A un mese dal lancio dell'atomica nel '45 George Weller raccontò l'orrore ma i suoi articoli furono bloccati da MacArthur. Rit da www.repubblica.it
dal nostro inviato VITTORIO ZUCCONI
Nagasaki dopo la bomba 
WASHINGTON - Sessant'anni di lacrime amare e di censure militari sono passati da quando non c'erano che topi negli ospedali e spettri vaganti "senza capelli" e bambini dalle "labbra nere" destinati a morire presto consumati dalle radiazioni, "nel fetore dei cadaveri" dei loro genitori. Sei decenni esatti perché finalmente dal silenzio della censura americana e dalla vanità del maresciallo MacArthur, che le aveva fatte secretare per non sminuire il proprio ruolo trionfale, uscissero le parole del primo uomo non giapponese, del primo giornalista entrato a Nagasaki a vedere l'impronta lasciata da "Fat Man", dal Ciccione, la seconda atomica sganciata il 9 agosto del 1945.
Era trascorso meno di un mese dall'esplosione della bomba, in quei primi giorni del settembre '45 quando George Weller, inviato di guerra per il Chicago Daily News entrò senza autorizzazione tra le rovine di Nagasaki. Nello stile freddo, scolorito, cronistico, doverosamente patriottico del giornalismo del tempo inviò quattro reportage al suo giornale, che Douglas MacArhur,
divenuto governatore di quel che restava del Giappone, fece appena in tempo a intercettare e stampigliare con il timbro classified, segreto, e nascondere negli archivi. Per sessant'anni, fino a oggi quando il figlio di Weller, Anthony, ha ritrovato le copie in carta carbone di quei pezzi nel appartamento del padre a Roma il Mainichi Shimbun di Tokyo le ha stampate, le osservazioni del "testimone zero", del primo americano a Nagasaki, erano rimaste sconosciute. Neppure la prima squadra di militari, medici e scienziati americani inviati da Washington aveva ancora messo piede in quella città, temendo giustamente le radiazioni. Weller cammina con l'ingenuità coraggiosa di chi, come tutti, non aveva mai avuto esperienze di un'arma simile dunque precedenti ai quali allacciarsi. la radiazioni di cui aveva sentito parlare, non gli brucino gli occhi e la pelle, che il tanfo di cadaveri .Si meraviglia che decomposti sotto il sole estivo " gli dia conatio di vomito " ma non provochi sintomi di "debilitazione". La Bomba, osserva nel primo dei suoi dispacci, "è sicuramente un'arma formidabile, ma non
particolare", anche se la sua potenza distruttrice è inaudita.
Entra in ospedale, nei quindici edifici del Nagasaki Hospital contorti ma ancora in piedi perché costruiti di cemento armato e lontani dal "Ground zero", dal punto della deflagrazione. Passa un'ora in quegli scheletri di palazzi e "non incontro nessuno vivo". "Soltanto topi vivono tra le rovine". E soltanto ricordi dentro il collegio di una missione americana, la American-Japanese Christian Mission, ridotta in spezzoni, come "schiacciata", appiattita è una fabbrica di munizione della Mitsubishi dove lavoravano 1.016 prigionieri di guerra Alleati, americani, inglesi, australiani, un terzo dei quali moriranno per le ustioni radioattive, vittime del "fuoco amico". soltanto continuando a camminare nei gironi di Nagasaki che Weller, destinato a morire molti anni più tardi, nel 2002 a San Felice del Circeo, in Italia, comincia a dimostrare nei suoi servizi il sentimento di avere visto qualcosa di più orrendo che un altro carnaio di guerra, il sentimento di uno sguardo sulla fine del mondo che quelle due armi hanno reso per la prima volta tangibile.
La prudenza patriottica delle prime righe si attenua, come si attenua l'ammirazione orgogliosa per la "precisione dei bombardieri". "Si può immaginare e calcolare che cosa la forza dell'atomo liberato possa fare a palazzi di cemento e acciaio, ma per capire che cosa esso possa fare alla carne umana si deve trovare un ospedale funzionante". Bambini ovunque, tutti stoicamente in silenzio, mentre osservano brandelli di pelle e ciuffi di capelli cadere. Adulti semicarbonizzati che mugolano nella loro agonia, tra medici che non possono fare altro che guardarli e tamponarli, perché nessuno di loro conosceva sintomi, né possibili terapie, di quella che chiamarono il "Male X", la malattia sconosciuta " Lo scriverà? Scriverà quello che vede?", lo imploravano i funzionari giapponesi, per chiedergli di testimoniare la disumanità di quello che il nemico aveva inflitto, dimenticando in quel momento ciò che i loro soldati avevano inflitto al nemico in tre anni e mezzo di guerra totale. E Weller è straziato, diviso, tra la necessità di raccontare quello che vede e di non tradire la propria bandiera.
Guarda una donna che due settimane dopo le ore 11 e 02 del 9 agosto era arrivata all'ospedale per dare una mano come infermiera, apparentemente sana e illesa, fino a quando improvvisamente le labbra si erano annerite, piaghe erano comparse ovunque e ora giace su un "tatami, su un tappetino di foglie di riso, morente, uccisa dal "Male X"". Ne muoiono così dieci al giorno, senza ragioni che i medici possano capire o curare, aspettando che "arrivino gli Americani" con la cura miracolosa. Se hanno inventato quel veleno, sicuramente avranno anche messo a punto un antidoto, dice la voce popolare, con vana logica.
Deve arrivare uno specialista giapponese, un vecchio radiologo dalla città di Fukuoka, il dottor Yosisada Nakashima, per spiegare che quella gente sopravvissuta allo scoppio, alle ustioni, ai crolli, sta morendo per radiazioni gamma, come i primi manipolatori di Raggi X, e per loro non ci sono cure. E molti di loro continueranno a morire per anni e decenni, consumati dalle leucemie, dai tumori scatenati dai raggi.
Quando la censura militare intercetta gli articoli di Weller e li porta al Comandante Supremo e Governatore del Giappone, Douglas MacArthur, il generalissimo, colui che neppure dieci anni dopo sarà licenziato in tronco dal presidente Truman quando proporrà di sganciare altre bombe A sulla Corea del Nord e la Cina comunista, ordina lo stop.
Troppo orrenda è l'impronta lasciata dal "Ciccione" al plutonio e troppo decisivo è stato il suo effetto nel costringere l'imperatore Showa, allora chiamato Hiro Hito, e i militari di Tokyo alla resa senza condizioni perché il "Nuovo Cesare del Pacifico", come lo chiamò lo storico William Manchester, possa accettare di dividere con quegli ordigni la gloria della vittoria.
Gli articoli di Weller scompaiono nelle casseforti degli archivi militari, ma le copie riemergono dalle carte del vecchio, onesto e coraggioso reporter Premio Pulitzer, che scelse di finire la propria vita in Italia, per raccontarci, con una voce che neppure 60 anni hanno attenuato, il primo sguardo sulla fine del mondo. Duecentocinquanta mila persone morirono a Hiroshima. Centosettantamila a Nakagaski. Per una sola bomba ciascuna.





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CAPRERA. Ulivi pluri centenari piantati dallo stesso eroe dei due modi nel 1867 abbattuti, per far posto a un casetto anti incendio ; pini che soffocano altre essenze, pozzi pericolanti e rifiuti Girare per Caprera è come scavare tra le rovine di Pompei o Ercolano. Dei cento ulivi piantati da Giuseppe Garibaldi ne sopravvivono una cinquantina. Infestati da rovi o soffocati dai giganteschi pini marittimi. I tre pozzi scavati nel granito sono in condizioni pietose, e a cento metri dalle tombe c’è un piccolo depuratore. Verde, per confondersi, come il tetto della casamatta antincendo, tra la vegetazione. Il degrado è evidente, palpabile, ma non irreversibile. L’olio spremuto dalle olive di Garibaldi continua a condire l’insalata servita nell’agriturismo “Garibaldi” che Bainzu Corda, di Tula, gestisce con la famiglia da una decina di anni. Bainzu, da 1964 vive a Caprera, a pochi metri dalla casa bianca garibaldina e sino all’arrivo della soprintendenza ai beni culturali ha curato l’orto e l’uliveto del Generale. «Grazie a una concessione demaniale che prima si estendeva per 40 ettari, ora ridotti a dieci. Quegli ulivi li ho seguiti e potati sin quando ho potuto, poi il ministero ne ha chiuso una parte dentro il recinto del museo - dice l’uomo -, e non so che fine abbiano fatto». Nella primavera del 2004 ha visto gli operai di una impresa gallurese che trasportavano camionate di materiale dentro il compendio «ma non ho mai saputo quale opera stavano realizzando».Probabilmente la casamatta, una stazione di pompaggio per portare a norma di legge l’impianto antincendio del compendio garibaldino sollecitata dalla direzione del corpo forestale dello Stato con sede a Follonica. Un ente competente per la tutela antincendi e ambientale di buona arte dell’isola di Caprera. Una costruzione, la casamatta, dal tetto verde, inserita a forza e ruspate tra due filari di ulivi e tra due pozzi fatti scavare nella viva roccia da Giuseppe Garibaldi. «Il pozzo principale, quello davanti alla tomba, è inesauribile» dice Bainzu Corda di Tula, che per decenni ne ha utilizzato le acque per abbeverare il bestiame e irrigare orto e vigneto. Pozzi ormai stagnanti, recintati con una rete da pollaio e infestati da piante di ogni genere. Si intravedono i pluviali di granito voluti da Garibaldi per il recupero delle acque piovane, un’opera che era costata, all’epoca, soldi e tanta fatica. Tre pozzi (uno dei quali fuori dal compendio) ormai in disuso, che sarebbero un raro esempio di architettura rurale (e utili) se riportati alla loro originaria destinazione, quella di fornire acqua alla fattoria garibaldina di Caprera. Passeggiando sotto i pini e l’ulivetto si inciampa in una vasca di decantazione - per evitare che gli ultimi pezzi di piastrelle, che la rendevano impermeabile, diventassero facile preda dei cercatori di souvenir, è stata ricoperta da un manto di terra -, una vasca che Giuseppe Garibaldi utilizzava per il lavaggio del frumento e delle olive prima della macina. I cinghiali, poco distante, hanno scavato una fossa nella quale imputridisce l’acqua maleodorante e melmosa che sgorga da un minidepuratore. Realizzato anche questo tra gli ulivi. I 4 filari d’ulivo piantati 150 anni fa dal Generale con l’aiuto di un esperto sennorese delimitavano, nella vallata che porta a Cala Garibaldi, l’angolo più riparato dell’isola dal maestrale e dalla tramontana. Ci cresceva di tutto, dai prodotti dell’orto alla vigna.





