare in maniera diversa.
 La Global Sumud Flotilla da Genova per Gaza, su Primocanale il viaggio dei due genovesi - Leggi qui Pietro, marinaio, lavorava a bordo di lussuosi yacht

Pietro, marinaio, lavorava a bordo di lussuosi yacht. "Voglio cambiare il mio modo di vedere il mare, non solo più come un lavoro ma come un vero e proprio strumento di solidarietà" spiega Pietro al giornalista, "di sostegno a un popolo oppresso". Il giovane è partito da Barcellona, dopo una settimana di duro lavoro per riparare le vecchie imbarcazioni e renderle pronte alla traversata verso Gaza.


 Poco prima da Genova più di 50mila persone sono scese in piazza per mostrare solidarietà all'operazione, che ha fatto salpare da ponte Parodi più di 250 tonnellate di aiuti donati dai cittadini. Genova per Gaza, migliaia in corteo: le immagini - Clicca qui Le imbarcazioni partite da Genova sono state sostenute da una città intera Le quattro imbarcazioni partite domenica 31 agosto da ponte Parodi, con una quinta dalla Spezia, sono state accompagnate, sostenute, spinte da una città intera, che non è stata in silenzio ma anzi ha deciso di essere protagonista di quella che si annuncia come la più grande missione di solidarietà della storia, con più persone e più imbarcazioni di tutti i tentativi precedenti messi insieme. Da quando Israele ha imposto il blocco a Gaza nel 2007, si sono svolte più di 37 missioni marittime. Questa è la più numerosa, con partecipanti provenienti da 44 paesi

diario di bordo n 146 anno III Piedibus a piedi a scuola come un tempo ., ta i detenuti ho trovato una nuova famiglia ., manca il becchino te lo seppelisci da solo ci vuole molto ?

 la  nuova  sardegna    del  13  e del  11   settembre  2025





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 Lo  so che  non  è  una  cosa  bella    . Ma      invece    di lamentarsi    bastra  farsele  da  soli  le  cose  e d' arrangiarsi  .   
da     https://www.cronachedallasardegna.it/

Cimitero di Palau, provincia di Sassari, ieri pomeriggio. I figli della signora Giovanna Fadda, Renato e Salvatore, a conclusione del funerale della loro amatissima madre, sono stati costretti a tumularla loro stessi con l’aiuto di alcuni amici volenterosi, perché a Palau non c’è un necroforo o becchino che dir si voglia da due anni.Nonostante il dolore del lutto che ha colpito la famiglia Uscidda- Fadda, il figlio di Giovanna di nome Renato, si è dovuto mettere sopra un fatiscente elevatore per infilare lui stesso la bara della madre dentro il loculo.Sotto ad aiutarlo con l’elevatore il fratello Salvatore. Presenti anche Barbara, Caterina, Angela, altri familiari ed amici di famiglia tra I quali Nicola che si è offerto di chiudere il loculo.Pubblichiamo il video inviato
 

alla nostra redazione dalla famiglia e con il loro consenso, per denunciare quanto accaduto che è a dir poco vergognoso.Siamo vicini alla famigliaUscidda-Fadda alla quale porgiamo le nostre condoglianze. Siamo sinceramente dispiaciuti per quanto accaduto loro e ci auguriamo che una cosa del genere non debba più accadere in futuro.Nel link sotto il video della tumulazione fatta dai familiari.

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata XXXIX : PER AVVERTIRE IL PERICOLO ALLENATE IL VOSTRO UDITO

  Bisogna avere orecchio, anche quando si tratta di autodifesa. Spesso sottovalutato e dato per scontato, l’udito è un senso che può fare la differenza in caso di pericolo. Ascoltare è infatti il primo passo verso la prevenzione, perché ci consente di me!erci in contatto con l’ambiente che ci circonda e ci permette di riconoscere eventuali segnali che ci possono mettere in guardia. Anche in questo caso, è necessario allenarsi. Un esercizio semplice e facilmente praticabile prevede che camminiate per strada senza auricolari. Provate a distinguere i suoni che sentite: il passo di una persona, il rumore di un motorino che
si avvicina, la portiera di un’auto che si chiude, magari di scatto. Cercate di crearvi una sorta di mappa mentale dei rumori che riuscite a sentire e a riconoscere, in modo che possa essere più semplice in futuro accorgersi di un’eventuale anomalia. Sempre a proposito di allenamenti dell’udito, in un luogo afollato come può essere un mercato oppure una stazione, concentratevi per individuare un suono specifico. Per esempio, pensiamo al pianto di un bambino, al fischio di un treno o al richiamo di un ambulante, senza distrarvi dal resto dei rumori che vi circondano. Questo tipo di esercizio è utile e rafforza la sele!ività uditiva, che è fondamentale per cogliere un de!aglio importante nel caos. Ancora, imparate a camminare alternando momenti di relax a momenti di massima a!enzione acustica: spegnete la musica, interrompete qualsiasi telefonata e mettevi in ascolto. Saranno suffcienti pochi secondi per capire se c’è qualcuno troppo vicino a voi o se qualcuno che vi è accanto sta accelerando il passo.Esercitatevi anche a casa. Con gli occhi chiusi, fatevi aiutare da qualcuno che possa produrre rumori con un mazzo di chiavi o un libro che cade e cercate di riconoscerne l’origine e la direzione. È un allenamento che stimola la capacità di localizzare un suono, utile se ci si trova in un parcheggio o in una via poco illuminata. State in ascolto, sempre !


Infatti   è bene   oltre  che  per  i  motivi  elencati  dall'articolo di Antonio  bianco   per  motivi di salute  è  bene   allenare  il proprio udito  ecco come : « Udito Eccellente: ecco come averlo » di  La Palestra.it
Esso  oltre    ai metodi  citati  nelle  puntate precedenti   è  un modo   insieme al  progetto per le  scuole    : «  Il rispetto come antidoto alla violenza  » di  https://darevocealsilenzio.it/ per debellare  o  ridurre  ai minimi termini    la violenza   e  l'odio 













Dopo 25 anni abbiamo sepolto Fabrizio De André sotto una glassa buonista


rimettendo ordine fra la mia cronologia web ho ritrovato questo articolo che pur vecchio
cronologicamente di 8 mesi non perde la sua attualità e la sua freschezza . Utile a spiegare meglio il perchè  odio  la  santificazione  di  De  andrè  pur  citandolo e  parafrasando le sue canzoni


  da https://www.editorialedomani.it/idee/ 10 gennaio 2024 • 19:15 Aggiornato, 11 gennaio 2024 • 11:36

                 Teresa Marchesi ⋇




"Il cantautore genovese è morto l’11 gennaio del 1999. È improbabile che nelle veglie celebrative risuonino i versi a cui Faber, con la sua ... Scopri di più!","articleBody":"La canzone di Marinella «era roba da addormentarsi sul divano». Parole testuali di Fabrizio De André, tra le chiacchiere ondivaghe di certi pomeriggi sulla metà degli anni ‘90. Inesorabilmente, Marinella furoreggerà tra le schitarrate rituali, collettive e nostalgiche, che di norma celebrano tutti gli anniversari da quel lontano 1999. Cantata da Mina nel 1967, era stata il grimaldello per conquistare le grandi platee, per cominciare a vedere «due palanche» dalla Siae uscendo da un culto di nicchia: turning point, certo, ma sul piano commerciale, non sul piano creativo. Fabrizio l’aveva scritta nel 1962, sul ricordo di un trafiletto di nera che da ragazzo lo aveva folgorato. Non racconto niente di nuovo: era una storiaccia di femminicidio, disprezzo e miseria, una povera prostituta scaraventata a morire nel Tanaro o forse nella Bormida. Ma ad ascoltarla senza saperlo sembrava una fiaba: aveva i numeri giusti per una hit. Lui sessant’anni non ha fatto in tempo a compierli, se n’è andato l’11 gennaio di venticinque anni fa. Icona sciroppata Mi piacerebbe poter dire, come Fabrizio De André, che «quello che non ho è quel che non mi manca». Mi manca invece, dolorosamente, la capacità di questo paese di non seppellire i suoi artisti e i suoi intellettuali più liberi sotto una stomachevole coltre di glassa buonista. La sbrigativa etichetta “poeta” è comodamente ecumenica, autorizza la retorica, smussa gli spigoli, dissocia un uomo dalle sue idee e dalle sue passioni politiche. È buona per il palato di Matteo Salvini, che di De André si proclama fan. L’icona sciroppata, edulcorata artificialmente, diventa inoffensiva. È improbabile che tra i canti delle veglie celebrative risuonino i versi a cui Faber, con la sua passione politica forte, precoce e tenace, teneva di più. In questo quarto di secolo ho visto spuntare legioni di amici intimi a posteriori. Si sono moltiplicati a valanga, un po’ come i conigli in Australia. Perciò preferisco lasciare che parli lui. «Non è da oggi che mi sono schierato – mi diceva Fabrizio nell’anno di grazia 1990 – Non pretendo che qualcuno conosca la mia vita né tantomeno i miei atteggiamenti politico-sociali, ma è dal 1957 (avevo 17 anni allora), da quando frequentavo i circoli libertari di Genova e Carrara, che mi sono schierato in maniera precisa. E da allora non ho mai trovato nessuno schieramento che da un punto di vista sociale e morale mi garantisse qualcosa di meglio». [Missing Caption][Missing Credit] Georges Brassens Credo davvero che a legarci sia stata quella comune, insolita ma decisiva bussola politica che ci aveva plasmato la testa da ragazzini: tale Georges Brassens, un altro anarchico. Brassens e Léo Ferré, quello di Ni Dieu ni Maitre e di Les Anarchistes. Non erano canzoni, era una scelta di parte e di sguardo sul mondo. «Non sono sicuro che se non avessi ascoltato le sue canzoni non avrei scritto quello che ho scritto – mi diceva – sono invece sicurissimo che se non avessi ascoltato Brassens non avrei vissuto acome ho vissuto». Quando è morto Ferré ci siamo consolati a vicenda. Non c’era verso di chiacchierare con Fabrizio senza scivolare subito sull’attualità politica e sociale. Quando cantava «anche se voi vi sentite assolti / siete per sempre coinvolti» non parlava in astratto. «Preferisco, sono più portato ad aprire i cancelli alle tigri che non a cavalcarle – mi diceva – Questo vuol dire, metaforicamente, aver dato un input, laddove una canzone lo può dare, a una determinata classe sociale, a ribellarsi a determinate vessazioni, ad andare in piazza a rivendicare i propri diritti. Nel momento stesso in cui le tigri sono uscite dalle gabbie, non mi sento adatto a cavalcarle, anche perché avrei idiosincrasie sia di comando (non saprei dove condurle), sia di obbedienza: non saprei esattamente dove essere condotto». La sua natura Non se l’è mai tirata da “impegnato”. Era la sua natura, punto e basta. Sarebbe bello che nelle veglie collettive dell’11 gennaio qualcuno ricordasse il testo de La ballata del Michè, la prima canzone che ha scritto. «Il Michè – mi ha spiegato una volta – era un immigrato del sud a Genova, un certo Michele Aiello. Erano periodi in cui a rubare un tacchino rischiavi anni di galera. E di solito il tacchino lo si rubava per mangiare, non per rivenderlo. Questo Michele Aiello aveva fatto qualcosa di peggio. Sentendosi emarginato, messo fuori dalla società in cui era approdato, aveva un’unica cosa, una donna, cui appigliarsi. E qualcuno forse più ricco di lui aveva cercato di portagliela via». Il De André cantastorie nasce con quel valzer struggente e con quel personaggio, il capostipite dei suoi eroi diseredati. «Era un tipico esemplare di quella non-classe che si chiamava, e credo si chiami ancora, sottoproletariato. Del sottoproletariato non si occupava nessuno dei partiti tradizionali, anche perché erano fonti molto malsicure di voti. Ce ne occupavamo noi come movimento libertario e dopo, ma molto dopo, il partito radicale». Non puoi rimuovere quel pezzo di Faber senza snaturarlo. C’è quella parola, Anarchia, che esplode in un paio di brani, Se ti tagliassero a pezzetti e Amico fragile. Nel 1981, quando incise il primo dei due, i discografici avevano preteso una versione più mite: «Signora Libertà, signorina Fantasia». In concerto, la “signorina” ha sempre avuto il suo vero nome. Se non lo fai parlare, Fabrizio, puoi permetterti di imbalsamarlo secondo l’aria che tira. C’è un solo filmato in cui si racconta come cittadino del suo tempo, capace però di radiografare il presente e, molto spesso, il futuro. È stato offerto alla Rai, ma la risposta ufficiale è che gli spazi per i documentari nelle reti pubbliche sono stati falcidiati senza pietà. Meglio che la memoria dell’animale politico si estingua con le generazioni dei boomer, i nipotini si accontentino di canticchiare. Mi aveva chiamato al cellulare il 1° gennaio di quel 1999. Stavo salendo su un aereo. «A marzo ci troviamo tutti alle Terme dei papi», diceva. Ma so dove ritrovarlo, ogni volta che la sua assenza mi pesa troppo. Mi basta risentire la sua voce quando di se stesso dice, con l’umiltà che solo gli autentici saggi conquistano: «Quella che ho scelto io è un’attività che può fare chiunque. Credo che quasi tutti noi siamo degli artisti. Ma non abbiamo il tempo, le condizioni, le opportunità. È molto difficile che una persona che lavora otto ore al giorno al tornio vada a casa e si metta a cercare di comporre una canzone»."





Teresa Marchesi

Critica cinematografica e regista. Ha seguito per 27 anni come inviata speciale i grandi eventi di cinema e musica per il Tg3 Rai. Come regista ha diretto due documentari, Effedià - Sulla mia cattiva strada, su Fabrizio De André, presentato al Festival del Cinema di Roma e al Lincoln Center di New York, premiato con un Nastro d'Argento speciale, e Pivano Blues, su Fernanda Pivano. presentato in selezione ufficiale alla Mostra di Venezia e premiato come miglior film dalla Giuria del Biografilm Festival.

12.9.25

sull'omicidio di Charlie Kirk, l’ideologo dell’ultradestra Magada di lorenzo rosa e Pacmogda Clémentine

Non è facile parlare dell’omicidio di Charlie Kirk, l’ideologo dell’ultradestra Maga morto ammazzato con un colpo d’arma da fuoco durante un comizio in Utah. Io non riesco ancora  a  freddo   a dire parole che non siano cinismo . Quindi lascio la parola a : Pacmogda Clémentine e lorenzo tosa


Una persona che ama le armi è stata uccisa da un’arma. Leggo i commenti dei sostenitori di Trump e seguaci di questa persona uccisa. Non lo conoscevo perché non si può conoscere tutti e soprattutto perché non seguo certi personaggi per salvaguardare la mia propria salute mentale. Però da quello che leggo e da quello che ho trovato come video di lui, devo dire che ha contribuito a scavare la propria tomba. Dire questo non significa gioire per la sua morte. Non sarò mai per la pena di morte o per il “bene se è morto”. Ma dire che lui era d’accordo per il possesso e l’uso delle armi è semplicemente ricordare lui e le sue idee. Se lui fosse un promotore della pace e avesse idee di tolleranza, avremo ricordato anche quello. Quando è morto Mandela per esempio abbia parlato delle sue idee e della sua lotta ma non volevamo dire che è stato un bene che lui sia morto. Ricordavamo le sue idee e basta. Lo stesso stiamo facendo per questo Kirk. Quelli dell’estrema destra nostri (o diciamo semplicemente la destra di oggi perché alla fine non c’è più differenza) dicono che noi siamo contenti per la sua morte perché siamo contro la libertà. Ricordiamoci sempre che la libertà degli uni si ferma dove inizia quella degli altri e che la libertà e il libertinaggio sono due cose molte diverse. La libertà è positiva mentre il libertinaggio è sempre pericoloso.Dire che sono libero di avere un’arma anche se questa libertà deve comportare la morte per arma di un altro, non è libertà ma pericolo. Dire che le donne nere non hanno cervello sarà libertà sua ma la mia è quella di mandarlo a quel paese e di protestare in quanto donna nera e lo farò non solo per me ma anche in nome di tutte le altre donne nere.Non condannare uno stupratore o lo stupro in generale ma dire che la donna stuprata deve per forza partorire sarà la sua libertà ma anch’io ho la libertà di qualificarlo di essere immondo senza sensibilità. Sono libera di dire che lui non ha nessun diritto di dire a mia figlia cosa deve fare del proprio corpo e che nessun uomo ha il diritto di stuprare una donna. Lui era un agitatore delle masse per delle idee pericolose per chiunque, lui compreso e lui è stato una vittima delle sue idee. Tutto quello che facciamo o diciamo ha un peso e delle conseguenze anche per noi stessi.La storia del mondo è pieno di personaggi che sono caduti nel fuoco che hanno acceso loro stessi. Tutti gli odiatori, discriminatori, nazifascisti sono finito mangiati dalle loro proprie cattiverie. Se per votare una legge sulle armi bisogna accettare come normale che ci siano sparatorie nelle scuole, al centro commerciale, per strada, ecc. senza nemmeno essere in situazione di guerra c’è qualcosa che non va. Le armi servono per uccidere. Non hanno altro scopo. Allora se uno le ama, le promuove, deve essere anche pronto a essere l’eventuale prossima vittima. Pace alla sua anima e coraggio ai suoi famigliari.


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E vanno dette, io credo, almeno quattro cose incontrovertibili.
Uno.
Che nessuna persona sana di mente o anche solo vagamente definibile umana può esultare di fronte a quelle immagini, di fronte alla morte di una persona, anche la più lontana da ogni nostro principio, idea valore umano come era Charlie Kirk.
Due.
Che quella morte non è arrivata dal nulla, piuttosto è il punto più estremo di un imbarbarimento politico, civile, culturale che quelli come Charlie Kirk, ma anche Ben Shapiro, Joe Rogan e su tutti il loro dominus Donald Trump hanno sdoganato nella società americana negli ultimi dieci anni, con una violenza verbale, fisica, emotiva nei confronti delle minoranze che non ha precedenti nel mondo moderno e che - tocca dirlo chiaramente - nelle menti e nelle mani sbagliate prima o poi torna indietro. Perché è sempre andata così.
E ancora.
Che Charlie Kirk è stato ammazzato da quelle stesse armi che lui considerava un principio di libertà, un diritto quasi divino. Credeva che “qualche morto in più valesse la pena per poter esercitare il diritto di avere un’arma per difendere gli altri diritti concessi da Dio”.
E magari aveva accettato la possibilità di essere lui quel “morto in più”, non lo sappiamo. Ma so, sappiamo, e va detto anche e soprattutto ora, che quelle armi, più esattamente il modo tossico, malsano e pericoloso con cui vengono concepite negli Usa, hanno finito per ucciderlo.
E che, infine, no, non esulto e non godo per la morte di nessun essere umano, anche il peggiore, perché non sono fatto così e perché, a differenza di quelli come Kirk, non credo MAI nella violenza.
Ma non riesco né mai riuscirò a unirmi a un cordoglio che non sento e non provo per una persona che per anni ha evocato la lapidazione per gli omosessuali, calpestato i diritti delle donne, invocato la schiavitù e la segregazione razziale per i neri, esultato per il genocidio dei palestinesi.
Non sono abbastanza buono, buonista, santo. O forse, semplicemente, non abbastanza ipocrita.

Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti

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